L’EDUCATORE PROFESSIONALE VERSO IL 2000

di Paolo Marcon

(febbraio 1999)

 

La sfida alla modernità:1.- apprendere attraverso l’esperienza

2.- attenzione alla persona del professionista

3.- nei processi di formazione: offrire più aiuto da parte delle sedi di

formazione; produrre più sforzo da parte del professionista

4.- chiarificazione dell’identità professionale: coerenza fra sé e la

professionalità

5.- formazione superiore universitaria e formazione professionale:

dall’esperienzxa alla concettualità

6.- intervenire territorialmente

Vi sono affermazioni che sono di rilevante importanza e valore non solo in sé, ma anche in quanto legate a personaggi rappresentativi della cultura pedagogica contemporanea.

Mi riferisco a Jacques Maritain ed a Jean Piaget, l’uno e l’altro esploratori e studiosi anche in campi e settori culturali affini, il primo quello filosofico, il secondo quello sociologico e pedagogico.

 

1.- Il valore conoscitivo dell’esperienza

Maritain nel suo "L’educazione al bivio", raccolta di conferenze pronunciate all’Università di Yale attorno agli anni 40’ e che segnano l’inizio del volontario esilio negli Stati Uniti non volendo rientrare in una Francia occupata dai nazisti, non esita ad affermare che "l’esperienza , frutto incomunicabile della sofferenza e del ricordo, ed attraverso la quale si compie la formazione dell’uomo, non può essere insegnata in alcuna scuola ed in nessun corso"; essa è "altrettanto illuminante dei primi principi della conoscenza".

E Piaget di rincalzo "Capire è inventare; una verità riprodotta non è che una mezza verità". Un individuo "passivo intellettualmente , non può sentirsi libero moralmente".

L’esperienza, quella personale, quella sociale e quella storica sono libri di interessante e necessaria lettura: un apprendere leggendola; la più autentica conoscenza nasce dall’esperienza personale criticamente confrontata e vegliata. Le stesse emozioni, i sentimenti sono parte integrante, sono patrimonio della nostra personale esperienza.

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2.- L’educatore professionale verso il futuro

Se ciò è vero, qual è l’avvenire, il futuro, il terzo millennio per un educatore professionale autentico, tenuto conto che il "futuro", l’"avvenire" è la prospettiva più pregnante per chi si occupa di educazione, secondo la sollecitazione del pedagogista polacco Bodan Suchodolskj che presenta il mondo dell’educazione come un mondo basato sulla fiducia, sulla speranza, sull’attesa: un mondo a carattere escatologico, proiettato in avanti.

Gli spagnoli quando debbono dirti :attendi, ti dicono: espera.

Mi è sempre caro ricordare l’esperienza del piantatore di alberi di datteri: egli non mangerà datteri della sua pianta; ma nessuno mangerebbe datteri se non ci fossero stati piantatori di datteri.

Come mi è caro ricordare l’incontro dopo molti anni con un giovane che mi era stato affidato professionalmente e che avevo lasciato in una situazione che ritenevo oramai isolubile: negli anni si era operata una trasformazione ed una crescita insperata ed imprevista, a dire dell’interessato stesso, per seguire quella traccia a suo tempo segnata dal nostro rapporto di collaborazione educativa.

Di esperienze umane e professionali, affettive ed intelletuali, ce ne sono, dunque, in abbondanza nello scrigno di ogni educatore professionale e, tutte, da analizzare, da maturare, da valutare.

Uno dei cambiamenti importanti per il futuro, anzi uno dei cambiamenti essenziali, quindi necessari, consiste nell’ invertire il sistema e la metodologia formativa, e probabilmente non solo dell’educatore professionale; sicurissimamente dell’educatore professionale: una formazione maggiormente basata sull’analisi dell’esperienza.

E’ sempre Piaget che ci ricorda come "la vastità del programma sia meno importante della qualità del lavoro: conquistare da sé un certo complesso di conoscenze, nel corso di ricerche libere e attraverso uno sforzo spontaneo, significherà ricordare di più e, soprattutto, questa attività personale permetterà di acquisire un metodo che servirà per tutta la vita".

