Da <<Bollettino Socità Tarquiniense d'Arte e Storia>>, n.28, 1999
Alberto Palmucci
I RE DI TARQUINIA: DEMARATO CORINTO E SUO FIGLIO LUCUMONE
Questa notte tutta l’Etruria
Ennio
.
1.
Cicerone.
Tra le fonti pervenuteci, Cicerone (106-43 a.C.) è il primo a spiegarci chi
fosse Demarato il Corinto, padre di Lucio Tarquinio Prisco re di Roma. Egli, nel
De Repubblica, scrive:
<<Per
la prima volta, su influsso di una civiltà straniera, Roma si affinò
culturalmente. Non un piccolo ruscello, ma un abbondantissimo fiume di arti e di
scienze affluì dalla Grecia. Si racconta, infatti, che Demarato Corinzio,
certamente l'uomo più importante della sua città quanto a onori, autorità e
fortune, non potendo sopportare la tirannide di Cipselo, fuggì da Corinto con
molto denaro[1],
e si portasse a Tarquinia, fiorentissima città dell'Etruria>>[2].
Cornelio Nepote specifica che
<<Il
pittore Ekphantos venne in Italia,
seguendo Demarato, padre del re Tarquinio Prisco, esule da Corinto per sfuggire
alla persecuzione del tiranno Cipselo>>[3].
Plinio
aggiunge:
<<Alcuni
raccontano che […] Demarato, padre poi in Etruria di Tarquinio Prisco,
fuggendo da Corinto, fu accompagnato dai coronoplastici Eucheir (=abile di mano), Diapos
(=dotato d'occhio) ed Eugammos
(=buono al disegno), i quali
insegnarono in Italia l’arte della plastica>>[4].
Tacito
ricorda che
<<In
Italia, gli Etruschi ebbero la scrittura dal Corinzio Demarato>>[5].
A
questo proposito, è significativo che le più antiche iscrizioni etrusche
provengano da Tarquinia, e siano addirittura più antiche del tempo di Demarato.
Si tratta di due dediche risalenti alla fine dell’VIII sec. a. C. : la prima
su una kotyle protocorinzia, e l'altra su una tazza d’impasto locale [6].
Secondo
la cronologia classica, Demarato avrebbe, invece, emigrato da Corinto a
Tarquinia intorno al 657 a. C. [7].
Pare,
dunque, che la scrittura sia stata, in ogni caso, introdotta in Etruria
attraverso Tarquinia, e che, nella tradizionale figura di Demarato siano però
confluiti meriti d'avvenimenti accaduti molto tempo prima.
Il
racconto di Cicerone continua così:
<<Quell'uomo
forte e amante della libertà, quando venne poi a sapere che la dominazione di
Cipselo si era consolidata, non volle più tornare in patria, fu assunto
cittadino a Tarquinia, e lì fissò il suo domicilio e la sua dimora. E poiché
aveva avuto due figli da una donna di Tarquinia, volle che questi fossero
istruiti in tutte le discipline, secondo il modello greco>>[8].
Nelle Tusculanae
disputationes, Cicerone ripete:
<<Che valore può avere
esser cittadino d’una comunità dalla quale le persone buone e sagge sono
scacciate? Demarato, padre del nostro re Tarquinio, non potendo sopportare la
tirannia di Cipselo, fuggì da Corinto a Tarquinia, e lì stabilì le sue
fortune, e procreò figli. Fece
male ad anteporre la libertà
dell’esilio alla servitù del suo paese d’origine?>>[9].
Purtroppo,
le notizie forniteci da Cicerone si interrompono a questo punto della vicenda
perché nei manoscritti del De Repubblica
c'è una lacuna di due pagine.
Le due
pagine perdute erano verosimilmente occupate dalla narrazione della vicenda di
Lucumone, secondogenito figlio di Demarato, il quale, dopo aver ereditato le
ricchezze paterne, si trasferisce da Tarquinia a Roma dove divennne re.
Indicativamente, i fatti sono ricostruibili
dalle narrazioni parallele di Tito Livio (vedi par. 2) e di Dionigi di
Alicarnasso (vedi par. 3).
Dopo
la lacuna, il testo che ci rimane continua dicendo:
<< (Il figlio di Demarato) ottenne facilmente la cittadinanza romana. Per la gentilezza e la cultura divenne amico del re Anco fino al punto d’esser creduto partecipe di tutti i consigli, e quasi socio nel regno. Era, inoltre, sommamente benigno nel prestare soccorso, difesa ed elargizione a tutti i cittadini. Pertanto, quando Anco Marcio morì, Lucio Tarquinio, che così aveva mutato il proprio nome greco (Licomede?)[10] per mostrare di aver imitato in tutto le usanze del popolo romano, fu creato re per unanime votazione del popolo. E, quando emise la legge sul proprio governo, duplicò il numero dei senatori. Fra questi, denominò “padri delle genti maggiori” i già esistenti, ai quali per primi chiedeva il parere, e chiamò “padri delle genti minori”, quelli che aveva aggiunto lui. Poi ordinò la cavalleria secondo l’uso che ancora si conserva; ma non poté cambiare, come avrebbe voluto, i nomi dei Tiziensi dei Ramnensi e dei Luceri perché la cosa non trovò l’approvazione del famosissimo augure Atto Navio. Si sa che anche i Corinzi fecero in modo di assegnare e nutrire i cavalli dell’esercito applicando tasse agli orfani e alle vedove. Ma, aggiungendo nuovi squadroni al numero dei precedenti, duplicò le forze della cavalleria che divenne formata di 1800 cavalieri.
Vinse poi in guerra la fiera gente degli Equi, che rappresentava una minaccia per i Romani, e dopo aver respinto dalla città i Sabini, li disperse con la cavalleria, ed inflisse loro una grande sconfitta. Infine, istituì i Ludi Magni, chiamati pure Ludi Romani; e, durante la guerra contro i Sabini, votò la costruzione del tempio a Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio. Morì dopo aver regnato 38 anni>>[11].
Lucio
Tarquinio, detto il Prisco per non confonderlo con il figlio o nipote Lucio
Tarquinio il Superbo, avrebbe regnato a Roma dal 616 al 578 a. C., secondo la
cronologia di Varrone. Demarato sarebbe venuto da Corinto intorno al 657 a. C.
E’ interessante che a Roma siano stati trovati numerosi vasi di stile corinzio risalenti al tempo in cui Demarato avrebbe emigrato a Tarquinia. Uno di questi presenta scritto in alfabeto corinzio il nome del defunto proprietario o del costruttore: Kleikos o Kleikes [12]. E’ l’unica iscrizione greca del VII sec. a. C. finora rinvenuta a Roma; e si è supposto che Kleikos fosse stato uno dei vasai compagni di Demarato [13].
La
cosa è possibile. Infatti, dalla stessa tomba proviene un piatto italico
recante la più antica iscrizione etrusca trovata a Roma[14] (vedi par. 17). Ora, la compresenza, in una tomba
romana, di un greco di Corinto e di un etrusco, ci ricorda che Cicerone
raccontava che proprio l’Etruria,
e specificatamente Tarquinia, fosse stata la tramite fra Corinto e Roma.
2.
Tito Livio. Livio (59 a.C.-17 d.C.), ne La Storia di Roma, dice:
<<Durante
il regno di Anco, Lucumone, uomo attivo e facoltoso, si trasferì a Roma, a ciò
indotto soprattutto dall’ambiziosa speranza di conseguire quegli onori che a
Tarquinia – poiché anche là era di origine straniera – non aveva avuto la
possibilità di ottenere. Era figlio di Demarato Corinzio (Demarathi
Corinthii), il quale fuggito dalla patria in seguito a dei disordini e
stabilitosi per caso a Tarquinia, vi aveva preso moglie e ne aveva avuto due
figli>>.
In
precedenza, Cicerone ci aveva, invece, fatto sapere che Demarato Corinzio era
stato un onorabile, autorevole e ricco personaggio il quale, non potendo
sopportare la tirannia del suo paese, aveva scelto di andare a vivere in Etruria,
nella libera Tarquinia, dove era stato accolto come
<<cittadino>>.
Secondo
Strabone, poi, come vedremo in seguito, Demarato
<<non solo regnò a Tarquinia, ma suo figlio divenne re anche dei Romani
(vedi par. 5).
Livio,
però, non riconosce né doti a Demarato né capacità ricettive a Tarquinia;
anzi sostiene addirittura che Demarato si stabilì
<<per caso>> nella città e vi restò come <<esule
straniero>> (vedi più avanti).
I
figli di Demarato, continua lo scrittore,
si
chiamavano Lucumone e Arunte. Quest’ultimo morì prima del padre lasciando la
moglie incinta. Poco dopo morì anche Demarato; e, poiché ignorava che la nuora
fosse incinta, lasciò tutti i beni a Lucumone. Il bimbo, nato dopo la morte del
nonno, fu chiamato Egerio (cioè
bisognoso) perché povero. Lucumone, poi, divenne ancor più ricco in
seguito al matrimonio con la nobile Tanaquilla. Questa, <<poiché gli
Etruschi disprezzavano Lucumone che era nato da un esule straniero (Lucumonem exule advena ortum), non poteva sopportare l'oltraggio;
così, dimentica dell'innato amore per la patria, prese la decisione di emigrare
da Tarquinia pur di vedere onorato il marito. A tal fine, Roma le parve la città
più adatta […]. Raccolti, dunque, i loro averi si trasferirono a Roma>>.
E’ opportuno tener presente che, in lingua
etrusca, Lucumone significa re: un nome che non si addice al figlio emarginato
di un mercante greco esule a Tarquinia (vedi par. 5). La tradizione romana e,
soprattutto, la versione di Livio, sembra dunque viziata nei suoi elementi
costituitivi da un’evidente posizione riduttiva nei confronti di Tarquinia.
Lucumone
e sua moglie, avvicinandosi a Roma, <<giunsero per caso nei pressi del
Gianicolo. Qui, mentre lui era seduto sul cocchio (carpento sedenti) con la moglie, un’aquila calatasi lentamente ad
ali tese gli portò via il pileo, e svolazzando sul cocchio (super
carpentum) con grande strepito glielo rimise di nuovo acconciamente sul
capo, come se fosse stata mandata dagli dèi a compiere una missione; quindi si
levò nel cielo. Si dice che Tanaquilla, donna esperta di prodigi celesti, come
lo sono in genere gli Etruschi, abbia accolto lietamente quell’augurio>>
ed abbia spiegato al marito che l’evento voleva significare che lo attendevano
grandi onori.
Il prodigio dell’aquila doveva essere già presente negli Annali di Quinto Ennio (239-169 a.C.). Possediamo un frammento della sua opera, dove è detto:
<<Una
volta l’eccelso mandò un segno dal cielo. E un’aquila con le sue dense ali
volava poggiandosi sul vento che la stirpe dei Greci chiama aere nella sua
lingua (Olim de caelo laevom dedit
inclutus signum. Et densis aquila pinnis obinixa volabat vento, quem perhibent
Graium genus aera lingua ) >>[15].
Torniamo
a Tito Livio:
<<Lucumone
e Tanaquilla entrarono in città nutrendo in cuore queste speranze e questi
pensieri; e, procuratisi un alloggio, dichiararono come nome quello di Lucio (= Lucumone) Tarquinio Prisco>>. A Roma, il nuovo arrivato
conquistò la simpatia di tutti per le sue ricchezze, la generosità e
l’affabilità. Divenne amico del re Anco Marcio, ne fu nominato tutore dei
figli; ed alla morte di Anco,
<<il popolo romano lo elesse re con larghissimo consenso>>.
La
prima delle sue vittoriose guerre fu
quella contro i Latini, dal cui bottino ricavò le spese per istituire i Ludi
Romani o Grandi, e costruire per loro il Circo,
detto poi Massimo. Lo spettacolo
<<era costituito di gare di cavalli e di pugili fatti venire soprattutto
dall’Etruria>>
Quando
poi Roma si trovò in difficoltà per l’assalto dei Sabini, <<Tarquinio,
ritenendo che le sue truppe difettavano proprio nella cavalleria, stabilì di
aggiungere nuove centurie a quelle
dei Ramnensi, dei Tiziensi e dei Luceri , già istituite da Romolo e di
chiamarle con proprio nome >>, ma l’augure Atto Navio (che
rappresenta in questo caso la resistenza dei Romani alla loro etruschicizzazione)
glielo impedì. <<Tarquinio non poté allora portare alcun mutamento alle
centurie dei cavalieri, ma si limitò a raddoppiare il numero dei cavalieri in
modo da averne 1800 divisi nelle tre centurie che mantennero i loro nomi; però
i nuovi aggiunti furono chiamati Posteriori
(In sostanza, il numero dei cavalieri fu
raddoppiato, ma si evitò che i nuovi arrivati fossero riuniti in una centuria
chiamata con il nome di Lucumone/Lucio Tarquinio; è significativo però che
altri storici sostennero che un certo condottiero etrusco di nome Lucumone aveva
dato il nome alla tribù romana dei Luceri)>>.
In una occasione del proseguo della guerra contro i Sabini, Tarquinio
<<mandò a Roma il bottino e i prigionieri, e diede fuoco ad un gran
cumulo di spoglie nemiche, secondo il voto che aveva fatto a Vulcano (Questo
avvenimento è ricalcato da Virgilio, nell’Eneide, che lo attribuisce ad
Evandro, re arcade del colle palatino di Roma)>>.
Alla fine della guerra, <<ai Sabini furono tolti Collazia e tutto
il territorio al di qua della città; e a presidiarla fu lasciato Egerio ,
nipote del re (costui era nato da Arunte figlio di Demarato) […]. Terminata la
guerra sabina, Tarquinio rientrò a Roma celebrando il trionfo. Fece poi guerra
ai Prisci Latini>> e ne sottomise tutte le città fra cui Corniculo (Corniculum).
Conclusa
la pace, Tarquinio finì di circondare di mura la città nei punti in cui non lo
aveva fatto prima della guerra
sabina, fece scavar cunicoli per lo scolo nel Tevere delle acque stagnati negli
avvallamenti della città (di tratta di un
tipo di ingegneria etrusca presente anche a Tarquinia), e <<pose le
fondamenta del tempio a Giove sul Campidoglio, ch’egli aveva fatto voto di
dedicare durante la guerra sabina>>[16].
3. Dionigi
di Alicarnasso. Lo storico greco Dionigi di Alicarnasso (circa 60
a.C.-dopo 7 d.C.) ci dà un racconto più dettagliato, tratto, com’egli
afferma, dalle <<storie locali>>.
<<Un uomo di Corinto>>, egli dice, <<di nome Demarato, della stirpe dei Bacchiadi, con il proposito di commerciare, salpò navigando per l’Italia conducendo la propria nave e il proprio carico>>.
La famiglia dei Bacchiadi, alla quale Demarato
apparteneva, aveva regnato a Corinto per duecento anni e si diceva che
discendesse da Ercole. Lo stesso Dionigi ne farà riferimento a proposito di
Tarquinio il Superbo nipote di Demarato [17]. Si noti come Dionigi, storico greco, diversamente
da Cicerone e Livio, scrittori latini, si preoccupi di rilevare le ascendenze
nobili del corinzio Demarato.
<<Costui>>, continua Dionigi, <<dopo aver venduto la merce nelle città etrusche, che allora erano le più prospere città d’Italia, ed aver realizzato un gran guadagno, non volle più trasferirsi in altre sponde, ma continuò ad operare nel medesimo mare recando merci greche agli Etruschi ed etrusche in Grecia; e così divenne signore di grandi ricchezze. Ma, quando a Corinto scoppiò la guerra civile, e la tirannide di Cipselo sopraffece i Bacchiadi, egli pensò che non era sicuro vivere sotto la tirannide e possedere molte ricchezze; e, per altri motivi e perché apparteneva ad una famiglia oligarchica, raccolse quanto più poté le sue ricchezze, e salpò da Corinto. Siccome, in virtù degli scambi commerciali, aveva molti buoni amici fra gli Etruschi, soprattutto a Tarquinia, città che a quel tempo era grande e fortunata, vi fabbricò una casa, e sposò una donna di nobile stirpe>>.
Si noti ancora come il greco Dionigi, a differenza
degli scrittori romani, precisi che anche la donna che Demarato sposò a
Tarquinia era nobile.
Claudio
(I sec. d.C.) dirà che costei era <<nobile ma povera>>[18].
Si
ricordi pure che Cicerone e Tito Livio non avevano parlato di scambi commerciali
e di rapporti amichevoli fra Demarato Corinzio e Tarquinia, precedenti
l’immigrazione. Per Livio, addirittura, Demarato era giunto per caso nella
città.
Dalla nobile sposa tarquiniese, continua Dionigi, <<Demarato Ebbe due figli ai quali diede nomi etruschi: Arunte all'uno, e Lucumone all'altro. Diede loro educazione sia greca che etrusca; e, quando divennero adulti, li congiunse in matrimonio con le più illustri famiglie. Dopo non molto il suo figlio primogenito morì senza lasciare prole manifesta. Pochi giorni dopo, lo stesso Demarato morì per il dolore, lasciando erede di ogni ricchezza il figlio superstite Lucumone. Questi, ricevute le ingenti ricchezze paterne, voleva diventare un uomo pubblico, intervenire negli affari dello Stato, e figurare fra i primi cittadini della città; ma, poiché fu respinto a tutti i livelli, senza che venisse annoverato fra i primi e neppure fra i mediocri, sopportò male di essere emarginato e di non ottenere nessun riconoscimento […]. Decise allora, raccolte le sue ricchezze, di trasferire a Roma la residenza conducendo con sé la moglie e chiunque, tra gli altri amici e congiunti, lo desiderasse; e furono molti quelli che vollero partire con lui. Come furono giunti al cosiddetto Gianicolo, da dove Roma comincia ad offrirsi alla vista di chi proviene dall'Etruria >>, si verificò il prodigio dell’aquila (vedi par. 2).
