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Università degli Studi di Genova

Facoltà di Medicina e Chirurgia


Corso di Laurea in

Tecnico della Riabilitazione Psichiatrica

A.A. 2002-2003



Tesi di Laurea

Il problema della Doppia Diagnosi:

riabilitazione nei Disturbi da Uso di Sostanze




Candidata: Laura Mensi

Relatore: Prof.ssa Anna Lunetta



Indice

1 Disturbi correlati all’Uso di Sostanze 4

1.1 Introduzione. 4

1.1.1 Epidemiologia dell’abuso di sostanze. 4

1.1.2 Definizione di tossicodipendenza. 7

1.1.3 Eziopatogenesi e fattori di rischio della tossicodipendenza. 9

1.2 Nosografia dei Disturbi correlati all’Uso di Sostanze. 12

1.3 La relazione nell’abuso di sostanze. 13

1.4 Le sostanze. 19

1.4.1 Oppiacei. 19

1.4.2 Cocaina. 25

1.4.3 Cannabinoidi. 28

1.4.4 Allucinogeni. 30

1.4.5 Amfetamino(simili) e nuove droghe. 34

1.4.6 Inalanti. 36

1.4.7 Sedativi, ansiolitici o ipnotici. 39

1.4.8 Alcool. 41

1.5 Trattamento dell’abuso di sostanze. 44

2 La Doppia Diagnosi 55

2.1 Introduzione. 55

2.2 Studi. 56

2.3 Inquadramento nosografico. 58

2.4 Quadri subsindromici. 62

2.5 Oltre la doppia diagnosi formale. 63

2.6 Il problema della gerarchia diagnostica (il rapporto di causalità). 64

2.7 Disturbi di Personalità. 67

2.8 L’ipotesi dell’automedicazione. 68

2.9 L’approccio dimensionale alla doppia diagnosi. 70

2.10 Patofisiologia e psicopatologia. 72

3 Un’esperienza pratica:
riabilitazione nella Doppia Diagnosi 74

3.1 Introduzione. 74

3.2 La Comunità Terapeutica. 74

3.3 La presa in carico. 75

3.4 Organizzazione del lavoro. 76

3.5 Il “Progetto Uomo”. 77

3.6 Il percorso riabilitativo. 78

3.7 Attività terapeutico-riabilitative. 79

3.8 Reinserimento sociale. 81

3.9 Due diverse esperienze dalla Comunità Doppia Diagnosi: Francesca e Gianluca. 82

4 Conclusioni 85














Copyright © 2004 Laura Mensi.

E' consentita la riproduzione totale o parziale del contenuto di questa tesi a condizione che la copia rimanga inalterata, non abbia scopo di lucro e inoltre venga sempre citata l'autrice originale.


1 Disturbi correlati all’Uso di Sostanze


1.1 Introduzione.


La tossicodipendenza, soprattutto da oppiacei e cocaina, da fenomeno isolato e condiviso da una minoranza di contestatori nell’America degli anni ’60, nel tempo è dilagato in ogni paese e classe sociale sfatando il mito che lo voleva appannaggio delle zone di emarginazione endemica. Inoltre, per gli enormi vantaggi che derivano alla malavita dalla produzione e smercio delle sostanze stupefacenti, la tossicodipendenza è sicuramente un problema politico e sociale.

La terapia della tossicodipendenza è di tipo multidisciplinare; infatti oltre alla specifica patologia “tossicodipendenza” il paziente è portatore di tutte le patologie che si accompagnano a questo comportamento: epatiti, vasculotromboflebiti, affezioni polmonari, carenze nutrizionali, patologia gastrointestinale, disturbi di tipo sessuale, odontopatie, frequenti alterazioni del quadro immunitario. Il tossicodipendente, quindi, deve essere fatto oggetto di un intervento sanitario specifico per la tossicodipendenza e di tanti altri interventi, sempre di carattere medico, quanti ne richiedono le sue malattie concomitanti.


1.1.1 Epidemiologia dell’abuso di sostanze.

Il fenomeno dell’abuso di sostanze è ubiquitario, quindi la sua reale quantificazione nella popolazione generale rappresenta un problema di crescente difficoltà per la ricerca epidemiologica. Inoltre la presenza di soggetti che attuano un uso controllato della sostanza e presentano un funzionamento sociolavorativo adeguato e di altri sottogruppi che non rientrano nelle categorie un tempo considerate più a rischio di tossicodipendenza ha ulteriormente complicato l’identificazione della popolazione tossicomane. Le ricerche epidemiologiche hanno, tuttavia, consentito di delineare con discreta attendibilità i tassi di prevalenza (rapporto tra numero totale di casi per un dato periodo e popolazione a rischio) e di incidenza (rapporto tra numero di nuovi casi per un dato periodo e popolazione a rischio) dell’uso di sostanze, la sua distribuzione nella popolazione, la composizione dei gruppi di abusatori in termini di età, sesso, razza ed etnia, le tendenze dell’uso attraverso gli anni.

L’inizio dell’uso di sostanze avviene preferenzialmente in età adolescenziale e nella prima età adulta. In concomitanza con una fase critica per lo sviluppo psicofisico, gli adolescenti si trovano nella necessità di imporre la propria individualità e di conformarsi alle norme dei coetanei. La separazione dal nucleo familiare, l’appartenenza ad un gruppo di coetanei e l’accettazione di eventuali comportamenti devianti richiedono agli adolescenti la capacità di armonizzare la propria individualità e il proprio senso di appartenenza.

Queste esigenze, tra loro in conflitto, rendono la popolazione adolescente particolarmente a rischio di una pratica tossicomanica, in media prima dei 23 anni. L’uso di sostanze legali precede spesso quello di sostanza illecite (ad es. sigarette ed alcool precedono l’uso di cannabis). Vari elementi socioculturali influenzano marcatamente l’inizio di una pratica tossicomanica. La presenza di modelli di comportamento consolidati nella popolazione giovanile che prevedano l’uso di sostanze rappresenta un importante fattore predittivo di abuso negli adolescenti, che vengono comunemente iniziati all’uso di droghe da coetanei. L’uso di sostanze da parte dei genitori si correla con un elevato rischio tossicomanico nei figli. Alcuni studi hanno evidenziato più elevati tassi di abuso in adolescenti cresciuti in ambienti dove questo risultava intenso, ma anche in ambienti ove era praticata una rigida e totale astensione. La disarmonia delle interazioni familiari può condizionare l’esordio di una patologia d’abuso in età adolescenziale, in relazione ad una insufficienza del ruolo, ad una mancanza di intimità, di interesse, di protezione e di contenimento delle angosce da parte dei genitori, che gli adolescenti possono tentare di colmare attraverso l’abuso di sostanze. I fratelli possono agire sia come modelli negativi sia, più attivamente, come fornitori di sostanze, soprattutto se maggiori di età e di sesso maschile.

Anche elementi di ordine psicopatologico sembrano fortemente correlati con un precoce inizio dell’uso di sostanze: in generale si può affermare, come risulta da vari studi su pazienti abusatori o dipendenti da sostanze, che più della metà di essi manifesta una comorbilità psichiatrica, che condiziona una peggiore adesione e risposta al trattamento. La depressione, ad esempio, è l’aspetto psicopatologico più rappresentato nel tossicodipendente da eroina.

Un aumento delle situazioni stressanti, la povertà, la disoccupazione e la mancanza di istruzione sembrano spingere gli adolescenti verso la tossicomania per migliorare il proprio adattamento. L’uso di sostanze si associa sovente a conflittualità familiare, comportamenti a rischio, svogliatezza, scarso rendimento scolastico e sul lavoro, promiscuità sessuale e criminalità, determinando situazioni disadattive, sia sul piano lavorativo che su quello relazionale. L’ideazione autolesiva ed i tentativi di suicidio si correlano più frequentemente con l’uso di molte sostanze. L’uso cronico di sostanze determina un maggior rischio di suicidio con due differenti meccanismi:

1. disinibizione e aumento dell’impulsività;

2. slatentizzazione di disturbi psichiatrici, in particolare a carico dell’umore (correlati con ridotti livelli di serotonina).

Esistono differenze legate al sesso nell’abuso di sostanze illecite: nei maschi 31%, nelle femmine 27%. I maschi presentano un maggior uso complessivo di sostanze ed in particolare tassi d’uso più elevati di marijuana, LSD ed altri allucinogeni, stimolanti e cocaina, inalanti, eroina ed alcolici. L’uso di tabacco, tranquillanti ed analgesici risulta sovrapponibile nei due sessi. Le donne ottengono più frequentemente sostanze e farmaci d’abuso per via lecita attraverso prescrizioni mediche: più del 70% di tutti i farmaci psicotropi è prescritto dai medici per pazienti di sesso femminile.

