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VIRGILIO E CORITO TARQUINIA

Capitolo II

 T A R Q U I N I A   E   I L   F I U M E   M I G N O N E                           

Ampliato e ristrutturato dal n. 56  di  Atti e Memorie della Accademia Nazionale Virgiliana di Mantova                                                   

 

1.                                 Antecedenti mitostorici dell'Eneide

 Abbiamo visto che Virgilio, nell'Eneide, narra che, dopo la  distruzione di Troia, l'oracolo di Apollo e gli dèi Penati ordinarono ad Enea, che era un discendente di Dardano, di ricondurre i superstiti troiani all'antiqua mater della stirpe, cioè in Italia, nell'etrusca sede di Corito donde era partito il capostipite Dardano.

 Al particolare ritorno di Enea a Corito, ordinato dagli dèi ai Troiani, fanno riscontro, in sede di mitologia previrgiliana, alcune tradizioni greche filoetrusche secondo le quali Enea andò ad approdare in Etruria alla foce del Linceo (il Mignone presso Tarquinia ? Vedi cap. XIX, 1-6).

 Qui arriverà pure Ulisse che, dopo aver chiesto perdono ad Enea, unirà il proprio esercito al suo. Ad Enea si uniranno anche i fratelli Tarconte e Tirreno; e tutti insieme abiteranno in Etruria. Poi, Enea, dall'Etruria, andrà a colonizzare il Lazio vetus[1].

 Per Alcimo Siculo (IV-III sec.a.C.), la moglie di Enea si chiamava Tirrenia (= Etruria). Da lei nacque Romolo, da Romolo nacque Alba, e da Alba nacque Romo che fondò Roma[2].

 Secondo Plutarco (I sec.d.C.), Enea sposò una figlia di Telefo (perciò sorella di Tarconte e Tirreno) di nome Roma che diede il nome alla città di Roma[3]. La tradizione doveva esser molto antica perché ci riporta al tempo in cui ancora si credeva che la fondazione di Roma fosse di poco posteriore alla rovina di Troia.

 Gli Excerpta latina barbari parlavano di un Silvio Tarquinio, figlio di Proca, e                     padre di Cidenus ( da *Ceteus ?), fra i re di Alba, discendenti di Enea[4]. La fonte della notizia è tarda, ma trova un sorprendente parallelo in Promatione (V sec.a.C.?) secondo cui i gemelli fondatori di Roma nacquero in casa di un crudele re di Alba chiamato Tarchezio (= Tarquinio)[5]. Nella tradizione romana, il ruolo di Tarquinio o Tarchezio fu assunto dal crudele Amulio, figlio di Proca, tiranno di Alba.

 Sul piano archeologico, la maggior parte delle pitture vascolari greche (VI-V sec.a.C.) raffiguranti Enea che fugge da Troia, è stata trovata in Etruria, nella regione compresa fra Vulci, Tarquinia e Cere.

 Gli Etruschi, a loro volta, svilupparono una propria produzione  di anelli, vasi  e statuette votive raffiguranti Enea che lascia Troia. I manufatti etruschi sono contemporanei o di poco posteriori a quelli greci; e, in un caso, sono addirittura più antichi (VII sec. a.c.) e più significativi. Su un vaso di Vulci, ma soprattutto su un anello etrusco di origine ignota (Tarquinia?), Enea trasferisce nella nuova terra, assieme alla propria famiglia, il cesto contenente i sacra di Troia (vedi cap. VIII, 10).

  Nella versione latina l'approdo di Enea fu spostato dalla foce del fiume etrusco Linceo (il Mignone?), alla spiaggia di Laurento. 

 Virgilio utilizzò un compromesso: sostituì la foce del Linceo con la riva sinistra di quella del <<Tevere etrusco>>. Anche questo fiume, infatti, poteva essere definito etrusco  perché nasceva in Etruria, e scorreva sul confine con le terre  latine.

 Ma era una soluzione contraddittoria, perché lo stesso poeta, in precedenza, aveva narrato che Apollo e gli dèi Penati avevano ingiunto ad Enea di tornare a Corito (che era in Etruria, e non nel Lazio vetus).

 Più coerentemente, Orazio, dopo la morte di Virgilio, canterà, nel Carme Secolare, che i Troiani, per volere degli dèi, erano andati ad approdare in Etruria (vedi cap. VIII, 22).

 Tutti gli argomenti di questo paragrafo verranno ripresi e sviluppati nel capitolo su La leggenda troiana in Etruria.

 

2.                    Tarquinia e le insegne del potere sulla Lega Etrusca

 

 Secondo Virgilio, i Troiani  giungono alla foce del Tevere nella settima estate dopo la distruzione di Troia. Qui pongono  il campo, ma incorrono nella inimicizia dei Latini e dei Rutuli che vorrebbero respingerli. Enea, perciò, si reca a chiedere aiuto militare ad Evandro, re di una colonia arcade che era venuta a stanziarsi dalla Grecia sul colle Palatino (il luogo dove sorgerà Roma).

 Quando l'eroe giunge sul posto trova che Evandro sta celebrando la festa in onore di Ercole. Lo stesso re l’aveva istituita (i Romani la ricorderanno il 12 agosto di ogni anno).

 Il giorno dopo, il re Evandro <<indossa calzari etruschi>>[6], va incontro ad Enea e gli fa presente che

 

 le proprie forze militari sono esigue, ma che può ugualmente porlo a capo di un grande esercito.

