FARNETICAZIONI A PROPOSITO DEL
RAZZISMO
di Marcello Ottolenghi
Supponiamo di poter incontrare una persona identica a noi, che la pensasse
esattamente nello stesso modo e che si comportasse esattamente come noi di
fronte agli stimoli e ai problemi esterni: con lui, ovvio, ci troveremmo
perfettamente a nostro agio e, per definizione, con il nostro sosia ci
capiremmo su tutto al volo; se poi addirittura incontrassimo molti altri
nostri sosia, diciamo altri nove, si potrebbe vivere insieme benissimo senza
ansie e conflitti interni perché il livello di comprensione tra noi dieci
sarebbe, sempre per definizione, totale.
Attenzione però, se da soli possiamo sollevare 50 Kg, in dieci
potremmo
senz'altro sollevare 500 Kg, ma un contributo qualitativo da parte degli
altri, un'idea originale che non ci era venuta in mente per risolvere un
problema, non potrà mai aversi, e questo sempre per definizione, in quanto
gli altri saranno assolutamente identici a noi.
In altri termini, un aggregato sociale di "uguali" vale, in termini
qualitativi, quanto il singolo, cioè molto poco.
Le grandi conquiste umane e i grandi progetti portati a realizzazione sono
sempre stati il frutto di collaborazione e integrazione tra conoscenze,
competenze e capacità diverse focalizzate su un identico obiettivo
concordato tra tutti.
Del resto, se accettiamo per il sociale l'analogia con i modelli biologici
(e tra parentesi vi invito a riflettere attentamente su questo), ogni
organismo si struttura aggregando (ma anche disaggregando, in modo
rivoluzionario) secondo quantità e qualità.
Ogni organismo pluricellulare rappresenta un tentativo vitale complesso in
cui altre unità viventi monocellulari hanno scelto, ognuna nella propria
diversità e peculiarità, di partecipare ad un progetto unitario di valenza
infinitamente più grande rispetto a quella propria individuale di origine (a
questo proposito sono davvero illuminanti gli scritti di
Lorenz che
consiglio di leggere).
Oggi peraltro sappiamo con certezza che anche ogni singola nostra cellula
deriva in realtà dall'accordo di più organismi elementari ancora più
semplici (i nostri mitocondri non sono che batteri modificati) che si sono
organizzati in strutture cellulari più grandi e più complesse.
Questo gioco di scatole cinesi coinvolge tutti i viventi e noi stessi siamo,
in fondo, solo singole cellule di un organismo sociale al quale vogliamo
partecipare; in verità il nostro "io" oscilla continuamente tra la
nostra
realtà cellulare (che possiamo chiamare "io fratto") e la nostra
realtà
sociale (che possiamo chiamare "io multiplo"): quando il progetto
"io" perde
forza, involviamo verso l' "io fratto" e le nostre cellule prendono il
sopravvento e ci ammaliamo; viceversa quando il nostro "io" è
perfettamente
vitale, tendiamo ad evolvere verso l' "io multiplo" e vogliamo vivere
con e
per gli altri e troviamo soddisfazione, anche sacrificando la nostra
individualità e modificandoci profondamente, nel far parte e partecipare
attivamente ad un organismo sociale.
Ma, tornando a noi, le cellule tutte uguali sono tipiche del cancro e sono
ormai incapaci di differenziarsi correttamente a strutturare organi e
tessuti funzionalmente utili; sono cellule che, preda di un processo
regressivo, hanno scelto di non partecipare più al progetto comune e,
attraverso un percorso di tipo involutivo, si sono orientate alla loro
affermazione individuale incapaci ormai di comunicare efficacemente con gli
altri tessuti circostanti e non più recettive ai segnali trasmessi
dall'ambiente (l'individualismo tipico della destra?). L'effetto devastante
di questo processo involutivo lo conosciamo bene e porta inesorabilmente
alla morte.
Ma che cosa c'entra tutto questo con il fenomeno del razzismo?