È generalmente accettato che l’alcool sia la sostanza d’abuso più diffusa tra gli anziani. Sembra, infatti, che il 2-10% della popolazione anziana abusi di alcool. Le donne anziane presentano maggiore probabilità di abuso dei giovani. Coloro che sviluppano alcolismo in età avanzata hanno maggiore probabilità di appartenere ad uno strato socioeconomico più elevato, mostrano un minor carico di etilismo nella storia familiare e presentano una maggior probabilità di recupero rispetto a coloro che diventano alcolisti più precocemente. Le altre sostanze di abuso comprendono barbiturici, benzodiazepine, analgesici, oppioidi e tranquillanti. Gli anziani soffrono più frequentemente di morbilità e mortalità legate ad intossicazione accidentale o intenzionale: la morte per avvelenamento risulta 12 volte più frequente rispetto ai gruppi più giovani e l’intossicazione ha quasi il doppio di probabilità di risultare intenzionale (21% vs 11%). Spesso la dipendenza da farmaci costituisce una complicanza iatrogena derivata da inopportune prescrizioni di benzodiazepine per sedare l’ansia o indurre il sonno.

Si è delineata una graduale riduzione del consumo del vino in luogo di un progressivo aumento dell’uso di superalcolici e di birra. Questo aumento potrebbe essere ascrivibile all’acquisizione, nel nostro paese, di modelli socioculturali transeuropei a partire dagli anni ’70, che hanno gradualmente prodotto nel tempo ripercussioni significative sulle nostre tradizionali abitudini potatorie. Più precisamente, la fascia giovanile sembra più incline all’uso di birra e di superalcolici a scopi ricreativi sino alla manifestazione di condotte abnormi, favorite anche dalla mancanza di una adeguata legislazione volta a contenere l’importazione, la distribuzione e la vendita di queste bevande. Si ritiene che circa il 20% della popolazione italiana beva in maniera disregolata e almeno 1/3 di questa percentuale sarebbe rappresentata da alcoldipendenti.

1.1.2 Definizione di tossicodipendenza.

Si può definire la tossicodipendenza come una malattia a decorso cronico recidivante, consistente nella assunzione compulsiva di sostanze nocive, caratterizzata da un definito stile di vita, sostenuta da cause e portatrice di conseguenze sul piano biologico, psicologico e sociale. Secondo questa definizione, quindi, la tossicodipendenza è una malattia: un’entità morbosa complessa, con componenti fisiche e psichiche, nella quale il decorso cronico e recidivante – vale a dire di lunga durata e con ricadute alternantesi a remissioni – è una caratteristica essenziale. Le cause biologiche, psicologiche e sociali sono riconducibili alla influenza della famiglia e della società, e alla disponibilità di sostanze psicoattive, su persone dalle specifiche caratteristiche psicologiche e – probabilmente – neurobiologiche. Il tossicodipendente ha un comportamento improntato ad un definito stile di vita, centrato sulla droga di elezione. Conseguenze biopsicosociali sono i fenomeni tipici della tossicodipendenza come gli effetti psicotropi, la dipendenza, la tolleranza, le patologie correlate, i tratti di personalità che il tossicomane sviluppa, i problemi familiari, relazionali, occupazionali e giudiziari che ne derivano.

L’abuso si configura quando la sostanza viene utilizzata attraverso una modalità patologica, caratterizzata da segni di intossicazione, dall’incapacità a interromperne l’uso nonostante la presenza di problemi sociali, interpersonali o legali causati dagli effetti della sostanza, con conseguente compromissione delle attività sociali e professionali. Il disturbo deve essere presente periodicamente durante un periodo di dodici mesi.

L’intossicazione si ha per esposizione o ingestione recente di una sostanza, è reversibile ed è specifica per ogni composto e correlata al dosaggio, alla durata dell’esposizione alla sostanza e alla tolleranza del soggetto. Si caratterizza per la comparsa di modificazioni comportamentali quali alterazioni dell’umore, del pensiero, delle percezioni, della vigilanza, dell’attenzione, dell’attività psicomotoria, della capacità critica e del funzionamento sociale e lavorativo.

I quadri di vera e propria dipendenza sono condizionati, invece, dalla presenza dei fenomeni di tolleranza, astinenza, comportamento compulsivo di assunzione della sostanza di abuso (craving) e comportamento recidivante (ricaduta nell’uso della sostanza, causata dall’addiction). Si definisce dipendenza l’assunzione persistente di sostanze allo scopo di prevenire o diminuire i sintomi d’astinenza fisici o psichici. Il paziente risponderà a questi sintomi cercando di assumere un quantitativo maggiore di sostanza. Il concetto di dipendenza psicologica si riferisce a quei sintomi “non fisici” che si manifestano alla sospensione dell’uso di sostanze, incluso il craving, l’agitazione, l’ansia e la depressione. L’assunzione della sostanza allevia i sintomi astinenziali e produce un innalzamento dell’umore.

Si definisce “addiction” una modalità compulsiva e discontrollata di assunzione di una sostanza nonostante le sue conseguenze sfavorevoli. La definizione di addiction comprende i concetti di tolleranza e dipendenza ma altri importanti aspetti la caratterizzano: preoccupazione per l’acquisizione della sostanza, uso compulsivo, perdita di controllo, forte rischio di ricaduta e diniego della condizione di dipendenza.




1.1.3 Eziopatogenesi e fattori di rischio della tossicodipendenza.


Inizio della pratica tossicomania. Un adolescente emotivamente immaturo, che può disporre facilmente delle sostanze di abuso e che vive in un milieu socioculturale favorevole alla droga, è il miglior candidato all’uso di sostanze se la gratificazione derivante da tale esperienza sarà superiore agli effetti collaterali iniziali, sgradevoli. Ma le strade che conducono all’uso della droga possono essere molteplici.

Strada comune è quella dell’iniziazione alla sostanza da parte di gruppi di amici o del partner sessuale nella cosiddetta “fase della luna di miele” in culture proibizioniste. All’opposto, culture permissive possono favorire l’incontro con la sostanza (l’alcool per i cattolici, i cannabinoidi per gli arabi, la coca per gli indios dell’America latina). Un ambiente distruttivo in cui il giovane non possa sviluppare il senso di identità, non creda nelle proprie possibilità e non abbia speranze di futuro, è la condizione ideale per favorire l’incontro con la sostanza. L’impossibilità di fronteggiare efficacemente le richieste di responsabilizzazione sociale, che compaiono alla fine dell’adolescenza, spesso complicherà ulteriormente la situazione.

Il ruolo della famiglia è stato da più parti enfatizzato: spesso il primo uso di sostanze inizia dopo la morte di una figura familiare significativa, come se il lutto della perdita non fosse stato superato. Anche componenti maladattive della personalità legate al piacere del rischio possono condizionare l’incontro con le sostanze in alcuni periodi della vita senza che possano essere chiamati in causa sostanziali aspetti psicopatologici o difetti di personalità. Sintomi psichiatrici, quali ansia e depressione, la presenza di sentimenti di ribellione e soprattutto comportamenti antisociali sono buoni predittori di predisposizione all’uso di sostanze.

Grande importanza viene, in conclusione, riconosciuta alla disponibilità della sostanza e alla subcultura della droga che attraverso riti di iniziazione (“la pressione del gruppo”) o attraverso la tolleranza favorisce l’incontro con la sostanza e ne alimenta l’uso. Gli psicoanalisti ritengono, invece, che l’avvicinarsi alla droga rappresenti il sintomo di una disfunzione del rapporto Io/Sé. I disturbi dell’Io e del Sé sono sostanzialmente la non presenza o il malfunzionamento dei meccanismi di difesa, dell’autostima e del prendersi cura di sé. La droga non sarebbe che una delle possibili risposte a queste problematiche, soprattutto all’incapacità del soggetto a prendersi cura di sé. I comportamentisti rimproverano agli psicoanalisti di ignorare volutamente l’azione specifica della sostanza utilizzata. In definitiva sarebbe l’effetto piacevole della sostanza che predispone e condiziona poi l’autosomministrazione.


Mantenimento della pratica tossicomanica. Il mantenimento della pratica tossicomanica dipende non dai sintomi di astinenza, ma dal desiderio di sperimentare la sensazione di “high” (“stare su”). Questa possibilità “passiva” di provare piacere spingerebbe all’uso continuativo della sostanza. Continuare a provocarsi una stimolazione piacevole rientra nella normalità; l’interruzione di una pratica piacevole può essere determinata solo da fattori culturali, quali la colpa o la paura di complicazioni mediche. All’opposto, l’uso può essere rafforzato dal fatto che la pratica tossicomanica può aumentare nei soggetti il senso di confidenza e di serenità. All’interno di dinamiche familiari disturbate, l’uso di droga può innalzare i livelli di ansia interpersonale e questo può portare, di riflesso, ad un maggiore uso di sostanze per eliminare l’ansia stessa.