Secondo
Dionigi, Lucumone, per recarsi a Roma, non era dunque <<giunto per caso
nei pressi del Gianicolo>>, come voleva Livio (vedi par. 2), ma aveva
percorso la cosiddetta Via Tarquiniese la quale, come vedremo (par. 18),
giungeva a Roma attraverso il Gianicolo.
Quando
Lucumone arrivò a Roma, <<il re lo accolse favorevolmente e lo assegnò,
assieme agli etruschi che erano con lui, ad una tribù e ad una curia: Perciò,
egli edificò la propria abitazione, essendogli stati assegnati, in un’area
della città, un terreno abbastanza ampio e un lotto di terra […]>>. E
poiché desiderava assimilarsi ai Romani sotto ogni aspetto, <<assunse,
come nome personale Lucio, in luogo di Lucumone, e Tarquinio, come gentilizio
derivato dal nome della città dove era nato ed era stato allevato>>. Per
le sue virtù, divenne ben presto amico di Anco Marcio, dei patrizi e del
popolo; e alla morte del re <<fu giudicato da tutti degno del
trono>>. Tarquinio, divenuto re, combatté contro i Latini, ai quali tolse
molte città fra cui Cornicolo e Collazia. In quest’ultima lasciò una
guarnigione, e mise a reggerla, con comando autonomo e a
vita, suo nipote Tarquinio Arunte, nato povero dopo la morte del padre
Arunte e del nonno Demarato, e per questo soprannominato Egerio, che vuol dire
bisognoso. I Latini chiesero aiuto ai Sabini e agli Etruschi. I primi lo
concessero; fra i secondi aderirono solo le cinque città di Chiusi, Arezzo,
Volterra, Rosselle e Vetulonia. Ma Tarquinio
sconfisse questa coalizione. Debellò, infine, definitivamente i Latini rimasti
senza alleati. <<Terminò così la guerra intrapresa dai Romani contro i
Latini, e Tarquinio riportò il trionfo per la vittoria conseguita in questa
guerra>> (III, 46-54).
Nei Fasti
Trionfali è scritto:
<<Alle quinte calende dell’anno 156 di Roma (598
a. C.), il re Lucio Tarquinio Prisco, figlio di Damarato, riportò il
trionfo sui Latini (L . TARQUINIUS . DAMARATI . F . AN . CLVI / PRISCUS .
REX . DE . LATINEIS . K . QUINCT)>>.
I Fasti Trionfali sono le liste ufficiali dei trionfi dei generali romani a cominciare da Romolo. Esse indicano il nome del trionfatore, quello del popolo sconfitto, il giorno, il mese e l’anno della celebrazione. Furono incise sui piloni dell’arco di Augusto nel Foro Romano fra il 19 e l’11 a.C. Per la loro stesura si tennero presenti probabilmente gli Annali dove i Pontefici Massimi avevano di volta in volta registrato i principali avvenimenti. L’autenticità di questi Fasti è estremamente sospetta per l’età regia, incerta per il IV secolo, abbastanza sicura a partire dall’inizio del III sec. a. C.
Torniamo al racconto di Dionigi.
Dopo
aver conseguito il Trionfo sui Latini, l’anno seguente Tarquinio si rivolse
contro i Sabini e i loro alleati etruschi accampati a Fidene, e li sconfisse
(III, 55-56). I Sabini chiesero un armistizio di 6 anni. <<Gli Etruschi,
invece, risentiti, sia per essere stati sconfitti tante volte dai Romani, sia
perché Tarquinio negò ai loro ambasciatori la restituzione dei prigionieri,
anzi, li trattenne in ostaggio, decretarono che tutte le città etrusche
facessero guerra ai Romani e che quella fra di esse che non avesse partecipato
alla spedizione (Tarquinia?) fosse esclusa dalla lega. Confermate queste decisioni
condussero l’esercito fuori dai loro confini; e, traversato
il Tevere, si fermarono presso Fidene […]. Ma l’anno seguente, il re
Tarquinio, arruolati tutti i Romani e raccolti alleati più che poteva, li portò
contro i nemici all’inizio della primavera, prima che quelli, riunitisi da
tutte le città, avessero potuto marciare per primi contro di loro. Divise poi
in due contingenti tutte le sue forze; e, guidando egli stesso l’esercito
romano, marciò contro la città degli Etruschi. Conferì poi al suo parente
Egerio (cioè al nipote Tarquinio Arunte)
il comando dell’esercito alleato, all’interno del quale vi era prevalenza di
Latini, e gli ordinò di affrontare i nemici a Fidene>>. Ma poco mancò
che le truppe latine, comandate da Egerio fossero sterminate.
<<L’esercito romano, invece, guidato da Tarquinio, saccheggiò e depredò
il territorio di Veio, e ne ricavò molta preda; e quando da tutte le città
etrusche si radunò un grande esercito in soccorso dei Veienti, lo affrontò in
battaglia riportando una incontrastata vittoria.
Dopo questo episodio, spingendosi all’interno della regione, la devastò
impunemente, prendendo le molte ricchezze di cui può esser dotato un paese
prospero. Fece quindi ritorno in patria alla fine dell’estate. I Veienti,
dunque, gravemente danneggiati da quella battaglia, non uscirono più dalla città,
e dovettero sopportare di veder devastata la loro regione. Il re Tarquinio, però,
invase tre volte il paese, e per tre anni privò i Veienti dei frutti della loro
terra; e, quando l’ebbe resa in grandissima parte come un deserto, e non ebbe
più niente da danneggiare, condusse le truppe contro la città di Cere. Questa,
in precedenza, si chiamava Agilla, e l’abitavano i Pelasgi; poi, trovatasi
sotto gli Etruschi, le fu cambiato il nome in Cere. Era fortunata come
nessun’altra città in Etruria, e popolosa. Da questa uscì
un grande esercito per combattere in difesa della regione, ed uccise
molti nemici; ma, avendo avuto perdite anche maggiori, ripiegò
dentro la città. I Romani però si impadronirono del loro territorio che
offriva abbondanza di ogni cosa, e vi si trattennero parecchi giorni. Quando fu
il momento di ripartire tornarono in patria con tutto il bottino possibile[...].
L’ultima battaglia tra Romani ed Etruschi avvenne in terra sabina, vicino alla
città di Ereto […]. Da questa battaglia, che fu la più grande di quante
erano state combattute fra di loro, il mondo dei Romani ebbe un mirabile
incremento perché questi riportarono una bellissima vittoria; e il senato e il
popolo decretarono il corteo trionfale per il re Tarquinio>>(III, 57-59).
L’evento è riportato nei Fasti Trionfali dove è scritto:
<<
Alle calende di aprile dell’anno 165 (= 1 aprile del 589 a. C.), il re Lucio
Tarquinio Prisco, figlio di Damarato, celebrò un secondo trionfo sugli Etruschi
(L . TARQUINIUS
. DAMARATI . F. AN . CLXV /
PRISCUS . REX . II . DE . ETRUSCEIS . K
. APR)>>.
Il racconto di Dionigi continua:
<<Al
contrario, crollarono i piani degli Etruschi, poiché, dopo aver gettato nella
battaglia tutte le truppe di ogni città, riebbero però solo i pochi soldati
che si erano salvati […]. Provati dunque da un tale disastro, i capi delle
città si comportarono da persone ragionevoli. Poiché il re Tarquinio stava
portando contro di loro un altro esercito, si riunirono
in assemblea per por fine
alla guerra, decretarono di trattare con lui, e mandarono i cittadini più
anziani e più rispettabili di ogni città, con pieni poteri, per gli accordi
sulla pace (è opportuno rilevare che
Dionigi non dice in quale luogo si tenne l’assemblea dei capi etruschi)>>.
Tarquinio,
ascoltati i loro discorsi rispose: <<Io non ho intenzione di uccidere, o
di mandare in esilio o di multare nessun etrusco. Non esigo tributi, né voglio
mettere le mie guarnigioni a presidiare le vostre città. Lascio che vivano
nella loro forma di governo, e che siano regolate dalle loro proprie leggi. Ma,
mentre vi concedo tante cose, giudico che voi me ne dobbiate una: la direzione
suprema delle vostre città. Del resto, fin quando io sarò vincitore su di voi
con le armi, ne sarei ugualmente signore , anche se voi non lo voleste. Ma,
piuttosto che averlo da voi di cattivo animo, mi piace averlo spontaneamente.
Annunciate questo a tutte le città. Io vi prometto di sospendere la guerra
finché non sarete tornati>>(III, 59-60).
Pare
che questa circostanza fosse stata già descritta negli Annali di Ennio. Un
frammento dice: <<Questa notte tutta l'Etruria resterà sospesa ad un
filo>>[19].
La
posizione di capo supremo delle città della confederazione, che Tarquinio
esigeva di assumere nei riguardi delle città etrusche, è quella stessa che la
tradizione attribuiva a Tarconte prima di lui.
Lo
storico e geografo greco Strabone (63 a. C.-19 d. C.) racconta, infatti, che
Tarconte,
<<dal quale prese il nome la città di Tarquinia>>, fondò tutte le
città dell'Etruria. <<A quel tempo, dunque, gli Etruschi, sotto la guida
di un sol capo, furono molto potenti; ma pare che più tardi la loro unità si
ruppe e, cedendo alla violenza dei vicini, si divisero in singole città>>
(Geogr., V, 2,2).
Il
Pallottino osservava:
<<Se
le notizie relative alla supremazia di uno degli antichi sovrani delle città
etrusche non sono del tutto prive di fondamento, si può pensare ad una qualche
forma particolare di stretti rapporti
fra i centri dell'Etruria meridionale in età arcaica, sotto l'egemonia di una o
dell'altra città. La grande preminenza che ha Tarquinia nelle leggende
primitive dell'Etruria può far pensare ad un periodo di egemonia tarquiniese.
Più tardi questa antica unità potrebbe aver assunto il carattere di
confederazione religiosa>>[20].
Torniamo al racconto di Dionigi. Dice lo storico:
<<Gli
ambasciatori, avute queste risposte da Tarquinio, partirono e, dopo qualche
giorno, tornarono portandogli non solo nude parole, ma le insegne della
supremazia, con le quali essi adornano i propri re: una corona d'oro, un trono
d'avorio, uno scettro con l'aquila alla sommità, una tunica di porpora con
fregi in oro, e un mantello di porpora ricamato, proprio come lo indossavano i
re della Lidia e della Persia [...]. Gli recarono anche, come narrano alcuni,
dodici scuri, portandone una da ogni città. Sembra, infatti, che fosse
un'usanza degli Etruschi che il re di ogni città camminasse preceduto da un
littore recante un fascio di verghe ed una scure. Quando poi si effettuava una
spedizione comune delle dodici città, le dodici scuri venivano consegnate a
colui che rivestiva in quell'occasione il potere supremo [...]. Come scrive la
maggior parte degli storici romani, Tarquinio non si avvalse subito di questi
onori, ma rimise al senato ed al popolo di deciderne l’ammissibilità; e li
accettò solo dopo che tutti l’ebbero voluto (La
guerra di Tarquinio contro gli Etruschi era dunque narrata da quasi tutti gli
storici prima di Dionigi, anche se a noi è pervenuto solo il frammento di Ennio). Per tutto il tempo della sua esistenza, Tarquinio portò
dunque una corona d'oro, indossò una veste di porpora ricamata, tenne uno
scettro d’avorio, sedette su un trono eburneo; e dodici littori, recanti le
scuri con le verghe, gli stavano intorno se amministrava la
giustizia>>(III, 61-62).
Abbiamo già osservato che Dionigi non dice in quale luogo i vari capi delle città si erano riuniti per decidere la resa a Tarquinio e inviargli le insegne del potere. Egli non dice nemmeno quale atteggiamento Tarquinio, re di Roma, avesse assunto verso Tarquinia, sua patria, durante la guerra ch’egli avrebbe condotto contro “tutta l'Etruria".
Vedremo nel seguito che, secondo Strabone ,
<<le insegne del potere furono portate da Tarquinia a Roma>> (vedi
par. 5).
Secondo la tradizione virgiliana, poi, fu Tarconte
(cioè un Tarquinio stesso) che, in epoca mitica, dapprima offrì ad Evandro, re
del colle Palatino (Roma), le insegne del potere, poi mise il troiano Enea a
capo dell’esercito federale etrusco che da Corito (Tarquinia) scese ad
invadere il Lazio vetus (vedi par. 8).
E’
infine sconcertante che Tarquinio, prima ancora di diventare re di Roma e capo
della Federazione Etrusca, già a Tarquinia si fosse chiamato Lucumone, cioè re
(vedi par. 5). Più avanti, tenteremo di capire quale valore possa avere l’
“anomalia” di un “emigrante” che a Tarquinia, dove è nato e donde
proviene, porta il nome etrusco di Lucumone (= re), e che a Roma, dove
<<anche>> diventa re, non dimentica la sua origine, ma assume il
nome di Lucio Tarquinio (= Lucumone Tarquiniese), e sottomette la Federazione
Etrusca. Anticipiamo che non è storicamente possibile che Roma, nel VI
sec.a.C., abbia sottomesso l’Etruria.
Per ora, torniamo al racconto di Dionigi:
Finita
la guerra vittoriosa con gli Etruschi, Tarquinio rivolse le armi contro i
Sabini. Dopo due anni di scontri minori, << tutti i Romani, raccolte le
truppe latine, etrusche e degli altri alleati, andarono contro i nemici>>.
Tarquinio formò tre schieramenti. <<Egli stesso si mise capo delle truppe
romane, e designò comandante dei rinforzi etruschi il nipote Arunte (Egerio)>>,
mentre al comando dei Latini e degli altri alleati, mise uno <<straniero e
apolide>> che si chiamava Servio Tullio. I Romani occuparono l’ala
destra, i Latini il centro, e gli Etruschi l’ala sinistra. Dopo questa
battaglia vittoriosa, <<Tarquinio, per la terza volta durante il suo
regno, riportò il trionfo>>(III, 65-66).
I Fasti
Trionfali riportano:
<<Nelle
idi di sestile del 170 (584 a. C.), il re Lucio Tarquinio Prisco, figlio di
Damarato, ebbe un terzo trionfo sui Sabini (L
. TARQUINIUS
. DAMARATI. F. ANN .CLCC /
PRISCUS . REX . III . DE . SABINEIS
. IDIB . SEXT)>>.
Dionigi continua, poi, dicendo:
<<Queste sono, dunque le imprese di guerra che si raccontano sul re Tarquinio. Quest’altre sono, invece, quelle compiute in tempo di pace>>. Il re crea altri e cento senatori, eleva da quattro a sei il numero delle Vestali, e stabilisce quale sia la punizione per quelle che non avessero preservato la castità (si noti l‘identità di funzione con Amulio/Tarchezio (=Tarquinio) re di Alba). Abbellisce il foro e cinge di mura la città, costruisce un mirabile sistema di strade, acquedotti e canali fognari, fa erigere l’ippodromo, ed inizia la costruzione del tempio alla triade Giove, Giunone e Minerva. Il tempio verrà poi costruito da Tarquinio il Superbo, e consacrato al tempo della prima repubblica (III, 68-69).
Il
re visse solo altri e quattro anni dopo la fine delle guerre, perché fu fatto
uccidere dai figli di Anco Marcio per mano di
due congiurati travestiti da pastori (III, 73).
A proposito della costruzione del tempio a Giove,
Giunone e Minerva, è interessante sapere che esisteva in merito una tradizione
riferita sia da Macrobio che da Elio Donato ( IV sec. d.C.). Quest’ultimo, in sede di commento all’Eneide, cercando di individuare quali fossero, secondo Virgilio, gli
dèi Penati che Enea aveva introdotto nel Lazio, disse che
si
trattava dei Grandi Dei, e sosteneva che questi erano Giove, Giunone e Minerva,
e che Tarquinio Prisco, esperto nella religione mistica di Samotracia, ne riunì
il culto in un solo tempio, e vi aggiunse Mercurio [21].
Si noti l’identità di funzione fra Enea e
Tarquinio. Pare, poi, che la triade capitolina Giove-Giunone-Minerva fosse una
ripetizione di quella etrusca.
A Tarquinia, il grande tempio detto Ara della Regina, la cui prima costruzione risale al VI e forse VII
sec. a.C. , potrebbe costituire l’antecedente di quello fatto costruire dai
Tarquini a Roma (VI-V sec. a.C.).
4.
Autori posteriori a Dionigi di Alicarnasso. Dionigi sostiene di aver tratto dalle storie locali
romane, il racconto delle vicende di Tarquinio. Noi non sappiamo quali esse
fossero. Possediamo forse solo il citato frammento di Ennio. Comunque, la
vittoria di Tarquinio contro gli Etruschi fu riportata anche nei Fasti
Trionfali, come abbiamo visto, e fu ripresa da autori posteriori.
Floro
(I-II sec.) scrive:
<<Tarquinio
Prisco, sebbene originario d'oltremare (transmarina
origine), desiderando poi il regno lo ottenne in virtù della sua
industriosità e dei suoi tratti distintivi; oriundo, qual era, di Corinto (quippe qui oriundus Corintho), fuse l'ingegno greco con la praticità
degli Italici [...]. Sottomise con frequenti combattimenti i dodici popoli della
Tuscia, onde furono presi i fasci, le trabee, le sedie curuli, gli anelli, le
falere, i paludamenti, le toghe orlate, onde l'uso di trionfare sul carro aureo
a quattro cavalli, le toghe dipinte e le tuniche palmate, tutti, insomma gli
ornamenti e le insegne con le quali si distingue la dignità del comando>>[22].
Qui,
la nazionalità etrusca del re di Roma è implicita nel nome di Tarquinio,
tradizionalmente derivato da quello della città dove era nato. Tuttavia, Floro,
sfruttando l'intercambiabilità della funzione dei nomi di Tarquinia e di
Corinto nei confronti di Tarquinio Prisco, menziona soltanto l'ascendenza
corinzia per enfatizzare la più lontana origine greca del re di Roma a
discapito di quella etrusca. I Romani, compreso Virgilio, utilizzarono spesso il
nome di Corinto per evitare quello di
Tarquinia.
