Quaderni di birdwatching Anno II - vol. 3 - aprile 2000

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di Roberto Garavaglia

        Il riscaldamento del clima di tutto il pianeta, provocato dall’effetto serra, è ormai una realtà accertata. Nell'ultimo decennio, praticamente ogni anno si è qualificatocome l’anno più caldo del secolo, cancellando il record di quello che lo ha preceduto. Anche se ancora sopravvive qualche opinione scettica, il dibattito scientifico non verte quasi più sulla realtà o meno di un riscaldamento dell'intero pianeta, ma ormai si è spostato sulla previsione di quale intensità raggiungerà e quali ne saranno gli effetti.

        Nel corso del secolo, la temperatura media mondiale si è alzata di circa un grado, forse anche di più. Da parte di tutte le maggiori organizzazioni c'è un fervore di attività e si stanno portando avanti studi e indagini e in tutto il mondo si organizzano conferenze.

        Le conseguenze del riscaldamento globale avranno pesanti effetti ambientali, climatici, sanitari e sociali che si faranno sentire intutti i continenti e a tutti i livelli; al proposito non mancano le previsioni decisamente pessimistiche.

        Gli impatti sull’ambiente colpiranno tutti gli ecosistemi: le foreste, gli oceani, le barriere coralline, le zone umide costiere, l'artico così come l'antartico, le zone alpine e le aree semidesertiche……

        In questo scenario, globale e drammatico, occuparsi della conseguenze dei cambiamenti climatici nei confronti degli uccelli può sembrare un po' riduttivo, ma non bisogna dimenticare che gli uccelli sono ottimi indicatori biologici delle condizioni generali dell'ecosistema, in grado di segnalare con grande anticipo il verificarsi di condizioni di degrado. E infatti, i primi effetti cominciano a vedersi e si possono già misurare, anche in Europa.

 Nidificazione anticipata e spostata verso nord

        Due ricercatori inglesi dell’Università di Leeds, hanno analizzato la distribuzione degli uccelli nidificanti in Inghilterra su un arco di 20 anni, dal 1970 al ’90. Utilizzando i dati degli atlanti dei nidificanti, hanno misurato i cambiamenti negli areali di più di 100 specie di uccelli comuni. Ne hanno concluso che il limite settentrionale del range di nidificazione si è spostato verso nord, di una media di circa 20 km, durante questo 20 anni (1). E’ da notare che, dagli stessi dati, non è emerso alcun ampliamento degli areali in direzione sud.

        Prima di loro, il British Trust for Ornitology che, grazie ad una rete di migliaia di volontari dal 1939 sta raccogliendo milioni di dati sulla fenologia riproduttiva di 225 specie di uccelli in Gran Bretagna, ha preso in considerazione le schede delle 65 specie più comuni e ne è emerso come almeno 20 di esse depongano le loro uova con un anticipo che va dai 4 ai 17 giorni rispetto a quanto facevano nel 1971. Questo indipendentemente dalle loro caratteristiche ecologiche o tassonomiche e dal periodo abituale di nidificazione; le specie maggiormente interessate dal fenomeno sono. Beccaccia di mare, Chiurlo maggiore, Pettegola, Merlo acquaiolo, Scricciolo, Codibugnolo, Picchio muratore, Storno, Prispolone, Codirosso, Sterpazzola, Capinera, Luì piccolo, Luì grosso, Luì verde, Gazza, Cornacchia, Fringuello, Cardellino e Strillozzo (2). In un lavoro successivo, lo stesso gruppo del B.T.O. è riuscito a dimostrare che l’anticipo della data della prima deposizione è correlato agli effetti del clima: temperatura e quantità di pioggia (3).

        Un altro studio è stato concentrato sulla fenologia della Cinciallegra, per quale sono state esaminate le date medie di deposizione dal 1947 ad oggi: mentre fino al 1970 non si è trovato alcun segno di un cambiamento, nel periodo dal 1970 al 1997 l’andamento è stato evidente, con un anticipo strettamente dipendente dalle temperature primaverili (4).

        Stessa evidenza è emersa per la prima deposizione di Strillozzo, Luì piccolo e Gazza e per la data di arrivo delle Allodole in Finlandia (5). Risultati simili sono stati ottenuti anche per le specie nordamericane (6,7).