L’uso continuativo è probabile quanto più il soggetto ottiene gli effetti desiderati a livello cognitivo, affettivo e farmacologico e quanto più riesce ad evitare gli effetti spiacevoli; sono infatti gli effetti iniziali positivi che agiscono come rinforzo. Il comportamento tossicomanico finisce, infine, per selezionare ulteriormente il gruppo di chi usa sostanze. Gli atteggiamenti di diffidenza della società verso questo tipo di soggetti spinge sempre di più i tossicomani ad integrarsi nel gruppo stesso, a rimanere coinvolti nel mondo culturale della droga, a partecipare ai suoi rituali, a commettere azioni criminali per procurarsi il denaro necessario al procacciamento della sostanza. Questo fatto finisce per far identificare la persona stessa con lo stereotipo del “drogato”.

Per gli psicoanalisti le cause che sottendono l’incontro con la droga provocano anche il mantenimento del comportamento tossicomanico e la scelta del tipo di sostanza usata dipenderà dai bisogni del soggetto e dalla qualità dell’azione farmacologica: amfetamine per le personalità anergiche, sedativi e ipnotici per coprire inibizioni di stampo nevrotico, oppiacei per la loro azione antiaggressiva e antidisforica.


Passaggio dall’uso di sostanze all’abuso. Il passaggio dall’uso all’abuso è sostenuto dal fenomeno della tolleranza. La droga diventa il punto focale dell’esistenza dell’individuo. Per ricercare l’effetto piacevole della sostanza, venuto meno per il fenomeno della tolleranza, il soggetto realizza un vero e proprio processo di “scalata”, aumentando progressivamente le dosi assunte, nella speranza che l’effetto positivo della sostanza possa essere raggiunto a qualunque costo.

Astensione dalla pratica tossicomania. L’astensione volontaria dall’uso di sostanze non è un fenomeno raro nella storia dei tossicodipendenti. Tuttavia, vi è molta riluttanza a ricorrere volontariamente a terapie disintossicanti, come è testimoniato dall’esiguo numero di soggetti che richiedono un trattamento di disassuefazione (circa il 10%).

I motivi per cui i tossicodipendenti si assoggettano a cure ospedaliere sono essenzialmente i timori per le disposizioni di legge, il desiderio di ridurre la quantità di sostanza capace di dare euforia o la perdita dei contatti con i loro fornitori. Anche la paura di complicanze mediche può condizionare un periodo di astensione volontaria, ma risultano più persuasivi il dover ricorrere a stili di vita troppo rischiosi, la riduzione del piacere nell’uso della sostanza e la paura della sindrome di astinenza. L’ingresso in terapia non è, di per se stesso, un buon predittore di uscita dal mondo della droga. Il supporto familiare (o il cambiamento nei rapporti all’interno della famiglia), sociale, psicoterapico, riescono, in genere, solo a provocare un periodo di astensione volontaria seguito dalla ricaduta. Il fattore età sembra il fattore prognostico più attendibile: la tossicodipendenza dopo i 50 anni è estremamente rara.

In definitiva, l’interruzione dell’uso di sostanze si può ottenere attuando un controllo sulla disponibilità che il soggetto ha della sostanza (controllo della sorgente) e/o creando una situazione ambientale in cui il guadagno secondario dell’uso della droga diventi troppo doloroso in termini sociali e personali.


Comportamento recidivante. Il problema della ricaduta e del perché essa si verifichi diviene a questo punto cruciale nel controllo del comportamento tossicomanico. Nonostante, infatti, il processo di disintossicazione appaia facile da raggiungere, la quasi totalità dei soggetti ricade nell’uso di sostanze in un periodo variabile da pochi giorni a qualche anno.

Anche se i motivi dell’assunzione iniziale di eroina possono essere considerati psicologici, la sostanza, per qualsiasi ragione sia stata usata la prima volta, lascia, per così dire, la sua impronta sul sistema nervoso. La semplice sospensione dell’uso non è in grado di riportare il sistema nervoso alla condizione precedente la dipendenza. Perciò non si può fare a meno, all’interno di un approccio biopsicosociale, della cura medica della tossicodipendenza. Se, una volta vinto il craving per la sostanza, permane un comportamento socialmente inadeguato, questo sarà un problema del programma di riabilitazione psicosociale e non della parte medica del programma.


1.2 Nosografia dei Disturbi correlati all’Uso di Sostanze.


Dalla prima edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM) del 1951, la diagnosi di disturbo da uso di sostanze ha subito un’interessante trasformazione. Nel DSM-I “l’addiction” era classificata come un disordine di personalità, elencato immediatamente dopo le deviazioni sessuali. L’alcool era la sola specifica sostanza d’abuso considerata.

Nel DSM-II i disordini di personalità includevano la dipendenza da sostanze e una categoria separata per l’alcolismo. Non venivano minimamente prese in esame sostanze come la caffeina e la nicotina. La diagnosi richiedeva «prove di un uso abituale o un chiaro bisogno della sostanza», ma i «sintomi di astinenza non costituivano l’unico criterio per porre diagnosi di dipendenza ». La cocaina infatti veniva riportata come una sostanza che non provocava una sintomatologia astinenziale.

Nel 1980, il DSM-III considerava i Disturbi da Uso di Sostanze come una nuova classe diagnostica che si occupava dei cambiamenti comportamentali associati ad un uso regolare di sostanze agenti sul SNC. In base alla gravità del disturbo, si parlava di Abuso di Sostanze o di Dipendenza. In particolare la definizione di Dipendenza era strettamente collegata alla presenza dei fenomeni della tolleranza e dell’astinenza. I criteri diagnostici del DSM-III, in alcuni punti, erano piuttosto ambigui e ponevano numerosi dubbi diagnostici. Il DSM-III-R chiarisce alcuni di questi punti introducendo il concetto di Disturbi da Uso di Sostanze Psicoattive, ossia «sintomi e comportamenti maladattivi associati all’uso di sostanze psicoattive», «uso continuo di sostanze malgrado la presenza di un persistente o ricorrente problema sociale, occupazionale, psicologico o fisico che può essere esacerbato dall’uso stesso », «sviluppo di seri sintomi astinenziali alla cessazione o alla riduzione dell’uso di sostanze psicoattive».

Nel 1994 il DSM-IV riclassifica questi disturbi in Disturbi Correlati all’Uso di Sostanze, comprendendo in essi i disturbi correlati sia all’uso di una sostanza che agli effetti collaterali di un farmaco o all’esposizione ad una tossina. Con il DSM-IV, dunque, l’abuso di sostanze viene ancor più ad assumere un ruolo integrato nell’ambito dei disturbi mentali. Fra le sostanze implicate vengono compresi anche molti farmaci (anestetici, analgesici, anticonvulsivanti, antinfiammatori, ecc.) e sostanze tossiche. I Disturbi Correlati all’Uso di Sostanze possono essere suddivisi in due gruppi: Disturbi da Uso di Sostanze (Abuso e Dipendenza) e Disturbi Indotti da Sostanze (Intossicazione, Astinenza, Delirium, Demenza Persistente, Disturbo Amnestico Persistente, Disturbo Psicotico, Disturbo dell’Umore, Disturbo d’Ansia, Disfunzione Sessuale, Disturbo del Sonno indotto da sostanze). Il DSM-IV raggruppa 11 classi di sostanze d’abuso: alcool, amfetamine, caffeina, cannabis, allucinogeni, inalanti, nicotina, oppiacei, fenilciclidina (PCP), sedativi, ipnotici ed ansiolitici.


1.3 La relazione nell’abuso di sostanze.


Nel caso delle tossicodipendenze non è agevole colloquiare con il paziente né a scopo diagnostico, né per stabilire un valido rapporto medico-paziente, né, in senso più propriamente terapeutico, per promuovere un cambiamento cognitivo-comportamentale.

Il primo incontro si rivela generalmente estremamente povero sul piano della verbalizzazione stessa. Il più delle volte il soggetto ritiene di non aver nulla da dire al medico. Dopo l’ammissione dell’uso di una sostanza il colloquio si arresta al fatto che al momento il soggetto ne è sprovvisto e il medico “può” e “deve” far cessare lo stato di sofferenza. Spesso la comunicazione avviene più con il corpo che con il verbale.

