Da Virgilio e Cori(n)to-Tarquinia, STAS e Regione Lazio, 1998

Alberto Palmucci

L A    L E G G E N D A    T R O I A N A    I N    E T R U R I A

                              

                                                 Ripreso, ampliato e ristrutturato dal n. 60 di

                                                                    Atti e Memorie della

                                               Accademia Nazionale Virgiliana di Mantova

                                                                     e dai nn. 24 e 31 di                

                                                                              Aufidus 

 

 1.                                                      Caco

 Il riferimento mitostorico al più antico contatto fra l'Etruria e la Troade si ha in un racconto di Gellio, dove si dice che

 

 il re Marsia, dalla Frigia, inviò Caco ed il frigio Megales come ambasciatori al tirreno (= etrusco) Tarconte che li imprigionò. Caco fuggì ed andò ad occupare <<con truppe più forti il regno intorno a Volturno (nome etrusco della città di Capua) e alla Campania; ma, avendo osato attaccare anche ciò che era stato concesso al diritto degli Arcadi>> che abitavano sul colle Palatino, nei pressi del Tevere, fu ucciso da Ercole. Megales trovò rifugio presso i Sabini ai quali insegnò l'arte degli àuguri[1].

 

 Parallelamente, Elio Donato riferisce che

 

 alcuni Troiani, <<che il re Marsia aveva inviato dalla Frigia durante il regno di Fauno sul Lazio, insegnarono in Italia la disciplina degli àuguri>>[2].

 

 Nella saga riferita da Gellio e da Donato, non si tratta di quel Tarconte che, dopo la caduta di Troia, riceve Enea in Etruria. Costui, secondo Licofrone, era figlio di Telefo, a sua volta figlio di Ercole. Noi siamo, invece, dinanzi ad un altro personaggio: un Tarconte (= Tarquinio) la cui esistenza risale ad un paio di generazioni prima ed è contemporanea a quella di Fauno e di Ercole.

 La fonte della notizia dovrebbe esser greca perché Tarconte non è definito etrusco, ma tirreno. La leggenda originaria, tuttavia, doveva essere etrusca. Sui graffiti di uno specchio di Bolsena, si vede Caco, sorvegliato dai fratelli Aulo e Celio Vibenna, nell'atto di profetare sotto l'ispirazione di un dio (Silvano?). Intanto,  Artile (= il piccolo Arunte) scrive le sue profezie[3].

 Le figure di Aulo e Celio Vibenna ci fanno, però, scendere al tempo delle intrecciate vicende dei due fratelli con Tarquinio Prisco; e suffragano la nostra proposta di identificare la figura di questo Tarconte con quella di un Tarquinio.

 

 

2.                                         Incendi di navi greche

 

 Prima che Virgilio cantasse il ritorno di Enea, diverse leggende avevano fatto giungere in Italia vari gruppi di profughi troiani e di reduci greci.

 Secondo quello che fu il ciclo più lontano dall'Eneide, piccole flotte di navi con a bordo reduci greci e prigioniere troiane furono sospinte dai venti fin sulle coste dell'Italia. Una flotta approdò nel Bruzio (oggi Calabria), presso Capo Lacinio[4] o Latinio[5]. Il promontorio aveva preso il nome dall'eponimo re Lacinio[6] o Latino[7] che aveva una figlia di nome Laurina. Questa flotta, sbarcata a Lacinio/Latinio (presso la futura Crotone) portava Astioche[8], sorella di Priamo re di Troia, e moglie di Telefo.

 Un'altra flotta, recante reduci greci e prigioniere troiane, giunse nella terra degli Opici sul Mar Tirreno[9], e un'altra a Pisa in Etruria[10]. Altri Greci, su navi recanti donne troiane, fra cui una prigioniera di nome Roma, furono sbattuti dalle tempeste nelle regioni d'Italia; e, dopo aver risalito il Tevere, fondarono nell'entroterra una città cui misero il nome della fanciulla troiana[11].

 Per ognuna delle  località menzionate, si narrava che le donne troiane, onde evitare che i loro padroni, una volta tornati in patria, le consegnassero alle proprie mogli come schiave, incendiarono le navi; così i Greci furono costretti a rimanere sul luogo e a fondarvi nuove libere comunità.   

 La troiana Astioche, moglie di Telefo, fu l'istigatrice dell'incendio calabro, mentre la troiana Roma non solo istigò le compagne ad incendiar le navi ancorate nel Tevere, ma diede il nome alla città di Roma. Forse, non è senza motivo che un'altra tradizione diceva che una figlia di Telefo (quindi sorella di Tarconte), di nome Roma, sposa di Enea o di Ascanio, aveva dato il nome alla città[12].

 Si può supporre che il nascere delle sopra menzionate versioni di arrivi di navi greche con donne troiane sulla spiaggia di Latinio, in territorio opico, ed alla foce del Tevere, in territorio latino, siano state favorite dalla confusione generatasi tra la nomenclatura d'ambiente calabro (Lacinio, Latinio, Latino e Laurina) e di quella di ambiente laziale (Latino, Laurento, Lavinio e Lavinia), anche se la tradizione latina, una volta instauratasi, ha certamente influenzato di rimando la nomenclatura degli sviluppi della tradizione calabra.

 Diversamente, la versione dell'incendio delle navi greche da parte di donne troiane avvenuto a Pisa, in Etruria, non sembra essere il duplicato di  precedenti tradizioni. Era avvenuto che, dopo la distruzione di Troia, molte prigioniere troiane fossero assegnate come bottino di guerra ad Epeo che era stato il costruttore del famoso cavallo. Costui le imbarcò sulle proprie navi per portarsele in patria. Ma le tempeste spinsero la flotta fin sulle coste d'Etruria. Qui le donne troiane incendiarono le navi; ed Epeo si vide costretto a restare sul luogo dove fondò una città che chiamò Pisa dal nome della sua patria greca.

                     

 

 3.                                         Incendi di navi troiane

 

 In alcune varianti non si parlava di flotte greche, ma di navi recanti i Troiani scampati alla rovina della loro città.

 Plutarco diceva d'aver desunto da Aristotele la leggenda secondo la quale

 

 una flottiglia di navi di profughi troiani, <<portata dai venti, arrivò fino in Etruria, e si fermò  alla foce del Tevere>>. Qui, una donna di nome Roma, stanca di peregrinare, incendiò le navi costringendo i Troiani a restare sul posto dove fondarono una città alla quale diedero il nome della donna incendiaria[13].

 

 Stavolta i Troiani, dopo aver toccato l'Etruria vanno nel Lazio vetus e fondano Roma. Non è ancora presente il personaggio di Enea.

  Si noti l'identità di funzione di questa donna di nome Roma con Astioche, moglie di Telefo, e, soprattutto, con Roma figlia di Telefo (vedi par. 1).

 Queste leggende sono testimoniate da autori greci e latini dei primi secoli della nostra era, ma dovevano rifarsi a versioni molto antiche perché non conoscono la figura di Enea. Infatti, in un primo tempo, Enea fu fatto emigrare nella penisola Calcidica, dove avrebbe fondato Eneia, e vi sarebbe morto[14]. Solo più tardi fu fatto arrivare in Etruria.

 E' significativo che anche in Etruria esisteva (o si riteneva che esistesse) una  città chiamata Eneia[15] (vedi par. 9).

 Si narrava che un'altra Eneia, fondata da Romo, figlio di Enea, si fosse trovata sopra il colle Gianicolo[16], sulla strada che dall'Etruria conduceva a Roma[17]. Potrebbe trattarsi, però, della stessa città che si diceva fosse etrusca.

 Più largamente documentato, per la corrispondenza con la tradizione romana, sarà l'incendio di navi troiane guidate da Enea. Lo troviamo in Sicilia[18], in Italia[19], a Gaeta[20] e alla foce del Tevere[21].

              

 

 4.                                  Fondazioni della città di Corito

 

 Quanto alla fondazione della città di Corito, antiqua mater etrusca dei Troiani, abbiamo tre versioni tramandateci da Elio Donato in sede di commento all’Eneide.

 

 a) <<Dardano, messo in ritirata dagli Aborigeni durante una battaglia equestre, perse l'elmo. Allora, per recuperarlo, resistette e rincuorò i suoi finché pervenne alla vittoria; così, in ricordo dell'avvenimento risoltosi favorevolmente, fondò una città sullo stesso luogo dove aveva perduto l'elmo, e la chiamò Corito anche perché,  in Greco, elmo si dice koris>>.

 b) <<Oppure Corito è il nome  del monte sul quale fu sepolto Corito padre di Dardano>>.

 c) <<Altri tramandano che Corito fu fondata da Corito figlio di Paride e di Enone>>[22].

 

  Donato non cita la fonte di queste leggende.

  Esaminiamole singolarmente.

                        

  A) Dardano fonda Corito

 

 La prima tradizione presenta Dardano come fondatore della città di Corito.  

 Notiamo che c'è omonimia fra questo Dardano e un altro Dardano, detto anche Corito (figlio di Paride e di Elena), a sua volta omonimo dell'altro Corito (figlio di Paride e di Enone) fondatore anch’egli della città di Corito (vedi cap. VI, 4; 5; e il presente par. alla lettera C).

 Il gioco delle omonimie deve aver avuto un  peso intercambiabile nella struttura delle tre leggende, anche se Elio Donato le presenta come alternative.

 Osserviamo, poi, che il fatto che Donato presenti il nome dato da Dardano alla città di Corito come coniato sulla radice greca di coris-corithos (= elmo) non implica  che Dardano, in questa leggenda, debba essere considerato un immigrato greco che lotta contro gli abitanti del luogo, come vorrebbero alcuni. Prova ne sia che, in un'altra leggenda, si favoleggiava di un certo Corito (gr. Corythos) nativo dell'Iberia, dal nome del quale, con etimologia greca impropria per il nome di un iberico, veniva fatto derivare quello di corys-corythos (= Elmo)[23].

 C'è, piuttosto, da considerare quel che racconta Dionigi di Alicarnasso.

 

 i Pelasgi, esuli dalla Tessaglia, approdarono ad una delle bocche del Po, chiamata Spineto, e, dopo aver fondato la città di Spina, varcarono gli Appennini e giunsero fino a Cotila, nel Lazio vetus, dove strinsero amicizia con gli Aborigeni abitanti del luogo. Da qui, risalirono la penisola; e, con  le  loro sole forze occuparono,  Crotone, città umbra. Poi, dice Dionigi, <<si impossessarono anche di molte altre città, ed aiutarono con molto impegno gli Aborigeni nella guerra che conducevano contro i Siculi, finché riuscirono a cacciarli dalla loro patria. Insieme Pelasgi ed Aborigeni occuparono molte città che prima erano abitate dai Siculi o da questi costruite, fra cui la città di Cere, allora chiamata Agilla, Pisa, Saturnia, Alsio e qualche altra che era stata tolta ai Siculi dai Tirreni nel corso dei tempi>>[24].

 

 Non si conoscono altre presunte sortite di Aborigeni contro questi territori. perciò la leggenda secondo la quale la città di Corito fu fondata da Dardano, in Etruria, dopo una vittoria riportata sugli Aborigeni, dovrebbe inquadrarsi nell'ambito della mitica guerra che Aborigeni e Pelasgi portarono contro i Siculi dell'Etruria meridionale costiera, segnatamente dentro il triangolo geografico Alsio-Saturnia-Pisa.

 Secondo Filisto di Siracusa, i Siculi erano un popolo di stirpe ligure, autoctono dell'Italia centrale[25]. Essi vennero spesso assimilati e confusi con i Sicani (anche questi sovente ritenuti autoctoni) al punto che Giovanni Lido poté sostenere che gli Etruschi erano un popolo di Sicani colonizzati dai Lidi di Tirreno.

 Bisogna, poi, ricordare che, secondo la tradizione raccolta ad Atene da Pausania, i Pelasgi immigrati nella città erano di origine Sicula (vedi cap. X, 5).

 

  B) Corito è il monte dove è sepolto il re Corito                         

 

 In questa seconda tradizione, Elio Donato dice che <<Corito è il nome del monte sul quale fu sepolto Corito padre di Dardano>>.

 E' la versione più vicina a Virgilio.

 Nell'Eneide, il re Latino ricorda ai Troiani che Dardano nacque nella <<etrusca sede di Corito (sede tyrrhena Corythi)>>[26]. Elio Donato commenta: <<Corito è il nome della città e del monte, cosiddetti da Corito, come alcuni ritengono, padre di Dardano, lì sepolto>>[27].

 Nel proseguo del poema, mentre Enea si trova nell’accampamento di Tarconte, presso il fiume Mignone, il poeta dirà che l'eroe <<è penetrato fin dentro la lontana città di Corito (extremas Corythi penetravit ad urbes)>>[28]. E Donato specifica: <<"di Corito" vuol dire del monte della Tuscia, il quale, come abbiamo detto (III,170; VII, 209), prese il nome dal re Corito>>[29].

 Con ciò Donato, come abbiamo visto in altre parti del nostro lavoro, permette di localizzare il monte Corito e l'omonima città nei pressi della foce del Mignone, dove è Tarquinia (vedi cap. III, 2).                 

 

 C) La città di Corito fondata da Corito figlio di Paride e di Enone                        

 

 Per la terza versione, la città di Corito fu fondata da Corito figlio di Paride e di Enone.  

 Ellanico di Lesbo, Cefalone Gergizio e Conone narrano  che 

 

 <<Paride, dopo aver amato la ninfa Enone, dalla quale aveva avuto il figlio Corito, sedusse Elena moglie del greco Menelao re di Sparta, e la condusse a Troia presso di sé. Allora Enone gli inviò in casa il figlio Corito perché, essendo più bello del padre, seducesse Elena. Ma Paride, sorpresolo nel letto di Elena, l’uccise>>[30].

 

 Secondo un'altra versione,

 

 Corito era invece figlio di Paride e di Elena (vedi capp. I, 2; VI, 4; 5)[31], ed era chiamato anche Dardano [32].

 

 Una diversa tradizione narrava pure che

 

  le città greche, per riparare l'oltraggio del rapimento di Elena, si riunirono e s'accinsero a portar la guerra a Troia; allora Enone, per vendicarsi di Paride, inviò presso l'esercito greco il figlio Corito perché ne guidasse la flotta fino alla spiaggia di Troia, che era difficile da identificare[33].

 

Licofrone lo definisce

 

<<traditore della patria>>[34].

 

 Ora, in alcune versioni della saga di Enea, ed in quella di Antenore, i Greci concessero ai due troiani di condurre in salvo parte della popolazione per ricambiarli del fatto che essi avevano favorito l'occupazione di Troia. Analogamente, i Greci poterono concedere al figlio di Paride il medesimo beneficio in ricordo del fatto che questi aveva guidato la loro flotta fino alla spiaggia di Troia.  Ed è a questo Corito che  la tradizione dovette affidare il compito di fondare, in Etruria, la città omonima.

 Secondo un’altra leggenda, fu Telefo, figlio adottivo di un re arcade di nome Corito, a guidare la flotta greca fino alla spiaggia di Troia. E si diceva che anche lui avesse condotto una colonia  in Italia dopo la guerra. Si diceva pure che fosse il padre di Tarconte, fondatore di Tarquinia, e di Roma sposa di Enea.

 Elemento comune ad ogni personaggio conduttore di una migrazione microasiatica in Italia, avvenuta a seguito della rovina di Troia, è un precedente favore fornito ai Greci.

  La doppia tradizione secondo cui l'etrusca città di Corito risulta fondata una volta da Corito, e un'altra da Dardano figlio di Corito dimostra l'intercambiabilità del nome di Corito (figlio di Paride e di Enone) con quello di Corito-Dardano (figlio di Paride e di Elena). 

 Si noti anche il parallelismo fra Corito, figlio di Paride, fondatore dell'omonima etrusca città di Corito (Tarquinia), e Tarconte, nipote di Corito (re dell'Arcadia), fondatore di Tarquinia (Corito).

 La tradizione che Corito era stata fondata dal figlio di Paride, non era quella di Virgilio. Per il poeta, la città era molto più antica se da lei era venuto Dardano capostipite dei Troiani.

Ma proprio la discordanza con Virgilio fa pensare che non si tratti di un'illazione nata nell'ambito dei commenti all'Eneide, ma di una tradizione antica.

 Dionigi di Alicarnasso diceva che esistevano scrittori che ponevano personaggi diversi da Enea, o da suo figlio Ascanio, a capo della spedizione troiana in Italia[35].

 Ci troviamo, verosimilmente, dinanzi ai frammenti di un’antica leggenda nella quale non Enea ma Corito, figlio di Paride e di Enone, dopo la rovina di Troia, conduce, o riconduce, in Etruria i superstiti Troiani.

 Sappiamo però che si diceva che Paride avesse avuto anche da Elena un figlio di nome Corito,  e che questo Corito fosse chiamato Dardano. E’, dunque, probabile che noi ci troviamo dinanzi alla genesi della doppia leggenda della fondazione della città di Corito sia da parte di Corito sia da parte di Dardano (vedi pure cap. I, 2). 

