< LIBRI > < ARTICOLI > < CATALOGHI > < MUSICA > < INTERVISTE > |
||||
Il linguaggio dei simboli in una fiaba cinese Introduzione
Il tentativo di cercare un 'luogo di
senso' alla parola simbolo in una fiaba, come faremo in questo studio,
apparirà ad un primo sguardo, bizzarro. Il simbolo di cui stiamo
seguendo le tracce non è assimilabile ai 'segni' che si incontrano
nella società contemporanea, segni il cui spessore letterale rimanda
esclusivamente a linguaggi elaborati dall'uomo a proprio uso e
consumo. Piuttosto è il caso di riallacciarsi ad una conoscenza della
'funzione simbolica' già ampiamente compresa, in particolare nella
teologia delle maggiori religioni, nei grandi sistemi filosofici, ad
esempio quello platonico, e, recentemente, sperimentata nell'ordito di
un vasto arazzo sul pensiero tradizionale tessuto da Ananda K.
Coomaraswamy, René Guénon, Titus Burckhardt, Henry Corbin e altri.
Ritrovare, come faremo, un concetto della 'funzione
simbolica',
sostanzialmente analogo a quello delle culture 'elevate', all'interno
di "prodotti culturali" provenienti da ambiti che gli
antropologi definiscono comunemente "subalterni", é per
molti aspetti interessante. Questa scoperta tuttavia non è nuova ma
è, ad esempio, ampiamente documentata negli scritti e nelle
'trascrizioni' a noi pervenute dei discorsi del filosofo e mistagogo
Georges Ivanovic Gurdjieff. "Secondo me", annotava Gurdjieff,
"si può perfettamente trasmettere la quintessenza di un'idea
mediante aneddoti e detti popolari"(1).
Seguendo di buon grado il suo modo di vedere abbiamo cercato di
sollevarci da pregiudizi che sollecitano audizioni frettolose e in un
certo senso 'sorde', quasi prive di risonanza interiore, dei
"prodotti orali", come vengono chiamate anche le fiabe, se
rapportate al comune rispetto tributato alle opere scritte a cui
ordinariamente si da più 'udienza' sebbene si leggano con gli occhi.
Delineando in proposito una metafora si può dire che se non si
conoscono le piante si possono scambiare per ornamentali delle
preziose piante medicinali e piuttosto che cogliere la loro vera
natura, ci si intrattiene vanamente sulla bellezza delle loro foglie
ignorando il prezioso rimedio in esse contenuto. Allo stesso modo la
'letteratura' orale può solo incuriosire accidentalmente taluni e
incantare un pò con le sue stranezze, ma con questo velo sugli occhi
è difficile andare al di là della bellezza e del senso letterale,
per entrare appunto, nel mondo simbolico, dove, sempre che lo si
desideri, si può gustare invece di un vago incanto del nettare di
autentica saggezza.
I racconti, le fiabe, i proverbi e le altre forme di
letteratura orale possono giungere da un passato anche molto lontano.
Non sono state trasmesse in forma scritta, bensì da mente a mente, da
una moltitudine di uomini e donne, e quindi recano in sé, come
ricchezza comune, un universo di senso che nel corso del tempo è
stato distillato da tutte le individualità intelligenti che si sono
sentite coinvolte. Qualcosa di simile potrebbe essere accaduto alla
fiaba di tradizione orientale sulla quale intendiamo fissare la nostra
attenzione, fiaba che non ha un autore ma, in un certo senso,
moltissimi autori che è impossibile individuare e chiamare per nome.
Quale maggiore garanzia di imparzialità e oggettività?
Nessuno tramite l'opera del suo ingegno isolato ha cercato di imporsi
agli altri con un punto di vista individuale, quindi non favorisce nè
ostacola un determinato modo di vedere. Piuttosto la fiaba o
qualsivoglia opera letteraria orale nasce in un contesto fluido dove
per le sue qualità intrinseche ha la fortuna di permanere nella
mente, di un vero e proprio lignaggio anonimo di uomini che le
garantiscono di resistere nel tempo.