Quanto
all'uso delle insegne regali, Floro fornisce una versione riassuntiva
sostanzialmente identica a quella di Dionigi.
Cassio Dione (II-III sec.) presenta, invece, un racconto meno
canonico. Egli dice:
<<Tarquinio
mutò il suo abbigliamento e le insegne in una più magnifica foggia. Questi
consistevano di toga e tunica rosso porpora in ogni parte, e variegata d'oro, di
una corona di pietre preziose incastonate nell'oro, e di uno scettro e di un
trono d'avorio. Più tardi, essi furono usati non solo dai suoi successori, ma
anche da quelli che tennero il potere come imperatori. Egli, anche in occasione
di un trionfo, sfilò su un carro trainato da quattro cavalli, e si circondò di
dodici littori per tutta la vita [...]. Egli combatté contro i Latini che si
erano rivoltati, e più tardi contro i Sabini che, aiutati dagli Etruschi come
alleati, avevano invaso il territorio romano, e li sconfisse tutti>>[23].
Stavolta,
l'uso delle insegne regali appare come una novità della quale Tarquinio fa uso,
a Roma, prima della guerra contro i Sabini e gli Etruschi. Anzi, Cassio Dione,
diversamente da Dionigi e da Floro, non parla di una guerra di tutti gli
Etruschi contro Tarquinio, né di una loro sottomissione a Roma, ma solo di una
vittoria di Tarquinio sui Sabini e gli Etruschi che avevano invaso il territorio
romano.
Paolo
Orosio dice:
<<Tarquinio
Prisco abbatté in innumerevoli lotte tutti i confinanti e a quel tempo potenti
popoli della Tuscia. I Veienti, sotto la pressione di ServioTullio, furono vinti
ma non soggiogati>>[24].
Zanara racconta:
Tarquinio
<<combatté contro tutti i Latini che si erano ribellati, poi anche contro
i Sabini che avevano invaso il territorio romano alleati con gli Etruschi, e li
sopraffece tutti>>[25].
Giovanni
Lido riferisce:
<<Quando
poi il re Tarquinio Prisco vinse in guerra gli Etruschi e i Sabini, alle insegne
della regalità furono aggiunte le lance lunghe, ugualmente di numero di dodici,
senza le punte in alto, ma le criniere. I Romani le chiamano tube,
i barbari tufe, perché hanno un po’ storpiato la parola; insieme a queste i
vexilla, cioè aste lunghe con stoffe
appese; i chiamano flammula dal colore
della fiamma>>[26].
5. Strabone.
Strabone (prima del 60 a.C.-ca. 20 d. C.) ci
fornisce importanti dettagli. Egli, nella sua Geografia,
scrive:
<<Tirreno fondò dodici città, assegnando loro come ecista Tarconte, dal quale prende il nome la città di Tarquinia, e del quale si racconta che, per la sua perspicacia, nacque con i capelli bianchi. A quel tempo, dunque, gli Etruschi, governati dal un solo capo, furono molto potenti; sembra che più tardi la loro unione si sciolse e, cedendo alla violenza dei vicini, si divisero in singole città [...]. Dopo la fondazione di Roma, venne Demarato portando popolo da Corinto (gr. Laòs = popolo, moltitudine). I Tarquiniesi lo accolsero amichevolmente, e da una donna del paese gli nacque Lucumone. Questi, fattosi amico di Anco Marcio re dei Romani, gli successe nel regno, e cambiò il suo nome in quello di Lucio Tarquinio Prisco. Da lui, e prima dal padre, era stata molto abbellita l'Etruria. Il padre, grazie alla quantità di artisti che lo avevano seguito da Corinto; il figlio con il mandarvi da Roma quanto vi abbisognasse. Si dice pure che da Tarquinia [27] furono trasportati a Roma gli ornamenti dei trionfi, dei consoli e, in generale, di tutte le magistrature, così pure i fasci, le scuri, le trombe, i sacrifici, la divinazione e la musica di cui fanno uso pubblico i Romani>>[28].
Il trasferimento dei Fasci e delle insegne etrusche
del potere da Tarquinia a Roma, presentato da Strabone, trova un sorprendente
parallelo nella tradizione virgiliana secondo la quale Tarconte ( = Tarquinio),
re della Lega Etrusca, da Corinto
(Tarquinia), inviò ad Evandro, re del Palatino (Roma) le insegne del potere e
cedette all’etrusco-troiano Enea il comando di una flotta federale che da
Tarquinia scendeva a conquistare una parte del territorio della costa latina
(vedi par. 8).
Ma, per ora, torniamo a Strabone. Egli, in un altro
passo della Geografia, trattando della
città greca di Corinto, ricorda
che i Bacchiadi vi avevano governato, e che, quando Cipselo li cacciò,
<<TESTO GRECO….
TESTO GRECO…
TESTO GRECO…
TESTO GECO…
TESTO GRECO… >>[29].
Traduzione: Demarato, uno dei membri della famiglia che aveva regnato a Corinto, fuggendo dalle sedizioni che là ebbero luogo, portò con sé dalla sua patria una tale ricchezza in Etruria, che non solo (oste men) regnò sulla città (erxe tes poleos) che lo aveva accolto, ma (de) suo figlio anche (kai) dei Romani fu fatto re (katéste).
La tradizione riferita da Strabone, è l’unica che ci
presenti Demarato come re di Tarquinia.
Nicolette
Bravo sostiene che lo storico intende dire che il figlio di Demarato
<<divenne re non solo di Tarquinia, ma anche di Roma (devint
roi non seulement de Tarquinii, mais aussi de Rome)>>[30].
Purtroppo, la studiosa francese non ha approfondito l’argomento, ed è rimasta
isolata. Domenico Musti le ha obiettato che <<Strabone non dice, o non
dice con chiarezza che Lucumone fu re a Tarquinia>>[31].
Certo, Strabone non lo dice con chiarezza; ma, a rigore, lo dice. Anzi, se
consideriamo che gli antichi romani, secondo un diffuso paradosso storico,
ritenevano che, agli inizi del VI sec. a.C. , un Tarquinio, in quanto re di
Roma, avesse sottomesso la Lega Etrusca e ne fosse diventato re, l’allusione
di Strabone diventa la chiave di lettura di quel paradosso.
Si
tenga presente che, in lingua etrusca, Lucumone significa re[32].
O il figlio di Demarato, oltre che a Roma, divenne re, cioè
Lucumone, a Tarquinia perché sconfisse la Lega Etrusca e ne divenne il
Lucumone, oppure egli fu il Lucumone della Lega Etrusca perché lo era già a
Tarquinia prima di diventare re di Roma. Ma è a Tarquinia che il figlio di
Demarato, prima di recarsi a Roma, era chiamato Lucumone, cioè re.
In
precedenza, abbiamo visto che Lucumone, per Tito Livio e per Dionigi di
Alicarnasso, è il nome di un giovane tarquiniese che in patria rimane
emarginato dalle cariche pubbliche perché figlio di un esule mercante greco.
Egli, stizzito con gli abitanti di Tarquinia, abbandona la sua patria per
cercarne una nuova a Roma, e vi diventa re. Quando poi, secondo Dionigi, le città
etrusche assaliranno i Romani, egli non avrà scrupoli, ma le combatterà come
un vero romano. Infine, dopo aver conseguito la vittoria, esigerà da ogni
singola città che gli vengano consegnate le insegne del potere, e che gli venga
riconosciuta la supremazia su tutta l’Etruria.
Noi
abbiamo già rilevato (vedi par. 3) che Dionigi non dice quale fosse la
posizione di Tarquinia in questa vicenda.
Per
Strabone, invece, Lucumone è il figlio del re di Tarquinia. La città non gli
nega l'accesso alle cariche pubbliche. E quando egli si reca a Roma non lo fa a
seguito di una rottura con la madre patria.
Abbiamo già ricordato che, in lingua etrusca, il termine
lucumone indicava il re. Ancora in epoca repubblicana, il vocabolo dovette
indicare una funzione importante. E’, infatti, epigraficamente documentato
che, nel tardo IV sec. a.C., Lar Pulena
<<ebbe la carica di lucumone nella città di Tarquinia (Tarchnalth spureni lucairce)>>[33].
Nelle tradizioni greco-romane il titolo appare come nome personale attribuito ad
antichi personaggi etruschi di levatura regale come Lucumone re dei Licomedi[34],
e Lucumone principe di Chiusi[35].
Si tratta, dunque, di un nome che non si addice al figlio emarginato di un
mercante greco esule a Tarquinia, bensì ad un personaggio di alto lignaggio.
Tradizionalmente, Demarato pone nome Lucumone, cioè re, al
proprio figlio tarquiniese. Ciò potrebbe esser dovuto ad una anacronistica
anticipazione sia della carica di
lucumone assunta a Tarquinia, sia
del ruolo di re etrusco svolto a
Roma.
Negli
storici romani, questo Lucumone, re di Roma, sottomette la Federazione Etrusca e
ne riceve le insegne del potere. Ora, questi eventi, più che a un re di Roma,
come tale, sono attribuibili a un sovrano etrusco, e di Tarquinia in
particolare. Virgilio, infatti, nell’Eneide,
ne fa protagonisti Enea e Tarconte
(vedi par. 8). E se, come ha ipotizzato il Pallottino (vedi sopra), è
verosimile che in epoca arcaica Tarquinia fu a capo della Lega Etrusca, è
altrettanto verosimile che il lucumone di Tarquinia dovesse essere anche il capo
della Federazione. E’ comunque possibile, come sostenne il Rosembeg[36],
che la residenza ufficiale del capo della Lega fosse stata Tarquinia. Si
consideri che solo in questa città esistono attestazioni epigrafiche certe (sia
pure di epoca repubblicana) della presenza del Lucumone[37]
e del capo della Lega (lo Zilath mechl
Rasnal[38]
o lo Zilch Cechaneri [39]
che sia).
Per quanto riguarda l’uso dei fasci, a Tarquinia,
le pitture parietali delle tombe Bruschi, Del Convegno e Del Tifone presentano
scene dove appaiono i fasci. Inoltre, durante gli scavi condotti nell’area
della città, Maria Bonghi Jovino, in una fossa votiva degli inizi del VII
sec.a.C., ha rinvenuto le insegne etrusche del potere: una tromba-lituo, uno
scudo ed una scure ripiegati insieme [40].
Se
si mettono in parallelo la tradizione romana e le notizie di Strabone, si nota
che entrambe contengono gli stessi elementi combinati in modo diverso; e ci si
accorge che i Romani potrebbero aver rovesciato in loro favore l’antica
subordinazione di Roma a Tarquinia. Infatti, sul piano storico, non è
verosimile che, in epoca arcaica, un re di Roma, come tale, abbia sottomesso la
Federazione Etrusca. E’, invece, più verosimile che un re di Tarquinia sia
stato a capo della Federazione Etrusca, ed abbia esteso su Roma la sua
influenza.
Abbiamo
visto in precedenza che lo stesso Strabone sostiene che Lucumone, dopo esser
diventato re dei Romani, si comporta come un sovrano etrusco che da un lato
introduce nel proprio regno le insegne del potere e le costumanze regali
tarquiniesi, e dall'altro tributa alla terra d'origine i proventi che gli
vengono dai Romani.
Probabilmente,
nella tradizione romana, il racconto delle guerre sostenute da Tarquinio contro
i Latini e gli Etruschi ripeteva, in chiave romana, la difesa che i Tarquiniesi
di Tarquinia e di Roma dovettero sostenere insieme contro varie coalizioni
etrusco-latine che cercavano di soppiantarli nel controllo di Roma e del Lazio.
Parallelamente, la assunzione di Tarquinio, re di Roma, a capo della Lega
Etrusca, potrebbe aver ripetuto, in veste romana, gli eventi di un momento
storico in cui i Tarquiniesi erano riusciti a mantenere sia il controllo di Roma
che quello della Lega.
Il nome Lucumone,
portato da Tarquinio Prisco, sembra, allora, riflettere la funzione
sovrana svolta da un tarquiniese sia in patria che a Roma; ed è
probabile che Dionigi e Strabone avessero attinto a una tradizione, etrusca o
greca che fosse, che ripeteva il ricordo dei Tarquiniesi nei loro rapporti con la Roma dei
tempi arcaici.
Quella tradizione non
piaceva ai Romani e, forse, nemmeno ai Greci ormai soggetti a Roma. Lo stesso
Strabone riferisce con reticenza i rapporti fra i Tarquini e Tarquinia. E' in
sede di trattazione geografica della Grecia, che egli dice che Demarato emigrò
da Corinto in Etruria dove divenne re della città che lo aveva ricevuto. Ma lo
scrittore non specifica che quella città era Tarquinia. Egli collega
esplicitamente Demarato a Tarquinia solo in sede di preambolo storico alla
descrizione geografica dell'Etruria. Stavolta, tuttavia, omette di specificare
che costui ne divenne re. Il fatto che Demarato Corinto fu il re di Tarquinia si
ricava solo dal confronto delle
notizie contenute nelle due
narrazioni. Né Strabone si impegna a dire quali furono i motivi per cui
Lucumone si trasferì da Tarquinia
a Roma. Dice solo che Lucumone, <<fattosi amico di Anco Marzio re dei
Romani gli successe nel regno, e cambiò il suo nome in quello di Lucio
Tarquinio Prisco>>. In questo caso, Strabone si adegua alla
versione romana. Il racconto torna, però, subito dopo a comporsi di
elementi filoetruschi quando lo storico greco da un lato ricorda che, al tempo
dei Tarquini, le insegne del potere furono trasportate da Tarquinia a Roma, e
dall'altro riferisce che Tarquinio utilizzò i proventi dei Romani per abbellire
l'Etruria.
Insomma,
Strabone ribalta in chiave tarquiniese la posizione che Lucumone-Tarquinio aveva
assunto nella versione romana; e lo fa utilizzando una accorta strategia:
inserire in maniera scollegata alcuni elementi della tradizione filoetrusca
nella versione romana. La struttura narrativa di quest’ultima non sembra
alterata, ma la sostanza lo è[41].
Termineremo il nostro discorso sull’argomento
dopo aver esaminato la posizione filoetrusca assunta da Virgilio. Lo faremo nei
paragrafi 8 e 9.
6. Servio Tullio. Secondo Dionigi di Alicarnasso, le città
etrusche, dopo la morte di Tarquinio, non riconobbero a Servio Tullio,
nuovo re di Roma, la stessa egemonia che avevano riconosciuto a Tarquinio; ma,
vinte in guerra, avrebbero poi riconosciuto a Servio gli stessi privilegi di
Tarquinio. In quella occasione, il nuovo re avrebbe punito Veio, Tarquinia e
Cere con la confisca del territorio [42].
Tuttavia,
gli affreschi (III sec. a.C.) della Tomba Fraçois
di Vulci ci hanno conservato una tradizione inversa: l'eroe etrusco Mastarna (il
futuro Servio Tullio), insieme ad alcuni personaggi (forse vulcenti) partecipa
ad una scena in cui vengono uccisi nel sonno Gneo Tarquinio di Roma (Cneve
Tarchunies Rumach) ed i suoi alleati di Vulsini, Blera e Sovana.
Dal
confronto delle due versioni si può notare che mentre, nella tradizione
etrusca, Mastarna-Servio Tullio e i suoi compagni, evidentemente prima di
ottenere il trono di Roma, uccidono un Tarquinio romano ed i suoi alleati
etruschi, nella versione romana la
situazione risulta capovolta: Servio Tullio, re di Roma, vince e, addirittura,
priva del loro territorio, Veio, Tarquinia e Cere. Si tratta di un anacronismo
reso possibile dalla duplicazione degli eventi storici del IV-III sec. a.C.,
quando prima Veio, poi Cere e Tarquinia persero effettivamente la loro
indipendenza.
Dionigi,
quando aveva trattato della guerra di Tarquinio, re di Roma, contro gli
Etruschi, aveva espressamente menzionato varie città etrusche belligeranti, ma
non Tarquinia. E' significativo che solo dopo la morte di Tarquinio, egli
menzioni Tarquinia fra le città rivali di un
re di Roma. Come ha osservato giustamente Marta Sordi,
<<il
rifiuto di Tarquinia di riconoscere a Servio Tullio l'egemonia che era stata
riconosciuta a Tarquinio Prisco, va forse inteso non come una guerra degli
Etruschi per sottrarsi all'egemonia di Roma [...], ma come una lotta fra
Etruschi per la supremazia all'interno della Lega>>[43].
7. Cornicolo
e Corneto. Ai nostri fini, è opportuno ricordare che Servio
Tullio, secondo Cicerone, era figlio di una schiava di Tarquinio re di Roma,
nata a Tarquinia[44]. Ma è sconcertante che
costei, secondo una diversa tradizione, era una principessa di Corniculum
(Cornetum?) prigioniera di Tarquinio, e si chiamava Ocrisia (*Coritia?)[45].
Potrebbe aver qualche significato il fatto che Servio, in talune fonti come l’Eneide
di Virgilio (VI, 817), è incluso
fra i Tarquini.
Considerando che la madre di Servio una volta
risulta nata a Tarquinii e una volta a
Corniculum, possiamo supporre
di trovarci di fronte alla prova indiretta dell’esistenza, nel
circondario di Tarquinii, di un centro
chiamato Cornetum (che i Romani,
volutamente o meno, scambiarono con la città latina di Corniculum,
la cui ubicazione, del resto, non è stata mai stabilita con sicurezza). Quanto
potrebbe esser stata facile la confusione lo dimostra il fatto che Robertus
Stefanus, nel Thesaurus della lingua
latina, piazzò viceversa Cornicolo
accanto a Tarquinia (Corniculum …hoc etiam nomine vocatum est oppidum iuxta Tarquinios)[46].
8.Virgilio. Il tema del trasporto delle insegne etrusche del
potere federale da Tarquinia a Roma, ed il relativo riconoscimento della
supremazia di un “re di Roma” sulla Lega Etrusca appaiono anche nel contesto
mitico nel quale è intessuta l'Eneide.