3.- L’educatore professionale fra passato e avvenire

L’autenticità e la validità dell’educatore dell’avvenire è legata a quello che egli è stato nel suo passato: l’avvenire è frutto ed almeno in certa misura conseguenza del passato: passato e futuro dialogano vicendevolmente attraverso l’attimo fuggente del presente, impossibile da fissare ed afferrare, come ben ricorda, per sua salvezza, la drammaticità faustiana.

La civiltà ed il progresso non sono dati solo dallo sputnik o da internet, soprattutto se si mantiene in atto ancora la pena di morte, se la violenza bellica imperversa ed infierisce anche contro gli inermi e se la dissuasione stessa è regolata da interessi economici e non da interessi sociali ed umani.

Il futuro dell’educatore, il nuovo millennio dell’educatore professionale sta nella formazione che si è data, sta nella identità che ha avuto la capacità di acquisire.

Un secondo cambiamento importante per il futuro sta in una inversione contenutistica della formazione, dalla prevalente attenzione ai contenuti culturali, all’attenzione alla persona ed alla personalità del professionista.

 

Il futuro dell’educatore professionale, la novità del terzo millennio sta nella qualità della formazione, sta nella qualità dell’identità professionale acquisita.

Formazione data dalle entità preposte o formazione che il professionista si è data ?

Identità ricevuta o acquisita da sé ?

Sembra un dilemma amletico, in certo senso; l’augurio è che, tuttavia, non si tramuti in elemento generatore di nevrosi o di interiore, insanabile dilacerazione, anche perché in un tal caso c’è da sospettare che ci sia qualcosa che non funziona nell’interiore personalità del professionista.

Sembra necessario rivolgere lo sguardo attorno accogliendo l’invito di Amos Komenski, un pastore evangelico di circa mezzo secolo fa, che nonostante la sua protesta religiosa, traduceva i suoi scritti in ceko nella lingua di circolazione europea a quel tempo, quella latina, che era poi la lingua ufficiale di quella Chiesa che egli avversava.

Il suo invito era quello di seguire, nell’educazione, le leggi ed i ritmi della natura.

Come cresce, dunque, una cellula ? Cresce utilizzando le forze potenziali endogene trasmessegli ereditariamente; tuttavia questa potenzialità interna è pura possibilità che ha bisogno continuo di essere alimentata e rifornita da materiali provenienti dall’esterno per la strutturazione di altre cellule ed il moltiplicarsi delle stesse.

La cellula per nutrirsi, crescere e moltiplicarsi non accetta l’alimentazione esterna così come le viene offerta: l’assunzione e la metabolizzazione non è acritica, è selettiva secondo la natura e la costitutività dell’organismo stesso. Se l’offerta è più adeguata ai bisogni, l’accettazione è migliore e più ampia: il negativo ed il superfluo viene rifiutato ed espulso, ancora una volta grazie alla natura, a quel pan di crusca che probabilmente assicurava buona digestione ed assimilazione ai nostri progenitori, prima dell’involuzione della civilissima farina a doppio 0.

Così il processo formativo e formativo professionale:

Da un lato quanto offre e quello che offre un "corso" od una "scuola" di formazione (e la vita nei suoi aspetti anche negativi o ritenuti tali),

D’altro lato quanto e quello di energie, impegno e sforzo personale il futuro professionista è disposto e capace di investire.

E’ ancora Piaget che , a proposito di processi educativi, fra concezioni che comportano una preformazione o legata all’associazionismo empirista di origine anglosassone (conoscenza come acquisizione esogena procedente direttamente dall’esperienza o dalle presentazioni dirette dall’adulto), o legata all’indirizzo innatista (esistenza di un nucleo fisso conoscitivo innato), sceglie una terza via di natura costruttivista ; lo sviluppo sarebbe in funzione di un fattore ereditario e di un fattore d’interazione sociale, che ha funzione indispensabile nella formazione dell’individuo umano, funzione non sufficiente da sola, ma rigorosamente necessaria.

L’azione formativa dei formatori è indispensabile a titolo di stimolazione per creare situazioni e costruire dispositivi di partenza suscettibili di porre problemi utili: "smettere di essere conferenzieri e stimolare maggiormente alla ricerca, senza trasmettere soluzioni già pronte.

Quanto più l’offerta degli stimoli e degli aiuti proposti è adeguata, quanto più le energie personali sono impegnate, tanto più la formazione sarà valida.

 

Una terza sfida avveniristica:migliorare ed adeguare l’offerta nella direzione della stimolazione e dell’aiuto; moltiplicare ed approfondire lo sforzo e l’impegno personale.