 Gli abitanti della città etrusca di Agilla (oggi Cerveteri), spiega Evandro, hanno scacciato il loro crudele tiranno Mezenzio. Questi si è rifugiato, nel Lazio vetus, presso i Rutuli. Perciò tutte le città etrusche si sono riunite, sotto il comando di Tarconte, e minacciano i Rutuli di guerra immediata.

 Tuttavia, dice Evandro, da un responso di aruspicina, il re Tarconte (capo supremo degli Etruschi confederati) ha appreso che gli dèi non concedono a nessun italico di comandare un popolo così grande, e che il potere deve essere affidato ad un condottiero straniero. Allora, continua Evandro, <<Lo stesso Tarconte, mi ha inviato gli ambasciatori e la corona del regno con lo scettro, e ora mi affida le insegne perché mi rechi nel suo accampamento ad assumere il comando degli Etruschi>>[7].

 

 Evandro dice poi di non  poter accettare l'incarico  a causa della propria vecchiaia, ma di voler delegare Enea; e lo invita a recarsi da Tarconte, in Etruria, per assumere il comando degli Etruschi.

 E mentre Enea è assorto, in ascolto, con gli occhi fissi al suolo, sua madre, la dea Venere, manda dall'alto un segnale positivo. Infatti, narra Virgilio,

 

 un fulmine lanciato a cielo sereno vibrò con fragore, e ad un tratto sembrò che tutto crollasse e che nell'aria muggisse uno squillo di tromba etrusca. Enea ed Evandro sollevano gli occhi, e vedono che nel cielo risplendono e risuonano le armi che Venere aveva promesso al figlio in caso di guerra[8].

 

 Tuttavia, la dea consegnerà le armi ad Enea solo quando questi si troverà, in Etruria, presso Tarconte (vedi cap.IV, 2).

Per gli Etruschi, un fulmine che cadeva a cielo sereno era un evento positivo; e lo squillo di tromba che muggiva nel cielo era uno dei portenti che annunciavano la fine di un secolo della loro storia e l'inizio di un altro (vedi cap.IV, 3).

***

Il passaggio del potere e delle insegne con la corona d'oro e lo scettro da Tarconte ad Evandro, e da questi ad Enea, anticipa, in chiave "mitica", quanto si diceva fosse accaduto un tempo a Tarquinio Prisco, re di Roma.

Quanto ai fatti accaduti, in proposito, a Tarquinio, abbiamo due tradizioni.

 

a) Secondo  la corrente versione romana,

 

il mercante greco Demarato emigrò da Corinto a Tarquinia insieme al pittore Ekphantos e ai coronoplastici Eucheir , Diapos ed Eugammos[9], e vi introdusse l’uso dell’alfabeto[10]. Qui, sposò una nobildonna dalla quale ebbe due figli[11]. Il maggiore di questi, di nome Lucumone, poiché in patria veniva emarginato dai pubblici incarichi per esser figlio di un esule mercante, emigrò a Roma dove mutò il proprio nome in Tarquinio, e divenne re[12].

 Al termine d’una sua guerra vittoriosa contro gli Etruschi, questi gli riconobbero il primato su tutta l’Etruria, ed inviarono a Roma gli <<ambasciatori>> per conferirgli <<i fregi stessi del comando con i quali gli Etruschi adornano i propri monarchi, la corona d'oro e il trono eburneo>>[13].

 

b) Esisteva anche una diversa tradizione che conosciamo attraverso i seguenti passi di Strabone (60 a.C.-20 d.C.).

 

<<Demarato, uno dei membri della famiglia che aveva regnato a Corinto, fuggendo dalle sedizioni che là ebbero luogo, portò con sé dalla sua patria una tale ricchezza in Etruria, che non solo assunse al regno della città (Tarquinia) che lo aveva accolto, ma suo figlio divenne anche re dei Romani>>.

<<Dopo la fondazione di Roma, venne Demarato portando con sé gente da Corinto. I Tarquiniesi lo accolsero amichevolmente, e da una donna del paese gli nacque Lucumone. Questi, fattosi amico di Anco Marcio re dei Romani, gli successe nel regno, e cambiò il suo nome in quello di Lucio Tarquinio Prisco. Da lui, e prima dal padre, era stata molto abbellita l'Etruria. Il padre, grazie alla quantità di artisti che lo avevano seguito da Corinto; il figlio con il mandarvi da Roma quanto vi abbisognasse. Si dice pure che da Tarquinia[14]  furono trasportati a Roma gli ornamenti dei trionfi, dei consoli e, in generale, di tutte le magistrature, così pure i fasci, le scuri, le trombe, i sacrifici, la divinazione e la musica di cui fanno uso pubblico i Romani>>[15].

 

   Attraverso Elio Donato (IV sec.) veniamo a sapere che

 

 molti ritenevano che Virgilio, nel nominare le insegne del potere inviate da Tarconte ad Evandro, intendeva alludere a quei fasci <<che furono trasportati dagli Etruschi a Roma (qui ad Romanos a Tuscis translati sunt)>>[16].

 

 Donato non dice se si precisasse che i Fasci ai quali il poeta aveva alluso fossero stati portati a Roma da Tarquinia, né se il destinatario fosse stato Tarquinio Prisco. Virgilio, addirittura, sostituisce Tarquinio prima con Evandro,  poi con Enea.

 Tuttavia, per il poeta, Evandro, similmente a Tarquinio,

a) indossa calzari etruschi,

b) è re del luogo dove sorgerà Roma,

c) brucia su un rogo le armi dei vinti Sabini[17],

d) riceve dagli ambasciatori di Tarconte le insegne regali del potere federale etrusco.