Nel III sec. a.C., Licofrone aveva codificato
un’antica tradizione secondo cui Enea profugo da Troia era andato a sbarcare
alla foce del fiume Linceo (il Mignone) in Etruria dove si era unito agli
Etruschi di Tarconte e Tirreno.
A sua
volta, Virgilio (70-19 a. C.) narrò che, dopo la rovina di Troia, gli dèi
Penati avevano ordinato ad Enea di ricondurre i Troiani a Corito, in Etruria,
perché questa era l’antiqua mater
dove era nato il capostipite Dardano [47].
Nella
tradizione codificata dai mitografi postvirgiliani e dai commenti all’Eneide di epoca romana, Dardano era figlio del re etrusco Corito o
Corinto. Questi, oppure lo stesso Dardano, era poi il fondatore della omonima
città di Corito o Corinto in Etruria.
Virgilio,
però, diversamente dalla originaria versione di Licofrone, non fece sbarcare
Enea alla foce del fiume Linceo (il Mignone) in Etruria, ma a quella del Tevere,
nel Lazio vetus, che egli poteva
ugualmente considerare e chiamare <<fiume etrusco>> perché‚
nasceva in Etruria e ne segnava il confine con le terre latine. Con ciò, egli
cercava un compromesso con la più recente variante romana secondo cui Enea si
era recato direttamente nel Lazio antico.
Tuttavia,
il poeta compì un atto di riparazione verso la tradizione filoetrusca. Vediamo.
I
Troiani giungono alla foce del
Tevere nella settima estate dopo la distruzione di Troia. Qui pongono il campo, ma incorrono nella inimicizia dei Latini e dei
Rutuli che vorrebbero respingerli. Enea, perciò, si reca a chiedere aiuto
militare ad Evandro, un suo parente arcade, re di una colonia ch’era venuta a
stanziarsi dalla Grecia sul colle Palatino (il luogo dove sorgerà Roma).
Il re
Evandro, che <<indossa calzari etruschi>>(VIII, 458), gli fa
presente che
le
proprie forze militari sono esigue, ma che può ugualmente porlo a capo d’un
grande esercito. Gli abitanti della città etrusca di Agilla (oggi
Cerveteri), spiega Evandro, hanno scacciato il loro crudele tiranno
Mezenzio. Questi si è rifugiato nel Lazio antico, presso i Rutuli. Perciò
tutte le città etrusche si sono riunite, sotto il comando di Tarconte, e
minacciano i Rutuli di guerra immediata. Tuttavia, dice Evandro, da un responso
di aruspicina, il re Tarconte, capo supremo degli Etruschi confederati, ha
appreso che gli dèi non concedono a nessun italico di comandare un popolo così
grande, e che il potere deve essere affidato ad un condottiero straniero.
Allora, continua Evandro, <<Lo
stesso Tarconte, mi ha inviato gli ambasciatori e la corona del regno con lo
scettro, e ora mi affida le insegne perché mi rechi nel suo accampamento ad
assumere il comando degli Etruschi>>[48].
Molti
sostengono che Virgilio, nel nominare le insegne del potere inviate da Tarconte
ad Evandro, intendeva riferirsi a quei fasci <<che furono trasportati
dagli Etruschi a Roma (qui ad Romanos a
Tuscis translati sunt)>>.
<<Una
cosa, infatti, è dire “insegna”, al singolare>>, spiega Donato,
<<e un’altra è dire “insegne”, al plurale, che è la forma del nome
con cui si può indicare la veste e la sella regale>>[49].
Verosimilmente, Virgilio conosceva una tradizione filoetrusca che proiettava in epoca "mitica", quanto gli storici romani dicevano fosse accaduto a Tarquinio Prisco, re di Roma. Evandro, similmente a Tarquinio,
·
indossa calzari etruschi,
·
è re del luogo dove sorgerà Roma,
·
brucia su un rogo le armi dei vinti Sabini [50],
·
riceve dagli ambasciatori di Tarconte le insegne
regali del potere federale etrusco.
Si consideri che il mittente delle insegne è Tarconte
(= colui che viene da Tarquinia) [51],
notoriamente associato a Tarquinia non solo per esserne l’eponimo fondatore,
ma anche per altri rapporti mitostorici quali la nascita di Tagete e la
supremazia sulla Confederazione Etrusca. L'intera vicenda sembra, dunque,
riecheggiare la tradizione secondo la quale, durante il regno di Tarquinio,
<<furono trasportate da Tarquinia a Roma>> i fasci e le insegne
etrusche del potere.
Il
re Evandro dice poi ad Enea di non poter
accettare l'incarico a causa della propria vecchiaia, ma di voler delegare Enea;
e lo invita a recarsi da Tarconte, in Etruria, per assumere il comando degli
Etruschi.
E mentre Enea è assorto, con gli occhi fissi al suolo, ad ascoltare le parole di Evandro, sua madre, la dea Venere, manda dall'alto un segnale positivo. Virgilio narra che
un
fulmine lanciato a cielo sereno vibrò con fragore, e ad un tratto sembrò che
tutto crollasse e che nell'aria muggisse uno squillo di tromba etrusca. Enea ed
Evandro sollevano gli occhi, e vedono che nel cielo risplendono e risuonano le
armi che Venere aveva promesso al figlio in caso di guerra [52].
Tuttavia,
la dea consegnerà le armi ad Enea solo quando questi si troverà, in Etruria,
presso Tarconte.
Per gli Etruschi, un fulmine che cadeva a cielo sereno era un evento positivo; e lo squillo di tromba che muggiva nel cielo era uno dei portenti che annunciavano il passaggio da un secolo a un altro della loro storia.
Enea,
incitato dalle parole di Evandro, parte a Cavallo dal Palatino (Roma); e,
percorrendo evidentemente la via Tarquiniese (vedi par. 19), si reca in Etruria
a chiedere aiuto a Tarconte e a ricevere il comando della Federazione Etrusca.
In quel frangente, Tarconte aveva riunito e accampato l'esercito federale presso
un fiume che Virgilio lascia anonimo [53].
Ma
Elio Donato (III-IV sec.), antico commentatore dell’Eneide,
di epoca romana, sosteneva che Virgilio intendeva che l’esercito di Tarconte
era accampato su un colle (legio in colle
agens)[54]; e Servio (IV-V) spiegava
che ancora ai suoi tempi esistevano
fonti scritte che descrivevano la natura pianeggiante di quel colle, e che la
cosa poteva esser confermata dal controllo sul luogo (quod
hodieque legimus et videmus)[55].
Inoltre, per l’uno e per l’altro, l’anonimo fiume virgiliano che scorreva
vicino a questo colle si chiamava Mignone (Minio
dicitur)[56]; e Donato aggiungeva che
il Mignone si trovava <<a nord di Centumcellae (oggi
Civitavecchia)>>[57], cioè pochi chilometri a sud della antica
Tarquinia dove in effetti sfocia. Ancora nel Medioevo, il fiume manteneva, la
doppia denominazione di Mignone e Cerito [58].
Verosimilmente,
il poeta riconosceva nella foce del Mignone il leggendario fiume Linceo, dove,
secondo la tradizione filoetrusca, era sbarcato Enea al suo arrivo in Etruria.
Ma la cosa più importante è che mentre Enea si trova in questo luogo (cioè
presso Tarquinia) a chiedere aiuto a Tarconte, Virgilio dice che l'eroe <<è
giunto fin dentro la lontana città di Corito (extremas Corythi penetravit ad urbes)>>(En.,IX,10).
Gli
antichi commentatori di epoca romana (Elio Donato e Servio), confermarono
l'esistenza della città di monte Corito, patria di Dardano capostipite dei
Troiani, nel luogo in cui era trovato Enea in quel momento [59]. Evidentemente, a quei tempi, c'era una città
chiamata Corito su un colle che si trovava a nord della foce del Mignone, oppure
Corito era l'alter nomen con cui
Virgilio chiamava Tarquinia. Infatti, durante tutto il Medioevo, la virgiliana
città di Corito fu identificata con Corneto che era il nome medioevale
dell'odierna Tarquinia[60].
Virgilio racconta poi che
Enea, quando si presenta a Tarconte,
<<…gli
ricorda quale fiducia si debba porre negli eventi umani, e inframmezza
preghiere. Tarconte non ha indugi, unisce le forze (etrusche e troiane) e stringe il patto. Allora, libero dal fato, il
popolo etrusco sale sulle navi, affidato ad un duce straniero come volevano gli
dèi>>[61].
Riassumendo
i fatti, Tarconte (un Tarquinio re della Lega Etrusca) riunisce a
Corito-Tarquinia i contingenti dell’esercito federale etrusco con i loro vari
capi. Da qui, per volere divino, invia sul colle Palatino (Roma) i propri
ambasciatori per offrire al re arcade Evandro (parente d'Enea) il comando della
Federazione Etrusca e consegnargli le insegne del potere. Evandro cede il
privilegio ad Enea (originario di Corito-Tarquinia, e capostipite dei Romani).
L’eroe troiano si reca a Corito-Tarquinia per ricevere da Tarconte
l’investitura. Per Virgilio, dunque, Corito-Tarquinia non solo era il centro
di riunione dei prìncipi delle città etrusche e dei loro eserciti, ma era il
luogo dove avveniva l’investitura del re della Federazione.
A
questo punto della vicenda avviene l’imbarco dell’esercito etrusco-troiano,
evidentemente dallo scalo di Rapino (*Rasino?)
che era alla foce del Mignone, o da quello di Gravisca (erano entrambi porti di
Tarquinia).
Naviga per prima la nave d'Enea seguita dalla
restante flotta etrusca.
Ora il
poeta passa in rassegna i vari popoli imbarcati ognuno con il suo comandante. La
sfilata inizia con le navi di Chiusi e Cosa, comandate da Massico; seguono
quelle di Populonia e dell'isola d'Elba, comandate da Abante, poi quelle di Pisa
al comando di Asila. Viene, poi, un contingente di trecento uomini, formato da
<<il
bellissimo Astur, Astur sicuro del suo cavallo e delle armi variopinte. Trecento
uomini gli si uniscono, tutti concordi nel seguirlo: quelli che abitano Caerete,
che sono nei campi del Mignone, e Pirgi antica e la intempestae Gravisca>>[62].
Il
nome di Astur sta verosimilmente per quello di Corito [63].
Chiudono,
infine, il catalogo un contingente di Liguri guidati da Cunaro e Cupavone, uno
di Mantovani condotti da Ocno, e un altro guidato da Auleste. In tutto, trenta
navi.
Questa
flotta, salpata da Tarquinia, aggira via mare il territorio della nemica Cere, e
sbarca alla foce del Tevere dove l’esercito etrusco-troiano sconfigge le
popolazioni latine e gli Etruschi di Cere.
Ma
vediamo di cogliere gli elementi strutturali che l’Eneide
di Virgilio ha in comune con le tradizioni riferite da Dionigi di Alicarnasso e
da Strabone.
SALTARE
UNA RIGA
·
Dionigi. I prìncipi delle singole città etrusche si
riuniscono (Dionigi non precisa il luogo).
·
Virgilio. Tarconte, re della Federazione Etrusca, riunisce a
Corito-Tarquinia i prìncipi delle città con i loro relativi eserciti.
SALTARE UNA RIGA
·
Dionigi. Il tarquiniese Tarquinio Prisco, re di Roma,
riceve le insegne etrusche del potere recate a lui dagli ambasciatori dei capi
delle città riuniti in assemblea (Dionigi non dice il luogo della riunione).
·
Strabone. Al tempo di Tarquinio Prisco, re tarquiniese di
Roma, furono trasportate da
Tarquinia a Roma le insegne del potere.
·
Virgilio. L’arcade Evandro, parente di Enea, e re del
Palatino (Roma), riceve le insegne etrusche del potere
dagli ambasciatori che Tarconte aveva inviato da Corito-Tarquinia.
SALTARE UNA RIGA
·
Dionigi. Con la consegna delle insegne del potere, gli
ambasciatori delle città etrusche riconoscono
Tarquinio Prisco (re tarquiniese di Roma) capo della loro Federazione.
·
Virgilio. Il
troiano Enea (originario di Corito-Tarquinia), su delega di Evandro, si reca a
Corito-Tarquinia per ricevere da Tarconte l’investitura di capo della Lega
Etrusca
SALTARE
UNA RIGA
·
Dionigi. Nella versione romana, tutti gli Etruschi
rimettono a Tarquinio, re di Roma, le insegne del potere ed il comando sulle
loro città al termine di una guerra in cui sono stati confitti.
·
Virgilio. Nell’Eneide,
invece, la rimessa del potere da Tarconte ad Evandro e ad Enea, avviene
all’inizio di una guerra combattuta in comune contro Latini ed Agillini. Non
si tratta, peraltro, di un atto di sottomissione sostanziale, ma formale. Nel
proseguo del poema, non sarà mai Enea a dirigere le azioni degli Etruschi, bensì
lo stesso Tarconte.
SALTARE
UNA RIGA
·
Dionigi. Secondo Dionigi, gli ambasciatori etruschi si
presentano a Tarquinio, re di Roma,
per chiedere la pace. Costui pretende che essi si rechino in Etruria (a
Tarquinia?), e ritornino a Roma per consegnargli le insegne del potere
dell’intera nazione.
·
Virgilio. Nell’Eneide,
viceversa, è Enea che si reca a Corito (Tarquinia), in Etruria, si presenta a
Tarconte, <<ed aggiunge preghiere>>. Allora, <<Tarconte unisce
le forze e stringe alleanza; così, sciolta dal fato, la gente etrusca
s’imbarca affidata ad un duce straniero, secondo il volere degli dèi>>[64].
Il passaggio del potere sembra essere stato utilizzato da Virgilio come atto
formale, per evitare di presentare Enea, capostipite dei Romani, subordinato ad
un esercito di Etruschi che invadono il Lazio vetus.
SALTARE
UNA RIGA
·
Dionigi. Nella versione romana, presente in Dionigi,
i popoli espressamente menzionati nella guerra contro Tarquinio sono
quelli di Chiusi, Arezzo, Volterra, Roselle, Vetulonia, Fidene, Veio e,
soprattutto, Cere [65].
·
Virgilio. Nell’Eneide,
nessuno di questi popoli, ad eccezione dei Chiusini (e forse di una minoranza di
Ceriti), è incluso nel catalogo di quelli che facevano parte dell’esercito
con il quale Tarconte ed Enea sconfiggono i Latini e i loro alleati etruschi
fuoriusciti da Cere. Nelle tradizione romana, infatti, i Ceretani si erano
opposti alla stabilizzazione dei Troiani nel Lazio vetus.
Questa resistenza, così come presentata dagli scrittori latini, dovette nascere
proprio dalla trasposizione mitica della reale resistenza che Cere oppose alla
penetrazione dei Tarquiniesi nelle terre latine.
SALTARE
UNA RIGA
Nella
vicenda dell’Eneide, le figure di
Tarconte, di Evandro e di Enea assumono di volta in volta la funzione di quella
di Tarquinio Prisco; sicché, in ultima analisi, tutta la storia, dall’invio
da parte di Tarconte delle insegne del potere ad Evandro (re della futura Roma),
alla rimessa del comando dell’esercito etrusco ad Enea (discendente etrusco, e
capostipite dei Romani), fino alla guerra combattuta dalle forze congiunte
etrusco-troiane ed arcadi-romane, sembra ripetere in chiave mitica le vicende
dei Tarquini nel Lazio vetus.
Nell’Eneide,
la posizione della tradizione romana è rovesciata, mentre appaiono evidenti le
ragioni politiche per cui Virgilio utilizza
il nome di Corito per riferirsi a Tarquinia.
Probabilmente,
in Dionigi, il racconto delle guerre sostenute da Tarquinio contro i Latini e
gli Etruschi ripeteva, in chiave romana, la difesa che i Tarquiniesi di
Tarquinia e di Roma dovettero sostenere insieme contro varie coalizioni
etrusco-latine che cercavano di soppiantarli
nel controllo di Roma. Parallelamente, la assunzione di Tarquinio, re di Roma, a
capo della Lega Etrusca, potrebbe aver ripetuto, in veste romana, gli eventi di
un momento storico in cui i Tarquiniesi erano riusciti a mantenere sia il
controllo di Roma che quello della
Lega Etrusca.
Gli
storici romani mascheravano i rapporti di dipendenza di Roma dall’Etruria e,
particolarmente da Tarquinia, durante la monarchia etrusca, utilizzando varie
strategie:
·
duplicare gli eventi storici del IV-III sec. a.C.,
quando gli Etruschi furono effettivamente sottomessi (vedi par. 2);
·
minimizzare la provenienza dei Tarquini da
Tarquinia, enfatizzando il
“capostipite” greco emigrato da Corinto;
·
presentare i re etruschi come personaggi che
avessero tagliato i ponti con la terra di origine, e che si fossero
completamente romanizzati;
·
capovolgere le lotte fra le città etrusche
per la supremazia sulla Lega e per il controllo di Roma, in vittorie dei
Romani contro gli Etruschi.
10. Cori(n)to "nonno" di Tarconte. Nicol Horsfall sostiene
che Virgilio abbia coperto Tarquinia con il nome di Corito ricavato da quello
dell'omonimo re arcade padre adottivo di Telefo, re della Misia, a sua volta
padre di Tarconte fondatore di Tarquinia[66].
A
Horsfall è stato obiettato che il poeta avrebbe potuto chiamar Corito ogni
altra città fondata da Tarconte. Si diceva, infatti, che questi avesse fondato
tutte le città etrusche fra cui Tarquinia alla quale avrebbe dato il proprio
nome. Abbiamo anche uno specifico riferimento di Catone alla fondazione di Pisa[67].
Quello alla fondazione di Cortona é dovuto, invece, ad un falso operato sul
testo de Le Puniche di Silio Italico[68].
In
favore di Horsfall, si potrebbero fare, tuttavia, due ordini di considerazioni.