 

4.- L’identità professionale

Preliminare il problema del "sapere" se "io" ritengo che questa professione sia l’attività che mi permette di esprimere il meglio di me stesso, che mi permette di essere pienamente me stesso, di raggiungere la prestazione migliore possibile rispetto alle possibilità della mia personalità.

Se così non fosse, al di là delle apparenze, delle illusioni, delle infatuazioni sociali o religiose, delle rimozioni o delle compensazioni, che tali non sono più, almeno in senso patologico, se portate in superficie, a coscienza; se così non fosse, ciò potrebbe essere il segnale di una scelta errata.

Vi sono scelte sbagliate per motivi di necessità; ma vi sono scelte sbagliate per insincerità con se stessi, pagando un prezzo amaro di infelicità, di depressione, di esaurimento emotivo, il tristemente "famoso" burn-out.

Normalmente pagano anche le persone clienti ed utenti per osmosi e riflussi di vicinanza ed alcune motivazioni sociali si trasformano in realtà antisociali.

Fondamentale, anzi fondante lo sviluppare l’essenza di se stessi, ciò per cui ognuno è un "io", anzi è "io" e non "altro" o "un" altro, in una compiuta e reale esistenza, conducendo ad esistenza piena ed attuale le potenzialità racchiuse nella propria essenzialità.

Interrogarsi sulle dimensioni e sulle qualificazioni di questa identità significa prendere coscienza di quanto in essa vi sia di fondamentalmente immutabile e di quanto vi sia di mutevole nel suo storico mutarsi; quanto di individuale, ma anche quanto di partecipato, quindi di non individualistico, cioè di contestualmente espanso e diffuso nell’altro e negli altri "di" me e non altro o altri "da" me: molto più che una immagine riflessa in uno specchio, quanto piuttosto una partecipazione ad una stessa identica,fondamentale natura ed essenza per la quale viviamo, nella quale siamo immersi e per la quale ci intendiamo o almeno abbiamo la possibilità di intenderci, di essere liberi anche se non indipendenti.

Impegno avveniristico per l’educatrore professionale proiettato verso il terzo millennio dovrebbe essere un impegno di alta gradazione civile ed umana: la piena coerenza fra il "sé" e la propria professionalità.

Si tratta di un prezioso dono alla società degli anni futuri, società che sembra incamminarsi, invece, alla barbarie dei genocidi, alla lotta senza esclusione di colpi per il potere e per il possesso di beni ove i i più onesti soccombono, alle strategie più crudeli per la conquista di potere economico di cui il neocolonialismo si presenta come peggiorativo dello stesso colonialismo e dove lo spirito capitalista stende le sue trame trasversalmente lungo i vari continenti.

Un essere pienamente "se stessi" che conduce, necessariamente, verso la piena valorizzazione e rispetto della persona dell’altro "di me", antidoto ai veleni della inciviltà contemporanea e futura.

La formazione di "sé" è anche,di conseguenza, contributo importante alla formazione per l’"altro" e per "gli altri": una dimensione di socialità che trasforma l’educatore in un agente e testimone di educatore alla socialità.

Preferisco utilizzare il termine "educazione alla socialità" anziché, come comunemente succede, "socializzazione", per motivi storici e concettuali.

Una mattina di uno dei mesi del 1994, non ricordo quale, svegliandoci, abbiamo letto sui giornali che eravamo, per decreto del Capo dello Stato, la Repubblica Sociale, socializzati: la socializzazione assumeva pertanto un significato di imposizione e di passività che del resto è insito nel tessuto del vocabolo stesso: socializzare significa realizzare la socialità dall’esterno, il che è esattamente il contrario non solo di una concezione pedagogica in senso più moderno e contemporaneo a dire il vero assai antico e della media età, ma ancor più è all’opposto della realtà stessa della condizione umana nella sua essenzialità: educare alla socialità significa aiutare e stimolaree lo sviluppo e la maturazione del senso sociale e della sua realizzazione dall’interno delle singole persone che sono costitutivamente e naturalmente proiettate verso la socialità.

 

Mantenere vivo e scattante il senso attivo, evolutivo, interiore,continuo, globale e ottimistico dell’attività educativa è un obiettivo perennemente futurologico dell’educatore professionale e dell’educazione (tutta) in quanto tale.