La particolare intolleranza che i tossicodipendenti provano verso figure avvertite come genitoriali, la debolezza e l’immaturità dell’Io, la tendenza alla gratificazione in modo regressivo e la scarsa capacità di simbolizzazione, che comporta una rudimentalizzazione della vita di fantasia e del pensiero, costringono il medico a porsi volutamente in un rapporto reale, paritario e amicale. Le difficoltà maggiori che si incontrano nella relazione, al fine di stabilire un valido rapporto medico-paziente, sono dovute essenzialmente ad alcune caratteristiche tipiche dell’essere tossicodipendente. La capacità di introspezione è, in questi soggetti, quasi assente e questo comporta l’imprecisione e l’indeterminatezza della stessa descrizione dello stato psicofisico da parte del soggetto. La tendenza tipica è a svalutare l’entità del problema “droga” e del valore dello stimolo alla ricerca della sostanza. In altre parole il soggetto spesso è convinto che il suo problema non è “il drogarsi”, ma l’essere “senza la droga”. Vi è incapacità a sintetizzare in modo chiaro e concreto la confusione dei propri pensieri; non c’è contatto tra sensazioni, emozioni e situazione reale. Spesso a seguito delle ricadute il vissuto riferito è di depressione accompagnato dal pensiero che “mai riuscirà a farcela” cioè a smettere; altre volte, nonostante le ricadute vi è la ferrea convinzione di “poter smettere” qualora lo voglia veramente.

Comunque sia vi è sempre la decisione di “non fidarsi” della struttura pubblica. Questo comporta la necessità di “essere forte” per essere “OK”, situazione che si realizza attraverso un certo distacco emotivo, la negazione dei propri bisogni e la difficoltà a richiedere aiuto. Sempre sono presenti vissuti di rabbia che spesso portano all’abbandono del programma terapeutico quando il paziente ritiene di “non essere stato aiutato”. La droga in genere è vista come “la soluzione” dei problemi piuttosto che come il problema in se stesso. Un caratteristico dialogo interno in un copione di vita autodistruttivo che include l’uso di droghe è: “non pensare”. Il colloquio dovrà, perciò, partire dal “qui ed ora”, dalla situazione attuale in cui il soggetto si trova. Il passato ha importanza soprattutto in quanto viene attualizzato. E così il lavoro anamnestico sulla storia della tossicomania dovrà sempre fare riferimento alla situazione presente, perché essa è la sola che interessa il tossicodipendente.

Considerando la difficoltà di verbalizzazione e di simbolizzazione di questi pazienti è necessario spostare l’attenzione sulla postura, sul tono di voce, sui comportamenti non verbali. L’esperienza clinica ha verificato come spesso la “curiosità” possa costituire il primo legame con il tossicomane. Per far nascere e sostenere il rapporto con questi pazienti sembra necessario essere stimolanti ed agire ad un alto livello di eccitazione. Il tossicomane deve cogliere la curiosità del medico per l’esperienza tossicomanica del paziente, ma nello stesso tempo deve essere attratto dalle modalità espressive e comportamentali del medico e dalla tecnicità degli interventi che saranno proposti.

La curiosità rappresenta in questo caso, un equivalente del più primitivo funzionamento mentale, legato all’essere attratto dalle cose quando il bambino è ancora incapace di pensare. Programmi di trattamento che stimolino ad agire ad un basso livello di eccitazione, come le terapie verbali, hanno scarsa capacità di attrarre attenzione e di essere tollerate dai tossicodipendenti.

Il colloquio verterà quindi sulle problematiche di interazione sociale e familiare o di inserimento al gruppo con particolare riferimento alla normale crisi adolescenziale a cui possono sovrapporsi particolari aspetti della personalità dell’individuo e dell’ambiente che lo circonda senza tuttavia la presenza di gravi disturbi della personalità o del carattere. Sarà opportuno indagare la mancanza di uno strutturato senso critico che, in genere impedisce il rigetto di un’offerta inutile, dannosa, ma ben organizzata come quella dell’eroina. Dall’altro lato occorre appurare se il soggetto, invece di essere attratto dall’effetto euforizzante, ha ricercato attivamente una sostanza che riuscisse a liberarlo da sintomi disforici.

Nel primo colloquio è necessario indagare anche se il soggetto si trova nella cosiddetta “luna di miele” o nella fase della “porta girevole”. Nella prima generalmente l’uso della sostanza è saltuario e il soggetto esterna la convinzione di poterlo interrompere volontariamente ed in ogni momento. Non si assiste all’estrinsecazione di un vero e proprio comportamento tossicomanico, non vi è tendenza ad aumentare la dose e neppure il desiderio irresistibile di usarla. Non si rilevano chiari segni di sindrome di astinenza. Spesso la situazione viene sottovalutata sia dal paziente che dall’ambiente sociale, incapace a cogliere i fini segni di una disforia che tende sempre più a prendere campo. Nella seconda, l’impossibilità a reperire la sostanza nelle quantità necessarie o la presa di coscienza delle proprie condizioni psicofisiche sollecita l’eroinomane a intraprendere dapprima tentativi di disintossicazione autogestiti e poi a rivolgersi ai presidi sociosanitari, in un drammatico alternarsi di stare in cura, uscire, ricadere nell’uso della sostanza, essere arrestati, ricoverati in ospedale, tornare in cura, e così via ingigantendo sempre più la sensazione di inguaribilità che si impossessa dei tossicodipendenti e generando negli altri l’errata convinzione che essi siano inguaribili.

Il colloquio permette di formulare una diagnosi mirata agli interventi terapeutici.

Infatti per i tossicodipendenti reattivi è indicato l’approccio psico-rieducazionale; per quelli autoterapici l’approccio psichiatrico; per quelli metabolici l’approccio farmacologico integrato a livello psicosociale. A livello terapeutico il colloquio col paziente acquista un'importanza fondamentale soprattutto durante la terapia di disintossicazione, in special modo nei programmi protratti sia con farmaci agonisti che antagonisti, permettendo di aiutare il paziente a meglio comprendere l’iter terapeutico.

È quel processo che prende il nome di ristrutturazione cognitiva del paziente.

Il soggetto tossicodipendente giunge al trattamento con una “forma mentis” tutt’altro che funzionale al trattamento stesso. In linea con i luoghi comuni e con le credenze grossolane assorbite nella strada, pensa di poter, una volta tamponato lo stato di sofferenza, chiudere con la vita da tossicomane. A volte si presenta dopo autentiche persecuzioni messe in atto dalla famiglia che, dopo il fallimento delle esperienze comunitarie, in accordo con la parola d’ordine “devono toccare il fondo”, non gli ha offerto nessun tipo di aiuto. Il sentimento più rappresentato in questi soggetti è di essere “degli sconfitti”, di essere arrivati all’“ultima spiaggia” e in qualche caso ad un luogo di cura dove gli operatori, nel caso dell’eroina, opereranno addirittura una “sostituzione di una droga con un’altra”, un ricorso ad una sostanza “più dura dell’eroina stessa”, un modo per continuare a drogarsi, e quindi a non soffrire, senza “sbattersi per le strade”. Purtroppo questa immagine non è solo quella che hanno i tossicodipendenti, ma spesso riflette le convinzioni dell’opinione pubblica e a volte perfino degli operatori dei Servizi.

Compito del terapeuta serio è, dunque, quello di far piazza pulita delle credenze inesatte che mascherano il problema e che lo rendono pressoché insolubile. Il “drogato” non è giunto all’ultima degradante spiaggia, ma ad una struttura terapeutica che può mettere insieme una cura efficace a patto che essa sia sufficientemente protratta nel tempo, fatta in modo adeguato e all’interno di uno schema metodologico rigoroso. Il paziente deve rendersi conto di trovarsi ad affrontare, nel migliore dei modi conosciuti, un problema a lungo termine; deve accettare, dunque, i tempi lunghi che la soluzione di questo problema richiede; la famiglia, se esiste, deve sostenerlo in questo “lungo cammino”, che investe una parte consistente della vita; il paziente deve disporre di uno stato di tranquillità che consenta di riscoprire al massimo le risorse impedite dalla tossicodipendenza e di impiegare di nuovo queste risorse nel processo di risocializzazione.

Nel rapporto fra paziente e terapeuta, dunque, la fase più importante è quella iniziale perché un paziente consapevole ed orientato utilizza il programma nel modo migliore ed ha molte probabilità in più di raggiungere gli obiettivi del programma stesso. Il primo argomento di discussione, dunque, sarà sulla natura della tossicodipendenza, sulla sua essenza di “malattia a schema cronico” e sul fatto che questo stato di malattia non si risolve con uno sforzo di volontà. Le forze che entrano in gioco non sono facilmente controllabili a livello razionale. Sorgono dal profondo, dal “metabolico” e si concretizzano in un comportamento: la recidiva. A questo punto il paziente deve essere portato a spiegare le sue precedenti ricadute non come fallimento o come colpa, ma come evento conseguente al fatto di non essersi convenientemente protetto contro il naturale scatenarsi di queste forze. Di qui nasce un nuovo assetto di pensiero che, se da un lato sposta la responsabilità delle ricadute sugli interventi falliti, e dunque su chi li ha messi in opera, dall’altro contribuisce a ristabilire nel paziente un grado sufficiente di autostima e di fiducia nei mezzi terapeutici corretti che saranno applicati. Sono concetti difficili ad essere accettati, proprio perché quello che l’opinione corrente vuole è che il tossicodipendente sia rimasto tale, perché non ha avuto sufficiente volontà per guarire.