·
Tarquinia era la città di Tarconte per eccellenza,
quella alla quale l'eroe fondatore aveva conferito il proprio nome, e dove aveva
ricevuto dal divino Tagete la rivelazione della scienza dell'aruspicina.
·
Le versioni in cui Tarconte è presentato come
fratello di Tirreno e figlio di Telefo, a sua volta figlio adottivo di Corito,
parlano solo della fondazione di Tarquinia[69].
11. L'Etruria meridionale e i Pelasgi dell'Arcadia. Si diceva che il
re Corito o Corinto avesse governato sull'omonimo demo di Tegea in Arcadia; e
che avesse adottato Telefo, padre di Tarconte, nato e abbandonato proprio nella
terra di Corito.
Dall'Arcadia
proveniva anche Evandro, re del colle Palatino di Roma. Secondo Virgilio,
costui, in quanto discendente di Maia, sorella di Elettra madre di Dardano, era
imparentato con Enea.
Si
riteneva pure che i Pelasgi, venuti dall'Arcadia, si fossero andati a stanziare
nell'Etruria meridionale, secondo una divisione che localizzava a nord gli
Etruschi, e a sud gli Etruschi misti ai Pelasgi emigrati dall'Arcadia [70] . La tradizione è documentata per la prima volta
da Dionisio Periegete (II sec.a.C.). Questi dice:
<<Intorno
all'Appennino ci sono molte genti che elencherò tutte a cominciare dalla parte
nord-occidentale. Per primi ci sono gli Etruschi, e dopo di loro la gente dei
Pelasgi che un tempo da Cillene (in
Arcadia) raggiunsero il mare Occidentale, e lì si insediarono insieme agli
Etruschi; dopo, c'è il duro popolo dei superbi Latini>>.
La
tradizione fu seguita da Prisciano, Avieno, Niceforo ed Eustazio.
Riferiamo
quel che diceva Avieno (IV sec.) perché era un etrusco di Vulsinii:
<<prima
v’è la gente degli antichi Etruschi, poi la schiera pelasgia occupa i campi
itali; essa una volta dal paese di Cilene (in
Arcadia), si recò agli stretti del golfo Esperio>>.
12.
Gli Arcadi fondano in Etruria
la città di Tegea (Corito?).
Particolare rilievo assume uno scolio di Probo alle Georgiche di Virgilio, nel
quale si dice che gli Arcadi avevano fondato in Etruria la città di Tegea,
omonima della città e della regione arcade in Grecia [71]. Noi sappiamo che Corito o Corinto era uno dei
demi di Tegea, sul quale regnava l'omonimo re Corito o Corinto, padre adottivo
di Telefo, a sua volta padre di Tarconte, fondatore di Tarquinia (Corinto)
nell'Etruria meridionale dove, secondo la tradizione, i Pelasgi, provenienti
dall'Arcadia, avevano coabitato con gli Etruschi (vedi par. 11). Pare anche,
secondo quanto sostiene Emilio Peruzzi, che dal nome della città etrusca di
Tegea derivi quello di Tagete [72], il fanciullo divino nato a Tarquinia dalle zolle
della terra smossa dall’aratro di Tarconte. Questa etimologia, se accettabile,
diverrebbe una prova in più della connessione fra Tarquinia e Tegea-Cori(n)to.
13. Cori(n)to nella lingua greca. Senza pregiudizio per la tesi di
Horsfall, noi abbiamo da tempo proposto una soluzione alternativa. Alcune glosse
ad Eschilo presentano korinthos e korintheys
in luogo di korythos e Korytheys. Parimenti, l'epiteto di Apollo a Corone è conosciuto
nella forma Korinthos[73].
Dall'analisi di questi casi, Pierre Chantraine ha ipotizzato
un lontano rapporto etimologico fra korys-korithos
( = elmo) e il nome della città greca di Korinthos[74].
In
proposito, noi abbiamo condotto una ricerca sia nella lingua greca che in quella
latina, ed abbiamo trovato esempi molto numerosi e, riteniamo, significativi.
Corito e Corisijo
era la forma in cui era scritto il nome di Corinthos
nelle Tavolette Micenee[75].
In
Grecia, il demo attico di Tricorito (Tri-korythos)
era chiamato anche Tricorinto (Tri-korynthos)
[76]. Stefano di Bisanzio ci documenta la alternanza
delle due forme anche in un unico testo quando chiama Trikorynthon
la città, e Trikorysioi gli
abitanti [77]. Pure il nome dell'eroe eponimo del luogo era
Tricorito e Tricorinto (Trikorythos/Trikorynthos)[78].
Korythos era il nome di uno dei figli che Paride ebbe da Elena di
Troia; ma sia Eustazio che Tzetze
lo chiamano Korinthos [79].
Secondo
una leggenda, riferita da Elio Donato, un altro Corythus,
figlio di Paride e della ninfa Enone aveva fondato, in Etruria la omonima città
di Corythus (Tarquinia). Però, in
Tzetze, il nome di questo figlio di Paride e di Enone, è sia Korythos che Korinthos
(cod. Kointon), e addirittura Couron[80].
Telefo,
poi, padre di Tarconte, fondatore di Tarquinia (Corito), era figlio adottivo del
re arcade korinthos, secondo
Apollodoro (II sec.a.C.). Invece, per Diodoro Siculo (I sec.a.C.), lo stesso
personaggio si chiamava korythos[81].
14.
Cori(n)to nella lingua latina. Virgilio, nell'Eneide,
nomina quattro volte Corythus[82],
delle quali una volta (IX, 10) il codice “n”
presenta la variante Corinthus.
I
codici dei commenti all'Eneide di
Servio e di Elio Donato alternano Corythus
e Corinthus. Altrettanto avviene nei
codici del Le istituzioni divine di
Lattanzio[83].
In una
glossa virgiliana (CGL, IV, pag. 436)
si legge Corinthus Etruriae (= Corinto
d'Etruria), evidentemente per distinguere la città etrusca dalla omonima città
Greca.
Servio
ci fa conoscere una versione del mito di Tantalo, secondo la quale questi
regnava sui Corithii o Corinthii [84].
Nei
Mitografi Vaticani (I e II), il nome del padre di Dardano e quello della omonima
città sono esclusivamente Corinthus,
così come Corinthii sono i sudditi di
Tantalo [85].
Troviamo,
poi, che Corinium, città illirica
della Dalmazia sulla spiaggia Adriatica, era chiamata anche Coriton e Corinton [86].
Nel Martyrologium
Hieronymianum, alla data dell'otto Agosto, il nome di un santo è variamente
attestato come Corithonis, Corinthonis, Corinthionis
e Corvintonis.
Un
figlio di Priamo, nei manoscritti del Diario
della guerra di Troia di Ditti Cretese, è chiamato sia
Chorithon che Corinton.
Nella Biblioteca di Apollodoro, lo stesso personaggio ha poi il nome greco
di Gorgythion[87].
In un
cippo funerario di età imperiale, il nome
Corinthus è scritto Coritus [88].
Nel
sopra menzionato Diario della guerra di
Troia, la città greca di Corinto è nominata due volte (VI, 2), ma in
entrambe è chiamata Choritus come la omonima città etrusca. Il fatto assume particolare
significato se confrontato con quanto disse Isidoro di Siviglia (560-636 d.C.).
Questi, in una occasione, sostenne che i fratelli Dardano e Iasio venivano dalla
Grecia (e Graecia profecti), in
un'altra precisò che Dardano veniva da Corinto (profectus de Corinto)[89].
Isidoro, dunque, o la sua fonte, confondeva la etrusca città di Corythus/Corinthus con la greca Corinthos/Choritus
al punto da ritenere che Dardano fosse provenuto da quest'ultima.
Sia il
caso del cippo funerario, sia quello di Dicti Cretese, sia quello di Isidoro
confermano l'intercambiabilità delle forme Corito e Corinto. Analoghe
oscillazioni sono riscontrabili nella lingua etrusca, per esempio nelle varie
forme del nome di persona Arath, Aranth, Arnth, Ar(n)thna
e, addirittura, *Arnath[90]
(lat. Arruns = Arunte).
15. Valerio Massimo. Consideriamo ora quel che racconta Valerio
Massimo (I sec.a.C.-I sec.d.C). Egli dice:
<<Fu
la fortuna che spinse Tarquinio ad impadronirsi del potere in Roma: straniero in
quanto [exactu?], più straniero in quanto nato a Corinto (ortum
Corintho), da rifiutare con disprezzo in quanto nato da un mercante, da
doversene vergognare in quanto era anche nato dall'esule padre Demarato (quod
etiam exule Demarato natum patre). Ciononostante [...], con le sue preclare
virtù fece in modo che Roma non si pentisse di aver scelto il suo re tra i
popoli confinanti (a finitimis)
piuttosto che fra i suoi cittadini>> [91].
Valerio
dice che Tarquinio è nato a Corinto (ortum
Corintho). Tuttavia, noi sappiamo che la tradizione era concorde nel dire
che Tarquinio Prisco era nato a Tarquinia da una nobildonna della città che
aveva sposato il corinzio Demarato. Valerio, inoltre, specifica che Tarquinio è
<<nato dall'esule padre Demarato>>. Ora, Demarato non era esule a
Corinto, in Grecia, ma a Tarquinia. Si tenga presente che, in altre fonti, Corinthus
è attestato come una diversa forma del nome della etrusca città che Virgilio
chiama Corithus (Tarquinia), e che un’antica nota all’Eneide dice esplicitamente Corinthus
Etruriae (= Corinto d'Etruria) per distinguere la città etrusca dalla
omonima città greca (vedi par. 14). Inoltre, Valerio afferma che i Romani non
si pentirono di aver scelto il loro re fra i popoli confinanti (a
finitimis). A rigore, ciò dovrebbe voler dire che il loro re non proveniva
dalla lontana città greca di Corinto,
ma dalla vicina Corinthus Etruriae di
virgiliana memoria. E se si considera
che, in tutta la tradizione romana, l'origine tarquiniese di Tarquinio era
implicita nel nome Tarquinio con cui lo stesso Valerio chiama il suo
personaggio, si dovrebbe concludere che Valerio, copra Tarquinia col nome di
Corinto, come già aveva fatto Virgilio.
Verosimilmente,
Valerio, pur presentando il quinto re di Roma come un Tarquinio scelto fra i
popoli confinanti (a finitimis), cioè
fra gli Etruschi di Tarquinia dove, secondo la tradizione romana, era nato da
padre esule (exule Demarato natum patre),
si propose di stornare le associazione del lettore dalla etrusca Tarquinia (Corinto)
alla greca Corinto grazie al gioco delle omofonie fra i nomi delle due città.
Ciò al fine di esaltare l'origine greca dei Tarquini re di Roma a svantaggio di
Tarquinia, il cui ruolo nella formazione dell'etnos
primitivo di Roma non era accettato di buon grado.
16.
Presenze del nome di Cori(n)to nelle leggende riguardanti Tarquinia.
·
Corinthos/Corythus,
troiano, figlio di Paride, fondatore della omonima città etrusca.
·
Corinthus Corythus,
re di Corito/Corinto, padre di Dardano capostipite
dei Troiani e dei Romani.
·
Dardano, figlio di Corinthus/Corythus,
fondatore della omonima città etrusca.
·
Tarconte, fondatore di Tarquinia (Cory-n-thus), figlio di Telefo, re della Misia, a sua volta
figlio adottivo del re arcade Corinthos/
Corythos.
·
Demarato Corinthius,
re di Tarquinia (vedi par. 4), capostipite dei Tarquini romani.
Forse,
le figure di tutti questi re di nome Corinto/Corito legati a Tarquinia nacquero
dall'unica figura di Demarato Corinthius
re della città. E' possibile, infatti, che i Corinti, esuli a Tarquinia,
abbiano lasciato il nome di Cori(n)thus
ad un quartiere da loro edificato o, comunque, abitato nella città, oppure ad
una arcaica località del colle attiguo a Tarquinia, del quale conosciamo il
nome medioevale di Cornetus/ Corgitus/*
Crugentus[92].
Viceversa, il personaggio di Demarato Corinthius
padre di Tarquinio potrebbe aver assunto la figura di re di Tarquinia proprio
perché attratto da quella del re Corinthus/Corythus,
padre di Dardano, legato al nome
della città.
Il
gentilizio etrusco Kuritiana,
documentato a Chiusi, potrebbe essere stato formato sul nome personale *Kuritu (Corito). Il cognome romano Coritinesanus, di origine etrusca, portato dal console Lar
Herminius potrebbe indicare la presenza, in Etruria, di una città chiamata
*Coritinesa[93].
Il nome rimanda pure alla cittadina di Cortuosa
(etr. *Curtvusa?) che Tito Livio (VI,
4) poneva in territorio tarquiniese.
Cori(n)thus potrebbe essere stata, dunque, una originaria
denominazione di Tarquinia, o il nome di uno degli arcaici centri abitati del
colle di Corneto.
Ma, a rigore, è con Corneto che la tradizione
identificava la Corito virgiliana; e Giovanni Boccaccio argomentava che
<<a questa intenzione forse agevolmente s'adatterebbe il nome, per ciò
che, aggiunta una n al nome di Corito,
farà Cornito>>[94].
E'
probabile che l'originaria pertinenza del nome di Cori(n)to a Tarquinia o alla
futura Corneto, unitamente alla effettiva e documentata presenza di Corinti a
Tarquinia e nel porto di Gravisca, abbia concorso alla formazione della
tradizione di una specifica immigrazione corinta. Tradizione che i Romani
poterono favorire al fine di mitigare con ascendenze
greche l'origine tarquiniese degli ultimi re di Roma.
17. La lingua etrusca a Roma. La più antica documentazione
epigrafica attestata nel Lazio antico è il nome personale Vetusia [95] scritto in caratteri etruschi su una coppa
d’argento della Tomba Bernardini a Palestrina (675-650 a.C.). La cosa rimanda
a consimili nomi che si ritroveranno poi a Vulsini (VI sec. a.C.) e a Chiusi (ThLE,
p. 147).
Da Satrico proviene un vaso di bucchero (fine VII
– inizio VI sec. a.C.) con la scritta Velchainasi
(= io sono di Velchaina, - nome
attestato nella stessa epoca anche a Chiusi, a Cere ed altrove -,
vedi tale, p. 147).
Da Roma provengono cinque iscrizioni.
1)
Snu […][96](VII
sec. a.C.). Sono le
iniziali di una parola graffita su un piatto italo-geometrico proveniente dal
sepolcreto dell’Esquilino. Si tratta forse della più antica iscrizione
trovata a Roma. Dalla stessa tomba proviene un vaso corinzio recante in alfabeto
greco-corinzio il nome del defunto proprietario o costruttore del vaso: Kleikles/Keiklos[97].
E’ l’unica iscrizione greca del VII sec. a. C. finora rinvenuta a Roma.
Nella città sono stati trovati altri vasi di stile corinzio; e si è supposto
che Kleikos fosse stato uno dei vasai
compagni di Demarato[98].
La compresenza, infatti, in una tomba romana, di un greco di Corinto e di un
etrusco, fa pensare che proprio l’Etruria, e Tarquinia in particolare, come
voleva Cicerone, fosse stata la tramite fra Corinto e Roma ( vedi par. 1).
2)
[…] Uqnus (ThlE,
pag. 358; fine VII sec. a.C.). E’
scritto in alfabeto di tipo meridionale su un frustulo di vaso d’impasto
trovato in una fossa per sacrifici sotto gli strati della base del tempio
nell’area di S. Omobono. Per le caratteristiche dell’alfabeto, si veda, in
particolare, il sigma (s) a quattro
tratti in uso a Cere e Veio, ma in parte anche a Tarquinia, durante gli ultimi
decenni del VII sec. a. C. Il testo richiama
il nome di Ocno, mitico fondatore di Perugia e di Mantova.
3)
Araz
Silqetenas Spurianas[99] (metà VI sec. a.C.)
. E’ il nome di un personaggio etrusco di alto rango, inciso sul retro di
una placchetta d’avorio a forma di leoncino, trovata nel pozzo votivo del
tempio appartenente all’area di S. Omobono. Araz
(= Arunte) è il nome personale, Silqetenas
e Spurianas hanno la forma del gentilizi etruschi. Il secondo ci
riporta a Tarquinia dove, attorno al 530 a.C., un quasi omonimo Arath
Spuriana verrà sepolto nella famosa Tomba dei Tori.
4)
Mi
Araziia Laraniia (TLE,
24; ThLE, pag. 66; di poco posteriore al precedente). Iscrizione
graffita su una coppa trovata in un pozzo presso il tempio di Saturno alle
pendici del Campidoglio. Ni sta per Mi:
<<io sono di Araziia Laraniia>>.
Si tratta del prenome e del nome del possessore (uomo o donna) del vaso. Laraniia è un
gentilizio che deriva dal teonimo etrusco Laran
(= Marte).
5)
[…]+enteisiua[…]
(seconda metà inoltrata del VI sec. a.C.). Si tratta di dieci lettere
appartenenti a un testo più lungo, graffite su due frammenti ricomposti di una
coppa di bucchero, trovati in via del Campidoglio, sul lato sud-occidentale del Tabularium[100].
La scrittura sinistrorsa e la forma del t,
che si ritrova a Tarquinia, Cere e Lavinio, hanno fatto supporre che si tratti
di una scrittura etrusca[101].
Nella
stessa Roma dovette svilupparsi un particolare dialetto etrusco. Ne abbiamo due
esempi.
L’uso
precoce della sincope all’interno del gentilizio Laraniia
in luogo di *Laranaia[102].
L’uso
del suono z in luogo di th, come nel caso, documentato due volte, della forma Araz
del prenome Arant[103]. Il nome dovette
esser molto frequente fra gli Etruschi di Roma.
Tradizionalmente era attribuito ad
·
Arunte, fratello di Tarquinio Prisco [104], figlio di Demarato Corinto;
·
Tarquinio Arunte (detto Collatino ed Egerio),
nipote di Tarquinio Prisco [105];
·
Tarquinio Arunte, fratello di Tarquinio il Superbo [106];
·
Tarquinio Arunte, figlio di Tarquinio il Superbo [107];
·
Arunte, figlio di Porsenna [108].