   Si consideri che il mittente delle insegne è Tarconte (= colui che viene da Tarquinia)[18], notoriamente associato a Tarquinia non solo per esserne l’eponimo fondatore, ma anche per altri rapporti mitostorici quali il mito di Tagete e la supremazia sulla Confederazione Etrusca. L'intera vicenda sembra, dunque, riecheggiare la tradizione secondo la quale, durante il regno di Tarquinio, <<furono trasportate da Tarquinia a Roma>> i fasci e le insegne etrusche del potere.

 L’uso dei fasci littori, a Tarquinia, è documentato dalle pitture parietali della Tomba Bruschi, della Tomba del Convegno e della Tomba del Tifone. Durante gli scavi, poi, condotti da M. Bonghi Jovino nell’area della città, sono state rinvenute le insegne del potere: una tromba-lituo, uno scudo ed una scure ripiegati insieme in una fossa votiva (vedi cap.XXI, 5). Il deposito risale al primo quarto del VII sec.a.C. 

Gli argomenti di questo paragrafo verranno ripresi e sviluppati nel capitolo su Le insegne Tarquiniesi del potere federale etrusco. Fermiamoci però un momento sui rapporti mitostorici di Tarquinia con Tarconte, Tagete, la Lega Etrusca e i Tarquini.

 

              

 3.               Tarquinia,Tarconte,Tagete, la Lega Etrusca e i Tarquini

 

 Ne La divinazione, Cicerone dice che,

 

 <<nel territorio di Tarquinia, mentre si lavorava la terra, e un solco veniva impresso più profondamente, un certo Tagete balzò su all'improvviso, e rivolse la parola all'aratore>>.

 

 Secondo lo scoliasta di Lucano questo aratore era il flamine diale e si chiamava Tarquinio[19].

 Secondo Giovanni Lido si trattava di Tarconte[20].

 Si noti l'equivalenza semantica e funzionale delle due forme nominali Tarconte e Tarquinio.

 

 <<Questo Tagete>>, continua Cicerone, <<a quanto si legge nei libri degli Etruschi, aveva l'aspetto di un bambino, ma la sapienza di un vecchio. Poiché il contadino, rimasto stupito da questa apparizione, levò un alto grido di meraviglia, ci fu un accorrere in massa (concursus); e, in breve tempo, tutta l'Etruria convenne in quel luogo (totamque brevi tempore in eum locum Etruriam convenisse). Allora Tagete parlò lungamente dinanzi alla folla di coloro che lo ascoltavano. Questi stettero a sentire attentamente ogni sua parola e la misero per iscritto. Inoltre, l'intero discorso fu quello in cui venne contenuta la scienza dell'aruspicina>>[21].

 

 Il mito è esplicitamente ambientato a Tarquinia; e il grido emesso dall'aratore al verificarsi del miracolo della nascita di Tagete, è così potente  da provocare un accorrere in massa di gente, tale che in breve l'intera Etruria è sul luogo. Fuor di metafora, il raggio di azione del grido dell'aratore, che si stende da Tarquinia per l'intera Etruria, è significativo del prestigio che questa città aveva sulla federazione, mentre il concorso di tutta la nazione sul luogo donde era partito il richiamo riflette la capacità aggregante che Tarquinia aveva nei riguardi della confederazione.

 Nell'Eneide, Tarconte figura a capo della Lega Etrusca ed è l'esecutore della volontà degli dèi. Perciò, se da una attenta lettura del poema e dei suoi antichi commentatori, dovesse risultare che egli aveva radunato a Tarquinia l'esercito e la flotta federali, sarebbe non solo conforme al rapporto mitostorico che intercorre fra lui, Tagete, Tarquinia e la Lega, ma sarebbe pure in armonia con il ruolo che egli assume nel poema.

 Anche Massimo Pallottino conviene che

 

 <<presso il campo di Tarconte [...] dovrebbe immaginarsi Tarquinia>>[22].

 

 

                     

 4.                                   Il fiume Mignone-Caeritis

 

 Enea, incitato dalle parole di Evandro, parte a cavallo dal Palatino (Roma), e si reca <<presso le spiagge del re etrusco>> Tarconte[23]. Qui, vicino a un fiume anonimo, lo stesso re aveva riunito l'esercito della Lega.

 Il poeta racconta il viaggio nei seguenti termini.

 

 <<Già la schiera usciva a cavallo dalle porte aperte, tra i primi Enea e il fido Acate, poi gli altri capi troiani [...]. Stanno pavide sulle mura le madri, e seguono con gli occhi la nube polverosa e le squadre fulgenti di bronzo. Quelli procedono armati fra i cespugli, dove la strada è più breve; sale il clamore, e in schiera serrata gli zoccoli con suono quadruplice percuotono il morbido suolo.

Nei pressi del fresco fiume Caeritis si stende una grande radura (lucus) sacra per il culto che anche da altri luoghi (late sacer) vi si veniva in antico a praticare. Intorno, le colline formano una concava valle, e rinchiudono il bosco cingendolo con scuri abeti. E' fama che quegli stessi Pelasgi, che un giorno occuparono per primi le terre Latine, consacrarono a Silvano, dio dei campi e del bestiame, sia il bosco che il giorno di festa. Non lontano da qui, Tarconte e gli Etruschi tenevano gli accampamenti, sicuri per la natura dei luoghi; e dall'alto colle già tutto l'esercito poteva esser visto, ed era attendato in vasti campi. Qui il padre Enea e la gioventù guerriera giungono e, stanchi, si curano dei cavalli e del proprio corpo>>[24].