Fare educazione è un perenne stimolare la messa in azione e il mantenimento di un incessante "moto perpetuo" e di una "perpetua gioia" di vivere e di essere nell’esistenza.

L’innovatività più spinta consiste nel mantenere a "livello" una precisa e valida identità personale

e professionale in una prospettiva di fiducia e di serenità. Nonostante tutto.

Nell’ambito di una professione che, fra le professioni educative, è umile: orientare l’abitudinarietà e la banalità della vita quotidiana, l’imprevisto di ogni giorno alla crescita ed allo sviluppo, cioè al cambiamento in positivo che è la finalità generale di tutta l’educazione, il suo obiettivo finale che è l’offrire aiuto, gli "auxilia" dei nostri classici degli evi antico e medio: l’educazione fin da allora è stata concepita come "relazione d’aiuto"

Come ? Non con parole, non con lezioni scolastiche o accademiche bensì vivendo, vivendo assieme.

Mi tornano alla mente quei due che da Gerusalemme scendevano ad Emmaus in una sera per loro triste dopo l’esecuzione del loro "maestro"; ad un tratto si incontrarono con un terzo, pure diretto ad Emmaus. E si accese la discussione sui profeti e sul messia, sugli avvenimenti di quei giorni..

Lo sconosciuto, giunti ad Emmaus, finse di proseguire. Ed essi: Resta con noi, chè si fa sera.

Egli rimase e si fece riconoscere nella sua identità con un segno inequivocabile al di là delle parole e degli insegnamenti di qualche attimo prima: spezzò il pane, lo benedisse e lo distribuì ai due.

Il riconoscimento avvenne più che dalle parole, da un fatto, dalla "fractio panis" , da un’azione, a tavola, mangiando assieme.

Ed infatti siamo quello che facciamo, più che quello che diciamo di essere.

Del resto anche Jacques Maritain condannava l’intellettualismo come pura abilità dialettica o come sola messa in evidenza delle funzioni pratiche ed operanti dell’intelligenza.

 

 

5.- La formazione professionale e l’Europa

I maggiori problemi posti dalla formazione professionale non stanno tanto nei contenuti dell’insegnamento "teorico" o meglio concettuale, quanto nelle sue modalità, dal suo rapporto anche quantitativo con gli apprendimenti a carattere tecnico-professionale e cioè con l’apprendimento di tecniche espressive, ludiche, artistiche e con le esperienze professionali, con gli stages pratici ed i seminari residenziali, dalla sua incidenza sulla formazione personale e professionale.

Ne è testimoinianza il vecchio ed abusato adagio, nato in Francia in occasione dell’annuale convegno di "Sauvegarde de l’enfance" del 1960:

 

sapere (concettualità); saper fare (tecnicità ed esperienza); in sintesi: formazione professionale; saper essere (formazione personale).

L’adagio è giunto in circolazione da noi con almeno venti anni di ritardo, come d’uso, ed inflazionato.

Si potrebbe, dunque, concludere che l’essenziale della formazione professionale dell’educatore professionale/ sociale/ specializzato in Europa è dato

I luoghi della formazione in Europa sono di livello terziario, superiore (quindi non necessariamente universitaria; sarà noto l’esistenza nei differenti paesi Europei di una istruzione superiore non universitaria, specificamente indirizzata alla formazione professionale).

L’introduzione nel nostro paese di diplomi di laurea di primo livello (triennale) si propone di

colmare questa lacuna. Le prime reralizzazioni in Italia di Diplomi di Laurea triennali per educatori professionali risultano dalla trasformazione di due scuole a fini speciali: quella dell’Università "La Sapienza" di Roma, ora trasferita all’Università Roma 3, funzionante dall’anno accademico 1970/71, e quella funzionante dal’anno accademico 1973/ 74 presso l’Università LUMSA a Roma.

La prima fu promossa dal prof. Luigi Volpicelli che aveva chiesto allo scrivente, assistente ordinario, quale contributo utile l’Università potesse offrire al mondo dell’educazione non formale specializzata; dallo stesso ebbe l’invarico di curarne le procedure per la costituzione e per la organizzazione.