L’operatore, dunque, di fronte al suo paziente, deve affrontare il compito non facile di volgarizzare questi scomodi concetti, in modo che il paziente li interiorizzi. Soprattutto dovrà insistere sul fatto che è dannoso e quantomeno improduttivo stare con un piede nel programma e con l’altro nella strada, ed è dannoso, soprattutto, lasciare il programma in una fase troppo precoce, perché in questo caso la maggioranza dei pazienti finirà nella cosiddetta “porta girevole”.

Il problema dell’abbandono precoce si fa ancora più stringente quando anche la famiglia spinge in quella direzione. La relazione con il tossicodipendente a questo punto deve essere integrata con la famiglia in una sorta di alleanza terapeutica. Il paziente, bisognoso di cure per lungo tempo, deve essere stimolato dalla famiglia a seguirle, deve essere sostenuto se ed in quanto le segue. Una modalità di colloquio precisa e metodologicamente improntata al “contratto” è estremamente utile nella cura integrata della tossicodipendenza.

Nel contratto con il tossicomane gli scopi del trattamento sono l’abbandono della sostanza di abuso e la riabilitazione psicosociale. Il patto minimo, inderogabile, che può anche essere definito “contratto terapeutico”, è invece quello di non usare la sostanza di abuso e stabilizzare nel tempo quei comportamenti adeguati al vivere sociale e familiare. L’atteggiamento del medico, in questo contratto terapeutico, non dovrà essere né permissivo né repressivo anche se in certi casi una dose di non convenzionalità non potrà che facilitare il rapporto. Non bisognerà dimostrare troppa empatia per la sofferenza del paziente, ma anzi assumere una posizione ferma e trasparente all’interno di una rinnovata professionalità.

Il rinnovamento comportamentale che il tossicomane sperimenta durante il trattamento può consolidarsi solo se pilotato attraverso programmi di modulazione psicologica e comportamentale che acquisiscano al soggetto pattern nuovi di organizzazione e risoluzione dei problemi esistenziali. In quest’ottica l’importanza della gestione del colloquio come modalità di relazionarsi al paziente nei vari momenti evolutivi del disturbo e dell’intervento mostra, ancora una volta, come solo lavorando verso la creazione di un possibile luogo di incontro tra somatico e psicologico si potrà essere certi di lavorare, anche nel campo delle tossicodipendenze, all’attuazione di un programma di trattamento realmente efficace.

1.4 Le sostanze.

1.4.1 Oppiacei.

Gli oppioidi comprendono sostanze naturali derivate dal papavero dell’oppio, come l’oppio stesso, la morfina e la codeina, sostanze semisintetiche come l’eroina e sostanze sintetiche come la meperidina e il metadone. Sono state usate da sempre come analgesici per le forme di dolore grave, ma sono in grado di ridurre anche l’aggressività e gli impulsi sessuali.

I disturbi da oppiacei comprendono due quadri ben distinti. Nel primo, detto anche Disturbi da Uso di Oppioidi, sono compresi l’Abuso e la Dipendenza. Il secondo, detto Disturbi Indotti da Oppiacei, comprende l’Intossicazione, l’Astinenza, il Delirium da Intossicazione, il Disturbo Psicotico Indotto da Oppiacei con Deliri o con Allucinazioni, il Disturbo dell’Umore Indotto da Oppiacei, le Disfunzioni Sessuali Indotte da Oppiacei, i Disturbi del Sonno Indotti da Oppiacei.

L’abuso di oppioidi consiste nella incapacità di ridurre o di interrompere l’uso di eroina/morfina assunta giornalmente da almeno un mese con conseguente stato di intossicazione continuata, con episodi di sovradosaggio e con compromissione delle attività sociali o professionali. La dipendenza comprende le condizioni di tolleranza e di astinenza. Per tolleranza si intende la necessità di aumentare le dosi della sostanza per avere lo stesso effetto o la diminuzione dell’effetto per dosi costanti, mentre per astinenza si intende, dopo riduzione o cessazione dell’uso, la comparsa di una sindrome di astinenza.

Sia l’abuso che la dipendenza possono portare a stati di intossicazione acuta. L’interesse diagnostico per la dipendenza da oppiacei si sta tuttavia sempre più spostando sul concetto di comportamento recidivante, ossia sulla possibilità di ricaduta nell’uso della sostanza dopo un periodo più o meno lungo di non uso della stessa.

Impulsività, incapacità a controllare l’ansia, intolleranza alle frustrazioni, relazioni di dipendenza, egocentrismo, sono alcuni aspetti caratteristici, ma non specifici, dei tossicodipendenti.

Dal punto di vista psicoanalitico, nel tossicomane si verifica una regressione alla fase orale dello sviluppo libidico, mentre progressivamente la realtà esterna e gli istinti perdono di significato. Il “bisogno di drogarsi” è da ricercare nel sollievo da una tensione psicologica insopportabile, dal momento che il tossicomane, a causa dell’estrema fragilità delle difese, non è in grado di tollerare ansia e depressione. La sostanza avrebbe la funzione di protezione dalle ferite narcisistiche conseguenti al fallimento di un Sé straordinariamente idealizzato. Una conseguenza della debolezza del Super-Io è la facilità con la quale la rappresentazione mentale passa all’atto, in modo inatteso e incomprensibile, con scariche pulsionali aggressive, sia autodirette in senso autopunitivo e autodistruttivo, che eterodirette. In questo senso il comportamento tossicomanico sarebbe un tentativo di adattamento messo in atto per regolare e modulare l’espressività emozionale. Dai dati della letteratura più recente emerge l’evidenza di una frequente associazione del Disturbo da Uso di Sostanze e Disturbo Bipolare in cui la fase espansiva è, però, primitiva e non attribuibile all’euforia tossica indotta dall’uso di sostanze.


Modalità d’uso. L’esperienza tossicomanica può essere distinta in tre stadi:

L’uso di oppiacei interferisce in maniera diversa con la possibilità di raggiungere un certo grado di adattamento sociale.

Il livello più basso di questa scala, che corrisponde al massimo grado di disadattamento, è rappresentato dai cosiddetti consumatori da strada. In essi spesso si assiste al fenomeno del poliabuso di sostanze e all’incessante richiesta di prescrizioni mediche, a volte anche al limite della legalità, di qualunque sostanza possa alleviare il dolore delle crisi di astinenza o possa saziare il craving per l’eroina. Altissima è, inoltre, la percentuale di attività criminose volte al reperimento dei soldi per la o le “dosi giornaliere”. Estremamente difficile è anche l’approccio terapeutico che essi rifiutano. All’opposto gli stabili o conformisti conducono un’esistenza apparentemente ben uniformata alle convenzioni sociali. Spesso riescono a mantenere un’attività lavorativa anche di relativa importanza e non vanno incontro a problemi con la legge. Non amano la vita di gruppo con altri tossicodipendenti.

I distruttori o violenti sono immersi nella sub-cultura della droga e vivono in luoghi e situazioni spesso ai limiti della legge quando non in aperto contrasto con regole o convenzioni. Non hanno un lavoro onesto e spesso si dedicano ad attività criminali per sopravvivere. Sono dediti anche a manifestazioni di aggressività senza motivo e solo per il gusto di provocare sofferenza nella vittima.

Coloro che vivono in due mondi non disdegnano le attività criminose e la vita insieme ad altri tossicodipendenti, ma spesso hanno un lavoro regolare; rappresentano la quota di eroinomani più pericolosa socialmente per i gravi inconvenienti che essi possono provocare sul lavoro, sia nel momento dell’intossicazione acuta che in quello della sindrome da astinenza.

I solitari, infine, non sono coinvolti nella cultura della droga, non hanno un lavoro fisso e spesso vivono più con sovvenzioni dello Stato che non con il provento di attività criminose. Molto spesso sono portatori di gravi problemi psicopatologici (schizofrenia) che il concomitante comportamento tossicomanico rende molto difficili da diagnosticare e trattare adeguatamente.

Da un punto di vista clinico-nosografico si possono considerare tre tipi di tossicodipendenti da eroina:


Terapia. Non esiste al presente uno standard riconosciuto universalmente per la cura della tossicodipendenza da eroina.