 

 Dunque, quando Enea giunge presso Tarconte trova che questi aveva riunito e accampato l'esercito federale etrusco presso il lucus del dio Silvano, nei campi (o sulla sommità pianeggiante di un'altura), lungo la riva di un fiume anonimo che Virgilio definisce Caeritis.

 Caeritis potrebbe significare fiume che si chiama <<Cere/Cerito>>, ma anche <<di  Cerio>> (vedi cap.XIX, 10), oppure <<di Cere>>.

 In nota a questo passo, Elio Donato (IV sec.) sosteneva che Caeritis significava <<di Cere>>, cioè della stessa città che Virgilio in precedenza (vedi par. 2) aveva chiamato Agilla (oggi Cerveteri), e che il nome del fiume era  Mignone.

 Il poeta, spiegava Donato,

 

 <<o tacque il nome del fiume, oppure, come alcuni vogliono, si chiama Mignone (Amnis autem aut taquit nomen, aut, ut quidam volunt, Minio dicitur>>.                

 

Più avanti, Donato specificava, inoltre, che

 

 <<Il Mignone è il fiume della Tuscia che si trova a nord di Centumcellae (Est Minio flumen Tusciae ultra Centumcellae)>>,

 

 cioè fra il porto di Centumcellae (Oggi Cvitavecchia) e Tarquinia, dove in effetti sfocia[25].

 Egli diceva, poi, che dalle parole del poeta

 

 rimaneva dubbio se l'espressione <<esser visti dal colle (de colle videri>> dovesse essere riferita ai Troiani o agli Etruschi che erano sul colle[26].

 

  In conclusione, Donato sosteneva che Virgilio aveva inteso che Tarconte s’era accampato con l’esercito federale su un colle presso la foce del Mignone.

 Non possediamo l’opera originale di Elio Donato, bensì i numerosi frammenti inseriti nel Commento all’Eneide di Servio (V sec). Le due opere sono anche un compendio, per noi, della precedente, perduta esegetica virgiliana di epoca romana.

 Un secolo dopo, Servio ribadiva che in ogni caso

 

Virgilio <<intendeva riferirsi al Mignone (Amnis autem Minio dicit)>>.

 

 Quanto poi alla natura del luogo dove Tarconte aveva posto il campo dell'esercito federale etrusco, Servio rilevava:

 

 << TENEVANO L'ACCAMPAMENTO SICURO PER IL LUOGO, cioè munitissimo sia per opere che per natura. Ma sappiamo che gli accampamenti non possono essere muniti per natura, a meno che non si trovino sui colli: ragion per cui, se sono sui monti, Virgilio come può dire "che erano accampati nei larghi campi"? Affinché, dunque, non ci sia contrasto, si intenda quel che ancora oggi vediamo e leggiamo (quod hodieque videmus et legimus), cioè che la natura dei colli fosse tale da avere sulla sommità la pianura dov'erano gli accampamenti di Tarconte>>[27].

 

 Anche Servio, dunque, come già Donato, sosteneva che Tarconte aveva riunito l’esercito federale etrusco sulla sommità pianeggiante di un altipiano presso la foce del Mignone, ed invocava il fatto che ancora ai suoi tempi non solo esistevano fonti scritte che lo confermavano (quod hodique ...legimus), ma che la tradizione poteva esser controllata  recandosi sul luogo (quod hodieque videmus), come lui stesso doveva aver fatto.

Noi non sappiamo quali siano state le fonti alle quali Servio si riferiva.  Sappiamo solo che già Elio Donato aveva sostenuto che <<gli Etruschi si trovavano su  un colle>> (vedi sopra).

 E’ ovvio, comunque, che gli antichi Romani potevano recarsi di persona nella regione della foce del Mignone per visitare il luogo dove Tarconte, secondo una tradizione scritta,

a)           aveva riunito l'esercito della Lega Etrusca,

b)           aveva inviato sul Palatino di Roma le insegne del potere,

c)    e, come vedremo, aveva ricevuto Enea e gli aveva  ceduto il comando della Lega.

Evidentemente, la sicurezza con la quale Servio dichiarava che il fiume  che Virgilio aveva definito Caeritis era il Mignone gli veniva dalla  personale  conoscenza  del luogo in cui si diceva che Tarconte avesse posto il campo, e dalla lettura  di quelle stesse fonti che ne descrivevano la natura.

 Tutto quel che abbiamo esposto vuol anche dire che, in sede di esegetica virgiliana di epoca romana, la denominazione di fiume Caeritis, utilizzata dal poeta, non veniva riferita ad altro fiume che non fosse il Mignone.     

 Riprenderemo la discussione al cap. XIX, 8-10 dove tratteremo della diversità  tra il fiume Caeritis (Mignone) di Virgilio-Donato-Servio, ed il fosso Caeretanus  (Vaccina/ Rio Fiume) di Plinio. In quella occasione, vedremo anche come Virgilio potrebbe aver denominato Caeritis il fiume Mignone non in rapporto alla città di Cere, ma alla cittadina di *Caerium (gr. Cairon) che verosimilmente si trovava nella valle del fiume.

***

  Il Mignone nasce dal Poggio di Coccia (m. 612 s.l.m.), vicino ai Monti Sabatini, a nord-ovest dell'antico Lago Sabatino (oggi Bracciano) dal quale prese il nome la Tribù Sabatina. A questa Tribù apparteneva anche Mantova patria di Virgilio. Si comprende la risonanza emotiva che il nome del Mignone poteva avere nel poeta.