La seconda costituì il riconoscimento ufficiale di una attività iniziata più di un decennio prima dalla Federazione Italiana Religiose Assistenti Sociali - F.I.R.A.S. che sempre lo scrivente ebbe il piacere di promuovere nell’ambito dell’azione dell’associazione professionale degli educatori, l’allora A.N.E.G.I.D. (Associazione Nazionale Educatori Gioventù Italiana Disadattata), constato il buon esito dell’esperienza universitaria.

 

Queste prime realizzazioni italiane sono una cartina di tornasole dei futuri assetti dei diplomi universitari di laurea per gli educatori professionali: infatti migliore, più adeguata e più innovativa la soluzione adottata dall’università parificata LUMSA che si è giovata delle possibilità aperte dalle direttive recenti del Ministro dell’Università, meno accettabile e più rivolta agli schemi del passato la soluzione adottata dall’Università di Stato Roma 3.

Queste prime esperienze mostrano concretamente che oltre agli orientamenti legislativi e normativi, sono necessarie volontà precise e capacità conseguenti e che non sempre, anche se talora, i docenti universitari hanno coraggio sufficiente per andare controcorrente in senso critico ed in senso revisionista di una tradizione che se ha degli aspetti positivi, ha anche degli aspetti non positivi in relazione ad alcune esigenze e professionalità.

L’inveterata abitudine di attribuire una supremazia assoluta allo spirito, può divenire un enorme imbroglio quando, di fatto. questo spirito vive, agisce e si manifesta attraverso una struttura che immateriale non è e che come tale ne condiziona l’esistenza nel tempo e nello spazio.

La Parola passa attraverso la parola e la ragione "pura" è garantita dall’impurità che l’accompagna.

Il fatto è che il pensiero, il proprio naturalmente, è di una duttilità e di una dominabilità tutta particolare, quasi assoluta, tanto che perfino i folli pensano; il problema nasce nell’impatto con la materialità del reale la cui docilità è assolutamente differente e talora assai difficile e complessa.

Il disegno ministeriale di trasformazioine delle scuole speciali in diploma di laurea di primo livello prospettava una soluzione adeguata delle trasformazioni utilizzando il criterio delle aree didattiche ( ben differenti dalle aree disciplinari con cui non vanno confuse come è accaduto a Roma 3): formazione generale di base, formazione professionale caratterizzante, formazione interdisciplinare, opzionalità, tirocinio professionale, attività connesse con la professione, studio delle lingue e conoscenza dell’informatica e preparazione dell’esame di valutazione finale; ed assegnando una quantità percentuale in crediti ad ogni area con la possibilità di stabilire ragionevoli equilibri fra il "teorico" ed il framigerato "pratico", fra il concettuale e l’esperienziale.

La corretta attuazione di ordinamenti di studi per una formazione professionale superiore richiede non solo una nuova cultura che si ispiri ad un sano realismo ed abbandoni le unilateralità tanto del razionalismo e del neoidealismo come dell’empirismo, e quindi la capacità dei docenti universitari di una comprensione più integrale, totale e globale della realtà umana e sociale, ma anche la disponibilità dei professionisti dell’educazione non formale, gli educatori professionali a rimanere tali, mantenendo la disponibilità a comunicare la propria esperienza per contatto diretto con i tirocinanti, senza la pretesa di impancarsi a fare i "mezzi-accademici" o i "servi" del nuovo padrone per ricavarne quasto o quel beneficio.

Questa corretta attuazione richiede anche che i tirocinii professionali siano realizzati come "esperienze sul campo" senza compromessi o mezzi termini e che i laboratori siano un "fatto" e non un "detto" od uno "scritto" anche se nel laboratorio vi saranno cose "dette" e cose "scritte": il primato deve rimanere alla fattualità: certamente occorre alle università una nuova e rinnovata leva di professori universitari che sappia capire e gestire una dinamica dalla complessità pià ampia e più ricca dell’attuale.

E ciò soprattutto se oltre il diploma di primo livello (laurea) si prospetta un diploma di secondo livello (laurea specialistica) che dovrebbe preparare l’educatore a funzioni dirigenziali,, programmatoria, di supervisione e di consulenza per l’approfondimento formativo e per l’ascenso di carriera.