        A questo punto, non può essere una coincidenza che anche la data di fioritura delle piante in Europa sia anticipata, in media, di sei giorni (8) mentre la durata totale della stagione vegetativa nell’emisfero nord è aumentata di 11-12 giorni (9).

        Il comportamento riproduttivo degli uccelli non viene determinato direttamente dalla temperatura; è più probabile che essi rispondano in maniera indiretta, attraverso la disponibilità di cibo: uno sviluppo anticipato del fogliame comporta probabilmente la comparsa precoce degli insetti.

        Una nidificazione precoce significa che i nuovi nati saranno una o due settimane più "vecchi" e più robusti quando sarà arrivato il momento di migrare e inverni più miti permettono agli uccelli di sopravvivere anche in zone meno meridionali e quindi richiedono una migrazione più breve. Visti così appaiono tutti effetti positivi, ma c’è un rovescio della medaglia.

 Quando il freddo è vitale

        Vi sono specie che necessitano di basse temperature.

        Attorno alla Penisola Antartica, dove la temperatura dell’aria si è riscaldata di 2,5° C negli ultimi 50 anni, più che in qualunque altra parte del globo (10), la calotta glaciale ha subito una forte riduzione, cui è corrisposto un drastico declino della popolazione dei Pinguini di Adelia.

        Su alcune isole gli Adelia sono stati sostituiti dai Pinguini dell’Antartide, che preferiscono andare a pesca nelle acque libere dai ghiacci, mentre su altre isole entrambe le specie sono calate del 35% - 40% (11, 12). La causa viene indicata nel calo della disponibilità di krill, la fonte primaria di cibo di questi pinguini: la minore estensione dei ghiacci comporta la diminuzione della presenza delle alghe di cui si nutrono le forme larvali del krill durante l’inverno. Un perfetto esempio di come gli effetti si propagano attraverso tutta la catena alimentare.

        Nella fascia subantartica, il crollo del Pinguino crestato su Campbell Island è stato drammatico: dalle 1.600.000 coppie nidificanti negli anni ’40 alle 103.000 del 1985; anche in questo caso, la diminuita disponibilità di cibo viene ritenuta la responsabile principale (13). Nel frattempo, sia il Pinguino crestato che il Pinguino di Magellano stanno diventando sempre più comuni ai limiti meridionali del loro range di distribuzione (12).

        D’altra parte, alcuni scienziati neozelandesi hanno riscontrato un aumento del numero dei Pinguini di Adelia del Mare di Ross e lo hanno attribuito più alto tasso di sopravvivenza, favorita dal riscaldamento di questo tratto di mare posto all’estremo sud (14).

        Tutto questo in Antartide, ma anche nell’emisfero nord non va poi tanto meglio.

        Nel passato, l’Uria nera non era mai riuscita a colonizzare la costa nord dell’Alaska: questa specie necessita di almeno 80 giorni senza neve per poter portare a termine le sua covata. Nel 1972, George Divoky, un ornitologo di Fairbanks, ha scoperto una piccola colonia di una decina di nidi su Cooper Island: Tra il 1975 e il ’90, il numero delle coppie è cresciuto fino a raggiungere le 225: temperature più miti facevano sciogliere prima la neve, offrendo alle Urie una maggiore disponibilità di siti per nidificare e più tempo per allevare la prole. Ma poi, durante gli anni ’90, il loro numero si è dimezzato; secondo Divoky, la ragione sta nel ritiro dei ghiacci artici causata dalle temperature più alte. Le Urie nere si cibano di una specie di merluzzo che prospera al di sotto del ghiaccio galleggiante; aree libere dal ghiaccio ospitano meno pesce e gli uccelli devono volare più lontano in cerca di cibo (15).

        Si pensa anche che il riscaldamento globale potrà causare una diminuzione generalizzata della produttività degli oceani. E c’è la possibilità che anche questo effetto abbia già cominciato a manifestarsi: lo zooplankton della Corrente della California è calato del 70% rispetto ai livelli degli anni ‘50, e questo potrebbe spiegare il drammatico declino di alcuni uccelli marini lungo le coste americane del Pacifico settentrionale, come la Berta grigia e l’Alca di Cassin. Durante il 1997 e 1998, anni eccezionalmente caldi, si calcola che decine di migliaia di uccelli marini siano morti di fame al largo dell’Alaska.