 Scendendo verso il Mar Tirreno, il fiume passa a circa venti chilometri dalla antica Agilla-Cere (Cerveteri), poi piega a settentrione da dove aggira i Monti di Tolfa, entra nella valle che si trova fra questi monti e le colline di Tarquinia (dalle quali riceve il fosso Ranchese[28]), e va a sboccare nel mare a metà strada fra Tarquinia e Civitavecchia (Centumcellae).

 Durante il periodo etrusco, il corso del fiume delimitava in molti tratti il confine fra lo Stato Ceretano e quello Tarquiniese; ed in più punti entrava a far parte ora dell'uno ora dell'altro territorio, giustificando così la denominazione virgiliana di <<fiume  "Caeritis">> (vedi cap. XXIII). D'altronde Virgilio si comportava allo stesso modo con il Tevere: benché i Romani considerassero questo fiume il più romano dei corsi d'acqua, Virgilio lo chiamò spesso <<fiume Etrusco>>[29] perché nasceva in Etruria e segnava il confine fra questa ed il Lazio vetus.

***

 Durante il sedicesimo secolo, il Mignone era ancora qualificato Cerito. Lo testimonia Leandro Alberti (1479-1543) nella Descrittione di tutta Italia.   

 Egli, dopo aver parlato delle varie etimologie del nome di Corneto (Tarquinia), aggiunge che

 

alcuni <<dicono che traesse quello nome di Corneto da Corito padre di Dardano e di Giaso>>.

Dice poi che <<seguitando il lito della marina incontrasi nel fiume Mognone da Virgilio nominato Minio quando dice nel 10: qui sunt Minionis in Arvis>>. Dice, inoltre, che il fiume si chiamò così in memoria di Minosse, re di Creta. Infine, abbandona le reminiscenze letterarie e le presunzioni mitologiche, e ci informa che il Mignone <<esce de i vicini monti, e dirittamente scendendo quivi mette capo alla marina; anche si nomina Cerito per uscire de i monti vicini a i Ceriti; di poi vedesi Città Vecchia>>[30].

                                                                      

Vedi pure l’atlante di Gerolamo Bellarmati (metà XV sec.) dove dinanzi alla foce del Mignone è scritto <<Ceritus et Minius flumen>> (vedi fig. 5 a pag. ..).

 

 

5.                                          La via Tarquiniese

 

  Sia la carta geografica detta Tabula Peutingeriana, sia l’antico Itinerario di Antonino, entrambi di epoca romana, riportavano un percorso stradale che da Tarquinia conduceva  direttamente a Roma[31]. Si tratta della cosiddetta Via Tarquiniese[32]. Questa, in epoca etrusco-romana, partiva da Tarquinia, scavalcava il fiume Mignone attraverso il ponte di Bernascone (del quale rimangono tracce di epoca romana), passava per Aquae Apollinaris, raggiungeva la valle del Tevere e quindi Roma (vedi figg. 6 a pag. .. , e 27 a pag. .. ).

 Potrebbe non essere occasionale che a Roma, ancora nel 1366, un luogo fuori Porta Turrionis (oggi Porta Cavalleggeri) donde usciva quella parte della via Aurelia nova che, verosimilmente, ripeteva l'ultimo tratto della più antica Via Tarquiniese, era chiamato Terquinio[33] che è la forma medioevale del nome di Tarquinia[34].

 Enea, nell'immaginario poetico di Virgilio, agiva in epoca arcaica, e si era messo in viaggio <<dove la strada è più breve>>[35]. Il poeta, dunque, per far giungere Enea al Mignone e presentarsi a Tarconte, non dovette fargli percorrere la tarda via Aurelia, che del resto non toccava direttamente Tarquinia, ma l'antica strada etrusca che congiungeva Roma a questa città.

 

 

6.                   IL luco del dio Silvano e il “Fanum Voltumnae”  

 

 Quanto al lucus del dio Silvano (etr. Selvans), localizzato presso il Mignone da Elio Donato e da Servio, abbiamo i seguenti reperti archeologici che testimoniano l'esistenza del culto del dio a Tarquinia.

 

 a) Una statuetta bronzea di fanciullo con dedica a Silvano in lingua etrusca (IV-III sec.a.C.)[36]. Secondo alcuni, il fanciullo rappresenterebbe il mitico Tagete o, comunque, la sua figura rientrerebbe nel canone iconografico risalente al divino fanciullo[37].

 b) La iscrizione in etrusco del nome del dio presso una delle porte della antica città[38]. In proposito, Cristina Chiaramonti Treré osserva che la presenza di Silvano, il dio <<protagonista dell'intervento divino posto all'origine mitica della terminatio etrusca, che sembra aver avuto il suo testo sacro in un Liber terra iuris Etruriae attribuito alla rivelazione di Tagete, evidenzia un rapporto religioso pregnante con l'ambito della delimitazione confinaria e della partizione dello spazio>>. La studiosa conclude che <<si profila la possibilità che l'iscrizione menzionata rifletta la presenza di un complesso sacrale posto in una zona nevralgica al confine tra l'abitato ed il santuario in agro Tarquiniensi dell'Ara della Regina, luogo della mitica nascita di Tagete>>[39].

 c) Una statuetta votiva in bronzo con dedica a Selvans Canzate (III sec.a.C.) che il Rix, per ragioni linguistiche, attribuisce a Tarquinia[40].