 

Una visione futuristica della formazione professionale universitaria richiede che essa assuma dimensioni sempre più aderenti alla realtà della persona: formazione integrale secondo l’integralità della persona umana: dall’esperienza alla concettualità

6.- I luoghi dell’esercizio della professione

Da un ideale di forza, di bellezza, di armonia che ha caratteruizzato l’età antica e che ha portato in alcuni casi, non solo alla segregazione dei più deboli, quanto perfino alla loro eliminazione, ideali di fraternità e di universalità, sorti con l’era cristiana, hanno diffuso una sensibilità più compiuta della dignità della persona umana.

L’educazione andava esplicandosi pertanto oltre la scuola, pur intesa come tempo libero dalle occupazioni della vita quotidiana, tempo da dedicare alla cultura dello spirito, anche a queste occupazioni di vita di ogni giorno sia familiare che sociale, ludica, distensiva, espressiva od artistica.

Se ne occupavano l’insegnante (magister) da un lato e la famiglia o un delegato della famiglia, il pedagogo (pedagogus): la vita sociale era notevolmente più semplice ed il "pater familias" poteva facilmente introdurre alla vita sociale ed alle relazioni interpersonali, accompagnando il figlio al Foro. E d’altro lato la presenza di un "pedagogus" non è fatto alla portata di tutte le tasche.

Il complicarsi della vita sociale, tende ad emarginare sempre più le forze più deboli e già il tardo Impero progressivamente cede alla organizzazione ecclesiastica la gestione dell’assistenza sociale e dell’assistenza alle persone.

In funzione dell’educazione della classe dirigente si avviano iniziative che sono caratteristiche e significative anche se limitative in quanto associavano ai figli del principe solo i figli del personale addetto ai servizi. Si tratta della Ca’ Zoiosa di Vittorino da Feltre (1373 – 1446).

Se Filippo Neri (1515 – 1595) a Roma e Carlo Borromeo (1538 – 1584 a Milano operavano attraverso gli oratori a livello territoriale, come del resto più tardi Giovanni Bosco (1815 – 1888) nelle periferie torinesi, già Gerolamo Emiliani (1486 – 1537) si dedica alla fondazione di istituzioni residenziali, gli orfanatrofi.

In questo nostro paese, dunque, annoveriamo degli "educatori professionali" ante litteram, educatori di prevenzione che al motto "State fermi, se potete", andavano per quartieri malfamati a raccogliere ragazzi e giovani abbandonati per la strada.

Il ricorso all’istituto residenziale (internato) si andò intensificando sulla base sia della convinzione della opportunità della preservazione dal cattivo influsso della società sugli animi giovanili, soprattutto se in difficoltà , tenuto conto del rifiuto che i gruppi sociali stessi esercitavano nei confronti dei soggetti più deboli socialmente e psicologicamente e/o a rischio, sia delle necessità di diffusione dell’istruzione di base.

Come è noto, d’altro canto, la letteratura pedagogica ci presenta l’idea di una "buona natura del fanciullo" corrotta dalla contaminazione sociale.

I tempi più recenti ci hanno mostrato che i gruppi sociali a fronte di influssi negativi esercitano anche influssi positivi mentre si diffonde a livelli sempre più ampi l’accettazione e l’integrazione di situazioni personali complesse.L’integrazione scolastica, con tutte le difficoltà ad essa connesse e con tutti i rifiuti che ha provocato, rappresenta una testimonianza positiva.

Nel più recente dopoguerra tale tendenza si accentua e si afferma in Europa ed in altri continenti.

In Francia già antecedentemente al secondo grande conflitto mondiale si erano evidenziati movimenti critici nei confronti delle strutture di accoglienza a carattere residenziale ed équipes di educatori specializzati si impegnano nelle periferie cittadine in attività denominate "in ambiente aperto", sul territorio che si radicano più ampiamente come reazione ai risultati, ritenuti insoddisfacenti, degli interventi residenziali. Si evidenziano in questo periodo il giudice Chazal (1952) la cui figura traspare nel "Cani perduti senza collare" di Cesbron, Henry Joubrel (1945) che sta all’origine delle Associazioni francesi ed internazionali degli educatori sociali/ professionali, e il

Ceccaldi (1960) dell’ufficio francese per la Giustizia minorile.

Negli U.S.A. dagli anni 50’ con l’accentuarsi del fenomeno delle bande, si aprono interventi nei confronti dei gruppi giovanili asociali centrati più sul gruppo in quanto tale che sulle persone.