 Rileviamo che nella leggenda della fondazione di Corito, come in quella della fondazione di Pisa, i Troiani non emigrano nel Lazio vetus bensì in Etruria. Inoltre, manca la figura di Enea.

                                                             ***

  Il poeta romano Ovidio (43 a.C.-17 d.C.), ne Le metamorfosi, parla di Paride, ma non lo nomina; lo  indica solo come <<padre di Corito>>[36].

  Nella mitologia greca, la figura di Paride era celeberrima, ma quella di suo figlio Corito era poco conosciuta. Se Ovidio, invece di dire Paride, usò la metafora <<padre di Corito>>, è perché, in Italia, dopo la morte di Virgilio, il nome di uno dei presunti fondatori della virgiliana città doveva aver assunto particolari risonanze emotive.

           

 

 5.                                                    Telefo

 

 Diamo una sintesi delle leggende e dei miti che riguardavano Telefo.

 Aleo, re di Tegea, in Arcadia, sposò Neera dalla quale ebbe una figlia di nome Auge (= la luminosa). L'oracolo di Delfo, poi, l'avvertì che un figlio nato da Auge avrebbe ucciso gli zii materni. Egli, allora, per impedire che la figlia procreasse, la nominò sacerdotessa di Atena. Ercole, tuttavia, la violentò. Aleo, accortosi che la figlia era rimasta incinta, incaricò Nauplio di affogarla. Nauplio partì con Auge verso il mare. Nell'attraversare il monte Partenio, la ragazza ebbe le doglie, s'appartò nel bosco, partorì, abbandonò il figlio, e tornò da Nauplio. Questi, tuttavia, non la affogò, ma la vendette a certi mercanti che a loro volta la portarono in Misia dove la cedettero al re Teutrante che la adottò.

 Il fanciullo che Auge aveva abbandonato sul monte Partenio, fu dapprima allattato da una cerva, poi fu trovato da alcuni pastori che lo portarono al loro padrone di nome Corito, re di uno dei demi di ­Tegea. Corito l'adottò e lo chiamò Telefo (da gr. elafos = cerva). Secondo un'altra versione fu Ercole stesso a ritrovarlo[37].

 Quando Telefo raggiunse l'età virile, consultò l'oracolo di Delfo per aver notizia della madre. Gli fu risposto di recarsi in Misia dal re Teutrante.

 Telefo, giunto in Misia, liberò Teutrante dalle aggressioni dell'argonauta Ida. In compenso Teutrante diede in moglie a Telefo la propria figlia adottiva Auge, che era poi la stessa madre dello sposo.

 Durante la notte di nozze gli dèi evitarono l'incesto facendo apparire un enorme serpente  tra il figlio e la madre.

 Secondo altre versioni, Teutrante aveva sposato Auge, e diede in moglie a Telefo la propria figlia Argiope avuta da altre nozze.

 Alcuni dicono che Telefo sposò Astioche, sorella di Priamo re di Troia, oppure Laodice figlia del medesimo re.

 Secondo altri, la moglie di Telefo si chiamava Hiera (la santa), ed era più bella di Elena.

  Da costei, Telefo ebbe Euripilo (= quello dal portone largo) che condusse in soccorso di Troia un esercito di Cetei, popolo di probabile origine ittita[38].

 Figli di Telefo e Hiera furono anche Tarconte, eponimo fondatore di Tarquinia, e Tirreno  che diede il nome alla Tirrenia (Etruria).

 Alla morte di Teutrante, Telefo gli successe al trono della Misia.

 Quando poi i Greci, che portavano la guerra a Troia, sbarcarono per errore nella vicina Misia, Telefo e Hiera li respinsero; ma Hiera morì combattendo, e Telefo rimase ferito dalla lancia di Achille.

 Poiché col tempo la ferita non guariva, Telefo consultò l'oracolo di Apollo a Patara, nella Licia. Gli fu risposto che solo l'arma che l'aveva ferito poteva guarirlo. Allora l'eroe si recò da Agamennone, re dei Greci riuniti; e, afferrato nella culla il figlio del re, minacciò di ucciderelo. Agamennone gli disse che lo avrebbe aiutato se egli, in compenso, avesse promesso di  guidare la flotta greca fin sulla spiaggia di Troia. Poiché Telefo acconsentì, Achille, su richiesta di Agamennone, gli guarì la piaga cospargendola con la polvere della ruggine della propria lancia. Telefo, guarito, mantenne la promessa e guidò la flotta greca fino alla spiaggia di Troia.  

 Abbiamo già notato l'identità di funzione, ed il gioco delle omonimie fra Telefo (nato in Arcadia fra i pastori del re Corito che l'adottò) e Corito, figlio di Paride. Ambedue guidano la flotta greca fino alla spiaggia di Troia. Inoltre, Telefo è padre di Tarconte, fondatore di Tarquinia (Corito); a sua volta Corito, figlio di Paride, è fondatore di Corito (Tarquinia).

 Telefo, dopo aver condotto a Troia la flotta greca, tornò in patria e morì. Gli successe al trono il figlio Euripilo. Questi, come già abbiamo detto, portò un esercito di Cetei in soccorso di Troia.

 Ma Telefo, con il soprannome di Latino, riappare in Italia proprio a capo di una colonia di Cetei che egli, dal proprio soprannome, chiama Latini[39]. Egli ebbe poi un figlio di nome Latino che ne ereditò il trono[40], ed una figlia di nome Roma che sposò Enea e diede il nome alla città di Roma[41]. Anche Dionigi di Alicarnasso  sosteneva che Latino, padre di Lavinia (nome con il quale la tradizione romana conosceva la sposa di Enea) non era figlio di Fauno, come volevano i Romani, ma figlio di Ercole (come Telefo)[42].

 Verosimilmente Telefo-Latino, o suo figlio Latino, deve esser riconosciuto in quel Latino che, secondo Callia di Siracusa (IV sec.a.C.) venne in Italia insieme ad una schiera di Troiani e a sua moglie Roma. Egli, al fine di conquistare il territorio (ut Italia sit potitus), vi fondò una città che chiamò Roma dal nome della propria sposa[43].

 Secondo lo stesso Callia, nella versione fornitaci da Dionigi di Alicarnasso[44], i fondatori di Roma furono i fratelli Romos e Romolo, figli di Roma e di Latino re degli Aborigeni.

 In entrambe le versioni, questa donna di nome Roma sposa di Latino (Telefo?) ricorda l'altra Roma figlia di Telefo e moglie di Enea, anch'ella eponima di Roma; e ancora ricorda l'altra Roma, parimenti eponima di Roma, che incendia le navi troiane che, dopo esser giunte in Etruria, erano approdate alla foce del Tevere; e infine rimanda ad Astioche, moglie di Telefo, che incendia le navi dei Greci sulla spiaggia di Lacinio (o Latinio) presso Crotone in Calabria (vedi par. 2).

  Telefo aveva pure un figlio di nome Ciparisso che, secondo i Greci, viveva nell'isola di Ceo o in quella di Creta, ed era stato amato dal dio Apollo che l'aveva tramutato in cipresso. Questo mito, attratto dalla figura di Telefo, fu riambientato in Italia dove Ciparisso fu amato dal dio etrusco-italico Silvano[45]. Virgilio ci descrive il dio che trascina un giovane cipresso sradicato[46].

 Si riteneva infine che Telefo fosse il fondatore dell'etrusca Capua, in Campania, come s'evince dalle monete della città sulle quali si raffigurava la cerva che allattava l'infante Telefo.

 La stessa scena si ritrova in alcune espressioni artistiche dell'Etruria propria[47].

  Poiché questo mito era legato alla vicenda di Telefo nato e abbandonato fra i pastori di Corito, e poi adottato dall'eponimo re, si può  arguire che il mito greco era conosciuto in Italia o che, addirittura, vi fosse stato riambientato proprio come quello di Ciparisso. Il fatto poté non restare estraneo alla genesi del mito di Corito re dell'omonima città etrusca, e padre putativo di Dardano.

 Viceversa, l'esistenza in Etruria di una città chiamata Corito potrebbe da un lato aver attratto la figura di Corito figlio di Paride, e dall'altro potrebbe aver favorito la riambientazione dall'Arcadia in Italia del personaggio di Corito, padre adottivo di Telefo, che conseguentemente diventò padre putativo di Dardano.

 Quanto ai figli Tarconte e Tirreno, che Telefo ebbe da Hiera, vedi in questo capitolo il  paragrafo Tarconte fra i Troiani.

 

                      

 6.                La più antica raffigurazione della fuga da Troia                

 

 La più antica raffigurazione di un personaggio che s'allontana da Troia occupata dai Greci si trova su un vaso etrusco del cosiddetto "Pittore della Sfinge Barbuta"(VII sec. a.C.)[48]. Non si sa dove il vaso sia stato rinvenuto. Delle altre sessantasei opere attribuite allo stesso autore, solo ventinove hanno provenienza certa: 16 da Vulci e dal suo territorio (2 Poggio Buco, 1 Ischia di Castro, 1 Pitigliano) , 4 da Cere, 3 da Orvieto, 2 da Blera (nel Tarquiniese)[49]. Il pittore, dunque, operava nell'Etruria meridionale, probabilmente a Vulci dove aveva una larga cerchia di acquirenti; e da questa zona, dove, come vedremo, la leggenda della fuga da Troia era particolarmente sentita, dovrebbe provenire il vaso di cui parliamo.

 In esso, a partire dalla sinistra, si possono osservare le seguenti rappresentazioni (fig. ...).

 

 a) Il famoso cavallo di Troia dal quale scendono alcuni guerrieri greci.

 b) Uno scontro fra opliti.

 c) Un carro ed un cavaliere.

 d) Tre troiani, con lo sguardo rivolto a sinistra, osservano le scene dalle mura merlate di Troia.

 e) Un uomo con bastone da viaggiatore, e una donna, accompagnati da due bambini si allontanano dalla città dirigendosi nella direzione opposta al luogo del combattimento.

 Il bastone da viaggiatore dovrebbe significare che il percorso da compiere è lungo.  Potrebbe  trattarsi di Telefo con la moglie ed i figli Tarconte e Tirreno, oppure di Enea con la moglie e i due figli, o di Corito, figlio di Paride e di Enone. 

                

 

 7.                                         Enea in Stesicoro

 

 La documentazione, dove appare  con certezza la persona di Enea, è più tarda. La troviamo nel poeta greco Stesicoro (fine VII- prima metà VI se.a.C.), il quale, nel poema Iliuperside connette per la prima volta, a noi conosciuta, la figura di Enea con l'Italia.

 Presso Bovillae, è stata trovata la cosiddetta Tabula Iliaca Capitolina (ca.15 a.C.), recante la scritta greca <<ILIOY PERSIS KATA STESIXORON (= distruzione di Troia secondo Stesicoro)>>. Enea vi appare in tre scene (fig. ...).

 

 1) Mentre riceve i Penati.

 2) Fuori la porta Scea, mentre porta sulle spalle il padre Anchise con la cista contenente i Penati, accompagnato dal figlio Ascanio, dal dio Ermes, e dalla moglie.

 3) Mentre parte per Italia (apairon eis ten Esperian) insieme a Miseno.

 

 Non è facile stabilire quel che in queste scene risalga realmente a Stesicoro da quanto  possano avervi aggiunto i Romani della fine del I sec. a.C.. Per esempio, si è molto discusso se la presenza di Miseno debba intendersi in relazione all'omonimo capo Miseno, dove costui, secondo Virgilio, sarebbe morto[50]. Il redattore della Tabula potrebbe aver recepito dall’Eneide la sua figura.

 Nicola Horsfall rileva che Dionigi di Alicarnasso non menziona Stesicoro nella sua “minuta” rassegna delle varie versioni della leggenda di Enea in Italia. Non so come da ciò, Horsfall possa dedurre che la Tabula, pur potendo contenere elementi originari, sia in contrasto con le testimonianze che ci rimangono dell'opera di Stesicoro, contenga  palesi influenze romane del I sec.a.C., non abbia valore probatorio, e non sia utilizzabile come base per ricostruzioni e speculazioni[51].

 Quel che sostiene Horsfall favorisce, piuttosto, l'occasione per notare che la rassegna di Dionigi non è minuta. Lo “storico” da un lato dichiara <<di non volersi limitare a una rapida scorsa, ma di voler passare in rassegna le versioni greche e romane più attendibili a proposito della venuta di Enea in Italia>>[52], ma di fatto esclude dalla rassegna non solo la versione di Stesicoro, ma anche quella di Timeo, di Licofrone, di Alcimo Siculo, di Virgilio e di ogni altro autore che aveva trattato la leggenda di Enea in chiave etrusca. Nasce, allora, il sospetto che Dionigi abbia escluso il racconto di Stesicoro perché questo conteneva elementi filoetruschi. Egli, infatti, negava ogni apporto etrusco alla formazione dell’etnos originario di Roma. Torneremo con maggiori argomenti su questo sospetto quando parleremo di Timeo (vedi par. 15 A).

 

                                                   

 8. La fuga di Enea da Troia nelle raffigurazioni greche trovate in Etruria

 

 Più tardi, troveremo la scena di Enea che fugge da Troia su un rilievo in pietra di Atene, su una moneta di Eneia (penisola Calcidica), e sulle figurazioni di 35 vasi attici databili fra il 525 ed il 470 a.C..

 Dall'esame del Lexicon Iconographicum Mithologiae Classicae[53], risulta che soltanto la moneta di Eneia (inizio V sec. a.C.), il rilievo in pietra (447/438 a. C.), ed un vaso di Atene (500 a.C.) sono stati trovati con certezza in Grecia. La maggioranza del materiale è stata rinvenuta in Italia, soprattutto in Etruria; e dalla stessa regione proviene, verosimilmente, gran parte di quello di origine sconosciuta.

 Dei trentacinque vasi, uno solo è stato trovato in Grecia, dodici sono stati rinvenuti in Etruria, sei nell'Italia Meridionale, quattro in Sicilia. I rimanenti quattordici sono di provenienza ignota. I musei italiani ne conservano quattro, dei quali tre in Campania (probabile origine locale), ed uno nella Città del Vaticano (probabile origine etrusca). Gli altri e dieci vasi di provenienza ignota giacciono in musei stranieri, ma per analogia con i dati precedenti, la quasi totalità dovrebbe provenire dall'Italia e, soprattutto, dall'Etruria.

 I vasi trovati sicuramente in Etruria sono i seguenti.

 

 a) Sei a Vulci. Il più antico è del 520 a.C.[54].

 b) Uno a Tarquinia (520 a.C.) [55].

 c) Tre a Cere (dal 510 al 490 a.C.)[56].

 d) Uno in luogo non determinato (510 a.C.)[57].

 c) Uno a Spina (450 a.C)[58].

 

 I più antichi sono i due vasi di Vulci e Tarquinia ( 520 a.C.) dove avvennero le prime importazioni, e dove inizialmente la leggenda troiana era particolarmente sentita. Seguono di poco i vasi di Cere (dal 510 a.C.). Assai più recente è quello di Spina (450 a.C.).

 Si noti che l'area di più antica importazione è quella di Vulci, Tarquinia e Cere, la stessa grossomodo dove più di un secolo prima aveva operato il "Pittore della Sfinge Barbuta", autore della più antica rappresentazione vascolare, che si conosca, della fuga da Troia (vedi par.6).

                     

 

 9.                                 Le tre città di nome Eneia

 

 In questa stessa area, come vedremo, gli Etruschi svilupparono una produzione autonoma di materiale raffigurante la fuga di Enea, ma vi aggiunsero alcuni particolari molto significativi. Vediamo.

  Nei vasi greci, la scena tipica è quella di Enea che lascia Troia accompagnando o portando sulla schiena il padre Anchise. Soltanto nell'Idria del Vaticano (510 a.C.), probabilmente trovata in Etruria, e nella moneta di Eneia (inizio V sec. a.C.), l’eroe porta il padre su una sola spalla.

 Dobbiamo sostare un momento sulla città di Eneia.

 Secondo una antica tradizione, che Dionigi di Alicarnasso attribuisce ad Ellanico di Lesbo (V sec.a.C.),

 

 Enea, dopo la rovina di Troia, attraversò l'Ellesponto e si recò nella vicina penisola di Pallene, nella Calcidica, dove fondò la città di Eneia[59]. <<L'abitava>>, dice Dionigi, <<un popolo di origine tracia, che si chiamava Cruseo, ed era stato il più animoso fra tutti i popoli che erano intervenuti in favore dei Troiani durante la guerra [...]>>[60]. <<Alcuni>>, continua Dionigi, <<fra cui Cefalone di Gergis (III-II sec.a.C.), sostengono che Enea finì lì i suoi giorni>>[61].