18. Gli
Elogi degli Spurinna. Quanto al nostro Arunte Silqetenas
Spurianas, proprietario della placchetta d’avorio trovata a Roma, potrebbe
trattarsi, come ha ipotizzato il Pallottino, <<di un discendente dei primi
nobili compagni di Tarquinio o di un tarquiniese recentemente attratto alla
corte di Roma>> [109].
Nel Foro di Tarquinia sono stati trovati i
frammenti di tre epigrafi marmoree dedicate, in epoca imperiale, a tre antichi
Spurinna : 1) Velthur figlio di Lart, 2) un altro Velthur,
3) ed Aulus, figlio di un Velthur.
I testi dei tre elogi, nell’ordine, sono i seguenti[110].
1.
V[ELTH]UR SPUR[INNA] /
[L]ARTIS
F. / PR(AETOR) II
[; IN] MAGISTRATU
AL[ERIAE][111]
/ EXERC[I]TUM HABUIT ALTE[RUM
IN] / SICILIAM DUXIT PRIMUS O[MNIUM]
/ ETRUSCORUM MARE CU[M
– LEGIONE] / TRAIECIT A QU[…]
/ AUREA OB VI[ …] etc.[112]
2.
[VELTHU]R SPUR[INNA]
/ [VELTUR]I[S F. (?)] /
[…]VN[…] / […] PR(AETOR) […] / […]MA[…]
/ […]A[…]
3.
AUL[U]S S[PU]RINNA VE[LTH]UR[IS
- F] / PR III ; ORGOLN[IU]M
VELTURNE[…]ENSI[…] / CAERITUM REGEM
IMPERIO EXPU[LIT (?) …]XI[…]
/ [A]RRETIUM BELLO SEVILI V[EXATUM
LIBERAVIT] / [LA]TINIS
- NOVEM - OP[PIDA …] / CEP[IT
(?) …] / FALIS[C …]
Secondo il primo elogio, Velthur, figlio di Lart,
rivestì per due volte la carica di praetor
a Tarquinia (cioè fu il capo della città); e, durante il suo magistrato, fu il
primo a condurre oltre mare un esercito regolare. Infatti, comandò, ad Aleria,
in Corsica, la flotta etrusca[113].
Condusse poi una seconda spedizione in Sicilia[114],
forse a Lipari[115].
Per Emilio Gabba[116],
il fatto sarebbe avvenuto nella seconda metà del V sec. a. C. ; a giudizio di
Mauro Cristofani, invece, attorno ai <<decenni finali del VI sec.
a.C.>>[117].
La flotta etrusca comandata da Velthur
potrebbe esser stata, allora, quella che nel 540 a.C. sconfisse ad Aleria i
Greci di Focea; e poiché Velthur fu praetor
a Tarquinia, e non rex, si dovrebbe
arguire che la città, nella seconda metà del VI sec. a.C. era già una
repubblica[118].
Il secondo elogium è troppo lacunoso.
Il terzo, quello di Aulus Spurinna, dice che il personaggio fu tre volte praetor,
e compì varie imprese: avrebbe espulso il re dalla città di Cere, combattuto
vittoriosamente contro gli etruschi di Arezzo, e occupato ai Latini nove città.
Mario
Torelli (op. cit.) ha voluto
identificare i tre Spurinna degli Elogi
(secondo lui, padre figlio e nipote) con i proprietari della Tomba
dell’Orco II (IV sec. a.C.) a Tarquinia; ed ha ritenuto che Aulus
fosse stato il condottiero della guerra combattuta nel 358 a.C. dai Tarquiniesi
contro i Romani. In quella occasione, Aulus
avrebbe espulso dal trono il re di Cere perché gli negava il passaggio verso le
terre latine.
Ma Cere, nel IV sec. a. C. non aveva un re[119].
La città aveva un regime repubblicano già forse alla fine del VI sec. a. C. [120].
C’è poi il fatto che la Tomba dell’Orco II (che è del IV sec. a.C.) non
apparteneva agli Spurinna, bensì ai Murina,
come è stato recentemente dimostrato.
Non abbiamo dunque nessuna prova che a quel tempo gli Spurinna
risiedessero a Tarquinia. Sappiamo invece con certezza che essi furono presenti
qui e a Roma durante la seconda metà del VI sec. a.C. (vedi par. 17)[121].
Bisogna poi considerare che, durante la guerra del 358,
Tarquiniesi e Romani trucidarono vicendevolmente i prigionieri; e non è
verosimile che, in epoca imperiale, i Tarquiniesi, ormai da tempo sotto il
dominio di Roma, avessero interesse a rievocare ai Romani
quegli episodi, né tanto meno a ricordar loro l’occasione in cui li
avevano sconfitti e li avrebbero privati di nove città latine .
A
ben guardare, l’elogium di Aulus
non parla di una guerra di Tarquinia contro Roma, bensì dell’occupazione di
nove città latine, di una guerra contro Arezzo, e della espulsione del re di
Cere dal trono.
I fatti dovrebbero ricondurci attorno alla metà
del VI sec. a.C. quando la gens degli Spurinna
era presente sia a Tarquinia che a Roma. A quel tempo era ancora possibile che i
Tarquiniesi di Tarquinia e quelli di Roma combattessero insieme contro vari
popoli etruschi e latini che volevano soppiantarli nel controllo di Roma: una
situazione più o meno analoga a quella che, a nostro avviso, si era verificata
durante il regno che la tradizione assegnava a Tarquinio Prisco (vedi par. 4).
Indice
1. Cicerone.
2. Tito Livio.
3. Dionigi di
Alicarnasso.
4.
Autori posteriori a Dionigi di Alicarnasso.
5.
Strabone.
6.
Servio Tullio.
7.
Cornicoli e Corneto.
8.
Virgilio.
9.
Virgilio e la tradizione romana.
10.
Cori(n)to
“nonno” di Tarconte.
11.
L’Etruria meridionale e i Pelasgi dell’Arcadia.
12.
Gli Arcadi fondano in Etruria la città di Tegea.
13.
Cori(n)to
nella lingua greca.
14.
Cori(n)to
nella lingua latina.
15.
Valerio Massimo.
16.
Presenze del nome di Cori(n)to nelle leggende riguardanti Tarquinia.
17.
La lingua etrusca a Roma.
18.
Gli Elogi degli Spurinna.
19.
Le vie
tarquiniesi.
20.
Corneto Etrusca ?
21.
Cori(n)to,
Virgilio e i Micenei.
Alberto Palmucci
[1]
Però la moneta non era ancora in uso al tempo di Demarato.
[2]
Cicerone, De repubblica, II, 19.
[3]
Plinio, Storia naturale, XXXV, 16.
[4]
Plinio, op.cit., XXXV,; 152.
[5]
Tacito, Annali, XI, 14.
[6]
M. Cristofani, Introduzione allo
studio dell'Etrusco, Olschki, Firenze,1986, pag.5; G. Bagnasco Gianni, Le epigrafi, in Gli Etruschi
di Tarquinia, a cura di M. Bonghi Jovino, Modena, Panini, 1986, pagg.
172-176; 237-240; Un'epigrafe etrusca
proveniente dagli scavi alla Civita di Tarquinia, <<
Athenaeum>>, 1986.
[7]
Per taluni moderni, però, Cipselo sarebbe andato al potere verso il 610 a.
C.
[8]
Cicerone, op. cit., II, 19.
[9]
Cicerone, Tuscolanae disputationes, V, 109.
[10]
Non sappiamo quale nome greco Cicerone avesse attribuito al figlio di
Demarato, nella parte perduta del testo. Il fatto crea qualche perplessità
perché gli altri storici gli attribuirono il nome etrusco di Lucumone (=
re), come vedremo più avanti. Il nome greco utilizzato da Cicerone potrebbe
esser stato Licomede, usato anche da Properzio in luogo di Lucumone.
[11]
Cicerone, op. cit. II, 21.
[12]
L’iscrizione corinzia è stata pubblicata da M. Guarducci, Un’epigrafe
greca arcaica a Roma, in Rendiconti
della Pontificia Accademia Romana di Archeologia, 49, 1976-77 (1978),
pp. 85-92.
[13]
G. Colonna, Etruria e Lazio nell’età
dei Tarquini, in M. Cristofani, Etruria
e Lazio arcaico, a cura di, Roma, C.N.R., 1987, pagg. 57-58; M.
Pallottino, Origini e storia primitiva di Roma, cit., pag. 193; 198.
[14]
M. Guarducci, Un’epigrafe greca
arcaica a Roma, in Rendiconti
della Pontificia Accademia Romana di Archeologia, 49, 1976-77 (1978),
pag. 92, n.21
[15]
Q. Ennio, I frammenti degli Annali,
a cura di L. Valmaggi, Torino, Loescher, 1900, pag. 41-42 (framm. 80-81). La
traduzione è nostra.
[16]
Tito Livio, Storia di Roma, I,
34-38.
[17]
Dionigi di Alicarnasso, op. cit.,
IV, 29,2.
[18]
CIL., XIII, 1668
[19] Q. Ennio, op. cit.,
pag. 43, framm. 84: <<hac
noctu filo pendebit Etruria tota>>.
[20]
M. Pallottino, Etruscologia,
Hoepli, Milano, 1957, pag. 174.
[21] Servio Danielino, op.
cit., II, 296: <<Eos autem
esse Iovem, aetherem medium, Iunionem imum aerea cum terra, summum aetheris
cacumen, Minervam, quos Tarquinius, Demarati Corinthii filius, Samothraciis
mysticae imbutus, uno templo et sub eodem tecto coniunxit, et addidit
Mercurium>>; vedi pure Macrobio, Saturnali,
III, 4,8.
[22]
Floro, Epitome, I, 1,4.
[23]
Cassio Dione, nella Epitome di
Zonara, VII, 8.
[24]
Paolo Orosio, Hist. Adv. pag., II,
4,12.
[25]
Zonara, VIII, 8,A.
[26]
Giovanni Lido, De magistratibus populi
romani, I, 8 (R. Wuensch, pag. 14. V. 8).
[27]
Strabone fa il nome di Tarquinia una volta al singolare, ed una volta al
plurale, conformemente a due delle varie forme greche con le quali era
chiamata la città.
[28]
Strabone, op. cit., V, 2,2.
[29]
Strabone, op. cit., VIII, 6,20.
[30] N. Bravo, Commerce et noblesse en Grèce
archaique, <<Dialogues d’histoire ancienne>>, (10), 1984,
pag. 122.
C’è chi traduce in modo diverso dal nostro, ma lo
fa aggiungendo o togliendo qualcosa al testo greco o cambiandone la
disposizione delle parole.
Horace
Leonard Jones omette kai
(= anche) davanti a Romaion
(dei Romani), e traduce: <<that
not only he himself became the ruler of the city that admitted him, but his
son was made king of the Romans (che non solo egli stesso divenne il
comandante/sovrano della città che lo accolse, ma suo figlio fu fatto re
dei Romani)>> (H. L. Jones , The
Geography of Strabo, IV, London, W. Heinemann, LTD, 1968, pag. 191).
Anche
Raul Baladié omette <<kai
(=anche)>>davanti a Romaion
(dei Romani), rende cateste
(= fu fatto) con “dovette divenire”, e traduce: <<qu’il prit à titre personnel la tete de la cité qui l’avait
accueille, tandis que son fils devait devenir roi des Romains (Che egli
prese a titolo personale la testa della città che l’aveva accolto, mentre
suo figlio dovette divenire re dei Romani)>>(R. Baladié, Strabon,
Géographie, V, Paris, Les belles Lettres, 1978, pag. 182).
Dominique Briquel rende erxe
poleos (= comandò / fu capo de /
regnò su la città) con <<ebbe il comando nella città>>,
dimentica inoltre la correlazione fra
<<oste
men …de …kai = che
non solo … ma … anche>>, piazza un punto e virgola tra la
prima e la seconda proposizione, rende cateste
(= fu fatto) con “divenne”,
sposta la posizione di kai (= anche), e
traduce: <<qu’il assuma le
commandement dans la ville qui l’avait accueilli; son fils devint meme roi
des Romains (che egli assunse il comando nella città che l’aveva
accolto; suo figlio divenne anche re dei Romani)>> (D. Briquel, Une Vision Tarquinienne de Tarquin L’ancien, <<Archeologia
Perusina>>, 9, Studia
Tarquiniensia, 1988, pag. 13).
Anna
Maria Biraschi traduce: <<che non solo divenne re della città che
l’aveva accolto, ma suo figlio divenne anche re dei romani>>. (A. M.
Biraschi, Strabone, Geografia, il
Peloponneso, VIII, Milano, B.U.R., 1992, pagg. 245-246). Siamo
d’accordo con la prima parte della traduzione, ma abbiamo riserve per la
seconda. In questa, la Biraschi, come già Briquel, rende cateste
(= fu fatto) con “divenne”, sposta kai (= anche), e
traduce “ma suo figlio divenne anche
re dei Romani”. Però il testo di Strabone dice <<kai ton Romaion cateste basileys
(lett. anche dei Romani fu fatto
re)>>. La distinzione è sottile, ma importante perché la Biraschi
cambiando, rispetto al testo greco, la
posizione di <<anche (cai)>>,
riduce, se non vanifica, per il lettore la possibilità di intendere che
il figlio di Demarato, oltre ad aver ereditato dal padre il trono di
Tarquinia, <<fu fatto re anche dei Romani>>.
[31]
D. Musti, Etruria e Lazio arcaico
nella tradizione (Demarato, Tarquinio, Mezenzio), in Etruria
e Lazio arcaico, Atti dell’incontro di studio (10-11 nov. 1986), a
cura di M. Cristofani, 1987, CNR, pag. 142.
[32]
Servio, All’Eneide, II, 278: <<Lucumones,
qui sunt reges in lingua Tuscorum>>. La notizia è ripetuta in X,
202, <<Et singulis singuli
lucumones imperabant>>, e in XI, 9, <<Populi…
qui singulis lucumonibus parebant>>. Vedi pure Censorino, De
die natali, IV, 13: <<I lucumoni regnanti allora in
Etruria>>.
Epigraficamente, l’aspetto politico-religioso del nome di Lucumone è attestato solo a Tarquinia (CIE, 5430; TLE2, 131), e confermato nel Liber Linteus (M, IX) e nell’epigrafia (TLE 2, 1).
[33]
CIE, 5430; TLE, 131.
[34]
Verrio Flacco, De significatione
verborum,: <<Lucereses
et Luceres, quae pars tertia
populi romani est distributa a Tatio et Romulo, appellati sunt a Lucero,
Ardeae (?) rege, qui auxilio fuit
Romulo adversus Tatium bellanti. Lucomedi, a duce suo Lucumo dicti, qui postea Lucereses sunt appellati>>.
Dionigi di Alicarnasso (II, 37; 42; 43) parla, invece, di
Lucumone come di un condottiero venuto da Solonion
(errato per Coronion o Tarconion?)
che andò a Roma in Aiuto di Romolo contro i Sabini (si tratta forse di un
duplicato del figlio di Demarato). Lycmon
o Lucumonius o Lycomedius, secondo Properzio (IV,1; 2), veniva dall’Etruria, ed
era l’eponimo dei <<coloni
Luceres>> di Roma. Anche per Servio (All’En.
V, 560), Lucumone veniva dall’Etruria, ed i Luceri di Roma avevano da lui
preso il nome: <<A Lucumone
Luceres dicti sunt>>. Così Anche per Varrone: <<Luceres, ut Iunius (GRF,
p. 121) , a Lucumone>> (De
Lingua latina, V, 55). e
per Cicerone (De rep., II, 14).
[35]
Il nome è portato dal principe di Chiusi (Dionigi di Alicarnasso, XIII, 10;
11), e da suo figlio (T. Livio V, 33).
Nei
documenti epigrafici etruschi, il termine Lucumone appare come nomen,
in epoca molto tarda, e solo nelle regioni di Chiusi e di Perugia: CIE,
2382, 2386, 3567, 3873, 3877, 3982; CIL,
XI, 1788. In alcune iscrizioni
latine appare come cognomen: CIL,
I, 988; II, 984; III, 10558; V, 428, 6522.
[36] A. Rosemberg, Der Staat der alten Italiker, Berlino, 1913. Contra, R. A. Fell, Sulla costituzione degli Etruschi, <<Studi Etruschi>>, II, 1928 pag. 185; M. Cristofani, Dizionario della Civiltà Etrusca, a cura di, Firenze, Giunti martello, 1985, s.v. Magistrature.
[37]
CIE, 5430; TLE, 131.
[38]
CIE, Tarquinia, 5360 (TLE,
87); 5472 (TLE, 137); 5811 (TLE,
174). Vedi pure ThLE, s.v. Zilath, pag. 164.
[39]
CIE, Tarquinia, 5385 (TLE
90); 5423 (TLE 126). Vedi Adriano
Maggiani, Appunti sulle magistrature
etrusche,<<Studi Etruschi>>,LXII, 1996 (1998), pag. 107.
[40]
M. Bonghi Jovino, La
monumentalizzazione nell'area sacra, in Gli
Etruschi di Tarquinia, a cura di, Modena, Panini, 1986, pag. 102 e figg.
92-94.