Guardare al futuro significa, per un educatore professionale, operare per l’attuazione dell’azione educativa in dimensioni territoriali, in ambiente aperto, nell’ambiente naturale e comune di vita degli interessati; si potrebbe parlare di una specie di "federalismo educativo non formale" ed in riferimento non solo ai soggetti "a rischio" anche perché la crescita e la vita sono realtà "a rischio".

Ciò non significa la soppressione di ogni intervento a carattere residenziale: vuol dire solo ricorrervi come "extrema ratio" poiché non si comprende perché le persone debbano essere costrette ad una vita comunitaria residenziale artificiale e costruita, quindi innaturale, nella privazione del proprio contesto amicale, vicinale, parentale, della fraternità, dei luoghi del passato e dei ricordi, degli affetti che ad essi si accompagnano, se ciò non sia strettamente necessario. D’altro lato non è solo e tanto un’esperienza umanamente e psicologicamente negativa che è dannosa, quanto il modo con cui è vissuta.

Per una realizzazione di questo itinerario pedagogico vi è necessità di una riorganizzazione e di una riconversione dei servizi, di una ristrutturazione radicale che, nel terzo millennio, li confugri in maniera totalmente differente, assicurando "punti" di riferimento e di aggregazione giovanile sul territorio cittadino, inseriti e collegati con una più ampia rete di servizi (scolastici, informativi, di formazione professionale, di consulenza, di collaborazione familiare, ecc.).

Conseguente è la presenza operosa di educatori professionali, adeguata e finalizzata a funzioni eminentemente di prevenzione generale, sociale e primaria, senza escludervi una funzione di prevenzione specializzata cioè, per così dire, della recidività e della cronicità. E’ quella prevenzione specializzata che trent’anni fa altrove si denominava "educazione di strada", denominazione che con il solito ritardo di decenni, è di moda, attualmente, fra di noi, mentre nei luoghi di origine se ne è già individuata l’equivocità, senza pretendere di farne, come si vorrebbe qui, una nuova e distinta professione, ma piuttosto intendendola come una funzione dell’attività dell’educatore professionale, e non limitatamente al settore delle tossicodipendenze.

A Pigalle, nella "Ville Lumière" esiste un ristorante, denominato "Siloe" , gestito da educatori sociali; a Place St.Michael alle soglie del quartiere Latinol’équipe "la civetta" is occupa di notte dei clochard; nelle banlieu troviamo le "équipe d’amitié" e alla Gare de Lyon il "Punto Giovani", di pronta accoglienza 24 ore su 24 su richiesta telefonica degli interessati e con diritto di asili extragiudiziario di 48 ore!

E le piazzette del centro di Copenaghen o le fattorie dell’interno; i punti di aggregazione giovanile di Magonza o di Bruxelles…

 

Certamente la realizzazione di un simile progetto rappresenta un’operazione complessa soprattutto in paesi ove, a differenza dal nostro, le competenze relative all’animazione sociale ed alla prevenzione specializzata sono affidate ad enti territoriali di differente livello ( comunale e provinciale), mentre in altri paesi una legislazione che si accentra sulla protezione della gioventù in quanto tale e non sulla gioventù a rischio o in difficoltà ne facilita l’attuazione.

Nel nostro paese, la legislazione più recente, se messa a regime e, soprattutto, se inserita in un complesso più ampio di legislazione sociale, fornita quindi di organicità e di continuità, contribuirà alla realizzazione di servizi ed iniziative in tale direzione.

L’attuazione di forme di coeducazione si rendono conseguentemente necessarie, cioè forme di educazione attiva e partecipata, improntata a libere scelte circa il personale orientamento delle persone degli utenti, e circa le attività del gruppo; si pone anche la questione delle omogeneità o meno dei vari gruppi, soprattutto quanto alle problematiche delle persone ed all’equilibrio qualiquantitativo delle stesse all’interno del gruppo stesso.

Più che attrezzature ed apparecchiature già determinate debbono essere disponibili risorse economiche da utilizzare a seconda delle necessità organizzative, delle decisioni e delle scelte del gruppo; soprattutto è essenziale la continuità dell’intervento che dovrà essere preceduto da uno studio analitico dell’ambiente in generale ed in specifico dei giovani e dei gruppi giovanili nonché dei loro comportamenti rispetto al territorio preso in esame ed oggetto dell’intervento stesso.