 

 Ancora al tempo di Ellanico, la penisola Calcidica era abitata da residue popolazioni preelleniche. Tucidide (V sec.a.C) diceva, infatti, che

 

 <<la maggior parte della sua popolazione è costituita da Pelasgi discendenti di quei Tirreni (Etruschi) che abitarono Lemno ed Atene>>[62].

 

 A questo proposito, lo stesso Dionigi spiegava che

 

 Tucidide faceva un esplicito riferimento a quei popoli che dall'Etruria  avevano un tempo emigrato ad Atene. <<Essi>>, chiarisce testualmente Dionigi, <<venivano denominati Tirreni o Pelasgi, dal nome del territorio (Tirrenia = Etruria) donde avevano emigrato e in ricordo della loro stirpe>>[63].

 

 Come in Ellanico, così in Virgilio, il primo luogo dove Enea si  reca è la Tracia.

 

 

 Da Antandro, racconta l'eroe a Didone, ci rechiamo in Tracia, <<antico luogo di ospitalità per Troia e i Penati in comune>>; arrivato in questa terra cominciai a fondare una città che, dal mio nome, chiamai Eneade[64].

 

 Servio rileva, in nota, che

 

 il vincolo di ospitalità fra Chersoneso Tracico (oggi penisola di Gallipoli) e Troia si radicava nella consanguineità, poiché Ilione, figlia di Priamo, aveva sposato Polinestore, re del luogo[65].

 

 Elio Donato sostiene, poi, che

 

 Virgilio può dire che gli dèi Penati di Troia sono identici a quelli della Tracia perché quando i fratelli Dardano e Iasio spartirono l'eredità, divisero anche i Penati, e l'uno poi li introdusse in Frigia, l'altro in Tracia[66].

 

 La città di Eneia aveva, dunque, tutte le carte in regola per coniare, agli inizi del V sec.a.C., le monete con la figurazione del suo eroe fondatore. Vi si vede Enea che  sostiene su una sola spalla il padre Anchise.

 Esisteva anche in Etruria, secondo la testimonianza di Stefano Bizantino, un'omonima città di Eneia[67]. Dionigi di Alicarnasso parlava anche di un'altra città di Eneia fondata sul Gianicolo  da Romo figlio di Enea[68].

 Il colle Gianicolo (Ianiculum) di Roma si trova oltre la sponda destra del Tevere. Significativamente, gli antichi Romani ritenevano che il colle avesse acquisito questo nome perché era la porta (ianua) usata per chi da Roma avesse voluto recarsi in Etruria e viceversa[69].

 La fondazione, da parte di un figlio di Enea, della città di Eneia, omonima della città Etrusca, sulla via obbligata per chi dall'Etruria si recava a Roma, potrebbe essere un frammento della leggenda secondo la quale Enea, come vedremo, era entrato nel Lazio vetus proveniente dall'Etruria.

 Vedremo anche come, sul versante marino, lo stesso ruolo è svolto dalla città di Lavinio e dalla foce del Tevere.

 

 

 10.               La migrazione di Enea nelle figurazioni etrusche       

 

 Allo stesso periodo in cui ad Eneia, nella Tracia, si coniavano le monete con la rappresentazione di Enea fondatore della città, risale l'esportazione dalla Grecia in Etruria dei numerosi vasi attici istoriati con la leggenda della fuga dell'eroe da Troia (vedi parr. 8 e 9).

 In quel medesimo periodo, Gli Etruschi iniziano un'autonoma produzione di manufatti raffiguranti Enea che porta il padre Anchise.

 E' importante rilevare che, mentre i vasi greci presentano Enea che sorregge il padre sulle spalle (fig. ...)[70], gli oggetti etruschi richiamano le monete di Eneia, dove l'eroe fondatore della città sostiene Anchise su una sola spalla.

 Ma, rispetto alle monete di Eneia, alcuni oggetti etruschi presentano un importante elemento in più: il cesto contenente le statuette degli dèi Penati di Troia o, comunque, gli oggeti sacri del culto.

 Il documento più antico è un anello risalente al primo venticinquennio del V sec.a.C., di provenienza ignota[71], attualmente appartenente alla collezione del duca di Luni (fig. ...).

 Vi si vede Anchise che, seduto su una sola spalla di Enea, reca in mano il cesto contenente i sacra di Troia. Secondo l'Alfoeldi, la scena non rappresenta la fuga da Troia, ma l'arrivo in Etruria[72].

 In effetti, Enea non si sta allontanando da qualcosa, ma è fermo, anzi è in ginocchio, come se stesse compiendo un atto di riverenza verso la terra ospitante (l'antiqua mater?); é nudo e privo di lancia; imbraccia lo scudo, ma non sta difendendosi da qualcosa perché ha le braccia spalancate in atteggiamento d'apertura, e mostra lo scudo dal lato interno. A sua volta, Anchise, seduto su una sola spalla del figlio, non sta proteggendo il cesto dei sacra, come farebbe se stesse fuggendo, ma l'esibisce in bilico sul palmo di una sola mano alzata  in un atto che sembra ricordare quello di un sacerdote che mostra un oggetto sacro.

 Se fossimo certi che questo documento (primo venticinquennio del V sec.a.C.) sia posteriore alla moneta di Eneia (inizio V sec.a.C.), potremmo ipotizzare che gli Etruschi, con l'aggiunta del sacro cesto, avessero adattato la particolare immagine delle monete di Eneia alla loro leggenda di Enea fondatore. Forse, non a caso, esisteva in Etruria, o si riteneva che fosse esistita, un'omonima città di Eneia (vedi par. 9).

 Il fatto di non essere sulla schiena di Enea (come nelle figure greche), ma di sedergli su una sola spalla (come nella moneta di Eneia), consente ad Anchise d'aver una mano libera per sorreggere il cesto contenente i sacra di Troia.

 La figura di Enea che trasporta su una sola spalla il padre Anchise è presente  pure in un vaso etrusco del 470 a. C, trovato a Vulci. Però, stavolta è Creusa, moglie di Enea, che reca in mano un fagotto; e non siamo certi che l’oggetto assolva alla funzione di sacro contenitore (fig. ...).

 La città di Veio ha poi restituito una serie di quattro statuette raffiguranti Enea che porta il padre sulla spalla sinistra (fig. ...). In queste figure, tuttavia, Anchise non porta il cesto dei Penati.

 Va ricordato che nell'anello etrusco di provenienza ignota (e forse anche nel vaso vulcente), Enea si preoccupa di salvare non solo la propria famiglia e la propria gente, ma anche gli oggetti sacri della città di Troia. Questi particolari mancano non solo nei vasi di fabbricazione greca, ma anche nelle monete di Eneia che pur si riteneva fondata da Enea. Solo nelle raffigurazioni etrusche la salvezza di Enea non concerne semplicemente la sua persona, la sua famiglia e il gruppo dei reduci, ma sembra inclusa in un progetto che indirizzi al trapianto della stirpe e delle istituzioni religiose nella nuova terra.

Poiché una simile documentazione manca non solo a Roma e nel Lazio, ma perfino in Grecia, l’Alfoeldi ed altri studiosi hanno ipotizzato che i Vulcenti e i Veienti praticassero il culto di Enea fondatore[73], e che la leggenda fosse passata a Roma e nel Lazio vetus al tempo della monarchia dei Tarquini sulla città.

 Più tardi, i Romani, insieme alla leggenda di Enea fondatore, prenderanno dagli Etruschi la rappresentazione di Anchise che porta in mano il cesto dei Penati, e siede su una sola spalla del figlio. Ma non utilizzeranno il modello presente nel vaso di Vulci o nelle statuette di Veio,  bensì quello presente  nell'anello di ignota origine (Tarquinia?) dove  Anchise siede su una spalla di Enea, e reca in mano il contenitore degli oggetti sacri (vedi par. 16, e figg. ...).

 

 

 11. Gli episodi della vita di Enea nelle raffigurazioni greche ed etrusche

- La stella di Venere in Varrone e Virgilio -

 

 Parallela alla produzione di immagini della fuga da Troia, è la produzione greca di oggetti con il ritratto di Enea o con episodi della sua vita. Si tratta di una quarantina di documenti[74], di cui 10 sono di origine ignota, 15 provengono dalla Grecia, 4 dall'Italia meridionale, e 9 dall'Etruria.

 Anche in questo caso, L'Etruria sviluppa una propria produzione di otto manufatti. Molto più tarde (II sec.a.C.) sono le quattro urne di Volterra dove si vede Enea che accompagna Paride a Sparta.

 Particolare importanza assume la scena raffigurante l'episodio della guerra di Troia, dove Venere interviene a salvare Enea che sta per soccombere nel duello con Diomede. Ne abbiamo

 a) nove documenti greci, di cui uno trovato a Vulci (490-480 a.C.)[75];

 b) tre documenti etrusco-italici, di cui una trozella di provenienza ignota (ca. 460 a.C.)[76], un vaso di Vulci (470-460 a.C)[77], ed un più tardo specchio proveniente da Tarquinia (seconda metà del III sec.a.C.)[78].

 Per comprendere la portata del valore mitostorico che rivestono  questi ultimi tre documenti dobbiamo porli in relazione sia con quanto sosteneva lo storico romano Varrone, sia con quanto cantava il poeta Virgilio nell'Eneide.

 Abbiamo già trattato questo argomento (vedi cap. IV, 2 e fig. ...), ma qui lo riprendiamo, per la specificità del momento, sotto una angolatura leggermente diversa.

 Varrone raccontò che Venere sotto aspetto di stella aveva indicato ad Enea il cammino da seguire da Troia fino a Lavinio, nel Lazio vetus, dove era apparsa per l'ultima volta ad indicare che quella era la meta[79].

 Virgilio, a sua volta, racconta che, durante la distruzione di Troia, Venere apparve ad Enea per invitarlo a radunare i superstiti troiani e condurli verso una nuova patria, dopodiché assunse l'aspetto di stella e si diresse verso il monte Ida per indicare al figlio che quello era il primo luogo dove doveva recarsi. In seguito, Venere avrà vari contatti con il figlio, ma non gli apparirà né nel suo aspetto di madre, né in quello di stella nemmeno quando Enea approderà nel Lazio vetus.

 A lei, come stella, alluderà di nuovo, invece, significativamente il poeta  al momento della partenza di Enea dal Palatino (Roma) verso l'Etruria[80]. Ma il figlio potrà rivederla nel suo autentico aspetto di madre, e materialmente riabbracciarla solo quando sarà giunto a Corito-Tarquinia, cioè quando sarà fisicamente ritornato nel seno dell'antiqua mater della stirpe troiana. Venere e Corito-Tarquinia assumono la funzione intercambiabile di mater. Si noti che la cosa è resa possibile solo dalla identificazione di Corito con Tarquinia.

 Rileviamo che Virgilio, a differenza di Varrone, non fa fermare Enea nel Lazio vetus, ma lo spedisce a Corito-Tarquinia dove Venere gli riapparirà, e sarà per l'ultima volta. In quella occasione, Venere sarà presente anche raffigurata come stella, al di sopra del capo di Augusto, in una delle scene che Enea, dinanzi alla madre, contempla raffigurate sul proprio scudo[81]. Diversamente da Varrone, il poeta alludeva verosimilmente ad una più antica  tradizione in cui Corito-Tarquinia era stata la meta dove Venere aveva  guidato il rientro di Enea e dei Troiani.

 In un altro passo dell'Eneide, Virgilio dice che Giove per due volte aveva concesso a Venere di salvare dalla morte il proprio figlio soltanto perché poi questi avrebbe dovuto trasferire i Troiani in Italia[82]. Ora, Venere due volte aveva salvato Enea, una prima  durante il duello con Diomede, una seconda durante la caduta di Troia.

 Si comprende ora il valore che assumono i documenti etruschi, trovati a Vulci e a Tarquinia, sui quali si raffigura Venere che salva Enea da morte durante il duello con Diomede.

 E' verosimile che Virgilio avesse adattato alla gloria di Roma una tradizione etrusca dove Vulci e Tarquinia, ma nel caso specifico Corito-Tarquinia, era la meta della migrazione troiana.

  

 

 12.                     Il cinghiale sugli scudi troiani in Etruria

                                e su quelli etruschi di Tarqunia

        

 Sulla ben nota oinochoe trovata a Tragliatella, in territorio ceretano, della fine del VII sec.a.C., si vede raffigurato un esercito troiano che esce dalle mura di Troia (Truia)[83]. Sullo scudo di ogni fante è rappresentata una protome di cinghiale. Identica protome si ritrova nelle monete e sugli scudi dipinti sulle pareti della tomba della famiglia dei  Pinie  a Tarquinia (Tomba degli Schudi).

 Può darsi che, per gli Etruschi, la protome di cinghiale rappresentasse lo stemma dei Troiani e dei loro discendenti.

 

 

 13.                       La forma etrusca del nome di Enea     

 

 Dalla descrizione, lasciataci da W. Helbig, di uno specchio bronzeo trovato a Chiusi, oggi scomparso, sappiamo che le figure che vi erano state graffite erano quasi irriconoscibili sotto le ebollizioni dell'ossido, ma che sopra di esse si leggevano, nell'ordine, i nomi di Eina (Enea), [Me]nerva (Minerva), Clutmsta (Clitennestra) ed Elcste (Alessandro)[84].

 Si conoscono due gentilizi etruschi, uno di Chiusi (Eina), l'altro di Tarquinia (Einana)[85], dei quali il primo è identico al nome etrusco di Enea (Eina), ed il secondo, conforme ai nomi etruschi di famiglia, è formato da Eina più il suffisso na.

 Abbiamo già visto che, secondo la testimonianza di Stefano di Bisanzio, esisteva, in Etruria, una città di nome Eneia (gr. Aineia, etr. *Eina) omonima della città di Eneia fondata da Enea nel Chersoneso tracico. Una terza città di Eneia sarebbe pure stata fondata da Romo, figlio di Enea, sul colle Gianicolo, alle porte di Roma (vedi par.9).

 E’ verosimile che sia gli abitanti delle due città di Eneia (in Etruria e nel Lazio vetus) sia i componenti delle due famiglie degli Eina di Chiusi e degli Eina-na di Tarquinia fossero ritenuti discendenti di Enea.  

                                                                                       

 

 14.           La versione greca filoetrusca della leggenda di Enea

 

 E' della seconda metà del V sec.a.C. quella che comunemente si ritiene sia la più antica menzione di Enea come fondatore di Roma. Si tratta di un passo di Ellanico di Lesbo, che noi conosciamo nella libera parafrasi fattane da Dionigi di Alicarnasso alla fine del I sec.a.C.. Ne parleremo più avanti (par. 24).                

  Riferiamo ora, invece, la più antica e diretta testimonianza, a noi nota, della  tradizione della venuta di Enea in Etruria e nel Lazio vetus. Si tratta di un passo della Alessandra del tragediografo greco Licofrone (IV-III sec.a.C.)[86].

 Vediamone le singole parti.

 

- A -

 

 Nella prima parte, Alessandra (detta anche Cassandra), figlia di Priamo, re di Troia, profetizza la rovina della città.

 

 <<Ma tempo verrà>>, prosegue, <<in cui i nipoti (i Romani) faranno ancor più grande la gloria del mio casato perché conseguiranno la gloria della vittoria nelle armi ed otterranno il dominio e la signoria della terra e del mare. Né, o patria infelice, la tua gloria che sta svanendo finirà per esser coperta dalle tenebre perché quel mio parente (Enea), che è figlio della dea Castnia e Coirade (Venere), uomo egregio per il senno e valente nelle armi, lascerà il seme di due gemelli (Romolo e Remo) simili a lioncelli, progenie insigne per gagliardia. Prima egli (Enea) andrà ad abitare a Recelo (città della Macedonia), presso le vette del Cisso (a nord della penisola Calcidica), dove le donne, in onore del dio Lafistio (Dioniso), si adornano di corna. Poi, dopo esser partito dalla Almopia (regione della Macedonia), errabondo lo accoglierà il paese dei Tirreni, dove il Linceo (il fiume Mignone presso Tarquinia) spinge la corrente delle acque calde, e Pisa e i campi di Agilla ricchi di ovini. Ed uno che gli era stato nemico unirà amichevolmente il proprio esercito al suo. Costui è l'Errante (Nanos = Errante, soprannome etrusco di Ulisse) che con il suo vagare aveva esplorato ogni angolo della terra. E gli si uniranno anche i due gemelli Tarconte e Tirreno, figli del re (Telefo) della Misia [...], discendenti dal sangue di Ercole, i quali nella lotta son fieri come lupi>>[87].

 

 Di quest'opera possediamo una parafrasi in lingua greca fatta in epoca antica dove si dice che

 

  quando Ulisse, insieme ai suoi compagni, arrivò in Etruria, <<pregò Enea di concedere loro un po' di mare ed un pezzo di Terra>>; e che <<Tarconte e Tirreno, figli di Telefo, abiteranno in Etruria insieme ad Enea>>[88].