In questo caso l'opera è giustamente considerata un patrimonio
collettivo e può rappresentare una garanzia di pensiero autentico
trasmesso con un'intenzione altruistica con lo scopo di condividere
una medesima conoscenza che, finché viene tramandata, può sempre
vivere nel qui ed
ora e quindi essere di nuovo consapevolmente presente
nell'esistenza dell'uomo che ne è testimone.
La cultura orale è il prodotto di un passato che è presente
nel narratore ed è quindi viva
nell'attimo dell'ascolto . Questo passato muore quando cessa il gesto
del racconto cioè quando più nessuno se ne interessa. In tal caso
anche i simboli verbali contenuti in questi racconti trascolorano fino
a dissolversi e ciò accade nel momento in cui rimangono senza
relazione e senza nessi con la
coscienza di colui che li fa rivivere e a sua volta li trasmette
pulsanti.
Non faremo un'analisi tematica dei simboli verbali che
compaiono nella fiaba prescelta, poiché, da questo punto di vista, ci
sono fiabe ben più interessanti; piuttosto ci è parso di aver
incontrato una fiaba che rivela una vera e propria concezione del
simbolo, sia della sua funzione che del suo uso e della
sua finalità.
Che cosa significa simbolo?
E' difficile dare una risposta univoca a questa domanda
soprattutto usando poche parole, poiché ci sono molte teorie e molti
modi di vedere anche assai lontani fra loro. Si pensi alle differenze
che separano, ad esempio, la concezione del simbolo in C. S. Peirce e
quella di E. Cassirer, e come più lontane giungono le concezioni di
M. Eliade e di A.K. Coomarswamy; tuttavia non bisogna esitare a
percorrere un sentiero per approssimarsi a un significato
soddisfacente. Da questo punto di vista è bene tenere presente
proprio quella difficoltà di trovare un 'luogo in comune' al
significato del termine simbolo, senza però impedirci di percorrere
una via che conduca a una risposta per quanto parziale e limitata.
In fondo ci si avvicina al 'luogo in comune', di cui il
discorso ha bisogno se non vuole essere un monologo, recando qualcosa da condividere e non a mani vuote.
E poiché siamo venuti all'appuntamento con un significato del
simbolo da porre sul tavolo della mente per discuterne insieme, ci
auguriamo che il senso da noi individuato, in un luogo pur remoto come
una fiaba, ci possa temporaneamente appassionare e ci possa dare anche
qualche risposta che, senza avere la pretesa di illuminarci,
sia capace almeno di lasciarci intravvedere qualcosa.
Non c'è in realtà un oggetto che si chiami simbolo e che sia
tale in confronto a tante altre cose che non lo sono. Ogni oggetto,
naturale o artificiale che sia, reca in sé un senso velato ma
tuttavia presente che va al di là di quello che momentaneamente gli
attribuiamo: senso che rischia, se siamo superficiali, di diventare
provvisorio e proprio per questo facile da dimenticare.
In ognuno degli oggetti che percepiamo risiede in qualche modo
un frammento della saggezza che avvolge ogni manifestazione sensibile.
Ad ogni passo compiuto nel mondo, fosse anche in quello ricostruito
dall'uomo con la scienza delle tecnologie, troveremo simboli, poiché
anche gli oggetti materializzati tramite l'invenzione sono in ogni
caso portatori della coscienza che li ha generati. Non può essere
diversamente per gli oggetti e soggetti - gli esseri generati nel
mondo naturale - che attraverso le porte della percezione (gli occhi,
le orecchie, ecc.) ci recano sensazioni e messaggi di una vasta
coscienza plasmatrice.