Quando ci troviamo a contatto con persone che riconosciamo essere molto
simili a noi, ci sentiamo a nostro agio perché il delta, la differenza, tra
noi e loro è molto piccola e apriamo facilmente e senza ansia i flussi di
comunicazione in quanto sappiamo che non saremo modificati qualitativamente
in modo significativo da questo scambio di informazioni; da ogni processo di
comunicazione (che è conoscenza ed è sempre un processo a due vie tra un
trasmittente ed un ricevente che alternativamente invertono i rispettivi
ruoli) si esce modificati, sia in quanto, tra simili, saremo rafforzati nei
nostri riferimenti e nelle nostre credenze, sia in quanto, tra diversi,
saremo invece indeboliti nelle nostre credenze e costretti a risistemare
alcuni nostri "paletti" di riferimento. In altri termini, accettare di
comunicare con persone diverse da noi significa accettare il cambiamento e
questo sarà tanto maggiore quanto maggiore sarà il delta, la differenza che
ci divide dagli altri.
Accettare il cambiamento presuppone, naturalmente, una buona vitalità e
capacità di adattamento; il cambiamento, e quindi la capacità di adattarsi e
di evolvere, è alla base di tutti i processi vitali, però sicuramente genera
ansia perché comporta un procedere e quindi una perdita di equilibrio e di
staticità.
Insomma la corrente passa quando tra due poli c'è differenza di potenziale,
e questo fa andare avanti i treni; viceversa, quando non c'è differenza di
potenziale i treni stanno sicuri e fermi in stazione. Per riprendere
l'analogia, è anche vero che grandi differenze di potenziale vanno gestite
con prudenza, troppa energia liberata istantaneamente e incautamente può
essere pericolosa.
Quando abbiamo a che fare con persone sicuramente diverse da noi perché
sappiamo essere provenienti da paesi con culture profondamente diverse dalla
nostra, percepiamo una "differenza di potenziale" notevole e
preferiamo
spesso non comunicare con loro per non rischiare di mettere in discussione i
riferimenti più radicati e profondi del nostro patrimonio culturale; le
persone meno vitali e più insicure, le persone più rigide e meno attrezzate
per il cambiamento, avranno paura del contatto e svilupperanno aggressività.
I ben noti fenomeni di aggregazione tra ragazzi che parlano e vestono tutti
nello stesso modo, tanto da essere indistinguibili da lontano, originano
soprattutto dalla loro mancanza di sicurezza, dovuta all'immaturità, e dalla
loro esigenza di conferme continue sulla giustezza della loro identità da
parte degli altri componenti del gruppo. All'interno del gruppo si è
accettati infatti solo se si trasmettono in sintonia gli stessi messaggi di
appartenenza.
La conoscenza rende sicuramente più liberi e più sicuri: se conoscessimo
bene la vita, la storia e la cultura dei nostri fratelli extracomunitari, li
percepiremmo sicuramente come simili e saremmo tutti meno preoccupati nello
stabilire contatti veri di comunicazione con loro. Le differenze sarebbero
fonte di sano confronto e presupposti per positive scelte di cambiamento,
cioè di vita.
Il fenomeno del razzismo, tipico della gente di destra, trova forza e radice
sia nella patologica scarsa vitalità di questi soggetti (leggi per esempio
"Psicopatologia del fascismo" di W. Reich), sia nel loro elevato
livello di
ignoranza.
A questo punto, e un po' provocatoriamente, mi sento di affermare che:
1) - in ogni rapporto interpersonale comunichiamo comunque, anche se non
vogliamo
comunicare
2) - in ogni rapporto di comunicazione si subisce un cambiamento
quali-quantitativo dei nostri sistemi
di riferimento
3) - la diversità (che non significa naturalmente diversità di diritti) è una
nostra ricchezza
fondamentale nel percorso verso la costruzione di un
organismo sociale più giusto ed evoluto.
Chiedo ai compagni, e alle compagne naturalmente, di accettare di "mettersi
in comunicazione" con questa rubrica per trasmettere le loro
considerazioni,
anche, e tranquillamente, le più dure.