 

 Tzetze, nel commento alla Alessandra, ripeteva che

 

Tarconte e Tirreno, figli di Telefo abiteranno in Etruria insieme ad Enea; e specificava che Tarconte era <<il fondatore di Tarquinia>>, mentre Tirreno era colui che <<aveva dato il nome alla Tirrenia>>[89].

 

  Siamo dinanzi a una tradizione che vedeva Enea trapiantato in Etruria, insieme a Tarconte e Tirreno, tanto stabilmente da poter concedere al sopravvenuto Ulisse parte del territorio etrusco sulla marina[90].

 Secondo Plutarco,

 

 Enea sposò una figlia di Telefo (perciò sorella di Tarconte e Tirreno), di nome Roma, che diede il nome alla città di Roma[91].

 

 Secondo Alcimo Siculo (IV-III sec. a. C.),

 

 la moglie di Enea era una donna etrusca di nome Tirrenia: da lei nacque Romolo, e, da Romolo nacque Alba, e da Alba nacque Romo che fondò Roma[92].

 

 Secondo Promatione (V sec.a.C.?),

 

 i due gemelli fondatori di Roma nacquero nella reggia di Tarchezio (= Tarquinio), re della città di Alba (vedi par. 19).

 

Non deve, quindi, meravigliare se gli Excerpta latina barbari includeranno

 

 un Silvio Tarquinio (Silvius Tarquinius), figlio di Proca, e padre di Cedeno (= il Ceteo) nella lista dei Silvi, re di Alba, discendenti di Enea[93].

 

                                                          - B -

 

 Dice poi Alessandra:

 

 << Lì (in Etruria), egli (Enea) troverà una mensa piena di vivande, che verrà mangiata dai suoi compagni, per cui si ricorderà dell'antico oracolo>>[94].

 

 Licofrone non specifica cosa avesse detto l'oracolo, né chi lo avesse pronunciato .

 Servio ci informa che Varrone, nel secondo libro de Le cose divine, diceva che

 

 Enea aveva avuto questa profezia dall'oracolo di Giove a Dodona in Epiro[95].

 

 Secondo quanto riferisce Dionigi di Alicarnasso,

 

 i Troiani <<avevano ricevuto una profezia, alcuni dicono a Dodona, altri invece ad Eritre, piccola località dell'Ida, dove abitava la locale Sibilla, una ninfa dotata di capacità profetiche, che aveva comandato loro di navigare nella direzione ove tramonta il sole finché non fossero giunti ad un luogo dove avrebbero mangiato le mense>>[96].

 

 L'anonimo autore dell'Origine del popolo romano, sostiene che

 

sarebbe stato Anchise, padre di Enea, a ricordarsi che, <<una volta, Venere gli aveva predetto che quando essi, sul litorale di un paese straniero, spinti dalla fame, avessero divorato perfino le mense consacrate, proprio in quel luogo, per volere del fato, avrebbero dovuto fondare una nuova sede>>[97].

 

 L'autore aggiunge poi una variante, attribuita a un certo Domizio, secondo la quale l'ordine sarebbe stato dato ad Enea dall'oracolo di Delfo[98].

 Virgilio pose la profezia sulle labbra dell'arpia Celeno  che sosteneva di averla ricevuta da Apollo, e che questi a sua volta la aveva saputa da Giove. Celeno dice ai Troiani che,

 

 dopo esser giunti in Italia, potranno costruire una nuova città solo dopo che una terribile fame li avrà costretti a mangiare anche le mense[99].

 

 Tornando  alle parole che Licofrone mette sulle labbra di Alessandra, ci si aspetterebbe che Enea, conforme alle prescrizioni dell'oracolo, si stabilisse in Etruria, e vi fondasse una città.  

 D'altra parte, sappiamo che in Etruria esisteva, o si riteneva che esistesse, una città di nome Eneia (vedi par.9). Abbiamo anche visto che il parafraste e gli scoliasti di Licofrone conoscevano una tradizione che vedeva Enea trapiantato in Etruria, insieme a Tarconte e Tirreno, tanto stabilmente da concedere al sopravvenuto Ulisse una parte del proprio territorio sulla marina.

 

                                                           - C -

 

 Ma, continua Cassandra,

 

 <<Enea andrà a colonizzare (ovviamente dall'Etruria) il paese nelle terre dei Boreigoni (Aborigeni?), poste al di là delle città di Larino (Latino?) e di Daunio, dove costruirà trenta castelli pari al numero dei figli di quella nera scrofa che egli aveva portato con sé dalle vette dell'Ida e dalla terra di Dardano, e che, nell'ora del parto, diverrà nutrice di trenta porcellini>>[100].

 

 Nell'Origine del popolo romano, l'anonimo autore, dopo aver ricordato la profezia delle mense, racconta che

 

 <<una scrofa gravida, portata a terra dalla nave per essere immolata, sfuggì dalle mani dei sacrificanti; allora Enea si rammentò che una volta gli era stato predetto che un animale a quattro zampe lo avrebbe guidato sul luogo dove fondare la nuova città. Perciò si mise a seguirla, portando con sé le immagini dei Penati, e nel luogo dov'essa stramazzò e partorì trenta porcellini, prese gli auspici, immolò la scrofa e costruì una città che chiamò Lavinio, come attestano Cesare nel primo libro, e Lutezio nel secondo>>[101].

 

 I tardi racconti latini riferiti ambientavano nel Lazio vetus sia lo sbarco di Enea, che gli episodi delle mense e della scrofa. Ma la versione di Licofrone è molto più antica, e testimonia che, nel IV-III sec. a.C., permaneva la tradizione della migrazione troiana in Etruria, anche se le leggende di fondazione erano già state spostate nel Lazio vetus.

 Particolare attenzione merita una notizia riferita da Servio, secondo cui

 

 la scrofa sfuggì ai Troiani sbarcati in Campania, e andò a fermarsi e partorire nel territorio di Laurento (quam amissam in Campania invenerunt cum fetu circa Laurentum agrum), nel Lazio vetus, a centinaia di chilometri di distanza, dove Enea la immolò a Giunone[102].

 

 I Troiani avevano numerose connessioni con la Campania. In particolare, si diceva che avessero fondato Gaeta[103], e che Enea, o suo figlio Romo, o il troiano Capi avesse fondato Capua[104]. Contemporaneamente si riteneva che Capi fosse figlio di Telefo o che Telefo stesso o gli Etruschi avessero fondato la città, e che etrusco ne fosse il nome.

  La leggenda della scrofa fuggita ai Troiani sbarcati in Campania e ritrovata nel territorio dove Enea edificherà Lavinio si presenta, dunque, come un compromesso fra la tradizionale presenza troiana nella Campania etrusca e l'arrivo di Enea sulla spiaggia latina; ma appare anche come un tardo duplicato della tradizionale discesa di Enea dall'Etruria a Lavinio, prodotto quando la leggenda filoetrusca non sarà più accettata.

 

                                                   - D - 

 

   <<Di lei (della scrofa), poi>>, continua Cassandra, <<e dei figli lattanti egli conserverà l’effigie di bronzo in una di quelle città (Lavinio?); e, dopo aver innalzato un tempio a Minerva Mindia, vi deporrà i sacri Penati. Infatti, quando i guerrieri vincitori (i Greci), voraci come cani nell'ingoiare tutti beni sorteggiati della mia patria, a lui solo daranno la scelta di prendere e portar via dalla sua casa, come premio, ciò che voglia, egli, trascurando la moglie, i figli, e ogni oggetto prezioso, terrà in maggior conto quelle statue (degli dèi Penati) ed il vecchio padre avvolto nei propri panni. E così, stimato piissimo anche dai suoi nemici, egli getterà le fondamenta di una nuova patria (Roma) che, per opera dei suoi nepoti, diventerà ricca e famosa nelle armi [...]>>[105].

 

 L’effigie in bronzo della scrofa di Enea esisteva davvero a Lavinio, come testimonia Varrone (I sec.a.C.). Egli dice che

 

 in Lavinio, <<a tutt’oggi si vedono le vestigia della scrofa di Enea e dei suoi figli, e ce ne sono ancora simulacri di bronzo esposti al pubblico, mentre i sacerdoti mostrano il corpo della madre messo in salamoia>>[106].

 

 E’ probabile che Licofrone sapesse dell’esistenza della statua bronzea attraverso lo storico Timeo (IV-III sec.a.C.). Questi si era recato personalmente a Lavinio e ne aveva raccolto la tradizione troiana (vedi par. 15).

 E’ poi interessante che, in uno dei  bassorilievi del monumento all’imperatore Claudio, trovato a Cere, si veda riprodotta la statua di una scrofa (o un cinghiale?) posta su un piedistallo (vedi par.15 e fig. ...). IL Canina vi riconosceva la scrofa di Enea. C’è chi pensa, invece, ad un semplice, irsuto cinghiale. Certamente, l’animale è corto e irsuto; ma è anche posto su un piedistallo, proprio come la riproduzione di una statua; e richiama il monumento alla scrofa di Lavinio, raffigurato su un medaglione di Antonino Pio[107].

 

 

 15.              La tradizione etrusca della leggenda di Enea a Lavinio

                           (fonti letterarie e documenti archeologici).

 

  a)  Fonti letterarie: Timeo e Licofrone.

 

 Si ritiene che il poeta Licofrone abbia tratto la leggenda di Enea in Etruria dagli storici Lico di Reggio e Timeo di Tauromenio. Il poeta conosceva di certo le opere di Lico (fine IV - inizio III sec. a.C.), perché ne era figlio adottivo. Questi aveva scritto, tra l'altro, sulle imprese di Alessandro di Epiro in Italia. Ma non sappiamo se Lico avesse parlato delle avventure di Enea in Etruria e nel Lazio vetus. 

 Diverso, invece, è il caso di Timeo. Che questi sia una delle fonti principali dei passi della Alessandra dove si parla dei paesi dell'Occidente, fu sostenuto a partire dal Klausen, dal Gunter, dal Geffcken e dal Ciaceri[108].

 Timeo nacque a Taormina, in Sicilia, e visse tra il 356 e il 260 a. C.. Abitò dapprima ad Agrigento, poi risiedé per cinquant'anni ad Atene. Nella vecchiaia, tornò in Sicilia. Viaggiò anche in Italia, sicuramente fino a Lavinio, Roma e, probabilmente, anche in Etruria.

 La sua opera, di cui restano frammenti, era la storia dei Siciliani e degli Italioti, alla quale faceva seguito una monografia su Agatogle, ed una appendice sulle vicende di Pirro in Italia e fuori.

 Nel contesto dei suoi lavori, egli trattò anche dell'arrivo di Enea nel Lazio vetus. Purtroppo, ne possediamo  solo frammenti.

 Uno ci è conservato da Polibio, il quale criticava Timeo  perché questi, fra le prove  della venuta di Enea nel Lazio vetus, portava il fatto che i Romani ogni anno immolavano un cavallo in ricordo del famoso cavallo di Troia[109].

 L'altro, lo dobbiamo ad un accenno di Dionigi di Alicarnasso (I sec. a.C.). Egli dice:

 

<<Lo storico Timeo, a proposito della figura dei Penati di Troia, riferisce che gli oggetti sacri contenuti nel santuario di Lavinio erano caducei di ferro e di rame, e vasellame troiano; aggiunge che queste notizie le ha avute dagli abitanti del luogo. Ma io ritengo che non si debba stare a sentire i discorsi di chi ha veduto cose che non è lecito a tutti contemplare e nemmeno riportarli nella narrazione. Anzi, sono indignato contro quanti vogliono indagare o conoscere più di quanto sia permesso dalla legge.

 Ecco, invece, quanto io conosco su quest’argomento per osservazione diretta, e che niente mi vieta di scrivere (segue la descrizione del tempio dei Penati a Roma) [ ... ]. Queste son cose che è lecito vedere, così come è lecito ascoltare e scrivere quel che, in merito, dicono Callistrato, storico di Samotracia, Satiro, raccoglitore di antiche leggende, e molti altri fra cui il più antico è il poeta Arctino (segue la leggenda della nascita di Dardano in Arcadia, e della emigrazione a Samotracia e in Frigia portando i sacri simboli dei Grandi Dei) >>[110].

 

 Vediamo che Dionigi è sdegnato contro i Lavinati perché questi non avrebbero dovuto indagare e, tanto meno, riferire a Timeo, la natura segreta degli dèi Penati di Troia introdotti da Enea nella città. E' pure sdegnato contro Timeo per aver riportato quel che i Lavinati gli avevano confidato. Con questo, egli si sente autorizzato a non riferire il contesto della leggenda in cui, ovviamente, Timeo aveva presentato le “sacrileghe” notizie fornitegli dai Lavinati, e preferisce riportare le versioni narrate da autori dei quali sarebbe <<lecito ascoltare e scrivere ciò che dicono>>.                                       

 Sarebbe stato, invece, interessante sapere cosa gli abitanti di Lavinio, nel IV-III sec.a.C., avevano raccontato a Timeo sull’origine del culto dei  Penati di Troia e sulla fondazione della loro città da parte di Enea. Certo è che la leggenda di Enea a Lavinio fu riferita dai Lavinati al siculo Timeo poco dopo che il  siculo Alcimo avesse narrato che Enea aveva sposato una donna etrusca, e poco prima che  Licofrone presentasse la fondazione della città subordinata  alla discesa di Enea dall’Etruria. Purtroppo, Dionigi non solo si esime dal raccontare la versione dei Lavinati e di Timeo, ma, nella sua opera, evita anche quelle di Alcimo, di Licofrone, di Virgilio e di ogni altro autore che avesse trattato la leggenda troiana in chiave filoetrusca, sicché ogni occasione di confronto è scanzata.

 Il fatto è che Dionigi biasimava Timeo ed escludeva sistematicamente dalla sua trattazione ogni autore filoetrusco perché, per sua esplicita ammissione, voleva <<proclamare con sicurezza che Roma era una città originariamente  greca>>, e che solo più tardi, avvennero le mescolanze con i barbari della penisola, fra cui gli Etruschi[111].

Enea, comunque, secondo Licofrone, si stanzia in  Etruria e, dopo aver fuso le sue forze con quelle di Tarconte, Tirreno ed Ulisse, scende nel Lazio vetus dove fonda trenta città, e dentro Lavinio depone i sacri Penati. Se, però, si ipotizza, come molti hanno fatto, che la fonte di questo racconto sia stata Timeo, e se è vero che questi era venuto a conoscenza, attraverso gli stessi abitanti di Lavinio, della natura dei Penati di Troia depositati da Enea nella città, bisogna ipotizare anche che i Lavinati del IV-III sec. a.C. abbiano ritenuto che i Troiani fondatori la loro città fossero venuti dall'Etruria.

Si consideri che Virgilio dapprima fa approdare Enea direttamente alla foce del Tevere, ma poi lo spedisce in Etruria a chiedere aiuto a Tarconte , e con questi lo fa nuovamente approdare alla foce del Tevere.

 

 b) Documenti archeologici 

 

                                          L'heroon di Enea a Lavinio.

 

 A Lavinio, nella tomba a cassone  che è sotto il cosiddetto heroon di Enea, sono state trovate forme vascolari di tipo veiente-ceretano ed una oinochoe di tipo cumano-tarquiniese[112].

 

                                             Il cippo di Tortignosa.

 

Nelle vicinanze di Lavinio, a Tortignosa, è stato trovato un cippo del III sec.a.C. recante la dedica a Lar Enea. Alcuni ritengono che l'iscrizione si riferisca ad Enea inteso come Lare, cioè come divinità tutelare. Ma, poiché Lar, presso gli Etruschi, era nome personale ed appellativo che si dava a dèi e sovrani, Jacques Heurgon vi ha visto il residuo della connotazione etrusca che la figura di Enea aveva mantenuto a Lavinio[113].

 

                                     Giunone Calendaria a Tarquinia.

 

  Negli scavi condotti in un'area sacra della Civita di Tarquinia dall'Università di Milano e dalla Soprintendenza Archeologica per l'Etruria Meridionale, sono emersi vari frammenti di ceramica con dedica alla dea etrusca Uni (Giunone) ed uno con dedica a Kalan.

 Quest'ultimo è il più antico documento epigrafico (fine VIII sec.a.C.) finora trovato in Etruria.

 L'identificazione della divinità di nome Kalan ha suscitato due ipotesi.

 1) Sulla base degli altri ritrovamenti con dedica a Giunone, e dal confronto con le figure di due specchi del V-IV sec.a.C. , in cui Eracle è connotato con l'attributo Calanice[114], si è pensato che Kalan potesse essere una forma arcaica di Calanice. Spesso, infatti, in ambiente etrusco, la figura di Eracle è stata accostata a quella di Uni (Giunone). Si pensi alla coppia Hera (Uni)-Heracle venerata nella vicina Pirgi[115].