[41]
Dominique Briquel ritiene che gli Etruschi non possedessero una tradizione
su Tarquinio, autonoma rispetto alla versione romana, e che quella prodotta
da Strabone fosse solo una tarda risposta tarquiniese alla tradizione
romana. A sostegno di questa tesi, Briquel invoca, fra l'altro, il caso
dell'imperatore Claudio (D. Briquell, Une
vision tarquinienne de Tarquin l'Ancient, in Studia
Tarquiniensia, a cura dell'Ist. Arch. Un. di Perugia, Bretschneider,
Roma, 1988, pagg. 30-31). L'imperatore Claudio, in un discorso tenuto al
Senato di Roma, al fine di giustificare l'immissione di stranieri
nell'ordine senatorio, ricordò che Tarquinio Prisco, re di Roma, non solo
era di origine straniera, ma era figlio di un mercante di nome Demarato,
esule da Corinto a Tarquinia. Riferì, poi, che anche un altro re di Roma,
Servio Tullio, secondo gli Etruschi, era un fuoriuscito che dall'Etruria si
era portato a Roma (CIL., XIII, 1668). Poiché Claudio, che era un etruscologo, si
riallacciava alla tradizione etrusca per la storia di Servio Tullio, e non
anche per quella di Tarquinio, Dominique Briquel deduce che gli Etruschi
originariamente non possedessero una autonoma tradizione sui Tarquini, e che
quella prodotta da Strabone fosse solo una tarda e campanilistica
rielaborazione tarquiniese di quella romana. Ma Briquel non tiene presente
che Claudio, nel caso specifico del discorso al Senato non è impegnato in
un trattato di storia etrusca, bensì in una tesi politica intesa a
giustificare la nomina di uno straniero a senatore di Roma. A tal fine, la
storia romana non poteva offrire a Claudio altro di meglio che la vicenda di
Tarquinio nella versione romana, e quella di Servio Tullio nella tradizione
etrusca. Tra la figura di Tarquinio figlio di un mercante greco esule a
Tarquinia, a sua volta emarginato in patria ed emigrato a Roma, dove diviene
re, e quella di Tarquinio, figlio del re di Tarquinia, che diviene re di
Roma, l'imperatore Claudio non poteva che scegliere la prima. Questo non vuol dire che la seconda fosse una tarda risposta dei
Tarquiniesi alla tradizione romana. Ma anche se lo fosse, questa
"risposta" dovette prodursi perché i Tarquiniesi serbavano
autonome tradizioni che ricordavano il loro antico controllo su Roma. In
sede storica, il valore probativo di questa "risposta" poggerebbe
su elementi antichi e così significativi da essere addirittura maggiore di
quello della versione romana.
[42]
Dionigi di Alicarnasso, op. cit.,
IV, 27.
[43]
M. Sordi, op. cit., pag. 161.
[44]
Cicerone, De Repubblica, II, 21:
<<ex serva tarquiniensi natu>>.
[45]
Tito Livio, Storia di Roma, I, 39;
Dionigi di Alicarnasso, Antichità
Romane, IV, 1; 2; 10.
[46]
A. Palmucci, Analisi della mitologia
propedeutica alla figura di Dardano e alla città di Corito-Tarquinia
nell’Eneide, <<Atti e Memorie dell’Accademia Nazionale
Virgiliana di Mantova>> (59), 1991, pag. 198.
[47]
Virgilio, Eneide, III, 94-96;
163-171;VII, 205-242.
[48]
Virgilio, op. cit. , VIII,
478-507,
[49]
Servio Danielino, All'Eneide,
VIII, 506.
[50]
Evandro, rimpiangendo la sua giovinezza, ricorda di aver vinto i Sabini a
Preneste, e di aver arso i loro scudi (Virgilio,
op. cit. , VIII, 560-562). In proposito, Servio rileva che Tito Livio (Storia di Roma, I, 37,3) raccontava che Tarquinio Prisco incendiò
su un rogo in onore di Vulcano gli scudi dei vinti Sabini (All'Eneide, VIII,562).
[51]
M.Cristofani, in Dizionario della
civiltà etrusca, Firenze, Giunti-Martello, 1985, s.v., Tarconte.
[52]
Virgilio, op. cit. , VIII,
520-535.
[53]
Virgilio, Eneide, VIII, 597:
<<Caeritis amnis>>. Il
poeta caratterizza il fiume come Caeritis
perché segnava in parte il confine fra Cere e Tarquinia, oppure perché
passava accanto alla cittadina di Caerium.
Per l’ubicazione di Caerium,
vedi A. Palmucci, Virgilio e
Cori(n)to-Tarquinia, la leggenda troiana in Etruria, Tarquinia, S.T.A.S.
1998, pagg. 265-268.
[54]
Servio Danielino, All’Eneide,
VIII, 604.
[55]
Servio, All'Eneide, VIII, 603: <<Intellegamus,
quod hodieque legimus et videmus, hanc collium fuisse naturam, ut planities
esset in summo, in qua inierat castra Tarchonis>>.
[56]
Servio, All'Eneide: <<AMNIS,
Minio dicit, ut "qui Caerete domo qui sunt Minionis in arvis (X,
83)">>(VIII, 597). Servio Danielino, All'Eneide: <<AMNIS
autem, aut taquit nomen, aut, ut quidam volunt, Minio dicitur(VIII,
597).
[57]
Servio Danielino, All'Eneide:
<<MINIONIS, fluvius est Minio
Tusciae ultra Centumcellas>> (X, 183).
[58]
Leandro Alberti, Descrittione di tutta
Italia, pag. 36: <<Esce de i vicini monti, e dirittamente
scendendo quivi mette capo alla marina; anche si nomina Cerito, per uscire
de i monti vicini ai Ceriti; di poi vedesi Città Vecchia>>. Vedi A.
Palmucci, Corito-Tarquinia e il porto
dei "Ceretani", <<Atti e Memorie della Accademia
Nazionale Virgiliana di
Mantova>>, LXI, 1993,pagg. 27-28.
[59]
Servio Danielino, All'Eneide: <<ATQUE
EA DIVERSA PENITUS DUM PARTE GERUNTUR...DIVERSA PENITUS, valde diversa, id
est longius remota, vel apud Pallanteum vel in Etruria, unde paulo post
dicit: nec satis, extremas Corythi penetravit ad urbes...(IX, 1). CORYTHI
PENETRAVIT, ut totam Etruriam peregrasse videatur; CORYTHI, autem, montis
Tusciae, qui, ut diximus, nomen accepit a Corytho rege cum cuius uxore
concubit Iuppiter unde natus est Dardanus; PENETRAVIT, autem, bene dicit
quia supra dixerat "penitus" (IX, 10). Bene
dicit penetravitquia supra dixerat "penitus diversa parte"(IX,
10, cod. F)>>.
[60]
Per l'identificazione della città di Corneto, o comunque di Tarquinii,
con la virgiliana città di Corythus
o Corinthus, vedi Alberto
Palmucci, Tarquinia e la virgiliana
città di Corito, Silver Press, Genova, 1987; La
virgiliana città di Corito, <<Atti e Memorie della Accademia
Nazionale Virgiliana di Mantova>>, LVI, 1988; Il ruolo della città di Corito-Tarquinia nell'Eneide, <<Atti
e Memorie ...>>, LVIII, 1990; Analisi
della mitologia propedeutica alla figura di Dardano e alla città di
Corito-Tarquinia nell'Eneide, <<Atti e Memorie ...>>, LIX,
1991; Ancora sugli antecedenti
mitologici della figura di Dardano e della città. di Corito-Tarquinia
nell'Eneide, <<Atti e Memorie...>>, LX, 1992; La figura di Dardano e la città. di Corito-Tarquinia nell'Eneide,
in Latina Didaxis, atti del congresso,
Bogliasco 28-29 Marzo 1992, Università degli Studi di Genova (Compagnia dei
librai), Genova, 1992; Corito-Tarquinia
e il porto dei "Ceretani", <<Atti e Memorie ...>>,
LXI, 1993; Gli Etruschi e
Corito-Tarquinia nell'Eneide (Risvolti scolastici), <<Bollettino
Informazioni>>, I.R.R.S.A.E. Liguria, n.26 (Maggio- Agosto), 1994; Virgilio e gli Etruschi, << Aufidus>>, n.24, 1994; Tarconte
e Mantova, Virgilio e Corito-Tarquinia, <<Atti e
Memorie...>>, LXII, 1994; Mantova,
Corito-Tarquinia e Roma (Mantua, Corito-Tarquinia and Rome), in Il
Messaggero Italiano, IV, 25, Manchester, Genn. 1997; Corito-Tarquinia, <<Archeologia>>, V, 25, G.A.d'Italia,
Roma, 1997; I Troiani a
Corito-Tarquinia (13 Agosto), <<Bollettino della Società
Tarquiniense di Arte e Storia>>, (25), 1996; Cori(n)to-Tarquinia
e la leggenda di Dardano, <<Aufidus>>, 31, 1997; Virgilio
e Cori(n)to-Tarquinia. La leggenda troiana in Etruria, Tarquinia,
S.T.A.S, 1988; Enea, Tarquinia e Roma, <<Archeologia>>, VI, 7/8/9,
1998.
[61]
Virgilio, Eneide, X, 148-156.
[62] Virgilio, op. cit., X, 180-184:
<<Sequitur pulcherrimus Astur,/
Astur equo fidens et versicoloribus
armis./ Tercent(um) adiciunt, mens omnibus una sequendi,/ qui
Caerete domo qui sunti Minionis in arvis/ et Pyrgi veteres intempestaquae
Graviscae>>.
[63] Per la possibile equivalenza del nome di Astur con quello di Corito vedi A. Palmucci, Virgilio e Cori(n)to-Tarquini.Lla leggenda troiana in Etruria, Tarquinia, STAS, 1998, pag. 69.
[64]Virgilio,
Eneide, X, 148-156.
[65]
Dionigi di Alicarnasso, Antichità
romane, III, 51-58.
[66] N. Horsfall, Corythus: the return
of Aeneas in Vergil and his sources,<<J.R:S:>> (63), 1973,
pag. 68.
[67]
Catone in Servio Danielino, All'Eneide.,
X, 179.
[68] A. Palmucci, Virgilio e Corinto-Tarquinia, la leggenda troiana in Etruria, Tarquinia, STAS, 1998, pagg. 275-281.
[69]
Stefano Bizantino, De urbibus,
s.v. Tarchonion e Tarkynia;
Tzetze, Alla Alessandra di Licofrone,
1242.
[70]
Dionisio Periegete, GGM, II, pag.
124; Prisciano, v. 344-6: <<Tyrrheni
primum fortes, juxtaque Pelasgi / Cyllens quondam propria qui sede relicta /
Tyrrhenis socios petierunt navibus arces>>; Rufo Festo Avieno, Or. mar., in GGM, II, pag.
181: <<prima vetustorum veniens
est ibi Tyrrhenorum; / inde
Pelasga manus, Cyllenae finibus olim / quae
petit Hesperii freta gurgitis, arva retenta / Itala>>; Niceforo, ad
D.P., in GGM, II, pag. 460;
Eustazio, ad D.P., in GGM,
II, pag. 277.
[71]
Probo, Alle Georgiche, I,16: <<Tegea
eiusdem nomine oppidum, cuis nomine est in Tuscia ab exulibus Arcadiae urbs
condita>>.
[72]
Emilio Peruzzi, Mycenaeans in early
Latium, Roma, Ed. dell’Ateneo, 1980, pagg. 137-149.
[73]
Pausania, La Grecia, IV, 34, 7.
[74] Pierre Chantraine, Dict. Etym. de la
Langue Greque, II, Parigi, klinckneich, 1979, pag. 575.
[75]
J, Chadwich, Lineare B, Torino,
Einaudi, 1959, pag. 147 e 208; A. Morpurgo, Mycenaeae
Graecitatis Lexicon, Roma, Ed. Dell'Ateneo, 1963, pag. 138; El. Bennet Jr. EJ. P. Olivier, The
Pylos Tablettes Transcribed, Roma, Ateneo, 1976, II, pag. 97.
[76] Vedi G. Radke, in Real-Emcyclopadie
der Classischen Altertumswisseuschaft, Stuttgart, T.B. Metzlersche Verlagsbuchhandlung, 1939, s.v. Trikory(n)thos.
[77]
Stefano di Bisanzio, op. cit.,
s.v. Tricorynthon.
[78] Vedi G. Radke, loc. cit.; K.
Preisendanz, in Lexicon Griechischen
Romischen Mythologie, Leipzig, Teubner, 1916-1924, s.v. Trykorythos.
[79]
Eustazio, Ad Omero, pag. 1479;
Tzetze, All'Alessandra, v. 851.
[80]
Servio Danielino, op. cit., III,
170; Tzetze, op. cit., v.61.
[81]
Apollodoro, Biblioteca, III, 9, 1;
Diodoro Siculo, Storia Universale,
IV, 33, 11.
[82]
Virgilio, Eneide, III, 170; VII,
209; IX, 10; X, 719; IX, 10: <<Extremas
Corinthi penetravit ad Urbes>>.
[83]
Servio Danielino, op. cit., III,
207; 209; Lattanzio, Divine
istituzioni, I, 23.
[84]
Servio, All'Eneide, VI, 603.
[85]
Si riteneva che Tantalo avesse governato anche su Troia. I suoi sudditi Corithii o Corinthii
potrebbero essere in relazione con la migrazione di Dardano da Corito nella
Troade. Il Boccaccio conosceva una tradizione secondo la quale quando
Dardano, proveniente dalla etrusca città di Corito, approdò nella Frigia,
fu accolto da Tantalo dal quale ricevette una parte del regno.
[86]
Anonimo Ravennate, Itinerari, IV,
22, pag. 223.
[87]
Ditti Cretese, Dictyis Cretensis
Ephemeridos belli Troiani, IV,7; Apollodoro,
Biblioteca, III, 12,5.
[88]
C.I.L., VI, 10013.
[89]
Isidoro di Siviglia, Etimologie,
IX, 2,7; XIV, 3,41.
[90]
*Arnath si ricava da una
iscrizione di Chiusi (C.I.E.,
1219: Vel Velus Arnath-alisa = Vel
figlio di Velus, figlio di *Arnath).
Si tratta della metatesi di Aranth.
Il caso, nel lessico etrusco, è presente una sola volta.
[91]
Valerio Massimo, Epitome, III,
4,2.
[92]
Vedi A. Palmucci, Virgilio e Cori(n)to
–Tarquinia, la leggenda troiana in Etruria, cit. pag. 26.
[93]
Il cognome latino Coritinesanus di
Lar Herminius è di origine etrusca. Lare Erminio fu console a Roma
nel 448 a.C., e forse discendeva da quel T. Erminio, console nel 506 a.C..
la cui famiglia era emigrata a
Roma dall'Etruria evidentemente al tempo della monarchia etrusca. Le forme
etrusche Hermenas, Hermanas, Hermnei, Herme
sono attestate un po' ovunque in Etruria. Come nomi di luogo e di divinità,
Hermu ed Hermeri
sono presenti più volte nella iscrizione dei Pulena a Tarquinia (G. Devoto,
Studi minori, pagg. 193-199). In lingua latina le forme Herminia
o Hermunia sono attestate a Cere (C.I.L.,
XI,3699) ; la forma Hermius è
attestata a Tarquinia (C.I.L., XI, 3433).
[94]La
correlazione etimologica, come prospettata dal Boccaccio (dovuta all'infisso
di una "n" nel nome di Corythus),
non sembra suffragabile. Si dice che il nome di Corneto significhi “bosco
di cornioli” (lat. Cornetum),
come si dovrebbe evincere dall’albero di corniolo che appare nello stemma
della città.
A. J.
Pfiffig (Die Etruskische Sprache,
1969, pagg. 51; 79; 173) ha notato che, in lingua etrusca, la "n"
cade dopo la "r", come
nel caso di Velthur > *Velthurni > Velthuri
(vedi Velthur(n)i-thura), sicché
si potrebbe supporre che *Curnitu
e *Curitu fossero state due forme
equivalenti di una stesso nome di città.
Ma restiamo cauti perché non abbiamo esempi di analoga caduta della
“r” nel corpo della parola.
Si
potrebbe anche cautamente supporre che Corythus,
Corinthus e Cornithus siano tre forme equivalenti, come nel caso del
prenome etrusco Arath, Aranth ed Arnath
(vedi nota n. 90). L’esistenza
di tre forme medioevali del nome della città <<Cornetus/Cornitus/Corgnetus/Corignitus
(= Corneto), Corgitus (= Corito?)
e *Crugentu s(= Corinto?)>>
dovrebbe suffragare quest’ultima ipotesi. Per la presenza delle tre forme
nelle scritture medioevali, vedi A. Palmucci, Virgilio
e Cori(n)to Tarquinia. La leggenda troiana in Etruria, Tarquinia, STAS,
1998, pag. 26.
Espressioni
medioevali giuridiche, infine, come <<in
castellu turre de Corgnitus qui Civita vocatur>> frequente nei Documenti
Amiatini , oppure <<in
castello et civitate Corgnito>> dei Documenti Farfensi, dovrebbero suffragrare la possibile esistenza di
una precedente Civitas
etrusco-romana accanto al luogo della Torre
e del Castello medioevali.
[95]
ThLE, pag. 155. Per la relativa problematica si rimanda alla
bibliografia contenuta in M. Pallottino, Origini
e Storia Primitiva di Roma, Milano, Rusconi, 1984, pag. 187; 374-375.
[96] M. Guarducci, Un’epigrafe greca arcaica a Roma, in Rendiconti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia, 49, 1976-77 (1978), pag. 92, n.21.
[97]
L’iscrizione corinzia è stata pubblicata da M. Guarducci, Un’epigrafe
greca arcaica a Roma, in Rendiconti
della Pontificia Accademia Romana di Archeologia, 49, 1976-77 (1978),
pp. 85-92.
[98]
G. Colonna, Etruria e Lazio nell’età
dei Tarquini, in M. Cristofani, Etruria
e Lazio arcaico, a cura di, Roma, C.N.R., 1987, pagg. 57-58; M.
Pallottino, Origini e storia primitiva di Roma, cit., pag. 193; 198.
[99]
M. Cristofani, La grande Roma dei
Tarquini, a cura di , Roma, <<L’Erma>> di Bretschneider,
1990, pag. 21.
[100]
M. Albertoni, Frammento iscritto del
Campidoglio, in La grande Roma dei
Tarquini, a cura di M. Cristofani, Roma, <<L’Erma>> di
Bretschneider, 1990, pag. 22.
[101]
M. Cristofani, Frammento iscritto del
Campidoglio, in La grande Roma dei
Tarquini, cit. , pag. 22.