In questo senso il simbolo potrebbe essere la coscienza
dell'oggetto più che l'oggetto stesso il quale, potremmo dire, vive
simbolicamente quando lo investiamo di comprensione. E' inevitabile
allora che proprio la saggezza o l'ignoranza impressa nell'oggetto
rendano quest'ultimo il simbolo di qualche cosa. Quindi ciò che
l'oggetto restituisce come significato sembrerebbe pari, nel passaggio
attraverso la nostra sensibilità, a ciò che in esso è stato
consapevolmente o inconsapevolmente disposto.
E' possibile allora incontrare simboli ovunque e ogni cosa è
in grado di parlarci dell'intenzione con cui
è stata forgiata, proprio come la qualità dell'invenzione
espressa in un'arma o in un fiore manifestano, in forma figurata, il
linguaggio mentale dei loro artefici e i diversi sentimenti che li
hanno animati. Infatti l'arma o il fiore sono semplicemente la
cristallizzazione di un processo mentale e quindi a partire dalla loro
esistenza materiale, e dai comportamenti o dalle emozioni suscitate
dal contatto con essi possiamo risalire via via alla fonte e
comprendere intimamente l'artefice, per quanto egli è lontano,
sconosciuto o vissuto prima di noi.
Il simbolo appare dunque connaturato alle cose, non importa se
vive o morte, deperibili o immutabili, umane o animali, concrete o
irreali; e anche in una leggenda o in una fiaba, immateriali come il
pensiero, troveremo simboli che parlano senza avere una forma fisica
tangibile, senza essere per forza immagini. E se da una fiaba si passa
ad un mito si intuisce facilmente quanto il mito sia il ponte che
dobbiamo attraversare con la nostra comprensione simbolica, per
risalire all'archetipo; e, viceversa, l'archetipo troverà nel mito un aspetto
sonoro o visivo che sia apprezzabile dalla mente e dai
sensi dell'uomo (2). In altre parole i miti sono simboli dell'
archetipo e sono il mezzo della loro rivelazione compatibile con le
nostre doti mentali e sensoriali : "grazie ai simboli
il mondo diventa ' trasparente ', suscettibile di 'rivelare la
trascendenza " (3) .
In questo senso la
nozione di 'interfaccia ' di cui si parla tanto nelle realtà virtuali
,vale a dire l' interazione - fusione dell'uomo con un oggetto (la
macchina) o soggetto esterno a lui , non é un'invenzione del XX°
secolo legata ad uno dei più sofisticati strumenti delle nuove
tecnologie , ma un metodo antichissimo con il quale il Cielo (la
metafisica) dialoga con la Terra (la fisica) e trasporta ciò che è
indicibile sul piano del dicibile rendendolo assimilabile al nostro
essere attraverso il luogo della nostra prospettiva di
audizione o di visione, a seconda che siano usati suoni o
immagini.
Ma suoni e immagini hanno spesso confini non facilmente
definibili: attraverso i suoni delle parole incontriamo a volte
immagini, come nei racconti mitici e nelle leggende, mentre nel ritmo
e nelle proporzioni delle immagini ritroviamo i suoni come, ad
esempio, nelle cattedrali romaniche e gotiche (4). Ciò equivale a
dire che udendo vediamo e vedendo ascoltiamo in un intreccio di
sensazioni che se bene orientate, danno un senso alla nostra esistenza
al di là del semplice fatto di vivere per il corpo, così che questo
parli più di quanto non dica ordinariamente di fame, di sete e di
sonno, ma comunichi e apprenda per mezzi simbolici la sua vera natura
(5).