"Equipe volanti " si occuperanno di una prima presa di contatto nei luoghi naturali di aggregazione sia di gruppi spontanei che di bande per dare origine ad una azione educativa, latu sensu, di contatto e di conoscenza reciproca, alla acquisizione di fiducia e di amicizia al di fuori di una struttura di appoggio.

Solo in secondo momento tali strutture potranno essere utili per la realizzazione di incontri e di attività secondo i criteri suaccennati: due momenti operativi che possono rappresentare anche due modalità non necessariamente collegate e consecutive.

 

7.- Una conclusione come punto di partenza

Il danno maggiore che minaccia la nostra società per l’avvenire è una specie di fuga in avanti da un punto di vista della riflessione: manca una valutazione adeguata dal prezioso valore conoscitivo dell’esperienza che è un doveroso e logico contributo alla costruzione di una sana visione e concezione realistica della vita e della realtà.

L’esperienza, naturalmente, limita la riflessione all’interno di ciò che esiste e di ciò che accade, ma è temporalità e la spazialità che costituiscono con la corporalità la nostra vita che hanno costitutivamente i loro limiti entro i quali si muove la razionalità e solo attraverso e nel rispetto di questi limiti,, li valica.

L’assalto dei Titani all’Olimpo continua, ma i fulmini di Giove li scaraventa ancora una volta a valle. Il razionalismo ed il neoidealismo hanno qualche difficoltà ad accettare il valore conoscitivo delle esperienze alla ricerca di un trascendimento immediato, della scalata all’Olimpo.

Poiché l’esperienza anziché essere l’involucro, la custodia, la protezione, la traccia della realtà ne sarebbe quasi un nascondiglio, una dimenticanza, una immagine sbiadita ed infedele da correggere e rinverdire adeguandola continuamente ed assiduamente al prototipo ideale.

Esperienza dunque come campo di applicazione del pensato al fare, più che come campo di ricerca e di rivelazione del fatto al pensare.

Cosicchè la novità futuristica, sta pur nelle differenti esternazioni delle attività e delle vita attraverso differenti modalità fattuali il cui cambiamento è scandito dai tempi e dagli spazi, dalle tecniche, dai mezzi e dagli strumenti a disposizione, sta nella capacità di sviluppare un livello adeguato e dignitoso delle perenne sostanziale interiorità della persona umana, gravemente minacciata dalle attrattive delle nuove fattualità, dalle nuove droghe e dalle nuove dipendenze che, quando guidano l’uomo, anziché essere dallo stesso guidate, diventano distruttive.

Non meravigliamoci se il desiderio di dipendenza da "una " droga cresce; cercare la gioia e non trovarla, significa reclinare su una "qualunque" soddisfazione, poiché se la gioia è partecipazione da parte di tutti gli uomini, essa non potrà che essere fuori di ogni limitazione, al di là di ogni esperienza materiale, cioè gioia immateriale.

La questione va al di là del fatto rappresentato dal proibizionismo e dall’antiproibizionismo, o dal fatto relativo alla riduzione del rischio. Questi fatti, queste esperienze richiamano, appunto, il problema connesso con il senso che ha per ognuno di noi la vita.

Non sempre gli errori dell’uomo sono da imputare alla sua malvagità, quanto piuttosto alla sua debolezza di analisi dei propri vissuti ,della propria realtà personale e del proprio destino.

Qui sta l’avvenire, la speranza, l’attesa, fiduciosa nella forza di una ragione che is dipana partendo dagli accadimenti, dai fatti senza raggomitolarsi in se stessa.

 

paolo marcon

 

 

Riferimenti bibliografici

 

Baroni A., Pedagogia fondamentale, La Scuola, Brescia 1954

Bontadini G., Saggio di una metafisica dell’esperienza, Vita e Pensiero, Milano 1938

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Germania ed in Francia, Marzorati, Settimo Milanese 1992

Maritain J., L’educazione al bivio, La Scuola editrice, Brescia 1958

Note di indirizzo del Ministro Luigi Berlinguer del giugno e ottobre 1998

Piaget J., Dove va l’educazione, Armando editore, Roma 1974

Sintesi dei lavori del gruppo Martinotti, ottobre 1997

Suchodolskj B., Trattato di pedagogia generale, Armando editore, Roma 1964

Vanni Rovighi V., Elementi di filosofia, Marzorati, Milano 1950