 

 A Cere, almeno finora, non esiste una documentazione del culto di Silvano (etr. Selvans) nella sua connotazione etrusca. Abbiamo solo una tarda iscrizione latina riferita ad un Silvano confuso con Marte (Silvanus Mars)[41], che non possiede certamente le caratteristiche dell'etrusco-pelasgico <<dio dei campi e del bestiame>> a cui si riferiva  Virgilio[42].

 Servio testimonia che

 

 il lucus di questo dio era in un bosco là dove le pianure del Mignone, circondate dai monti, formano una concava valle. Egli spiega pure che Virgilio intendeva che, fin dal tempo dei padri, il bosco era stato  <<non solo sacro ai cittadini, ma pure ai circonvicini>>[43].

 

 Si trattava, dunque, di un luogo di riunione.

 Silvano era anche colui che proteggeva i confini, e che veniva invocato per sancire i patti e i giuramenti[44].

 Forse, non è un caso che vicino al lucus di questo dio, Tarconte riunisca l'esercito della Lega Etrusca, invii sul Palatino (Roma) le insegne del potere etrusco, stipuli il patto di alleanza con Enea e gli deleghi il comando dell'esercito federale[45]. Probabilmente, in epoca arcaica, il lucus di Silvano e i colli turistici dalla sommità pianeggiante di cui parlavano le fonti scritte menzionate da Servio, svolgevano la stessa funzione che più tardi verrà attribuita al Fanum Voltumnae.

E’ ovvio che il luogo assume questa funzione solo se si accetta che si trovava lungo il Mignone e, quindi, presso Tarquinia. 

 Il Pallottino osserva:

 

<<Se le notizie relative alla supremazia di uno degli antichi sovrani delle città etrusche non sono del tutto prive di fondamento, si può pensare ad una qualche forma particolare di stretti  rapporti fra i centri dell'Etruria meridionale in età arcaica, sotto l'egemonia di una o dell'altra città. La grande preminenza che ha Tarquinia nelle leggende primitive dell'Etruria può far pensare ad un periodo di egemonia tarquiniese. Più tardi questa antica unità potrebbe aver assunto il carattere di confederazione religiosa, con feste ed adunanze nazionali nel Santuario di Voltumna >>[46].

 

Tarquinia era, infatti, la città detentrice delle insegne del potere federale etrusco quando queste, come si diceva, furono  trasferite a Roma e conferite a Tarquinio Prisco.

 E' anche interessante che, in una elegia di Properzio, il dio Voltumno dichiari di  poter assumere la forma di Fauno[47]. Questi era un dio latino assimilato a Silvano.

***

Durante il Rinascimento, l'Alberti, il Biondo, il Sansuino e il Volterrano sostenevano che Corneto (Tarquinia) era stata in antico una città sacra al dio Pan. Questi era l'equivalente greco del Silvano etrusco-romano, e con questo veniva spesso assimilato e confuso. Perciò, la città, pur identificata con Corito, venne confusa con Castrum Inui che vuol dire città del dio Pan. Tra gli altri, Leandro Alberti (1479-1552) riferiva che

 

 <<dicono che traesse quel nome di Corneto da Corito padre di Dardano e di Giano...Fu finalmente detto Corneto dagli antichi Castrum Inui...Inuo chiamato Pan, ovvero Fauno, ab inuendo per la sua sozza libidine>>.

 

 E' ragionevole supporre  che il ricordo del culto di Silvano-Fauno-Pan si sia protratto in vecchie tradizioni medioevali, e che gli eruditi del Rinascimento abbiano cercato di conciliare quel culto con il nome della città. 

 Con l'avvento del Cristianesimo, la zampa caprina e le corna, caratteristiche  di Silvano/Pan e dei Fauni, vennero attribuire al diavolo. Nella valle del Mignone, al culto di Silvano subentrò la credenza in un mostro serpentiforme ucciso dal beato Senzio e gettato nel fiume[48]. 

 

 

 7.                                             Conclusione

 

 L'identificazione del virgiliano fiume Caeritis con il Mignone, prodotta dagli antichi commenti all'Eneide di epoca romana, appare correttamente formulata sia per la  denominazione che per la posizione geografica. Non si tratta di una notizia occasionale, ma di una tradizione (ut quidam volunt) più antica di Donato (IV sec.) che la tramanda, e di Servio (V sec.) che la conferma; e viene presentata come l'unico possibile riconoscimento del virgiliano fiume presso il quale  Tarconte aveva radunato l'esercito federale etrusco e ne aveva ceduto il comando prima ad Evandro (re del Palatino di Roma) e poi ad Enea (riprenderemo la discussione al cap. XIX, 8). 

 Sebbene Virgilio, per ragioni di confine, avesse chiamato Caeritis il fiume presso il quale Enea si presenta a Tarconte, gli antichi commentatori virgiliani di epoca romana sostenevano che il poeta non intendeva localizzare l'evento vicino Cere, ma nella regione attorno alla foce del Mignone; e, a questo fine, presentavano l’esistenza di una tadizione scritta e la possibilità di verificarla sul luogo.

 D'altronde, il poeta non poteva riferirsi meglio che a Tarquinia (città di Tarconte per eccellenza) sia come luogo dove il re etrusco aveva riunito l'esercito della Lega, sia come luogo donde questi (un Tarquinio) aveva inviato sul Palatino di Roma  le insegne etrusche del potere federale. Il poeta, senza fare il nome della città, poteva richiamarla alla mente del lettore colto attraverso il riferimento alle sue tradizioni. Spiegheremo più avanti le ragioni di questa strategia (vedi cap. V, 1).

 

 

 

                          

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[1] Licofrone, Alessandra, vv. 1225, sgg. , con scòli e parafrasi.