 La minaccia per gli habitat

        Gli uccelli sono liberi di spostarsi quasi senza limiti e si adattano alle temperature più alte andando a nidificare più a nord (o a quota più elevata); ma in questo modo c’è il rischio che il loro ciclo vitale perda l’indispensabile sincronizzazione con le fonti di cibo. Le specie meno mobili (insetti, anfibi, per non parlare dei vegetali), possono avere bisogno di decenni per migrare e spesso questo è diventato impossibile, perché non possono attraversare le barriere imposte da un paesaggio sempre più frammentato. Queste specie, che non possono tenere il passo con i cambiamenti del clima, oltre a trovarsi in grave rischio esse stesse, possono costituire parte essenziale dell’habitat degli uccelli i quali, nei nuovi territori spostati più a nord, non troveranno ciò di cui hanno necessità. Le specie il cui range di distribuzione è limitato dalla vegetazione, ad esempio, con tutta probabilità non saranno in grado di muovere i loro areali in risposta all’aumento di temperatura, almeno non fino a quando non avrà "migrato" anche la vegetazione stessa.

        Con il riscaldarsi del clima, le specie montane, sia animali che vegetali, sono spinte ad altitudini più elevate e la loro sopravvivenza può venire minacciata quando, ad esempio, un habitat continuo viene ridotto a frammenti sulle cime delle montagne o, addirittura venire spazzate via se la fascia climatica cui sono legate si sposta sopra le altitudini massime di una catena montuosa.

        In alcuni casi, l’habitat da cui dipendono gli uccelli non solo può non essere in grado di migrare a nord, ma essere già minacciato nella sua posizione attuale. Uno degli effetti del riscaldamento globale potrebbe essere una perdita di habitat su grande scala: un innalzamento del livello del mare di soli pochi centimetri minaccierebbe di sommergere le paludi costiere, mentre la siccità, legata al riscaldamento, potrebbe far scomparire molte zone umide interne. In entrambi i casi, verrebbero messe a repentaglio le più importanti aree di sosta e foraggiamento per gli uccelli migratori.

        Per i migratori, la disponibilità di cibo lungo la rotta migratoria è uno dei fattori critici per la riuscita del loro durissimo viaggio e, in ultima analisi, per la loro sopravvivenza. I migratori a lunga distanza rimangono in volo per numerose ore di seguito e viaggiano anche per migliaia di chilometri senza soste. Simili lunghi voli sono possibili solo se gli uccelli hanno la possibilità di nutrirsi adeguatamente prima di partire, in modo da accumulare energie sufficienti per ogni singola tappa del loro viaggio. Prima e durante la migrazione, gli uccelli mangiano in maniera febbrile, e possono arrivare a raddoppiare il loro peso corporeo, costituendo le riserve di grasso che saranno il "carburante" per il lungo volo che li attende. Se non possono accedere ad abbondanti fonti di cibo nelle aree di sosta, non saranno in condizioni di completare la migrazione.

        Alcuni siti costieri, come la Chesapeake Bay negli Stati Uniti, le paludi di Mai Po ad Hong Kong e il Waddenzee nel Mare del Nord, sono di una tale importanza per le specie migratrici che, se uno qualsiasi di essi venisse perso o alterato, potrebbero trovarsi a rischio letteralmente milioni di uccelli migratori. Un rapporto del WWF Internazionale, intitolato "Climate Change Threats to Migratory Birds", identifica 15 habitat critici che sono seriamente minacciati dagli effetti del riscaldamento globale. Si prevede che il riscaldamento globale manifesti i suoi effetti più forti nelle aree circumpolari causando lo scioglimento del permafrost e la perdita di vaste zone di tundra artica, man mano che la foresta boreale si spingerà più a nord. Questo ambiente è l’habitat di nidificazione di molte specie di limicoli e oche, che ne saranno pesantemente colpiti. Il Piovanello maggiore è forse la specie che più di ogni altra simbolizza i pericoli del riscaldamento globale nei confronti degli uccelli migratori, in quanto vede minacciati sia i territori di nidificazione nella tundra artica che le aree di svernamento nell’emisfero sud, in Terra del Fuoco, in Sud Africa e nell’Australia meridionale.