Il simbolo, tramite i sensi, che nel corpo hanno la loro sede,
compone risposte che consentono all'uomo di stabilire, con piena
soddisfazione la propria esistenza all'interno di un campo vasto
quanto il pianeta e il cosmo; mentre al contrario, il consumo di
oggetti privi della loro essenza simbolica, come accade nella società
contemporanea in maniera vistosa, non restituisce quel senso di
espansione dove io e l'altro, il soggetto e l'oggetto non appaiono poi così diversi e
distanti; ed è proprio questa sensazione di omogeneità che dà luogo
ad una piena appartenenza sociale e al prezioso sentimento della
solidarietà, verso il quale il simbolo pare orientato a partire dalla
sua intima struttura (Cfr. 2). Infatti il simbolo è ciò che 'mette
insieme' e riunifica le cose, appianando le dualità e dissolvendole
nella sua enigmatica ma limpida e percorribile comunicazione.
Questa, in sostanza, potrebbe essere una differenza fra simbolo
e segno. Il simbolo anche se può manifestarsi per segni ha il
'potere' di trasformare la mente, l'energia e il corpo degli
individui, mentre il segno è semplicemente un indizio o un
suggerimento che ha una bassa potenzialità d'azione e un'interfaccia
psicosensoriale decisamente limitata.
Per questa e molte altre ragioni sarebbe necessario ritrovare
un 'luogo in comune' alla funzione e al valore del simbolo che vada al
di là delle opinioni personali, in modo che la sua natura sia di
nuovo chiara, la sua funzione visibile e accertabile e i suoi effetti
verificati e compresi.
Il panorama di soggettività nel quale viviamo nasce,
probabilmente, dal 'discorso' che si intraprende; infatti il discorso
non sembra più volto ad afferrare il 'luogo in comune', che in un
certo senso è il 'vero' intorno alle cose, ma ad imporre un proprio
luogo di senso circonfuso di giudizi e di concetti elaborati su
percezioni parziali e su punti di vista individuali .
In questo modo si genera facilmente un mondo pseudo-simbolico
che è il risultato di un'osservazione sentimentale ed estetica di
simboli tradizionali sottoposti ad una reinvenzione continua e quasi
ansiosa che dimentica facilmente il legame del simbolo con
l'archetipo:
"Il simbolo è la manifestazione ideologica del ritmo
mistico della creazione e il grado di veracità attribuito
al simbolo è una espressione del rispetto che l'uomo
è capace di concedere a questo ritmo mistico" (6).
Il mondo pseudo-simbolico si accontenta di simulacri, di
allegorie o di segni caricati di volta in volta di significati diversi
quasi tutti concernenti la sfera della mente ordinaria, poiché
"quando lo spirito si è ritratto" dal simbolo privandolo
del valore intimo che gli conferiva forza e funzione, non resta altro
che "una forma vuota" (7), un'immagine che probabilmente
reca qualche traccia della bellezza che l'aveva circonfusa ma che é
ormai priva di
"verità". Questo è il caso in cui si ha 'la caduta del
valore simbolico', caduta che lascia permanere il simbolo in quanto
sola immagine. La caduta significa proprio la perdita della memoria.
Questa perdita fa si che il lato occulto del simbolo diventi tale e
che si smarrisca la concordanza fra la sostanza
(o apparenza)
del simbolo e la sua essenza (o causa) (Cfr. 5).
L'avvento o la riscoperta di una nuova coscienza simbolica non
consiste verosimilmente nell'inventare, scomporre o miscelare
intellettualmente o esteticamente vecchi simboli che non si
comprendono più, ma nel cercare di raccogliere i segni oggettivi da
sempre esistenti nello spazio dei nostri sensi tramandati dalle
generazioni che ci hanno preceduto, e nel provvedere a penetrare le
stanze segrete e indicibili di cui i simboli sono la manifestazione
silenziosa. Da questo punto di vista è senz'altro vano ritenere, in
un eccesso di orgoglioso modernismo, che i simboli degli archetipi, da
cui dipende la nostra stessa esistenza mondana, siano passati di moda
o che possano mutare improvvisamente la loro natura e funzione. In
altri termini si potrebbe dire che per l’opinione di alcuni alcuni
l'anima dell'uomo può cambiare la sua intima struttura in relazione
agli eventi transitori che in essa si imprimono tramite gli oggetti
dei sensi (forme, suoni, odori ecc.), quando tutt'al più da queste
percezioni, l'anima, rimane impressionata come in sogno e incatenata,
temporaneamente, alla loro condizione illusoria.