 Come ha notato Cristina Chiaramonti Treré, sarebbe interessante un esame parallelo del culto di Eracle Kallinicos (= Ercole dalla bella vittoria), eventualmente presente nella Tarquinia di fine VIII sec.a.C., con quello di Hercules Victor (= Ercole vincitore) presente alle origini di Roma[116].

 Sulla base della tradizione di apporti culturali dall'Etruria a Roma, si potrebbe pensare ad una derivazione del culto romano da quello tarquiniese.

 2) E’ stata fatta anche una seconda ipotesi. La dedica a Kalan è di poco anteriore alle altre dediche a Uni (Giunone), ed è stata trovata nella stessa area sacra, per cui Kalan potrebbe essere un appellativo di Giunone. Le fonti latine parlano di una Iuno Kalendaria (Giunone Calendaria) venerata a Laurento e a Roma.

 Cristina Chiaramonte Trerè ha analizzato il rapporto fra il contesto cultuale della possibile Uni Kalan tarquiniese e quello della Iuno Kalendaria di Laurento e Roma. In particolare, la studiosa

 a) ha osservato che la mitica città di Laurento è identificabile con Lavinio,

 b) ha ricordato l'esistenza della tradizione dell'ingresso della leggenda di Enea a Lavinio  attraverso l'Etruria,

 c) ha rilevato che ceramiche di tipo veiente-ceretano e una oinochoe tarquiniese sono state rinvenute nella tomba sotto l'Heroon di Enea a Lavinio,

 d) e ha concluso che il culto di Giunone Calendaria potrebbe essere passato da Lavinio a Tarquinia o da Tarquinia a Lavinio nel corso di antichi contatti[117].

 Nella Roma arcaica, a Giunone Calendaria, dea della fertilità femminile e delle nascite, venivano sacrificate scrofe e agnelle[118]. Secondo Virgilio e Servio[119], Enea, giunto nel territorio di Laurento, fondò la città di Lavinio sullo stesso luogo dove aveva sacrificato una scrofa a Giunone. Abbiamo visto che gli scrittori greci più antichi e gli stessi abitanti di Lavinio consideravano che Enea veniva dall'Etruria, per cui appare plausibile che il culto di Giunone Calendaria, se esistette a Tarquinia, sia passato da questa città a Lavinio insieme alla leggenda di Enea.

 

                                      Il trono di Claudio a Cere.                                    

 

 Secondo la versione filoetrusca di Licofrone, la dea alla quale Enea aveva sacrificato la scrofa sul luogo della futura Lavinio era, però, Minerva.

 

  <<Di lei (della scrofa)>>, dice Licofrone nella profezia di Alessandra (Cassandra), <<e dei figli lattanti egli (Enea) conserverà l’effigie di bronzo in una di quelle città (Lavinio?); e, dopo aver innalzato un tempio a Minerva Mindia, vi deporrà i sacri Penati>> (Vedi par. 14).

 

 E' interessante che in uno dei frammenti dei bassorilievi che ornavano il cosiddetto Trono di Claudio a Cere si veda l’effigie di una scrofa posta su un piedistallo come una statua.  (vedi fig. ...). IL Canina vi riconosceva la scrofa di Enea. C’è, invece chi pensa ad un semplice cinghiale corto e irsuto. Certamente, l’animale è corto e irsuto; ma è anche posto su un piedistallo, proprio come nella riproduzione di una statua; e richiama il monumento alla scrofa di Lavinio, raffigurato su un medaglione di Antonino Pio[120]. Restiamo, comunque, prudentemente sul piano dell’ipotesi.

 L'imperatore Claudio aveva sposato in prime nozze  Urgulanilla, di famiglia etrusca, nipote della potente Urgulania amica di Livia moglie di Augusto. Gli Urgulani dovevano essere di origine ceretana[121]. A Cere, peraltro, si sono travati documenti archeologici della presenza di un ramo della famiglia Claudia.

 Claudio, fra le altre opere, scrisse in lingua greca una Storia degli Etruschi (Tyrrhenica) in venti libri, purtroppo perduta. Negli archivi di Cere, egli dovette trovare  la stesura etrusca di quelle Tusciae Histoirae alle quale faceva spesso appello nei suoi discorsi[122].

 I Ceretani gli eressero un monumento i cui frammenti furono descritti per la prima volta dal Canina nel secolo scorso[123]. Sui fianchi del trono, dove Claudio era assiso, erano stati raffigurati, a partire da sinistra, i singoli popoli che componevano la federazione etrusca. La rassegna inizia con i Tarquiniesi, personificati da Tarconte (o Tagete?), ai quali seguono i Vulcenti e i Vetuloniesi. Qui il frammento finisce.

 In un altro frammento, appartenente alla parete interna del sedile, si vede l’effigie del monumento alla scrofa. E' verosimile che le pareti esterne del trono fossero occupate dalle personificazioni degli altri popoli etruschi fra i quali non doveva mancare quello ceretano, e che le pareti interne fossero state ornate con alcuni quadri fondamentali della storia etrusca narrata nei libri di Claudio. Ora, nell’ipotesi che l’animale del Trono di Claudio Imperatore sia la riproduzione  della statua della scrofa di Enea a Lavinio, possiamo ritenere che Claudio abbia inserito la fondazione della città nel contesto mitostorico della discesa di Enea dall'Etruria, e che la  notizia gli potesse venire dalle stesse  Tusciae Historiae alle quali l’imperatore, in alcune occasioni, aveva dichiarato di appellarsi.

                                                            ***

 Da quanto sopra esposto appare verosimile che quando gli Etruschi di Tarquinia, scesero nel Lazio vetus ed assunsero al trono di Roma portarono seco il ricordo della loro leggendaria parentela con i Troiani. A Vulci, negli affreschi della tomba François, i Tarquini romani, uccisi nel sonno dai Vulcenti, sono assimilati ai prigionieri troiani uccisi dai Greci sulla tomba di Patroclo.

 Via via, poi, che i Tarquini di Roma andarono emancipandosi dalla madre patria, la leggenda si sarà lentamente romanizzata fino a presentare la venuta di Enea in Etruria, come finalizzata alla fondazione di Roma. A questo periodo dovrebbero far riferimento le tradizioni greche di Enea che sposa Roma figlia di Telefo, ovvero Tirrenia  che diviene madre di Romolo (Vedi parr. 5 e 19).

 La leggenda dei due gemelli fondatori di Roma, nati in casa di un crudele tiranno di Alba di nome Tarchetius (=Tarquinio), dovette nascere, invece, nel V sec., dopo la cacciata dei Tarquini da Roma (vedi parr. 19 e 20).

 Più tardi, quando gli storici compresero che la fondazione di Roma era avvenuta quattrocento anni dopo i fatti di Troia, vennero inserite numerose generazioni di re di Alba fra Enea e la fondazione della città. Un residuo della figura di Tarchezio rimase ancora in quella di Tarquinio Silvio, re di Alba, discendente di Enea, come è presentata nella pur tarda testimonianza degli Excerpta latina barbari (vedi parr. 19 e 20).

 Alcuni sostengono che la leggenda di Enea sia entrata a Roma attraverso Lavinio, altri che sia passata da Roma a Lavinio.

 In ogni caso, la tradizione della fondazione di Lavinio da parte di Enea fu inizialmente subordinata alla venuta dell'eroe dall'Etruria dove era precedentemente sbarcato alla foce del fiume Linceo (il Mignone).

                                                          ***

 Le vicende di Enea in Etruria, così come presentate da Licofrone nella profezia di Alessandra (Cassandra) anticipano il passo dell'Eneide di Virgilio, dove Anchise, nel momento in cui Enea lo informa che gli dèi Penati volevano  che i Troiani tornassero nella etrusca città di Corito, gli rammenta proprio la profezia di Cassandra (vedi par. 14 A). Dice Anchise al figlio:

 

<<La sola Cassandra mi prevedeva tali casi. Ora la ricordo annunziare che queste cose spettavano alla nostra stirpe, e spesso nominava l'Esperia, spesso i regni italici. Ma chi avrebbe creduto che i Troiani sarebbero giunti ai lidi dell'Esperia?>>[124].

 

 La profezia della  Alessandra (Cassandra) di Licofrone, contemplava anche l'alleanza di Enea con Tarconte, Tirreno e Ulisse, e la discesa dell'eroe dall'Etruria nel Lazio vetus. Questa tradizione, sfrondata da Virgilio dagli apporti greci (Tirreno e Ulisse), ci riporta alla trama della seconda parte dell'Eneide dove Enea si reca in Etruria presso la foce del Mignone (il Linceo), si allea con Tarconte e scende con lui nella terra latina.

 

 

 16.          L'archetipo etrusco nelle figure romane di Enea fondatore

 

 Ricordiamo che, a differenza delle figure greche, dove Enea porta Anchise sulla schiena, in quelle etrusche il padre è seduto su una spalla del figlio come nella moneta di Eneia. Questa variante consentiva al geniale autore etrusco dell'anello di provenienza ignota di raffigurare Anchise con una mano libera per sollevare il cesto dei Penati di Troia (Fig. ...).

 Più tardi, anche i Romani, per simboleggiare il trapianto dei Troiani nel Lazio vetus, raffigureranno Enea che lascia Troia (figg. ...;...). Ne abbiamo documenti archeologici che partono dal I sec.a.C.. Ma i Romani non utilizzeranno il modello greco, bensì quello etrusco; e non quello presente nel vaso di Vulci o nelle statuette di Veio, ma  nell'anello di ignota origine (Tarquinia?) dove  Anchise sedeva su una spalla di Enea, e recava in mano il contenitore degli oggetti sacri. E' chiaro che l'originario archetipo etrusco presente nell'anello aveva attribuito alla scena lo stesso significato (vedi par. 10).

 

 

 

 17                                  Catone e la versione latina

 

 Nella tradizione romana annalistica, a partire da Catone (234-149 a.C.) è attestata la  guerra sostenuta da Enea, al suo arrivo nel Lazio vetus, contro le popolazioni indigene, cioè i Rutuli di Turno e i loro vicini etruschi di Cere, nonché il suo matrimonio con Lavinia, figlia di Latino, re dei Latini. Il frammento di Catone che noi possediamo dice che i Troiani arrivarono via mare, ma non precisa da dove venivano[125].

 La resistenza che, nella tradizione romana, i Ceretani opponevano ad Enea che voleva stanziarsi nelle terre latine, dovette nascere dalla trasposizione mitica della reale resistenza che Cere oppose alla penetrazione dei Tarquiniesi nel Lazio vetus.

 Gli storici ci hanno lasciato memoria delle numerose guerre combattute da Tarquinio Prisco contro le città etrusche. Particolarmente, Dionigi di Alicarnasso ricorda che Tarquinio, sia pure in qualità di re di Roma, sconfisse i Ceretani nel loro territorio, e li sottomise (vedi cap. XXI,1).

 Le ostilità si ripeterono nei secoli futuri.

 In data non precisata, il duce tarquiniese Aulo Spurinna spodestò Orgolnio, re di Cere, e conquistò nove città latine[126].

 Nel 397 a.C., i Ceretani permisero ai Romani di attraversare il loro territorio per sorprendere i Tarquiniesi che tornavano pieni di bottino dall'aver saccheggiato la campagna romana[127].  

 Nel 388 a.C., i Romani, verosimilmente attraverso il territorio di Cere, condussero un esercito nell'agro tarquiniese dove assalirono e distrussero le città di Cortuosa e Contenebra.

Nel 358 a. C., i Tarquiniesi a capo della Lega attraversarono il territorio di Cere, dove raccolsero gruppi di volontari; e, dopo aver sconfitto i romani, giunsero fino alla foce del Tevere[128]. Uno schema analogo si ripete nell'Eneide. Dopo la cacciata da Agilla-Cere del tiranno Mezenzio, Tarconte (un Tarquinio), a capo della Lega Etrusca, è pronto a scendere nel Lazio vetus contro i Latini-Rutuli che hanno accolto Mezenzio, ma indugia presso il fiume Mignone dove riunisce l'esercito composto anche di elementi ceretani; poi, insieme ad Enea, aggira via mare il territorio di Agilla-Cere, e sbarca alla foce del Tevere dove sconfigge Latini e Agillini.

 Per gli argomenti trattati in questo paragrafo, vedi cap XXI.

 

                       

 18                                            Cassio Emina

 

 Solino diceva:

 

 <<Non possiamo tacere che Enea, durante la seconda estate dopo la presa di Troia, fu sbattuto sulle coste italiche, come racconta Emina, con non più di seicento compagni, e pose l'accampamento nel territorio di Laurento. Mentre egli stava dedicando a sua madre Venere, che è detta Frutis, la statua che aveva condotto con sé dalla Sicilia, ricevette il Palladio da Diomede>>[129].

 

 Galynsky sostiene che non è possibile stabilire ciò che in questo testo risalga unicamente a Cassio Emina (metà del II sec.a.C.) da ciò che Solino può aver desunto da altre fonti[130]. Comunque stiano le cose, il testo non indica quali siano le regioni d'Italia toccate da Enea prima di  arrivare nel Lazio vetus, né se vi fosse giunto via terra o via mare. Anzi, poiché Italia è termine onnicomprensivo delle regioni della penisola, l'originario racconto di Cassio Emina o, comunque, la tradizione alla quale si rifaceva, potrebbe ben aver incluso l'Etruria fra le terre toccate da Enea in Italia.

 A favore di questa ipotesi potrebbe giocare il fatto che Enea, secondo Emina, introdusse nel Lazio vetus dalla Sicilia il culto di sua madre Venere Frutis[131]. Ora, in Sicilia, la dea madre di Enea non era conosciuta con l'appellativo di Frutis, bensì di Ericina. Ciò ha indotto molti studiosi a ritenere che Frutis sia una forma etruschicizzata del greco Afrodite (= Venere)[132].                                 

 

                                                     

 19                              I Tarquini discendenti di Enea      

 

 Secondo Plutarco, Enea sposò una figlia di Telefo (perciò sorella di Tarconte e Tirreno), di nome Roma, che diede il nome alla città di Roma[133].

 Secondo Alcimo Siculo (IV-III sec. a. C.), la moglie di Enea si chiamava Tirrenia (= Etruria). Da lei nacque Romolo, e, da Romolo nacque Alba, e da Alba nacque Romo che fondò Roma[134].

 Non deve, quindi, meravigliare se gli Excerpta latina barbari annovereranno un Silvio Tarquinio (Silvius Tarquinius), figlio di Proca, e padre di Cidenus nella lista dei Silvi, re di Alba, discendenti di Enea.

 Il nome di Cidenus dovrebbe derivare da quello dei Cittei menzionati nello stesso documento. Si tratta dei Cetei, il popolo che era andato a combattere con Euripilo, figlio di Telefo (quindi fratello di Tarconte), in soccorso di Troia, e che poi Telefo aveva condotto in Italia. Qui, Telefo (figlio di Ercole, ma figlio adottivo di Corito) avrebbe avuto il soprannome di Latino, ed avrebbe dato a un suo figlio il nome di Latino, e ai Cetei quello di Latini. Quando Enea arrivò in Italia combatté in suo aiuto, e ne sposò una figlia di nome Roma (vedi par. 14).

 Promatione (V sec.a.C.?), poi, parla di un Tarchezio (=Tarquinio), re della città di Alba, in casa del quale, nacquero i gemelli  fondatori di  Roma.

 Avvenne che,

 

 nella reggia di Tarchezio, apparve un membro virile dinanzi al focolare, e vi rimase. Il re consultò l'oracolo di Teti, in Etruria, il quale rispose che una vergine doveva congiungersi con quel fallo perché dalla loro unione sarebbe nato un figlio molto famoso che si sarebbe distinto per valore, fortuna e forza. Allora Tarchezio ordinò a sua figlia di congiungersi con quel fallo; ma lei, nascostamente, si fece sostituire da una schiava che generò due gemelli. Il tiranno li consegnò a Taruzio perché li abbandonasse sulla riva del Tevere. Tuttavia, una volta abbandonati, i gemelli furono nutriti da una lupa e dagli uccelli, finché un pastore li prese con sé. Divenuti adulti, scacciarono Tarchezio, e fondarono Roma[135].

 

 Nella tradizione romana, il ruolo di Tarchezio e di sua figlia è assunto da Amulio e dalla figlia Anto, mentre il ruolo della schiava è assunto da Ilia o Rea o Silvia figlia di Numitore. La versione romana tradisce, tuttavia, la più antica tradizione filoetrusca perché la figlia di Amulio si chiama significativamente Anto[136], un none etrusco arcaico (Antho)  attestato solo a Tarquinia.

 E' interessante confrontare la leggenda della nascita dei gemelli fondatori di Roma nella reggia di Tarchezio, con quella della nascita di Servio Tullio in casa di Tarquinio Prisco.

 Accadde che,

 

 nella reggia di Tarquinio, una schiava o prigioniera di nome Ocrisia (Coritia?) si accoppiò con il fallo del focolare, e generò un figlio che, per esser nato da una serva, fu chiamato Servio[137].