I luoghi di cura possono essere gli ospedali, le residenze protette, i day hospital, gli ambulatori, le Comunità Terapeutiche e gli ambulatori dei Servizi pubblici. Anche la professionalità degli operatori varia moltissimo: da personale medico a gruppi di autoaiuto presso le Comunità residenziali. I programmi possono basarsi sulle interazioni di gruppo, sulle relazioni familiari o sui rapporti interpersonali. Il gruppo ha una funzione fondamentale, soprattutto nell’ambito di trattamenti psicoanalitici a lungo termine; questi sono più difficili da affrontare singolarmente e sono adatti ai pazienti più giovani e motivati al cambiamento, con un forte ego, in grado di tollerare l’ansia, aperti all’introspezione e fiduciosi nel terapeuta e nel processo terapeutico, capaci di comunicare i propri pensieri e sentimenti e di differire la gratificazione.

Può essere proibito ogni tipo di sostanza durante il programma o, al contrario, i programmi possono articolarsi sul momento essenziale della somministrazione del medicamento (agonista o antagonista).

È possibile individuare vari livelli di intervento, nei quali inserire i vari tipi di trattamento. Il primo livello di prevenzione è basato su una corretta educazione sanitaria riguardante le varie sostanze stupefacenti, i loro effetti, le conseguenze del loro uso e/o abuso, lasciando da parte interpretazioni ideologiche o moralistiche, che spesso hanno come unico effetto quello di rendere gli stupefacenti sostanze mitiche e misteriose, ma nel contempo affascinanti. Fondamentali sono, poi, la prevenzione secondaria, ossia la riduzione del danno e la cura degli individui affetti, e la prevenzione terziaria, cioè la protezione contro le ricadute. Il quarto livello di intervento è teso alla riabilitazione e al reinserimento sociale.

In Italia l’intervento di gran lunga preferito è quello della disintossicazione rapida seguita dall’immissione nelle Comunità Terapeutiche, per quei pazienti che presentano gravi turbe psichiatriche richiedenti una struttura di contenimento, e ai tossicodipendenti che nel momento della presentazione al servizio non hanno più alcun tipo di supporto economico sociale (casa, famiglia, lavoro). E’ importante che il programma terapeutico venga elaborato insieme al paziente, rispettando le sue preferenze verso un tipo o l’altro di trattamento, tenendo però conto delle precedenti esperienze di terapia e degli eventuali aspetti psicopatologici presenti. Compito del curante è dare a ogni paziente una risposta adatta, attraverso la personalizzazione dei piani terapeutici e l’inserimento dei vari tipi di intervento in un iter logico che permetta di ottenere il miglior grado di funzionamento psicosociale dell’individuo ed il suo reinserimento nel mondo del lavoro e nell’ambito familiare. Offrire ad ogni utente uno spazio fisico, espressivo, lavorativo e relazionale dove vivere è un intervento essenziale, da intendersi però nell’ambito di un intervento multimodale (medico e socio-riabilitativo insieme) che aumenti l’efficacia complessiva del trattamento.


1.4.2 Cocaina.

La cocaina è uno stimolante centrale di origine naturale e uno dei più efficaci farmaci di abuso.

Gli stimolanti centrali hanno la capacità di ottimizzare le prestazioni meccaniche-muscolari e mentali di una persona: aumentano la capacità di attenzione e di concentrazione e la sicurezza nelle proprie capacità. Questo effetto è massimale per una dose appena al di sotto di quella euforizzante; la sua durata è molto soggettiva, varia anche in base alla via di somministrazione, ma non è mai troppo lunga. Il risultato è soprattutto evidente per prestazioni brevi, consente comunque di iniziare bene e, quindi, di acquistare maggior interesse e sicurezza al da farsi anche nel caso di prestazioni prolungate. E’ essenziale conoscere il dosaggio ottimale, perché se si supera la dose giusta è probabile la comparsa di uno stato di ridotta efficienza (down) al termine dell’effetto ricercato.

Gli stimolanti centrali vengono abusati in diversi paesi del mondo da diverse categorie di persone quali sportivi, professionisti, studenti, soprattutto in termini di consumo situazionale. Una percentuale difficile da valutare di questi utilizzatori saltuari può sviluppare dipendenza. La via di somministrazione può favorire questo passaggio. Infatti chi riesce a contenere il consumo all’inalazione di cocaina è a minor rischio di pericolosi e rapidi aumenti di dosaggio, mentre è difficile mantenere il controllo sull’effetto intenso prodotto dalla cocaina somministrata per via endovena, e il massimo rischio è dato dalla forma fumabile di queste sostanze (nota in gergo come crack). Infatti ogni boccata di vapori può contenere decine di milligrammi di sostanza attiva, il cui passaggio dagli alveoli al circolo e al cervello avviene in pochi secondi. L’effetto che ne deriva è dirompente e viene descritto come gratificazione di intensità massimale; si dice che chiunque lo provi rinuncia alla seconda boccata “solo se trattenuto con la forza.


Modalità d’uso. Le modalità di assunzione di cocaina seguono dei modelli differenti rispetto al consumo di altre sostanze d’abuso. Il cocainomane non necessariamente consuma quotidianamente cocaina. Spesso per giorni o addirittura per una - due settimane non ne sente il richiamo. Poi compare il craving con tutta la sua compulsività ed egli inizia la ricerca della sostanza e si prepara alla consumazione, che avverrà sotto forma di sbornia (binge) di cocaina, che può essere interrotta dalla comparsa di sintomi gravi, quali una crisi convulsiva o una grave aritmia cardiaca, eventi relativamente infrequenti che possono però risultare letali. Oppure, più frequentemente finisce perché è finita la sostanza o perché subentra una fase di spossatezza e di sonno fra una dose e l’altra che ha il sopravvento e interrompe il rituale. La fase di spossatezza compare comunque dopo un binge prolungato, durante il quale il cocainomane non mangia perché reso completamente inappetente, non dorme perché reso completamente insonne e si impegna in ogni tipo di attività fisiche e mentali. Con l’ipersonnia, che ha durata varia, può comparire bulimia ed è frequente un periodo di rifiuto della cocaina che può protrarsi per qualche giorno.

Il trattamento continuativo con uno stimolante centrale comporta l’attenuazione di certe risposte (tolleranza) e l’accentuazione di altre (sensibilizzazione). Una prima dose ottimale di cocaina produce un intenso benessere soggettivo che si accompagna a un insieme di comportamenti assertivi che sottolineano la sensazione che il soggetto avverte di completo controllo sugli stimoli che gli provengono dall’ambiente nel quale opera. Questo è l’effetto soprattutto ricercato da chi fa uso di cocaina, forse più del rush di pochi secondi dato da una dose più alta. Ma dura poco e la dose successiva lo riproduce per un tempo ancora più breve. Se si tratta di crack (cioè di cocaina base preparata precipitando con bicarbonato di sodio la cocaina cloridrato), le boccate si succedono nel tentativo di mantenere costanti le sensazioni più gradite; se si inalano alte dosi occorre trovare un equilibrio fra gli effetti ricercati e quelli meno gradevoli che si manifestano come sintomi disforici, ansia, a volte vere crisi di panico, movimenti ed eloquio incontrollati e stereotipati, distonie muscolari. Se poi compare e si struttura la sensibilizzazione, gli effetti sgradevoli si accentuano in quanto compaiono per dosi che prima non li producevano. Per cui, l’iniziale, assertiva sensazione di controllo sull’ambiente diviene eccesso di interesse per esso; compaiono le prime idee di riferimento, l’interpretazione incongrua, il sospetto, la sensazione di ambiente ostile, fino al delirio paranoide. Un’ansia marcata, deliri, paura, apprensione, perdita di controllo sui pensieri e sulla capacità di giudizio, allucinazioni uditive e visive sono indistinguibili dalle manifestazioni prodotte da un disturbo psichiatrico primitivo. L’uso cronico di cocaina può provocare disturbi affettivi, disturbi schizofrenici e disturbi di personalità.

Tolleranza e dipendenza si sviluppano velocemente. La sensazione di euforia, provata la prima volta e descritta in termini estremamente entusiastici, è difficilmente riprovata durante l’esperienza tossicomanica, nonostante il forte aumento delle dosi. Molti riassumono comunque la cocaina pur sapendo che il binge determinerà una sintomatologia delirante di cui ricordano tutto e che sarà per essi angosciante. L’ansia, che nelle sue varie manifestazioni accompagna l’assunzione di cocaina, è affrontata dal consumatore con l’uso di sostanze potenzialmente sedative come alcool, benzodiazepine e oppiacei. Per questo motivo, un’alta percentuale di cocainomani cronici è etilista. L’associazione di eroina con cocaina endovena produce una stimolazione massimale dei centri della gratificazione e protegge dagli effetti ansiogeni e, forse, psicotizzanti della cocaina. Anche il metadone protegge da questi effetti e, quindi, potenzialmente facilita l’abuso continuato di stimolanti centrali.