        Un altro dettagliato rapporto identifica le aree protette e i relativi ecosistemi più immediatamente minacciati; tra quelle identificate per l’Europa, ve ne sono numerose Italiane: i Parchi Nazionali d’Abruzzo, della Majella, del Gran Sasso e dello Stelvio, il Bosco della Mesola, Punte Alberete e Valle Mandriole e altre meno note.

        E se più caldo vorrà dire meno piogge e siccità, le prime ad essere a rischio sono, ancora una volta, le zone umide. Nell’America Settentrionale si fa strada la preoccupazione che gli specchi d’acqua delle grandi praterie di Canada e Stati Uniti, che da sole offrono siti di nidificazione al 50% della anatre dell’intero continente, possano subire una drastica riduzione, con conseguente drammatico calo della popolazione di anatre (16).

        Ce n’è più che abbastanza per restare impressionati e preoccupati per le conseguenze che tutto ciò finirà per avere. Di fronte a questo drammatico quadro, quanto pare ingenuo l’articolo che è comparso tempo fa su una rivista inglese, nel quale si auspicava (non so quanto seriamente) che il riscaldamento del clima finisse con lo spingere sempre più a nord le specie amanti del caldo, così che finalmente anche i birdwatcher Inglesi abbiano la possibilità di "segnarle" sulla loro lista nazionale!


Approfondimenti

Per chi volesse approfondire gli argomenti correlati al fenomeno del riscaldamento globale e saperne di più segnaliamo questi fonti, tutte liberamente consultabili in Internet:

Bibliografia
  1. C.D. Thomas & J.J. Lemon: Birds extend their range northwards, Nature, 399, 20 maggio 1999, pag. 213.
  2. H.Q.P. Crick et al.: UK birds are laying eggs earlier, Nature, 398, 7 agosto 1997, pag. 528.
  3. H.P.Q. Crick & T.H. Sparks: Climate change related to egg-laying trends, Nature, 399, 3 giugno 1999, pagg. 423-424.
  4. R.H. McCleery & C.M. Perrins: Temperature and egg-laying trends, Nature, 391, 1 gennaio 1998, pagg. 30-31
  5. M.C. Forchhammer, E. Post & N.C. Stenseth: Breeding phenology and climate, Nature, 391, 1 gennaio 1998, pagg. 29 — 30.
  6. J.L. Brown et al.: Long-term toward earlier breeding in an American bird: a response to global warming, in Proceedings of the National Academy of Sciences, 96, maggio 1999, pagg. 5565-5569.
  7. T.L. Root & J.D. Weckstein. 1994. Changes in distribution patterns of select wintering North American birds from 1901 to 1989. Studies in Avian Biology 15: 191 — 201.
  8. A. Menzel & P. Fabian: Growing season extended in Europe: Nature, 397, 25 febbraio 1999, pag. 659.
  9. R.B. Myneni et al.: Increased plant growth in the northern high latitudes from 1981-1991: Nature, 386, 1997, pagg. 698-702.
  10. Wilson, N.C. 1995. Scientists express concern about how stable east and west Antarctic icesheets may be. Climate Alert, Vol. 8, No.3.
  11. W.R. Fraser et al.: Increases in Antarctic penguin populations: reduced competition with wales or a loss of sea ice due to environmental warming?, Polar Biology, 11, 1992, pagg. 525-531.
  12. Atwood, R. 1997. People and penguins feel Antarctic warming. Press article: Reuters, January 30, 1997.
  13. D.M. Cunningham et al.: The decline of Rockhopper penuins Eudyptes chrysocome at Campbell Island, Southern Ocean and the influence of rising sea temperatures, Emu, 94, 1994.
  14. Taylor, R.H. and Wilson, P.R. 1990. Recent increases and southern expansion of Adelie Penguin populations in the Ross Sea, Antarctica, related to climate warming. New Zealand Journal of Ecology, 14: 25-29.
  15. G.J. Divoky: Recent Climate Change and the Rise and Fall of Black Guillemot in Northern Alaska, presentazione poster al 49th Meeting of the Arctic Division of the American Association for the Advancement of Science.
  16. L.G.Sorenson, R. Goldberg, T.L. Root, M.G. Anderson. 1998. Potential effects of global warming on waterfowl populations breeding on the Northern Great Plains. Climatic Change 40: 343-369.

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