 

 Secondo Cicerone,

 

 il bambino era nato in casa di Tarquinio, da una serva tarquiniese e da un cliente del re[138].

 

 La leggenda della nascita di Servio Tullio e quella della nascita dei gemelli fondatori di Roma,  hanno in comune non solo il nome dei sovrani, Tarquinio e Tarchezio, nella cui reggia i bambini hanno avuto i natali, ma anche il tema della nascita di quei fanciulli dall'unione del fallo divino del focolare del re con una schiava dello stesso sovrano.

 E’ evidente che la leggenda della nascita di Servio duplica quella della nascita dei gemelli fondatori di Roma.

 A sua volta, la leggenda dei gemelli, fondatori di Roma, che scacciano Tarchezio dev'esser nata a seguito della cacciata dei Tarquini da Roma; ma è anche verosimile che il tutto mascheri una saga più antica dove il fondatore di Roma figurava figlio di un Tarquinio o, comunque, di un sovrano etrusco, imparentato con Enea.      

           

          

 20.               I parenti etruschi di Enea nella versione romana

 

 Nei racconti tramandatici dagli storici romani,

 

 Enea, quando arrivò a Laurento, incappò nella inimicizia di Latino, re degli Aborigeni, il quale, vinto in battaglia, fece pace con lui e gli diede in sposa la propria figlia Lavinia che però era stata già promessa a Turno o Tirreno[139] re dei Rutuli. Questi, con l'aiuto di Mezenzio, re della vicina etrusca città di Cere, mosse guerra congiuntamente ai Latini e a i Troiani. Latino morì in battaglia. Ma Enea riportò la vittoria, ereditò il regno e riunì Aborigeni e Troiani in un solo popolo che chiamò Latino. Poi anch'egli morì durante una successiva battaglia contro Mezenzio. Il regno passò a suo figlio Ascanio nato a Troia dal precedente matrimonio con Creusa. Ma Lavinia, la nuova moglie, che era rimasta incinta prima che Enea morisse, e aveva timore del figliastro Ascanio, si rifugiò in casa di un certo Tirro[140] o Tirreno[141], pastore di Latino, dove partorì. Ascanio, poi, lasciò loro generosamente il regno ed andò a costruire la città di Albalonga sui Colli Albani. Da lui ebbe origine una dinastia di regnanti il cui elenco, variamente elaborato, finiva, in genere, con Numitore, nonno di Romolo fondatore di Roma.

 

 E' evidente come, nelle versioni romane, i personaggi etruschi che, nelle più antiche tradizioni greche filoetrusche, avevano rivestito il ruolo positivo di parenti ed amici di Enea, appaiano ribaltati in chiave negativa.

 A Telefo-Latino fa riscontro Latino che, almeno inizialmente, è nemico di Enea.

 A Tirreno, eponimo del popolo etrusco, fa riscontro Turno-Tirreno re dei Rutuli nemici di Enea, ed alleati degli etruschi di Cere.

 Roma, figlia di Telefo, perciò sorella di Tarconte e Tirreno, sposa di Enea, ed eponima della città di Roma, viene sostituita con Lavinia, figlia di Latino, già sposa, o promessa sposa, di Turno-Tirreno re dei Rutuli.

 Tirrenia (= Etruria), poi, altro nome della moglie di Enea, non solo è sostituita con Lavinia, ma è ribaltata in chiave maschile nel ruolo dello sposo, o promesso sposo, Turno-Tirreno a sua volta respinto in favore di Enea.

 Un residuo dei ruoli positivi che Tirreno e Tirrenia svolgevano nelle tradizioni greche filoetrusche rimane nel personaggio di quel Tirro-Tirreno in casa del quale Lavinia, rimasta vedova di Enea, va a partorire il figlio Silvio.

   

                    

 21.                   Gli Etruschi, Dardano e i "Cippi della Tunisia"

 

 <<Hesperothen>>, cioè proveniente dall'Italia (Hesperia), veniva grecamente chiamato Dardano in una attribuzione  fattaci conoscere da Servio [142].

 Nel primo sec.a.C., un gruppo di Etruschi, emigrato nelle vicinanze di Cartagine, dove pare fosse già esistita una colonia tarquiniese[143], aveva dedicato <<agli dèi Dardani>> i cippi di confine del nuovo insediamento, al fine di rivendicare, dinanzi al mondo greco-romano, di esser loro i veri Troiani.

 La dedica era scritta in una grafia contenente alcune caratteristiche dell'alfabeto ceretano[144], molto diffuso nell'Etruria meridionale donde è verosimile che gli emigranti fossero venuti[145]. Tuttavia, questi etruschi, il cui patrio alfabeto non includeva il suono della dentale sonora (d), per scrivere Dardano utilizzarono il tau (th) con un semicerchio sopra. Ciò dovrebbe voler dire che, nella loro lingua, il nome di Dardano non era prima conosciuto[146], e che la loro convinzione di essere imparentati con i Troiani, si rifaceva a una tradizione che fino ad allora non aveva contemplato la figura di Dardano. Questo accadeva dopo che gli Etruschi, perduta nel 90 a.C. l'ultima residua indipendenza ad opera dei Romani discendenti di Dardano, intendevano rivendicare  di esser loro i veri Troiani, e nel farlo utilizzavano lo stesso nome Dardano che Virgilio dava al capostipite etrusco dei Romani. I cippi della Tunisia potrebbero esser posteriori alle prime letture che Virgilio faceva del poema che andava componendo[147].

 Più tardi, nei commenti romani all'Eneide, Dardano verrà presentato sia come fondatore della etrusca città di Corito (Tarquinia), sia come figlio dell'etrusco Corito re della omonima città virgiliana. Nella primitiva tradizione etrusca o filoetrusca poteva, dunque, esser stato Corito, e non Dardano, il nome del capostipite  etrusco dei Troiani.

 La nostra ipotesi trova conferma in quella tradizione, più conforme alla possibilità storica dei fatti, secondo la quale non Dardano, ma il troiano Corito, figlio di Paride, era stato il fondatore della etrusca città di Corito (Tarquinia) (vedi par.4). Questa versione trova un parallelo nella fondazione di Tarquinia (Corito) da parte di Tarconte figlio di Telefo a sua volta figlio del re arcade Corito. In proposito, è opportuno rilevare che Tarconte, nelle versioni in cui figura figlio di Telefo, è connesso alla fondazione della sola Tarquinia (vedi par. 25; vedi pure cap. XVIII, 3 e n. 85).

 

 

 22.                             La tradizione filoetrusca in Orazio  

 

 Nel 90 a.C., con l'estensione della cittadinanza romana ai popoli italici, le città dell'Etruria persero definitivamente la libertà. Tuttavia, ancora nel II-III sec.d.C., i Tarquiniesi si consideravano federati di Roma, come è attestato dalla iscrizione Tarquinienses foederati  (Tarquiniesi federati) posta su un grosso cippo di marmo  ai piedi della scalinata del tempio della città, detto Ara della Regina[148].

 Agli Etruschi che, per loro stessa ammissione, entravano nella fase terminale della loro storia, non rimaneva che rivendicare dinanzi al mondo di esser loro i veri troiani. 

 Marta Sordi ha osservato che l'indicazione <<Confine dei Dardani (Tul Dardanium)>>, apposta sui cippi di confine della colonia etrusca portata in Tunisia durante i primo secolo a.C., rappresenta la sicura testimonianza della rivendicazione che troviamo presente anche nei poeti augustei del circolo mecenatico, soprattutto in Virgilio[149].

  Nel 44 a. C., l'imperatore romano Giulio Cesare, discendente di Enea, fu ucciso in una congiura. Durante i suoi funerali, in pieno giorno, fu vista, a Roma, una cometa[150]. Il fatto fu interpretato come se la stella di Venere, madre di Enea, fosse apparsa per onorare i funerali del suo discendente Cesare. In quella stessa occasione, l'aruspice etrusco Vulcanio, nel contesto della orazione funebre sulla salma di Cesare, dichiarò che l'apparire della cometa stava ad indicare che era cominciato l'ultimo secolo della nazione etrusca. Aggiunse di aver fatto quella rivelazione contro il volere degli dèi, e che per questo sarebbe morto. Infatti morì non appena ebbe terminato il discorso[151].

 Tutto ciò può significare che gli Etruschi ritenevano che Enea e Cesare appartenevano alla loro stirpe, proprio come qualche anno dopo canterà Virgilio nell'Eneide. E se Vulcanio rivelava il fatto a costo della vita, può voler dire che accettava di  morire pur di rivendicare che la coincidenza della fine del popolo etrusco con la morte dell'imperatore romano, ultimo discendente etrusco-troiano, indicava che i declinanti Etruschi erano, tuttavia, i veri Romani. L'Etruria moriva per rivivere in Roma.

 Il tema è ripreso da Virgilio.

 Marta Sordi ha notato giustamente come

 

 la fine del popolo etrusco riecheggi <<nella grande profezia finale dell'Eneide virgiliana, in cui Giove consola i troiani destinati a perire anche nel nomen e nella lingua, per integrarsi compiutamente con gli Itali, con  la promessa di una durata perenne di Roma nata da Troia>>[152].

 

 Nello stesso periodo, come ha osservato ancora la Sordi, l'Imperatore Augusto restaurava il municipio di Veio, e permetteva che i membri del senato della città si riunissero nel tempio di Venere Genitrice, la progenitrice degli Eneadi[153].

 Alla fine del I sec.a. C., Orazio, nel Carme secolare, da lui composto, su commissione di Augusto, per esser cantato durante le cerimonie dei Ludi Secolari, poteva pubblicamente sostenere che i Troiani erano andati in Etruria per ubbidire al comando degli Dei. Orazio dice loro:

 

 <<Se Roma è opera vostra, se le schiere di Troia raggiunsero il lido etrusco seguendo i vostri comandi [...]>>[154].

   

 Quindi, la tradizione della venuta di Enea nel Lazio vetus attraverso l'Etruria era ancora viva, a Roma, alla fine del I sec.a.C.; anzi era appoggiata dall'imperatore, ed era ufficialmente ricordata durante le pubbliche feste.

                                                                                                           

 

 23.                       Tito Livio, Virgilio e Dionigi di Alicarnasso

 

 Solo dalla seconda metà del I sec.a.C. abbiamo le prime chiare menzioni di uno sbarco diretto di Enea sulla spiaggia latina.

 

 A) TITO LIVIO. Egli è il primo autore, a noi conosciuto, ad aver esplicitamente detto che Enea <<dalla Sicilia approdò con la flotta nel territorio di Laurento>>[155].  Lo storico, tuttavia, non cita la fonte della notizia.

 

 B) VIRGILIO. Egli, che era cittadino romano, ma si sentiva orgoglioso delle origini etrusche della sua Mantova, cercò di mediare la tradizione filoetrusca con la variante romana.  Spostò l'approdo di Enea dalla foce del fiume etrusco Linceo (vedi Licofrone) alla sponda sinistra della foce del Tevere, che egli poteva tuttavia chiamare <<fiume etrusco>> perché non solo nasceva in Etruria, ma segnava anche il confine fra questa regione e il Lazio vetus.

 La foce di questo fiume richiamava una antica tradizione che Plutarco dirà di aver desunto da Aristotele, secondo la quale una flottiglia di navi troiane, <<portata dai venti, arrivò fino in Etruria, e si fermò alla foce del Tevere>>. Qui, una donna di nome Roma, stanca di peregrinare, incendiò le navi costringendo così i suoi compatriotti a restare nella regione e a fondare una città che, dal nome della donna incendiaria, chiameranno Roma (vedi par.3).

 Nel racconto di Plutarco è ancora riconoscibile lo schema della originaria tradizione secondo la quale l'arrivo dei Troiani alla foce del Tevere era stato preceduto da un soggiorno in Etruria; e tale doveva essere la versione di Aristotele.

 Virgilio, nella prima parte dell'Eneide, aveva seguito questa tradizione. Infatti, nel terzo libro, Apollo e i Penati avevano ingiunto ad Enea di tornare a Corito dove era nato Dardano, capostipite dei Troiani. Nella seconda parte del poema, tuttavia, Virgilio farà sbarcare Enea direttamente nel Lazio vetus, alla foce del Tevere, e gli farà esclamare: <<Questa è la patria (Haec patria est)>>[156].

 Che si tratti di un ritorno raffazzonato per piegare alla gloria di Roma una tradizione filoetrusca lo dimostra il fatto che Virgilio cercherà subito di compiere un atto di riparazione. Egli, poiché i Troiani sono minacciati dalle popolazioni indigene che vorrebbero scacciarli, invia Enea a chiedere aiuto a Tarconte che si trova accampato con l'esercito nella campagna compresa fra Corito-Tarquinia e la foce del fiume Mignone, nella quale evidentemente il poeta riconosceva la leggendaria foce del fiume Linceo (= Lucumone?) dove, secondo la tradizione filoetrusca era sbarcato Enea al suo arrivo in Etruria.

 Virgilio e, dopo di lui, il greco Polieno (II sec. d.C.)[157] sono gli unici autori che fanno sbarcare Enea alla foce di questo fiume.

  Raffrontiamo le versioni di Aristotele, Licofrone e Virgilio.

 

 Aristotele/Plutarco: i Troiani prima arrivano in Etruria, poi approdano alla foce del Tevere.

 

 Licofrone: Enea da Troia va in Tracia, da qui giunge in Etruria, alla foce del Linceo, poi scende nel Lazio vetus.

 

 Virgilio: l'eroe, dopo molte tappe intermedie, arriva nel Lazio vetus, alla foce del Tevere, poi va in Etruria, presso la foce del Mignone (il Linceo), per tornare, infine nel Lazio vetus, alla foce del Tevere.

 

 E' verosimile che Virgilio abbia utilizzato una tradizione dove i Troiani (o Enea) emigravano in Etruria, poi scendevano alla foce del Tevere. Ma il poeta, al fine di trovare un compromesso con la versione romana, ha fatto sbarcare Enea direttamente alla foce del Tevere che lui stesso chiamava etrusco, poi lo ha inviato in Etruria, infine lo ha fatto tornare alla foce del fiume.

 

 B) DIONIGI DI ALICARNASSO. Dopo la morte di Virgilio, la situazione si radicalizza. Orazio, come abbiamo visto, sorretto dall'imperatore, è più conseguente di Virgilio. In conformità al volere degli dèi,  egli fa tornare i Troiani in Etruria.

 Con Orazio, verosimilmente, siamo di fronte alle poche parole che riassumono la autentica tradizione filoetrusca che Virgilio aveva piegato alle esigenze dell'epica romana.

 Viceversa, lo storico greco Dionigi di Alicarnasso, su incarico della aristocrazia romana, scrive le Antichità romane, nelle quali ignora ogni apporto etrusco alle origini di Roma, e narra che i Troiani sbarcarono sulla spiaggia di Laurento dopo aver toccato l'isola di Procida ed il promontorio di Gaeta[158]. Egli tuttavia, che, quando può, cita sempre di volta in volta una fonte autorevole a sostegno delle sue tesi, stavolta, come già Livio, non presenta nessuna fonte.

 La stessa cosa avviene nei commentatori di Virgilio, quali Elio Donato, Servio, Tiberio Donato, e l'ignoto autore degli Scholia Veronensia.

 Lo pseudo Aurelio Vittore, nell'Origine del popolo Romano, cita  i vari scrittori da lui di volta in volta utilizzati per narrare le avventure di Enea, ma quando giunge a dire che l'eroe, dopo aver toccato Capo Miseno e Gaeta <<arrivò nella regione d'Italia dove regnava Latino>>[159], non cita la fonte.

 

                                                                                             

 24.                                       Ellanico di Lesbo

 

 Analizziamo ora quella che si ritiene sia la più antica testimonianza della fondazione di Roma da parte di Enea.

 Dionigi di Alicarnasso (fine I sec.a.C.) sosteneva che Ellanico di Lesbo (seconda metà V sec.a.C.) avesse detto che

 

<<Enea, arrivato dalla terra dei Molossi in Italia insieme ad Ulisse, fu il fondatore della città, e che la avrebbe chiamata Roma dal nome di una delle donne troiane. Questa aveva istigato le altre donne, ed assieme a loro aveva appiccato fuoco alle navi, perché era stanca delle peregrinazioni>>[160].

 

 Innanzitutto, osserviamo che non è possibile che Ellanico, nel quinto secolo avanti Cristo, avesse usato la parola Italia per indicare il luogo dello sbarco di Enea, sia che lo avesse voluto ambientare in Etruria che nel Lazio vetus. Al tempo di Ellanico, la parola designava solo la punta estrema della penisola. Invece, al tempo in cui Dionigi parafrasava e riassumeva il testo originale di Ellanico, l'Italia andava dalle Alpi al Mare Ionio, e comprendeva sia il Lazio vetus che l'Etruria.