[102]
TLE, 24; ThLE,
pag. 66.
[103]
M. Cristofani, Coppa iscritta dalle
pendici del Campidoglio, in La
grande Roma dei Tarquini, cit.,
pagg. 23-24.
[104]
Dionigi di Alicarnasso, Antichità
romane, III, 46,5; 50,3; 65,4.
[105]
Dionigi di Alicarnasso, op. cit. ,
III, 50,3; IV, 64,3.
[106]
Dionigi di Alicarnasso, op. cit. ,
IV, 30,2; 30,3; 79,1.
[107]
Dionigi di Alicarnasso, op. cit. ,
IV, 63,1; 69,2; V, 15,1.
[108]
Dionigi di Alicarnasso, op. cit. ,
V, 30,1; 36,1; VII, 5,1.
[109]
M. Pallottino, op. cit. , pag.
208.
[110]
Da M. Torelli, Elogia Tarquiniensia,
Firenze, Sansoni, 1975 pagg. 43-44 e tav. IV.
[111]
Per la fine della terza riga, il testo di M. Torelli propone Al[terum];
noi lo abbiamo sostituito con Al[eriae]
perché abbiamo accettato in questo caso la proposta fatta da E. Gabba (E.
Gabba, Proposta per l’elogio
tarquiniese di Velthur Spurinna, <<Numismatica e antichità
classiche>>, VIII, 1979. Pagg.143-147).
[112] Secondo M. Torelli (op. cit.), l’elogio, dopo <<traiecit>> della quarta riga, dovrebbe esser integrato così: <<a qu[a clupeo et corona] / aurea ob vi[rtutem donatus est]>>. Secondo G. Colonna, andrebbe invece, integrato così: <<a qu[o Apollo cortina] / aurea ob vi[ctoriam donatus est]>> (G. Colonna, Apollon, Les Etrusques et Lipara, <<MEFRA>>, 96, 1984 – 2, pagg. 557-578).
[113]
E. Gabba, op. cit. ; G. Colonna, op.
cit.; M. Cristofani, Saggi di
storia etrusca arcaica, 1987, G. Bretschneider, pagg. 51-76.
[114]
M. Torelli, op. cit.
[115]
G. Colonna, op. cit. ; M.
Cristofani, op. cit
[116]E.
Gabba, op. cit. , pag. 146-147.
Erroneamente, Elena Massi ritiene che il Gabba intenda che Velthur Spurinna <<comandò un esercito in Corsica durante la
guerra del Mare Sardo (540 a.C.)>> (E. Massi, Gli “Elogia degli Spurinna”, <<Bollettino della Società
Tarquiniese di Arte e Storia>>, 21, 1992. Pagg. 61-67).
[117]
M. Cristofani, op. cit. , pag. 75.
La flotta etrusca comandata da Velthur
potrebbe esser stata, allora, la stessa che nel 540 a.C. sconfisse ad Aleria
i Greci di Focea.
[118]
Tarquinio il Superbo fu detronizzato a Roma
dai membri repubblicani della sua stessa famiglia: Tarquinio
Collatino e Bruto figlio di Tarquinia. Conseguentemente, si recò a Tarquinia per
chiedere che la città intervenisse presso i Romani
per restituirgli almeno i beni personali. In quello occasione, egli
si presentò ai magistrati (non al re)
della città; e costoro lo condussero dinanzi alla assemblea del popolo
(Dionigi di Alicarnasso, Antichità
romane, V, 2;3). Evidentemente, Tarquinia era repubblica già nel 509
a.C.. Forse la monarchia romana cadde quando i repubblicani di Tarquinia non
la sostennero più.
[119]
M. Cristofani, op. cit., pagg. 66-67.
[120]
Adriano Maggiani, Appunti sulle
magistrature etrusche, <<Studi etruschi>>, LXII, 1996
(1998), pagg. 102-4).
[121]
A Roma saranno fra le famiglie eminenti. Un Vestricium
Spurinna è menzionato da Tacito (2, Hist. 11) e da Plinio il Giovane
(2, 7 e 3 Epistola1). Un altro da
Valerio Massimo in Fatti e detti
memorabili, IV, 5, e da Ambrosio in De
virginitate, 3.. Fu uno Spurinna
l’aruspice che avvisò invano Cesare di guardarsi dalle Idi di Marzo (
Cicerone, Della divinazione, I,
119; Fam. 9; 52; Svetonio, Cesare,
81).
[122]
Ringrazio la signora Piera Ceccarini dell’ASCT, e l’amico Maurizio
Albertini della STAS per la fattiva opera di consulenza fornitami nella
ricerca in loco delle vecchie
strade tarquiniesi.
[123]
Festo, op. cit. , s.v. Ianiculum.
[124]
Dionigi di Alicarnasso, op. cit. ,
I, 72.
[125]
Stefano di Bisanzio, De urbibus,
s.v. Aineia.
[126]
Ellanico di Lesbo in Dionigi di Alicarnasso, op.
cit., I, 59; Virgilio, Eneide,
III, 15-16; Stefano di Bisanzio, loc.
cit.
[127]
A. Solari, Topografia storica
dell'Etruria, I, Pisa, Spoerri, 1918, pagg. 101-106; A. Zifferero, Città e campagna in Etruria meridionale: indagine nell'entroterra di
Cere, in Cere e il suo territorio,
a cura di A. Maffei e F. Nastasi, Roma, Libreria dello Stato, 1990, pag. 65.
[128]
A. Palmucci, Virgilio e
Cori(n)to-Tarquinia (La leggenda Troiana in Etruria) , Tarquinia, STAS
(Regione Lazio), 1998, pag. 38,
fig. 4; pag. 44, par. 5; pag. 46, fig. 6.
[129]
A. Solari, loc. cit. ; A.
Zifferero, loc. cit. ; E. A.
Stanco, Ricerche sulla topografia
dell'Etruria, <<Mélanges de l'Ecole Française de Rome>>,
CVIII, 1996, 1, pagg. 83-98.
[130]
L’inglese George Dennis, in una mappa del 1848, per primo ne riconobbe il
carattere antico, ma la fece erroneamente partire da Porta Tarquinia. Egli
non considerò che il tratto di strada
che dalle mura di Corneto andava ai Primi Archi
era stato ricostruito nel 1816 con un percorso
era un po’ diverso. Il vecchio tracciato è documentato in una
mappa del 1816 (vedi fig. 2), in una del 1824, in un’altra del 1830 circa, nella stessa carta del Dennis, e nelle tavolette dell’IGM
fin quasi ai nostri giorni. Oggi, la vecchia strada è riportata ancora
nelle carte dell’IGM limitatamente al tratto che va dai Primi Archi fino a
un punto intermedio fra la Tomba dei demoni Azzurri e la necropoli
Scataglini. Quanto a Porta Tarquinia, da dove la strada sarebbe partita,
c’è poi da tener presente che essa non è antica, ma fu
aperta dai Cornetani nelle mura della città poco dopo il 1714. Il Pasqui e il Cozza, che nel 1885 per primi descrissero la
strada, ripeterono l’errore del Dennis. Costoro scrissero: <<Muove
da porta Tarquinia, e traversa in tutta la sua lunghezza la necropoli dei
Monterozzi>>. Che questo tratto della strada non sia etrusco lo
dimostra il fatto che, alcuni anni or sono, sotto il suo piano è stata
trovata la famosa Tomba dei Demoni Azzurri. L’errore perdura in parte a
tutt’oggi nell’interpretazione data da Harari ad alcune foto aeree (M.
Harari, Tarquinia e il territorio
suburbano nel rilevamento da alta quota: una lettura topografica, in Tarquinia,
a cura di M. Bonghi Jovino, L’Erma
di Bretschneider, Roma, 1997, tavv.
3 e 7).
[131]
Il nome viene da Antonio Bernascon, capomastro muratore, che nel 1672, per
incarico dalla Camera Apostolica, costruì un nuovo ponte sul Mignone (S.
Fontana, La viabilità di epoca romana
in territorio tolfetano, in A. Maffei e F. Nastasi, Cere
e il suo territorio, a cura di, Roma, 1990, pagg. 119-121).
[132]
Nel 1885, il Pasqui e il Cozza così lo descrissero: <<Del ponte
sussistono la pila destra e le fondazioni di quella mediana; l’altra
vedesi alquanto rimossa, e pendente verso il letto del fiume. Le pile sono
costruite con grandi parallelepipedi di travertino;
hanno pianta romboidale, e presso l’impostare dei due fornici si
rastremano, e si convertono in una cortina a laterizi, che rivelano quella
costruzione per un’opera dei tempi traianei>> (L. Pasqui
e A. Cozza, Sopra
l’ubicazione della antica Tarquinia, NS, 1885, pag. 517).
Da ragazzo io stesso ho visto questi avanzi. Attualmente, essi non
sono più visibili perché distrutti o inglobati nei lavori di deviazione
del corso del fiume.
[133]
S. Fontana, La viabilità di epoca
romana nel territorio tolfetano, in Cere
e il suo territorio, cit.
pagg. 119-121.
[134]
G. Cola, I Monti di Tolfa nella storia,
Tolfa, Pro loco, 1985, pag. 22, n. 16.
[135]
S. Fontana, loc. cit.
[136]
Archivio di S. Maria in Trastevere, Cod. Vat. Lat. 8051, I, 49 DC; G.
Tomassetti, La campagna romana antica, medioevale e moderna, II (Via Appia,
Ardeatina ed Aurelia), Firenze, Olschki, 1979, pag. 568.
[137]Riportiamo
alcuni casi. Si ha menzione di una cella di S.
Columbani, sul fiume Fiora, in terra
pusecta in Terquini (= in Tarquinia) in un documento dell'809
(Schneider, Die Reichsverwaltung in
Toscana, 1914, pag. 134); nella Bolla inviata, nell'852, dal papa Leone
IV al vescovo di Tuscania, è menzionata la Plebem
Sanctae Mariae quae posita est in Terquinio (= in Tarquinia) (Migne, Innocentii
III PP. Regestorum lib. X, pag. 1236); Eduard Winkelmann, Acta
Imperii inedita seculi XIII et XIV, I, 1964, doc. 61 (16/8/1210), pag.
57: <<Cellam sancti Savini in
districtu castri Terquinii, ecclesiam sancti Stephani positam in Terquinii>>;
Margarita Cornetana, c. 108, anno
1303: <<Castra Terqueni>>;
Registrum Cleri Cornetani, doc.
n.15, c. 158, 27-4-1348:
<<Panellus quondam Oddonis de
dominis de Terquinio>>; doc. XXVI, c. 9, 22-6-1348: <<Checconus
quondam Putii de Terquinio>>; doc. LVII, c. 90, 10-8-1374:
<<Nobilis vir Geptius quondam
Putii de dominis de Terquinio>>; doc n. LXIV, c.48, 19-3-1377,
doc.LXXXVI, c.79, 30-5-1385: <<Terquinio>>; doc.LXXVII, c. 70, 3-3-1382: <<Geptio
Teuli de Terquinio>>.
[138]
P. A. Gianfrotta, Castrum Novum, Roma, De LucA, 1972, pag. 37; F. Nastasi, in A. Maffei e
F.Nastasi, Cere e il suo territorio,
a cura di, Roma, 1990, pag. 184 (fig. 187); 207.
[139]
Per i confini fra Tarquinia e Cere vedi R. Namaziano, De
reditu suo, vv. 223-225; A. Palmucci, Corito-Tarquinia
e il Porto dei “Ceretani”, <<Atti e Memorie della Accademia
Nazionale Virgiliana di Mantova>> (61), 1993, pagg. 33-35; I Troiani a Corito-Tarquinia, <<Bollettino STAS>> (25),
1996, pagg. 78-82; Virgilio e
Cori(n)to-Tarquinia, la leggenda troiana in Etruria, STAS, Tarquinia,
1998, pagg. 309-323.
[140] L. Pasqui e A. Cozza, op. cit., pag. 517; vedi pure L. Pasqui, Carta Archeologica d’Italia, <<Forma Italiane>>, 1972, pag. 114.
[141]
L. Pasqui, op. u. cit., pag. 101
(39-40); 114; tav. III (39-40).
[142]
S. Bastianelli, Appunti di campagna,
Roma, 1988, pag. 107.
[143]
La Tabula Peutingeriana, così come ora si presenta dopo le numerose
riedizioni medioevali, non riproduce la linea stradale del tratto da Aquae
Tauri a Castrum Novum, ma si tratta di una negligenza del copista
medieovale, come bene arguì il Miller, perché fra le due località è
ancora leggibile la cifra della distanza stradale: VII miglia.
[144] L. Quilici, Le antiche
vie dell’Etruria, in Atti
Secondo Congr. Int. Etr. , I, pag. 461.
[145]
Tra i secoli XV e XVI, la vecchia cittadina di
Cencelle (Leopoli) fu abbandonata. Ma nei tempi più antichi, la
strada di cui parliamo dovette naturalmente avere un percorso più prossimo
alla sua collina. Abbiamo, infatti, già ricordato che il
Pasqui riferì di aver visto le selci di una antica strada romana
inseriti nel castello e nel casale di Cencelle. (vedi n.136).
[146]
E’ stata pubblicata in M. Polidori, Croniche
di Corneto, Tarquinia, STAS, 1977, tav. XXII.
[147] <<Civitavecchia. Mappa del territorio comunale nel 1727. Trascrizione in scala della carta di Girolamo Salimbeni, “Territorio di Civitavecchia o Centocelle, 1727 (A. S. R. , Disegni e mappe, cart. 20, f. 330), a cura di Francesco Correnti>>, in Civitavecchia del Settecento, a cura di F. Correnti e G. Insolera, Civitavecchia, C. D. U., 1990, tav. 2, pag. 6.
[148]Per il percorso attuale fra Aquae Tauri e la Castellina del Marangone, vedi S. Bastianelli, Centumcellae - Castrum Novum, Roma, Ist. St. Rom. , 1954, pag. 57; F. Nastasi, loc. cit.; A. Maffei, loc. cit..
[149]
Vedi la Carta topografica dei siti del
periodo romano, in Leopoli-Cencelle,
II, Roma, palombi, 1996, pag. 27. Per Castrum
Ferrariae vedi G. Cola, I Monti
della Tolfa nella storia, Tolfa, 1984, pagg. 22-23; E. Brunori, Ritrovato
l'antico “Castrum Ferrariae", <<Notiziario della Ass. Arch.
Klitsche de la Grange>>, Allumiere, 1984, pagg. 13-42; Castrum
Ferrariae e la sua Chiesa, <<Bollettino della S.T.A.S.>>,
Tarquinia, 1992, pagg. 109-119.
[150]
A. Palmucci, Il trattato di Pace fra i
Cornetani e i Genovesi, <<Bollettino STAS>>, (23), 1994,
pagg. 58-60; I rapporti
di Genova e della Liguria con Corneto e l’odierno alto Lazio nei notai
liguri dal 1186 al 1284,
<<Bollettino STAS>> (24), 1995, pag. 22; Anno
1385: il papa cede Corneto in pegno ai Genovesi, <<Bollettino
STAS>> (25), 1996, pag. 15; I
rapporti fra Corneto e Genova nei secc. XII e XIII, in I Pellegrini nella Tuscia medioevale. Atti del Convegno 1997,
STAS, Tarquinia, 1999.
[151]
Per la pertinenza dei Monti di Tolfa a Tarquinia, vedi M. Pallottino, Tarquinia,
<<Accademia Nazionale dei Lincei>>, Milano, 1937, col. 573. Da
ultimo, A. Palmucci, Corito-Tarquinia
e il porto dei Ceretani, <<Atti e Memorie della Accademia
Nazionale Virgiliana di Mantova>>, LXI, 1993, pagg. 33-34 (estratto
pagg. 19-20); I Troiani a Corito-Tarquinia, <<Bollettino della
S.T.A.S.>>, Tarquinia, 1996, pagg. 78-82; Virgilio e Cori(n)to-Tarquinia, la leggenda troiana in Etruria,
Tarquinia, S.T.A.S, 1998, pagg. 314-318.
[152] Il Registro di Farfa di Gregorio di Catino,
a cura di I. Giorgi e U. Balzani, Roma, 1879-1892 , III, pag. 54 s. , n.
352. Stefano Del Lungo sostiene, infatti,
che <<La via publica,
diretta al guado di Ripa Alba, è individuabile in un percorso campestre,
erede della vecchia strada per Tolfa, che, divise le località Tenutella e
Sterpeto, supera il fosso Ranchese passando sul Ponte delle Tavole e,
attraversata la piccola sella tra la Pietrara e Poggio Cardinale [ … ],
giunge alla strada conducente al Ponte di Bernascone e al Mignone. Il guado
doveva trovarsi da qualche parte lungo il corso del fiume a SE del Casale
Rina>>(S. Del Lungo, Santa Maria del Mignone, <<ASRSP>>, (117), 1994, pagg.
40-41).
[153]
Per la pertinenza a Tarquinia di questo territorio, vedi M. Pallottino, Tarquinia,
<<Accademia Nazionale dei Lincei>>, Milano, 1937, col. 573. Da
ultimo, A. Palmucci, Corito-Tarquinia
e il porto dei Ceretani, <<Atti e Memorie della Accademia
Nazionale Virgiliana di Mantova>>, LXI, 1993, pagg. 33-34 (estratto
pagg. 19-20); I Troiani a Corito-Tarquinia, <<Bollettino della
S.T.A.S.>>, Tarquinia, 1996, pagg. 78-82; Virgilio e Cori(n)to-Tarquinia, la leggenda troiana in Etruria,
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[154]
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[155] H. Hencken, Tarquinia,
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[156]
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[157]
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[158] A. M. Mietti Sestieri, The Metal Industry of
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[159] R. Peroni, Presenze micenee e forme socioeconomiche nell’Italia protostorica, in Magna Grecia e mondo miceneo (Atti del XXII convegno di studi sulla Magna Grecia), Taranto 1982, Napoli 1983, pagg. 212 segg.
[160]
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