Se l’utilizzo cronico della sostanza viene discontinuato compare una caratteristica sindrome d’astinenza, caratterizzata inizialmente da depressione del tono dell’umore, ansia, craving per la sostanza e in seguito da profonda prostrazione e bisogno di sonno. Questo stato è detto “crash”. Possono essere presenti anche iperfagia e anedonia. La sindrome d’astinenza può durare da 1 a 10 settimane; il craving può scomparire nelle prime per poi ripresentarsi dopo circa un mese. Verso la 10 settimana compaiono, gradualmente, disforia, ansia e di nuovo craving per la sostanza. Se non vi è ricaduta l’umore si normalizza, ma il craving si fa ricorrente, sia spontaneamente, sia a seguito di stimolazioni ambientali.


Terapia. Dal momento che la cocaina ha un’azione breve, nella maggior parte dei casi di intossicazione acuta il paziente arriva all’osservazione del medico con un quadro clinico risolto o caratterizzato dalle complicanze fisiche non prevenute. Il soggetto va prontamente sedato e devono essere affrontati i problemi medici posti dall’intossicazione acuta, non infrequenti nei cocainomani cronici.

Più difficile, perché manca una terapia specifica, è l’intervento medico sulla dipendenza da cocaina. L’intervento è sintomatico e va prima di tutto studiata l’eventuale presenza di comorbilità psichiatriche che favoriscono il consumo di sostanze di abuso. Ma, al di là di questo, non esiste una terapia che si sia rivelata efficace a lungo termine nel controllo del craving da cocaina.


1.4.3 Cannabinoidi.

La marijuana è di gran lunga la sostanza illecita più frequentemente usata.

Essa è costituita dalle foglie superiori essiccate e dalle cime fiorite della Cannabis sativa (canapa indiana). Le infiorescenze della pianta femmina si coprono di una resina da cui si ricava l’hashish. Praticamente ogni parte della pianta contiene il principio attivo che è più concentrato nella cima e decresce man mano che si scende lungo la pianta.


Modalità d’uso. Milioni di persone hanno fumato marijuana qualche volta senza poi continuare nella pratica. Il cosiddetto uso ricreativo della sostanza consiste in un uso infrequente – di solito meno di una volta alla settimana – e in occasioni in cui la sostanza è disponibile, di solito fra amici. I fumatori abituali fumano da tre a cinque volte alla settimana, di solito in circostanze specifiche. Fumare marijuana diviene un problema di salute pubblica, quando questa pratica è giornaliera (da 1 a 20 sigarette al giorno). Gli effetti cronici si manifestano solo in questi individui.

La cannabis è generalmente considerata una sostanza a basso potenziale d’abuso, che con estrema improbabilità causa qualche problema da uso continuato. La dipendenza e l’abuso dei cannabinoidi vengono considerati di lieve entità dal momento che la compromissione delle attività sociali e lavorative è minore di quelli osservati con altre sostanze psicoattive. Una lieve sindrome di astinenza è stata documentata con umore irritabile o ansioso accompagnato da tremore, sudorazione, nausea e turbe del sonno. La ragione principale del comportamento di ricerca della marijuana è il desiderio di sperimentare nuovamente la sensazione di “high”, che è di solito uno stato di fantasticheria euforica.

Il consumo abituale di cannabis porta ad un distacco affettivo dalla realtà, impedisce all’individuo di seguire i propri interessi, riduce la memoria, le capacità attentive ed il controllo del pensiero. Gli stessi sintomi compaiono nella “sindrome amotivazionale”, la complicanza più frequente nei consumatori abituali di cannabis, che consiste in perdita di energia, ridotti livelli di impulso e motivazione, apatia, un certo grado di depressione e agitazione e ritiro dai precedenti interessi. La prognosi è favorevole e di solito si assiste ad un completo recupero dopo circa sei mesi di astensione.

Gli effetti psicologici della sostanza sono caratterizzati da sensazioni di piacevole rilassamento, facilità nei rapporti interpersonali, intensificazione delle percezioni, sensazione di dilatazione del tempo, mentre il pensiero è assorto in fantasie visive. Di solito vi è passività e apatia, insieme a riso immotivato. Occasionalmente può esservi ritiro sociale e crisi di panico. L’uso continuo della droga è però associato con un decremento degli effetti piacevoli, mentre gli aspetti indesiderabili dell’esperienza persistono immodificati, soprattutto a livello psicomotorio, con pericolose conseguenze anche sociali (aumento della possibilità di avere un incidente per chi si mette alla guida dopo aver fumato marijuana).

Il diminuito piacere nel tempo non conduce però ad una sospensione dell’uso di cannabis.

La cannabis può dare intossicazione, soprattutto nei consumatori occasionali che assumono la sostanza per curiosità; oltre all’effetto euforizzante ricercato dai fumatori, appaiono ansia, sospettosità ed ideazione paranoide fino al disturbo delirante, perdita della capacità critica, ritiro sociale, attacchi di panico con derealizzazione e depersonalizzazione. Tali effetti si risolvono nell’arco di 24 ore. Si può arrivare anche ad una condizione di Delirium nei soggetti in cui, a breve distanza (ore o giorni) dall’assunzione, compare un’alterazione della coscienza con ridotte capacità attentive, modificazioni cognitive come deficit di memoria, disorientamento ed alterazioni del linguaggio o presenza di disturbi percettivi con fluttuazioni giornaliere. Generalmente tale quadro si risolve con la risoluzione dell’intossicazione stessa o in un arco di tempo variabile da poche ore ad alcuni giorni. Possono presentarsi situazioni psicotiche in pazienti con anamnesi psichiatrica negativa, mentre la marijuana rappresenta il più grande fattore di rischio per pazienti che hanno sofferto di psicosi e/o disturbi affettivi maggiori prima del contatto con la sostanza. Le psicosi tossiche indotte da marijuana hanno una prognosi relativamente buona, ma quelle slatentizzate o aggravate in pazienti schizofrenici sono a prognosi infausta.


Terapia. Le reazioni di ansia e di panico sono ben controllate fornendo al soggetto sostegno e rassicurazione. Al paziente dovrebbe essere ripetutamente ricordato che le sensazioni disforiche sono prodotte dalla sostanza e che l’effetto tossico scomparirà col tempo e senza alcun intervento. A volte, potrà essere necessario sedare leggermente il paziente.

Il trattamento dell’uso cronico di cannabis è reso difficile dal fatto che vi può essere nel soggetto un’alterazione della capacità di giudizio. La persona può insistere di stare bene, a dispetto dell’evidenza obiettiva del contrario. Come nel caso di altre dipendenze da sostanze, un forte fumatore di marijuana può avere poco o nessun insight del suo stato effettivo. Poiché la maggior parte dei consumatori di droga sono convinti di essere in grado di controllare la sua assunzione, l’invito a sospendere momentaneamente l’uso della sostanza viene accolto. La maggior parte dei pazienti con sindrome cronica da cannabis (o sindrome amotivazionale) noteranno un miglioramento nella vigilanza e nell’agilità mentale durante le settimane di non uso della droga (come “uscire da una nebbia”). L’esperienza di questa chiarezza mentale può essere sufficiente a persuadere il giovane che l’uso di marijuana ha prodotto le alterazioni dello stato fisico e mentale. Se l’uso di cannabinoidi è una forma reattiva alla situazione psicosociale, la terapia familiare può essere la migliore soluzione terapeutica. Vanno affrontati con lui i problemi della devianza culturale e le difficoltà implicate nel rifiuto dei valori sociali. Il punto centrale da focalizzare dovrebbe essere il non uso della sostanza, la soluzione dei problemi psicosociali, l’innalzamento dell’autostima, lo sviluppo di attività alternative gratificanti e il riconoscimento che l’abuso di marijuana è una malattia cronica con ricadute. Il coinvolgimento dei familiari è importante come pure la partecipazione a gruppi di autoaiuto, dove presenti.


1.4.4 Allucinogeni.

Gli allucinogeni o psichedelici comprendono una dozzina di sostanze naturali ed oltre 100 sostanze sintetiche (indolamine e fenilalchilamine).

Tra le indolamine, le più note sono la psilocibina, riconosciuta in più di cento specie di funghi, e la dietilamide dell’acido lisergico (LSD). La più comune fenilalchilamina naturale è la mescalina, estratta dal peyote e da altri cactus.