[2] In Festo, De significatione verborum, s.v. Roma.

[3] Plutarco, Vita di Romolo, I.

[4] Vedi la tavola sinottica dei re di Alba in Conrad Treiber, Zur Kritik Des Eusebios, <<Hermes>>, XXIX, 1894, pag.124, sgg.

[5] In Plutarco, op. cit. , II.

[6] Virgilio, Eneide, VIII, 458.

[7] Virgilio, op. cit. , VIII, 478-507,

[8] Virgilio, op. cit. , VIII, 520-535.

[9] Plinio, Storia naturale, XXXV, 16; 152.

[10] Tacito, Annali, XI, 14.

[11] Cicerone, De Repubblica, III, 19.

[12] Tito Livio, Storia di Roma, I, 34; Dionigi di Alicarnaso, Antichità romane, V, 2,2.

[13] Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, V, 2,3; Le medesime notizie sono riferite, con alcune varianti in  Floro, Epitome, I, 1,4; Cassio Dione, Epitome di Zonara, VII, 8.

[14] Strabone fa il nome di Tarquinia una volta al singolare, ed una volta al plurale, conformemente a due delle varie forme greche con le quali veniva chiamata la città.

[15] Strabone, Geografia, VIII, 6,20; V, 2,2.

[16] Servio Danielino, All'Eneide, VIII, 506.

[17] Evandro, rimpiangendo la sua giovinezza, ricorda di aver vinto i Sabini a Preneste, e di aver arso i loro scudi (Virgilio, op. cit. , VIII, 560-562). In proposito, Servio rileva che Tito Livio (Storia di Roma, I, 37,3) raccontava che Tarquinio Prisco incendiò su un rogo in onore di Vulcano gli scudi dei vinti Sabini (All'Eneide, VIII,562).

[18] M.Cristofani, in Dizionario della civiltà etrusca, Firenze, Giunti-Martello, 1985, s.v., Tarconte.

[19] Commento Bernense a Lucano, I, 636.

[20] Che egli tuttavia distingue dal personaggio dell'Eneide perché collocato in epoca diversa. In Giovanni Lido, infatti, Tarconte appartiene al tempo della venuta dei Lidi in Italia, mentre, in Virgilio, come già in Licofrone, la figura di Tarconte viene fatta scendere al tempo di Enea. Ma si tratta di due adattamenti della originaria figura dell'eroe in epoche diverse. 

[21] Cicerone, La divinazione, II, 50.

[22] M. Pallottino, in Enciclopedia Virgiliana, Treccani, Roma 1989, II, s.v. Etruschi.

[23]  Virgilio, op. cit. , VIII, 556: <<tyrrheni ad litora regis>>.

[24] Virgilio, op. cit. , VIII, 585-608:

 <<Iamque adeo exierat portis equitatus apertis /  Aeneas inter primos et fidus Achates / inde alii Troiae proceres [...]. /  Stant pavidae in muris matres oculisque secuntur / pulveream nubem et fulgentis aere catervas. / Olli per dumos, qua proxuma meta viarum / armati tendunt; it clamor, et agmine facto  / quadropedante putrem sonito quatit ungula campum. / Est ingens gelidus lucus prope Caeritis amnem, / religione patrum late sacer; undique colles / inclusere cavi et nigra nemus abiete cingunt. / Silvano fama est veteres sacrasse Pelasgos, / arvorum pecorisque deo, lucumque diemque, / qui primi finis aliquando habuere Latinos. / Haut procul hinc Tarcho et Tyrrheni tuta tenebant / castra locis celsoque omnis de colle videri / iam poterat legio et latis tendebat in arvis. / Huc pater Aeneas et bello lecta iuventus / succedunt fessique et equos et corpora curant>>.

[25] Servio dice che il vero nome del Caeritis amnis virgiliano è Mignone, e ricorda che, in altra occasione, Virgilio dice che <<coloro che abitano a Caerete sono nei campi del Mignone (Amnis autem Minio dicit, ut "qui Caerete (cod.F: Certe) domo qui sunt Minionis in arvis")>>. Elio Donato aggiunge che <<Altri ritenevano che Caerete era il monte dal quale aveva preso il nome il centro abitato (Alii Caerete (cod.F:Certe) montem putabant ob hoc oppidum dictum)>> (Servio Danielino, op. cit., VIII, 597).

 Elio Donato spiega poi che <<il Mignone è il fiume della Tuscia che si trova a nord di Centocelle (Fluvius est Minio Tusciae ultra Centucellas)>> (Servio Danielino, op. cit., VIII, 597; X, 183) cioè tra Civitavecchia (Centumcellae) e Tarquinia, dove in effetti sfocia.

 Anche Strabone definisce <<scalo marittimo dei "Ceretani">> il porto di Rapino (*Rasino?) che si trovava alla foce del fiume (vedi cap. XVIII, 9).

[26] Servio Danielino, op. cit. , VIII, 604: <<DE COLLE VIDERI incertum, utrum ipsa in colle agens, an ab his qui de colle prospiciunt>>. Sopra de colle, il codice T aggiunge: <<sive ipsa legio in colle agens sive ab his qui de colle prospiciebant>>.