 Ora, secondo la versione parallela che Plutarco diceva di aver preso da Aristotele, i profughi troiani prima furono sbattuti dai venti sulle coste dell'Etruria, poi si recarono alla foce del Tevere. Qui, una donna di nome Roma, stanca di peregrinare, incendiò le navi dei compagni costringendoli in tal modo a restare sul luogo dove edificheranno una città che, dal nome della donna incendiaria, chiameranno Roma (vedi par. 3). Roma era anche il nome della figlia di Telefo, sposa di Enea, che diede il nome alla città (vedi par. 5).

  A sua volta questa sposa di Enea figlia di Telefo, e perciò sorella degli eroi nazionali etruschi Tarconte e Tirreno, rimanda ad una donna di nome Tirrenia (= Etruria) che, secondo la tradizione riferita da Verrio Flacco, fu la moglie di Enea e gli  diede un figlio di nome Romolo.

 Per quanto riguarda, poi, l'incontro di Enea con Ulisse, la versione parallela di Licofrone lo faceva avvenire in Etruria.

 Possiamo allora ritenere che <<Italia>> sia stata una voce generica usata da Dionigi, in luogo di Tirrenia, durante il lavoro di parafrasi e riassunto, per adattare il racconto di Ellanico alle motivazioni della propria opera che, in posizione antivirgiliana, mirava a dimostrare che Roma era una città greca, e con ciò a disconoscere l'apporto degli Etruschi alla formazione dell'ethnos primitivo della città.

 

 

 25.                                     Tarconte fra i Troiani

 

 Su uno specchio etrusco del III sec.a.C., proveniente da Città della Pieve (Perugia), dove sarebbe stato trovato nel 1556 o nel 1856, sono raffigurate due coppie di personaggi (fig. ...). A destra si vedono  Priamo, re di Troia, e suo figlio Alessandro. Sopra il primo è scritto Priumne (Priamo); sopra il secondo Helasntre (Alessandro). Sul lato sinistro dello specchio, la dea Minerva guarda un giovane. Questi, a sua volta, le si rivolge con un braccio alzato. Sullo sfondo della scena, il tempio della dea. Sopra la testa di Minerva è scritto il nome etrusco Menerva. Sopra quella del giovane, fra le ossidazioni dello specchio, stando alla lettura del Nicholls, è scritto Tarch[...][161].

 In effetti, se la riproduzione in disegno fatta dal Nicholls  di quest’ultima parola è fedele al modello, le due prime lettere sono certe, e le altre e due sono perfettamente ricostruibili da quel che ne sopravvive.

 Il Nicholls interpreta Tarch[....] come la prima parte del nome etrusco di Tarconte, e propone di  completarlo in Tarch[unus], per analogia con Avle Tarchunus (Aulo Tarconte?) che, nello Specchio di Tuscania, è scritto accanto al personaggio che osserva il giovanetto Pavatarchies (Tagete?) mentre legge nelle viscere di un animale.

 Fino a qualche tempo fa, Avle Tarchunus  veniva proposto come la forma etrusca del nome di “Aulo Tarconte”. Ora, a torto o a ragione, c'è chi ritiene che  si debba intendere come Aulo Tarquinio oppure  come “Aulo figlio di Tarquinio” oppure “Aulo figlio di Tarconte”[162]. Con ciò, qualcuno ha contestato l'integrazione proposta dal Nicholls[163]. 

 Noi preferiamo fermarci prudentemente alle prime quattro lettere Tarch[---] che, in ogni caso, costituiscono la radice sia del nome di Tarquinio che di quello di Tarconte.

 Ma esaminiamo il contenuto mitostorico dello specchio.

                                                            ***

 Priamo era re di Troia e padre di Alessandro detto anche Paride.

Alla nascita di Alessandro, venne predetto che il bambino avrebbe causato la rovina della città. Così egli fu abbandonato sul monte Ida, ma sopravvisse perché prima fu allattato da un'orsa, e poi fu raccolto da Agelao. Il ragazzo crebbe sull'Ida guardando le mandrie, ed amò la ninfa Enone (figlia del fiume Cebreno) dalla quale ebbe un figlio di nome Corito o Corinto (vedi par 4 c; cap. VI, 5).

 Dopo varie vicende, Alessandro fu reintegrato nella città ed inviato come ambasciatore a Sparta. Qui, rapì Elena, moglie del re Menelao, e la condusse con sé a Troia insieme al Palladio[164].

 Il Palladio era una statua della dea Minerva che proteggeva la città che lo custodiva. Perciò, i Troiani lo conservarono, nel tempio dedicato alla dea, come un feticcio protettore della città.

 Menelao, per vendicare l’oltraggio, chiese aiuto agli altri re della Grecia. Fu allestito un esercito che si imbarcò su una flotta e si diresse contro Troia. Ma poiché la spiaggia della città non era facilmente riconoscibile, i Greci commisero molti errori di sbarco.

 Intanto Enone, per vendicarsi di Alessandro che la aveva abbandonata per Elena, inviò presso i Greci il  figlio Corito o Corinto perché ne guidasse la flotta fin sulla spiaggia di Troia[165].

 Secondo un'altra versione, Enone inviò il figlio a Troia, presso Alessandro  ed Elena perché, essendo più bello del padre, gli insidiasse la moglie. Alessandro lo uccise[166].

 Altre leggende parlano, poi, di un Corito, detto anche Dardano, figlio di Alessandro e di Elena (vedi par.4; cap. VI, 5).

 Quando Troia cadde, i Greci consentirono al troiano Antenore, che li aveva favoriti nella presa della città, di portar via i profughi. Egli li condusse nel Veneto, in Italia.

 Lo stessa concessione i Greci fecero ad Enea perché si diceva che anch'egli avesse favorito la presa della città. Egli condusse i profughi in Etruria e nel Lazio vetus, e portò con sé anche il Palladio.

 Pare che lo stesso favore i Greci concessero a Corito o Corinto, figlio di Paride e di Enone, in cambio del fatto che, in precedenza, aveva guidato la flotta greca fino alla spiaggia di Troia. Infatti, conosciamo una tradizione secondo la quale Corito, figlio di Paride e di Enone, non fu ucciso dal padre, ma venne in Etruria e fondò la città di Corito (Tarquinia) (vedi par. 4; cap. VI, 5)[167].

                                                            ***   

  Si diceva che anche Telefo, figlio di un omonimo re arcade di nome Corito o Corinto, e padre di Tarconte, avesse guidato la flotta greca fino alla spiaggia di Troia (vedi par. 5). Egli sarebbe poi venuto in Italia, assieme ai suoi figli Tarconte e Tirreno. Tarconte avrebbe fondato Tarquinia (Corito), e Tirreno avrebbe dato il nome alla regione. e fondato Cere[168].

 Telefo era nato da Ercole, ma era figlio adottivo di un re arcade di nome Corinto o Corito. Egli emigrò in Misia dove divenne re per avere ereditato il trono da Teutrante del quale aveva sposato la figlia Argiope[169].

 Egli dovette avere altre mogli o un'altra sola alla quale vennero attribuiti nomi diversi: Astioche, Hiera, Laodice.

 Secondo una tradizione fattaci conoscere da Tzetze, Hiera morì combattendo contro i Greci che avevano invaso la Misia perché la avevano scambiata con la vicina Traode[170]. I suoi figli erano Euripilo[171], Tarconte, eponimo fondatore di Tarquinia, e Tirreno, eponimo del popolo etrusco[172].

 Durante l'ultimo anno di guerra, Euripilo portò un esercito di Cetei in soccorso di Troia  contro i Greci[173].

 Laodice era figlia di Priamo re di Troia, ma il suo ruolo si confonde spesso con quello di Hiera[174].

 Astioche era sorella di Priamo, ed assume il ruolo di Hiera perché anch'ella fu ritenuta madre di Euripilo[175]. 

                                                            ***

 Dionigi di Alicarnasso sosteneva che gli Etruschi erano autoctoni dell'Italia[176]. Giovanni Lido, che diceva di aver letto l'originaria stesura etrusca dei Libri Tagetici  scritti da Tarconte, riferiva che  gli Etruschi erano un popolo italico autoctono di stirpe sicana, sul quale si erano innestati i Lidi di Tirreno, e che Tarconte era un aruspice etrusco direttamente istruito da Tirreno[177].

 Erodoto riferiva che i Lidi dicevano che gli Etruschi erano, invece, stati condotti in Italia da Tirreno figlio di Ati re della Lidia.

 Nella tradizione greca, poi, gli Etruschi erano un popolo misio condotto in Italia da Tarconte e Tirreno figli di Telefo[178], se non da Telefo stesso. Enea, giunto in Etruria nella stessa epoca, si unì a Tarconte e Tirreno, e ne sposò una sorella di nome Roma che diede poi il nome alla città di Roma[179].

 La leggenda era nata, evidentemente, in sede di cultura greca, per piegare la tradizione etrusca (dove Tarconte era l'eponimo eroe autoctono di Tarquinia) da un lato alla tradizione lidia, sì che Tarconte diventava fratello di Tirreno, e dall'altro a quella filotroiana, sì che entrambi i fratelli diventavano

 

 a) figli di Telefo e di Hiera, verosimilmente ritenuta troiana, come Laodice ed Astioche;

 b) fratelli, comunque, di Euripilo, figlio di Telefo e Hiera, che aveva combattuto nella guerra di Troia (in alcune varianti, Euripilo è figlio di Astioche sorella di Priamo, per cui fonti non pervenuteci potrebbero aver presentato anche Tarconte e Tirreno come figli di Astioche, sorella di Priamo re di Troia);

 c) parenti ed alleati di Enea che sposa una loro sorella di nome Roma, eponima della città.

 

 Non è facile distinguere quel che in queste leggende sia una pura elaborazione greca da quel che, invece,  potrebbe essersi sviluppato in ambienti etruschi, saturi di cultura greca, anche diversi da Tarquinia. Fatto sta che Tarconte è connesso alla sola fondazione di Tarquinia, e non anche a quella di altre città,  proprio nelle versioni in cui viene presentato come figlio di Telefo (a sua volta figlio di Corito), e con ciò connesso alle vicende di Troia (vedi pure cap. XVIII, 3 e n.84).  Stefano di Bisanzio dice: <<Tarquinia, fondata da Tarconte figlio di Telefo>>[180]. Tzetze sostiene: <<Il nome della Tirrenia deriva da Tirreno, quello di Tarquinia da Tarconte figlio di Telefo [...]. Tarconte e Tirreno furono figli di Telefo>>[181].

                                                           ***

 Riassumiamo e schematizziamo.

 Tarconte è il fondatore di Tarquinia sia nella tradizione etrusca che in quella greca o filogreca.

 In quest'ultima tradizione, egli è figlio di Telefo, e fratello di Tirreno e di Euripilo.

 Tzetze dice che tutti e tre i fratelli sono figli di Telefo e di Hiera. Egli non presenta altre tradizioni.

 Tuttavia, ci sono varianti in cui Euripilo è presentato come figlio di Telefo e di Astioche sorella di Priamo re di Troia. Fonti non pervenuteci potrebbero aver presentato allo stesso modo Tarconte e Tirreno.

 Telefo è figlio di Ercole, ma è nato fra i pastori del re arcade Corinto/Corito che lo adotta.

 Corito/Corinto (figlio di Alessandro) è anche il nome del fondatore della omonima etrusca città di Corito/Corinto.

 Sia Corito/Corinto (figlio di Alessandro) che Telefo figlio di Corito/Corinto (re arcade) guidano la flotta greca sulla spiaggia di Troia.

 Sia Corito/Corinto, sia Telefo, sia i suoi figli Tarconte e Tirreno conducono una colonia dall'Asia Minore in Italia.

 Tarconte e Corito/Corinto figlio di Alessandro assumono, dunque, la stessa funzione nei riguardi della fondazione di Cori(n)to-Tarquinia.

 Tarconte, figlio di Telefo (a sua volta figlio di Corito/Corinto) è legato alla fondazione della sola Tarquinia.

 Enea, venuto in Etruria, nella stessa epoca di Tarconte e Tirreno, unisce a questi le sue forze e sposa una loro sorella di nome Roma.

                                                                  ***

 Nello specchio etrusco di Città della Pieve, il giovane Tarconte è dinanzi a Priamo, re di Troia, ad Alessandro, a Minerva e al suo tempio contenitore del Palladio. Quel che sappiamo della sua figura mitostorica basterebbe a giustificarne la presenza in ambiente troiano.

 Ma nello specchio, egli sta conversando con la dea Minerva, ed è dinanzi al suo tempio. Questo potrebbe conferirgli una funzione che ci è finora sconosciuta. Sappiamo che Corito figlio di Alessandro fondò in Etruria la città di Corito (Tarquinia). Sappiamo pure che Tarconte, “nipote” di un Corito, fondò in Etruria la città di Tarquinia (Corito). Cautamente, possiamo, ipotizzare che l’autore dello specchio si sia inserito in una  tradizione etrusca filogreca in cui la venuta in Etruria di Tarconte, fondatore di Tarquinia (Corito), fosse stata in qualche modo assimilata a quella dei Troiani guidati da Enea o da  Corito, fondatore di Corito (Tarquinia). Si potrebbe anche pensare con molta cautela a una fusione della figura di Tarconte con quella di Corito.

                                                             ***

 Abbiamo visto che, nelle fonti letterarie, questo Tarconte di Ambiente misio-troiano è presentato come fondatore della sola Tarquinia.

 La sua leggenda doveva esser conosciuta a Città della Pieve; ma, probabilmente lo specchio di <<Tarconte fra i Troiani>>, come noi lo abbiamo chiamato, vi era stato importato da Tarquinia. Infatti, è molto simile a uno specchio in possesso della Biblioteca Apostolica Vaticana di Roma (fig. …)[182] , ed a un altro (s.n.) in mostra presso il Museo Nazionale Etrusco a Tarquinia (fig. ...) dove potremmo localizzare l’officina di provenienza degli altri esemplari.

                            

 

                          

 

 



[1] In Solino, Miscellanea di cose memorabili, I, 18-19.

[2] Servio Danielino, all'Eneide, III, 359: <<Sciendum tamen, sicut veteres auctores adfirmant, peritissimos auguriorum et Aeneam et plurimos fuisse Troianos. Non nulli autem dicunt a Marsia rege missos e Phrigia regnante Fauno, qui disciplinam auguriorum Italis ostenderunt>>.

[3] Licia Luschi, Cacu, Fauno e i venti, <<Studi Etruschi>>, LVII, 1991, pag. 105, sgg..

[4] Strabone, Geografia, VI,1.

[5] Scolii a Teocrito, IV, 33.

[6] Diodoro Siculo, Storia universale, IV, 24.

[7] Conone, Narrazioni, 3.

[8] Tzetze, Alla Alessandra, v. 921.

[9] Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, I, 72.

[10] Servio Danielino, op. cit., X, 179.

[11] Eraclide di Lembo, in Festo, De significatione verborum, s.v. Roma; Servio Danielino, op.cit. , I, 273; Solino, op. cit ., I, 2-3.

[12] Plutarco, Vita di Romolo II, 1.

[13] Plutarco, op. cit. , I; Questioni morali, VI, 265 b-c.

[14] Dionigi di Alicarnasso, op.cit . , I,47; 49.

[15] Stefano di Bisanzio, De urbibus, s.v. Aineia.

[16] Dionigi di Alicarnasso, op. cit. , I, 72.

[17] Festo, op. cit. , s.v. Ianiculum.

[18] Virgilio, Eneide, V, 604 sgg.; Dionigi di Alicarnasso, op. cit. , I, 52.

[19] Dionigi di Alicarnasso, op. cit. , I, 72.

[20] Anonimo, Origine del popolo romano, X, 3; Servio, Commento all'Eneide, VIII,1.

[21] Polieno, Stratagemmi (I Romani).

[22] Servio Danielino, op. cit. , III, 170: <<Quidam autem de Corito hanc fabulam tradunt. Dardanus, cum equestri proelio ab Aboriginibus pulsus galeam perdidisse, propter quam resistens et in audaciam suos reducens, victoriam adeptus est, tum ob rem feliciter gestam oppidum ubi galeam amiserat, condidit, cui Corytho nomen indidit eo quod Graece "korys" galea dicitur. Vel Corythum montem in quo Corithus sepultus est. Alli Corythum a Corytho Paridis et Oenones filio, conditam ferunt>>.

[23] Ptol. Heph.II, in Photii Biblioteca.

[24] Dionigi di Alicarnasso, op. cit. , I, 20.

[25] Dionigi di Alicarnasso, op. cit. , I, 9; 22.

[26] Virgilio, op. cit. , VII, 209.

[27] Servio Danielino, op. cit. , VII, 209.

[28] Virgilio, op. cit. , IX, 10.

[29] Servio Danielino, op. cit. , IX, 10.

[30] In Partenio, Narrazioni erotiche, IV, 34; Conone, Narrazioni, 23.

[31] Nicandro, in Partenio, loc. u.cit. ; Eustazio, Omero, pag. 1479; Tzetze, Omerica, vv.440-442.