Da quest'ultimo punto di vista, che considera l'illusorietà
degli eventi e dei segni che attraversano la mente ordinaria, il
simbolo che dimora nella mente concentrata in uno stato di intensa
attenzione, viene ritenuto immutabile e inalterabile nel tempo:
"una forma simbolica può, non solo restare evidente per
millenni" ma, come
sostiene Coomaraswamy "ritornare ancora in vita dopo
un'interruzione di mille anni poiché: 'la potenza che viene dal mondo
spirituale e che forma uno degli elementi del simbolo, è eterna'"(8).
Su questa valenza transtorica del simbolo s'innesta l'idea che
il simbolo sia l'archetipo vivente nella mente occupata ad indagarlo e
che ne vuole penetrare il senso. Senza l'archetipo il simbolo pare non
sussista; in questo senso Titus Burckhardt può affermare che "la
teoria degli archetipi è alla base di ogni simbologia" (9).
Nello Specchio di pietra di luna , una fiaba tradizionale cinese che
presentiamo in una nuova versione italiana (Cfr. 1) (1O), cercheremo
di leggere la concezione del simbolo che vi si tramanda servendoci di
supporti filosofici appartenenti tanto alla tradizione orientale
quanto a quella occidentale, indifferentemente e in maniera comparata.
Sebbene ad un primo approccio, la materia di questo libro può
sembrare inusuale per lettori che non hanno dimestichezza con gli
studi tradizionali, nutriamo la speranza di essere stati il più
possibile chiari e accessibili. Non ci siamo, infine, sentiti di
stendere una bibliografia sul simbolo e i testi consultati per
confortare questo studio sono indicati, quando é il caso,
direttamente in nota nella loro traduzione italiana. NOTE (1)
G.I.Gurdjieff, Incontri con
uomini straordinari , Milano, 1977, p. 42. (2)
"Il Mondo 'parla' all'uomo e, per comprendere questo linguaggio,
basta conoscere i miti e decifrare i simboli (...) il Mondo non è più
una massa opaca di oggetti arbitrariamente gettati assieme, ma un
Cosmo vivente, articolato e significativo...
il Mondo si rivela come linguaggio. Parla all'uomo con il
proprio modo di essere, con le sue strutture e si suoi ritmi (...). In
un mondo simile, l'uomo non si sente rinchiuso nel suo modo di
esistenza; anch'egli è 'aperto', comunica con il Mondo, perché
utilizza lo stesso linguaggio: il simbolo."(M.Eliade, Mito
e realtà, Roma, 1985, pp. 175-6). (3)
M.Eliade, Il sacro e il profano,
Torino, 1984, p.83. (4) M.
Schneider, Le pietre che
cantano, Milano, 19 (5)
Nella tradizione del buddhismo tantrico, ad esempio, si entra in
contatto con la vera natura del 'corpo', vale a dire si riconosce la
sua condizione di vaso che contiene la divinità, attraverso una
iniziazione che lo riguarda eseguita con mezzi simbolici specifici (Naropa,
Kalacakra, Sekoddesa,
10-11-12, tr. it., Milano, l994). (6) M.
Schneider, Gli animali
simbolici, Milano, 1984, p.3. (7)
R.Guénon, Simboli della Scienza
sacra, Milano, 1987, p. 159. (8)
A.K.Coomaraswamy, "La Vergine che allatta San Bernardo", in Archivio
dell'Unicorno, n.3, ott.-dic. 1980, pp. 11-2. (9) T.
Burckhardt, Scienza moderna e
saggezza tradizionale, Torino, 1968, p. 31. |
||||
|
||||