[27] Servio, op. cit. , VIII, 603: <<TARCHO ET TYRRHENI TUTA TENEBAT CASTRA LOCIS, hoc est et industria et natura munitissima. Sed novimus castra per naturam munita esse non posse nisi in collibus fuerint: quod si in montibus sunt quomodo procedit "latis tendebat in arvis"? Ne sit ergo contrarium, intellegamus quod hodieque videmus et legimus, hanc collium fuisse naturam, ut planities esset in summo, in qua inierat castra Tarchonis. Quamquam multi velint "celsoque ommis de colle videri iam poterat legio" ad Aeneam referre, ut intellegamus venientes in collibus fuisse Troianos, castra vero Etrusca in campis. Quod si velimus accipere, quemadmodum procedit "tuta tenebat castra locis"? Id est per naturam locorum>>.

[28] In antico detto Cancrese e Crancrese (Cfr. etr. Kranku = Lince, gatto, felino).

[29] Virgilio, op. cit. , VIII, 473; X, 199; XI, 316; Georgiche. I, 499.

[30] Leandro Alberti, Descrittione di tutta Italia, p.36.   L'Alberti ricorda che il Mignone è nominato nell'Eneide quando Virgilio dice che <<coloro che abitano Caerete vivono nei campi del Mignone>>; ma  diversamente da Servio, egli non lo identifica con il virgiliano fiume Caeritis. Così la sua affermazione che il fiume si chiama anche Cerito è una vera testimonianza geografica prodotta fuori da possibili suggestioni serviane.

[31] A. Solari, Topografia storica dell'Etruria, I, Pisa, Spoerri, 1918, pagg. 101-106; A. Zifferero, Città e campagna in Etruria meridionale: indagine nell'entroterra di Cere, in Cere e il suo territorio, a cura di A. Maffei e F. Nastasi, Roma, Libreria dello Stato, 1990, pag. 65; E. A. Stanco, Ricerche sulla topografia dell'Etruria, <<Mélanges de l'Ecole Française de Rome>>, CVIII, 1996, 1, pagg. 83-98.

[32] A. Solari, loc. cit. ; A. Zifferero, loc. cit. .

[33] Archivio di S. Maria in Trastevere, Cod. Vat. Lat. 8051, I, 49 DC; G. Tomassetti, La campagna romana antica, medioevale e moderna, II (Via Appia, Ardeatina ed Aurelia), Firenze, Olschki, 1979, pag. 568.

[34] Riportiamo alcuni casi. Si ha menzione di una cella di S. Columbani, sul fiume Fiora, in terra pusecta in Terquini (= in Tarquinia) in un documento dell'809 (Schneider, Die Reichsverwaltung in Toscana, 1914, pag. 134); nella Bolla inviata, nell'852, dal papa Leone IV al vescovo di Tuscania, è menzionata la Plebem Sanctae Mariae quae posita est in Terquinio (= in Tarquinia) (Migne, Innocentii III PP. Regestorum lib. X, pag. 1236); Eduard Winkelmann, Acta Imperii inedita seculi XIII et XIV, I, 1964, doc. 61 (16/8/1210), pag. 57: <<Cellam sancti Savini in districtu castri Terquinii, ecclesiam sancti Stephani positam in Terquinii>>; Margarita Cornetana, c. 108, anno 1303: <<Castra Terqueni>>; Registrum Cleri Cornetani, doc. n.15, c. 158,  27-4-1348: <<Panellus quondam Oddonis de dominis de Terquinio>>; doc. XXVI, c. 9, 22-6-1348: <<Checconus quondam Putii de Terquinio>>; doc. LVII, c. 90, 10-8-1374: <<Nobilis vir Geptius quondam Putii de dominis de Terquineo>>; doc n. LXIV, c.48, 19-3-1377, doc.LXXXVI, c.79, 30-5-1385: <<Terquineo>>; doc.LXXVII, c. 70, 3-3-1382: <<Geptio Teuli de Terquinio>>.

[35] Virgilio, op. cit. , VIII, 594.

[36] C.I.E., 5549, (III sec.a.C.).

[37] Francesco Roncalli, in  Santuari d'Etruria, catalogo della mostra, a cura di G. Colonna, Milano, Electa, 1985, pag. 37, n. 1. 24.

[38] M. Cataldi, Nuova testimonianza di culto sulla Civita di Tarquinia, in Tyrrhenoi Philotecnoi, pag. 62 segg.; M. Rendelli, Selvans Tularia,  <<Studi Etruschi>>, LIX, 1993, pag. 164.

[39] C. Chiaramonti Treré, Considerazioni sulla stratigrafia ed ipotesi interpretative, in M. Bonghi Jovino e Cristina Chiaramonti Treré, Tarquinia, Roma, L'Erma di Bretschneider, 1997, pag. 107.

[40] Ibidem.

[41] CIL, XI, 76O2.

[42] Contra: Gianluca Chiadini, Selvans, <<Studi Etruschi>>, LXI, 1996, pag. 161 e segg., il quale, tuttavia, non considera e, quindi, forse non sa  che  Elio Donato e Servio non solo affermavano che il virgiliano fiume Caeritis non era presso Cere, ma oltre Centumcellae (Civitavecchia), e si chiamava Mignone, ma sapevano che   il lucus del virgiliano dio Silvano era presso questo fiume.

[43] Servio, op. cit. , VIII, 598: <<LATE SACER, hoc est non solum colebatur a civibus, sed etiam ab accolis>>.

[44] I.Krauskoff, in Dizionario della civiltà etrusca, Giunti Martello, Firenze, 1985, s.v. Selvans.

[45] Virgilio, op. cit. , X, 174.

[46] M. Pallottino, Etruscologia, Milano, Hoepli, 1957, pag. 174.

[47] Properzio, Elegie, VI, 2, v. 34.

[48] Acta Santorum: 6 Maggio,  Venezia, 1688, pag. 27.