[32] Dionisio Scitabrachione, Scolio ad Omero, III, 40; Eustazio, op. cit. , pag. 380.

[33]  Tzetze, Alla Alessandra, v.67.

[34] Licofrone, Alessandra, v. 67.

[35] Dionigi di Alicarnasso, op. cit. , I, 53,3.

[36] Ovidio, Le metamorfosi, VII, 361: <<Quaque pater Corythi parva tumulatus harena>>.

[37] Igino, Leggende, 99.

[38] K.Kerényi, Gli dèi e gli eroi della Grecia, Milano, Garzanti, 1986, II, pag. 349.

[39] Suida, s.v. Latinion.

[40] Malelas, Chronicon, VI, 162.

[41] Plutarco, op. cit. , I.

[42] Qualcuno riteneva pure che Latino e Salio fossero  figli di Cateto e di Salia, una principessa figlia del re etrusco Annio, eponimo del fiume Aniene (Dionigi di Alicarnasso, op. cit. ,I, 52; Pseudo Plutarco, Parall. , 40; F.H.G., III, pag. 230).

[43] In Festo, op. cit. , s.v. Roma.

[44] Dionigi di Alicarnasso, op. cit. , I, 72.

[45] Servio, All'Eneide, III, 680.

[46] Virgilio, Georgiche, I, 20.

[47] Dominique Briquell, L'origine lydienne des étrusques, Roma, 1991, pagg. 200-204.

[48] Enciclopedia Virgiliana, s.v. Enea; L.I.M.C, s.v. Aineias,n.92.

[49] Fausto Zevi, Nuovi vasi del Pittore della Sfinge Barbuta, <<Studi Etruschi>>, XXXIX, 1969, pagg.39-58; Note sulla leggenda di Enea in Italia, in Gli Etruschi e Roma, Roma, Bretschneider, 1981, pag. 148.

[50] Virgilio, Eneide, III, 239; VI, 163-212.

[51] N. Horsfall, in Enciclopedia  virgiliana, s.v. Enea, pag. 223.

[52] Dionigi di Alicarnasso, op. cit. , I, 45, 4.

[53] L.I.M.C. , I, 1, s.v. Aineias, n.70.

[54] L.I.M.C. , I, 1, s.v. Aineias, nn.  60; 61; 63; 66; 67; 69.

[55] L.I.M.C. , I, 1, s.v. Aineias, n.70.

[56] L.I.M.C. , I, 1, s.v. Aineias, nn. 65; 83; 88.

[57] L.I.M.C. , I, 1 s.v. Aineias, n. 64.

[58] L.I.M.C. , I, 1 s.v. Aineias, n. 91.

[59] Dionigi di Alicarnasso, op. cit. , I, 49.

[60] Dionigi di Alicarnasso, op. cit. , I, 47-48.

[61] Dionigi di Alicarnasso, op. cit. , I, 49.

[62] Tucidide, La guerra del Peloponneso, IV, 109.

[63] Dionigi di Alicarnasso, op. cit. , I, 25.

[64] Virgilio, op. cit. , III, 15-18.

[65] Servio, op. cit. , III, 15.

[66] Servio Danielino, op. cit. , III, 15.

[67] Stefano Bizantino, op. cit. , s.v. Aineia.   

[68] Dionigi di Alicarnasso, op. cit. , I, 72.

[69] Festo, op. cit. , s.v. Ianiculum.

[70] Enea porta il padre su una sola spalla soltanto nell'idria greca del Vaticano.

[71] L.I.M.C. , s.v. Aineias, n.95

[72] A. Alfoeldi, Early Rome and the Latins, The University of Michingan Press, 1963, pag. 286.

[73] A. Alfoeldi, op. cit. ; G. Karl Galinski, Aeneas, Sicily and Rome, Princeton, University Press, 1969; Marta Sordi, Il mito troiano e l'eredità etrusca di Roma, Milano, Jaca Book, 1989.

[74] L.I.M.C. , I, 1, s.v. Aineias.

[75] L.I.M.C. , cit., n. 38

[76] L.I.M.C. , cit., n. 42

[77] L.I.M.C. , cit., n. 41

[78] L.I.M.C. , cit., n.43

[79] Servio Danielino, op. cit. , I, 382.

[80] Virgilio, op.cit. , VIII, 590.

[81] Virgilio, op. cit. , VIII, 681.

[82] Virgilio, op. cit. , IV, 227-231.

[83] Vedi da ultimo Leandro Polverini, in Enciclopedia virgiliana, s.v. Troia, pagg. 287-288.

[84] W. Helbig, Bull. dell'Inst. 1882; Gerard, Etr. Sp., V, 103, tav. 85 a; L.I.M.C., I, 1, s.v. Aineias, n. 206.

[85] Per entrambi i gentilizi, vedi Th.L.E. , pag. 124.

[86] Licofrone, op. cit. , vv. 1225-1282.

[87] Licofrone, op.cit. , vv. 1225-2349.

[88] Il testo della parafrasi greca è in Eduardus Scheer, Lycophronis Alexandra, vol I, 1958, pag. v.1242, pag.102. Traduzione italiana in G. Buonamici, Fonti di Storia Etrusca, Firenze-Roma, Olschki, 1939, pag.106.

[89] Tzetze, Alla Alessandra, vv. 1240 e segg.

[90] Originariamente, questi particolari facevano forse parte integrante della Alessandra. E’, infatti, possibile, come alcuni sospettano,  che questa parte della profezia abbia subito tagli e integrazioni per adattarla alla gloria di Roma.  

[91] Plutarco, op. cit. , I.

[92] In Festo, op. cit. , s.v. Roma.

[93] Vedi la tavola sinottica dei re di Alba in C. Trieber, Zur Kritik des Eusebios - Die Konigstafel von Alba Longa, <<Hermes>>, XXIX, 1894, pagg. 124-125.

[94] Licofrone, op. cit. , vv.1250-1252.

[95] Servio Danielino, op. cit. , III, 256.

[96] Dionigi di Alicarnasso, op.cit. , I, 55.

[97] Origine del popolo romano, XI, 1.

[98] Op. u.cit., XII, 3.

[99] Virgilio, op. cit., III, 245-247. Il poeta concilia la versione di Varrone e Dionigi con l'oracolo che Apollo aveva dato ad Enea. Cercate l'antica madre, gli aveva detto Apollo. L'antica madre è Corito, in Italia, gli avevano poi specificato in sogno gli dèi Penati.

[100] Licofrone, op. cit. , vv. 1253-1258.

[101] Origine del popolo romano, XI, 2, 3; Vedi anche Dionigi di Alicarnasso, op. cit., I, 55.

[102] Servio, op. cit., III, 390; VIII, 43.

[103] Servio, op. cit. , VII, 1.

[104] Dionigi di Alicarnasso, op. cit. , I, 49; 72. Dopo l'occupazione romana, gli Etruschi della Campania rivendicavano, tuttavia, che il fondatore di Capua fosse stato Telefo, figlio adottivo del re Corito, come si evince dalle monete battute nella città durante il III sec. a. C., dove si vede la cerva che allatta Telefo infante, abbandonato sul monte Partenio nella terra del re arcade Corito (vedi par. 5).

[105] Licofrone, op. cit. , vv.1259-1282.

[106] Varrone, De re rustica, II, 4: <<Huius suis ac porcorum etiam nunc vestigia appareant, quod et simulacra eorum ahenea etiam nunc in pubblico posita, et corpus matris ab sacerdotibus, quod in alsura fuerit, demonstratur>>.

[107] Vedi nota n. 119.

[108] E. Ciaceri, op. cit., pagg. 2; 19.

[109] Polibio, Storie. , XII, 4, 6.

[110] Dionigi di Alicarnasso, op. cit. , I, 67, 4.

[111] Dionigi di Alicarnasso, op. cit. , I, 89.

[112] Aa. Vv. , Civiltà del Lazio primitivo, Roma, 1976, pag. 306, sgg.; C. Chiaramonti Trerè, in Gli Etruschi di Tarquinia, Modena, Panini, pag. 185.

[113] J. Heurgon, Il Mediterraneo occidentale dalla preistoria a Roma arcaica, Bari, Laterza, 1972, pag. 201.

[114] Dal greco Kallinicos (= dalla bella vittoria)?

[115] G. Bagnasco Gianni, in Gli Etruschi di Tarquinia, cit. , pagg. 172-176.

[116] C. Chiaramonti Trerè, in Gli Etruschi di Tarquinia, cit. , pag. 185.

[117] Ibidem.

[118] Macrobio, Saturnali, I, 15, 19.

[119] Virgilio, op. cit., VIII, 81-85; Servio, op. cit., III, 390; VIII, 43.

[120] La figura del medaglione è in Enciclopedia Virgiliana , s.v. Lavinio, pag. 151.

[121] Il loro nome non solo richiama quello di Orgolnio re di Cere nel IV sec. a.C., ma si ritrova in una iscrizione ceretana.

[122] C.I.L., XIII, 1668.

[123] L. Canina, L'Antica Etruria Marittima, Roma, 1851.

[124] Virgilio, op. cit., III, 182-187.

[125] In Origine del popolo romano, XIII, 1.

[126] M. Torelli, Elogia Tarquiniensia, Sansoni, Firenze, 1975, pagg. 89-92.

[127] Tito Livio, Storia di Roma, VI, 4.

[128] Tito Livio, op. cit., VII, 27.

[129] Solino, op. cit. ,II, 14.

[130] G. K. Galynsky, op. cit., pagg.115-118.

[131] Anche Festo parla di un tempio di Venere Fruti, chiamato Frutinal (Frutinal templum Veneris Fruti).

[132] Contra: Galynsky, loc. cit..

[133] Plutarco, op. cit., I.

[134] In Festo, op. cit., s.v. Roma.

[135] In Plutarco, op. cit. , I.

[136] Plutarco, op. cit. , III, 4.

[137] Dionigi di Alicarnasso, op. cit. , IV, 2.

[138] Cicerone, La Repubblica, II, 21: <<ex serva tarquiniensi natum>>.

[139] Dionigi di Alicarnasso, op. cit. , I, 64,2,3.

[140] Virgilio, op. cit. , VII, 485.

[141] Dionigi di Alicarnasso, op cit. , I, 70,2.

[142] Servio, op. cit. , III, 501.

[143] A. Colozier, Les Etrusques et Carthage, <<Melanges d'arch. et d'hist.>>, LXV, 1953, pagg.63-98.

[144] M.Cristofani, Rivista di Epigrafia Etrusca, <<Studi Etruschi>>, XXXVIII, 1970 pag. 332.

[145] O. Carruba, Nuova lettura dei cippi della Tunisia, <<Athenaeum>>, LIV, 1976. Contra, Heurgon (vedi nota n. 128).

[146] J.Heurgon, Les Dardanies en Afrique, <<Revue des études latines>>, 1969, pagg. 284-295; Inscriptiones étrusque de Tunisie, <<CRAI>>, 1969, pagg. 526-551.

[147] Contra: J. Heurgon, opere elencate alla nota precedente.

[148] M. Torelli, Elogia Tarquiniensia, Sansoni, Firenze, 1975, pag. 162-163.

[149] M. Sordi, op. cit. , pag.20.

[150] Non si tratta della cometa di Halley, come noi stessi erroneamente abbiamo ritenuto in altra opera per aver seguito Arnaldo d'Aversa (La lingua degli Etruschi, Brescia, Paideia, 1979, pag. 33). La cometa di Halley fu visibile a Roma solo nell'87 e nel 12 a. C..

[151] Servio Danielino, Alle Bucoliche, IX, 46.

[152] M. Sordi, op. cit. , pag. 27

[153] M. Sordi, op. cit. , pag. 20; 27.

[154] Orazio, Carme secolare, vv. 37-40: <<Roma si vestrus est opus, Iliaeque/ litus etruscum tenuere turmae/ iussa pars mutare Lares et urbem,/ sospite cursu [...]>>.

[155] Tito Livio, op. cit. , I, 1: <<ab Sicilia classe ad Laurentem agrum tenuisse>>.

[156] Virgilio, op. cit. , VII, 122.  Lo stesso Tiberino, dio fluviale del luogo, dice ad Enea: <<Oh stirpe di dèi, che riconduci a noi dai nemici la città troiana... Oh atteso dal suolo laurente e dai campi latini, qui è una sicura dimora per te, e sicuri Penati...Io sono il ceruleo Tevere...Qui la mia grande dimora, il capo esce tra eccelse città>>(VIII, 36-65).

 Poiché il Tevere nasceva in Etruria, Virgilio aveva a volte definito il fiume come etrusco, ma in questa occasione non lo fa. Anzi, Tiberino non si presenta ad Enea come un dio etrusco, bensì latino. Dio  fluviale del luogo, lo definisce il poeta (VIII, 31: deus ipse loci fluvio Tiberino amoeno). A sua volta, Tiberino dichiara ad Enea: << Qui è la mia grande sede, il capo esce da eccelse città (VIII, 65: Hic mihi magna domus celsis caput urbibus exit).

 L'espressione è stata interpretata in vari modi. Alcuni intendono che Tiberino alluda alla futura Roma, divenuta capitale di illustri città. Altri intendono che il dio voglia sostenere che la sua sede sia Roma o, comunque, il Lazio vetus, ma che il suo cammino iniziava fra le eccelse città dell'Etruria.

 C'è poi chi aggiunge che con ciò il poeta volesse ritenere che l'ordine dato ad Enea dagli dèi di ritornare a Corito, terra natale di Dardano capostipite dei Troiani, potesse cosiderarsi soddisfatto con l'approdo alla foce del Tevere.

 In ogni caso, la sponda latina della foce del fiume assume la funzione  che, stando alla prima parte dell'Eneide, avrebbe dovuto assumere la  etrusca città di Corito.

[157] Polieno, Stratagemmi, VIII, 25, 2: <<Andando raminghi i Troiani compagni di Enea, presero terra alla fine in Italia, e si ritirarono nelle foci del Tevere>>.

[158] Dionigi di Alicarnasso, op. cit. , I, 53; 63.

[159] Origine del popolo Romano, X, 1: <<Inde ad eam Italiae oram [...] Latino regnante pervectum>>.

[160] Dionigi di Alicarnasso, op. cit. , I, 72.

[161] R.V. Nicholls, Corpus Etruscorum Speculorum, Great Britain, Cambridge, 1993, II, 17. Contra: M. Martelli, Sul nome etrusco di Alessandro, <<Studi Etruschi>>, LX (1994), pagg. 166-168.

[162] M. Cristofani, Il cosiddetto specchio di Tarchon: un recupero e una nuova lettura, <<Prospettiva>>, XLI, 1995, pagg. 10 sgg.

[163] M. Martelli, op. cit. , pagg. 166-168. L'integrazione non potrebbe essere né Talmithe né *Tartane (Dardano) proposto da Martelli. Nel secondo caso, c'è da osservare che il nome non ricorre mai nella lingua etrusca: la forma Dardanium dei cippi della Tunisia utilizza il suono della "D" latina proprio perchè in etrusco non esisteva la forma corrispondente. Nell'uno e nell'altro caso, poi, le lettere da ricostruire non aderiscono affatto alle sopravvivenze delle restanti lettere etrusche.

[164]  Antistene, Ulisse, 1, in Oratores Attici, II, Parigi, Didot, 1858; W.H. Roscher, Lexicon Griechischen und Romischen Mitholohie, Leipzig, Teuber, 1897, s.v. Palladion.

[165] Tzetze, op. cit. , 57.

[166] Conone, op. cit. , 23.

[167] Servio Danielino, op. cit. , III, 170.

[168]  La fondazione di Cere da parte di Tirreno, figlio di Telefo (perciò fratello di Tarconte), è in Servio Danielino, All’Eneide, VIII, 478. Si noti che non si tratta di Tirreno figlio di Ati.

[169] Diodoro Siculo, op. cit. , IV, 33, 12; Ciliari, XII, 949.

[170] Tzetze, Antehomerica, 275.

[171] Tzetze, Posthomerica, 558.

[172] Tzetze, Alla Alessandra, 1248.

[173] Tzetze, Posthomerica, 558.

[174] Igino, op. cit. , 90; 101.

[175] Scolio a Odissea, XI, 520; Servio Dan. , Alle Bucoliche, VI, 72.

[176] Dionigi di Alicarnasso, op. cit. , I, 30.

[177] Giovanni Lido, De magistr. pop. romani (prefazione); De ostentis, II, 6, B.

[178] Licofrone, op. cit. , vv. 1240, sgg.

[179] Alcimo Siculo, in Festo, op. cit. , s.v. Roma.

[180] Stefano di Bisanzio, op. cit. , s.v. Tarchonion.

[181] Tzetze, op. cit. , v. 1242; 1246.

[182] R. Lambrechts, Gli specchi etruschi, Città del Vaticano, 1996, pagg. 47-50 e fig. 45.