Gli psichedelici sintetici comprendono le amfetamine, come la 3,4-metilendiossimetamfetamina (MDMA, ecstasy). L’MDMA è la più nota di una nuova classe di sostanze, il cui uso si è incrementato in Italia a partire dalla seconda metà degli anni ’80 soprattutto fra i frequentatori delle discoteche.


Modalità d’uso. Nelle culture preindustriali si è fatto largo uso di piante psichedeliche. In Amazzonia si impiegano tuttora a scopo religioso e terapeutico, così come nel sudovest del Messico si usano i funghi psichedelici e presso alcune tribù indiane il cactus peyote.

La massiccia diffusione di queste sostanze fu promossa, nei primi anni ’60, a partire dall’LSD, poiché la sostanza era in grado di indurre in modo istantaneo un improvviso stato di felicità, creatività in ambito artistico ed un’altrettanta improvvisa capacità nel risolvere i problemi scolastici o di lavoro. Essa fu largamente utilizzata dalla generazione degli hippies, tra gli ultimi anni ’60 ed i primi anni ’70. Questi gruppi si proclamavano contrari alle norme sociali e favorevoli all’uso di sostanze psichedeliche come mezzo di liberazione spirituale; in tal modo, sotto un’apparente cordialità e non competitività, essi erano capaci di esprimere aggressività indiretta attraverso costumi non convenzionali. L’LSD sosteneva il cambiamento scuotendo la stabilità delle percezioni, incoraggiando a mettersi in mostra ed alterando il senso di realtà. In tal modo questi soggetti, insoddisfatti di loro stessi e della loro cultura, realizzavano un mutamento nelle abitudini, negli scopi e nella visione del mondo.

Gli psichedelici venivano in passato anche somministrati in psicoterapia, in modo particolare per l’alcolismo, le nevrosi ossessive e le sociopatie, ma anche per alleviare le sofferenze dei malati terminali; si pensava allora che pericoli e complicanze di tali sostanze fossero minimi.

Gli allucinogeni vengono di solito utilizzati in maniera sporadica, solo il fine settimana. Il loro uso cronico è rappresentato da una o due assunzioni alla settimana. La maggior parte degli allucinogeni vengono ingeriti per via orale, mescolati ad altre sostanze, in forma di pillole o sciolti su di una carta assorbente che viene poi succhiata.

Fra le sostanze psichedeliche quella più potente e più conosciuta è, senz’altro, l’LSD. In generale esse producono sintomi fisici quali: aumento della frequenza cardiaca, sudorazione, rossore al volto, dilatazione delle pupille, apprezzabili immediatamente dopo l’assunzione. A sintomatologia psichica conclamata, compaiono modificazioni del pensiero, del sentimento e della percezione; le percezioni diventano insolitamente intense e dettagli, di norma insignificanti, occupano il centro dell’attenzione; sono comuni sinestesie, modificazioni dell’immagine corporea ed alterazioni della percezione del tempo e dello spazio. Sono frequenti distorsioni visive e pseudoallucinazioni, mentre sono più rare le vere allucinazioni; le emozioni risultano insolitamente intense e si modificano spesso ed all’improvviso. Sono aumentati la suggestione ed il senso di realtà e ciò può condurre ad uno stato di misticismo filosofico e religioso; l’autostima è seriamente modificata.

Durante una fase acuta di intossicazione il soggetto, pur consapevole di aver assunto la sostanza, si trova in un grave stato di panico. Si rende conto di non poter controllare l’effetto della sostanza e ne vorrebbe essere subito liberato. È quella situazione descritta come “bad trip”, caratterizzata da marcata ansia o depressione, idee di riferimento, ideazione paranoide, paura di malattia, capacità di giudizio indebolita; essa termina con l’eliminazione della sostanza che avviene in meno di 24 ore. Per ciò che riguarda le alterazioni psichiche, si va da modesti cambiamenti nelle percezioni a psicosi di lunga durata, reazioni depressive, stati paranoidi ed acting out; la manifestazione più ricorrente è, comunque, il flashback. Il flashback, di contenuto piacevole o disturbante, è un episodio caratterizzato da distorsioni visive, sintomi fisici, perdita dei confini dell’Io, intense emozioni che durano da pochi secondi ad alcuni minuti; sospendendo l’assunzione di tali sostanze, i flashback diminuiscono nel tempo per numero ed intensità, sebbene in rari casi possano perdurare per più di un anno, complicandosi con immagini e pensieri spaventosi e ricorrenti. I flashback sono scatenati da stress emotivo, alterato funzionamento dell’Io, fatica, ubriachezza, stati meditativi, ma la causa principale è il fumo di marijuana. Lo stato confusionale dovuto agli allucinogeni si manifesta con agitazione, disorientamento temporo-spaziale, paranoia, deliri e allucinazioni. I pazienti possono diventare aggressivi verso gli altri o correre il rischio di suicidarsi; ad esempio, possono compiere atti pericolosi come gettarsi dalle finestre credendo di poter volare.

Se non trattato, lo stato confusionale indotto dagli allucinogeni si risolve in 24 ore. I sintomi psicotici possono persistere anche quando la sostanza sia stata eliminata dall’organismo da lungo tempo. I pazienti con sottostante disturbo schizofrenico o disturbi dell’umore vanno più facilmente incontro ad episodi psicotici slatentizzati dalla sostanza. L’azione degli allucinogeni può anche amplificare o mascherare sottostanti conflitti psicologici. La vulnerabilità del tossicomane può comportare la presenza di diversi sintomi affettivi, nevrotici e psicotici.

Non è comune l’uso frequente o cronico di sostanze psichedeliche; la tolleranza si verifica in fretta, ma scompare dopo due - tre giorni di non uso della sostanza; non c’è dipendenza fisica, né sindrome d’astinenza, né craving; la dipendenza psichica è rara perché la reazione a tali sostanze non è sempre uguale. Si può considerare consumatore abituale di LSD un soggetto che abbia assunto tale sostanza per più di venti volte nel corso di diversi anni. Molti consumatori abituali di sostanze psichedeliche riducono la loro attività sessuale e diminuiscono gli impegni sociali, presentano disturbi comportamentali. L’uso cronico di psichedelici si verifica in genere in personalità seriamente disturbate; le complicanze psichiatriche possono manifestarsi immediatamente dopo l’assunzione della droga o con un certo ritardo, e ciò pone un problema di diagnosi differenziale. Sebbene molti tossicodipendenti non risentano dell’abuso ripetuto, esistono evidenze che soggetti con determinate caratteristiche premorbose, in particolare quelli con scarso adattamento psicosociale, precedenti psichiatrici, o storia di abuso di sostanze, vadano incontro a complicanze psichiatriche.


Terapia. Il miglior trattamento per un “bad trip” consiste nel rassicurare il paziente sottolineando che ciò che sta provando è stato indotto dalla sostanza ed è transitorio, ed è necessario tenerlo in un luogo confortevole, evitando di lasciarlo da solo e stimolandone l’attività fisica e la respirazione profonda.

Di solito non è difficile interrompere l’assunzione di sostanze psichedeliche, non essendovi dipendenza o craving; le persone che hanno avuto flashback devono evitare l’uso di marijuana o di altre droghe psichedeliche che possono slatentizzarne l’insorgenza. Il trattamento dello stato confusionale si attua attraverso la “rassicurazione” del paziente, che rimane la più importante misura da adottare. Il soggetto va protetto dalle possibili conseguenze della sua scarsa capacità di giudizio, e l’osservazione da parte dei familiari o degli infermieri, in caso di ospedalizzazione, deve essere continuativa, fino alla scomparsa degli effetti tossici.


1.4.5 Amfetamino(simili) e nuove droghe.

Le sostanze stimolanti per antonomasia sono le amine simpaticomimetiche, il cui prototipo è l’amfetamina. Gli psicostimolanti vennero usati nel trattamento della depressione, prima di essere soppiantati dagli antidepressivi triciclici e dagli IMAO negli anni ’50. La loro utilità è però fortemente limitata dalla loro tendenza a provocare dipendenza. La scarsa reperibilità delle amfetamine nelle farmacie ha condizionato la fioritura di un nutrito mercato illegale che ha portato con sé anche la sintesi di nuove molecole, definite “designer drugs”, per cui, alla fine degli anni ’80 e nel corso degli anni ’90, il mercato illegale è cresciuto in maniera esponenziale, come in maniera esponenziale sono cresciuti i consumatori di amfetamino-simili, quali la metilendiossimetamfetamina (“ecstasy”), la metamfetamina solfato (“crank”), la metamfetamina cloridrato (“crystal”).

Le sostanze amfetamino-simili sono largamente diffuse nei paesi occidentali, prevalentemente nei giovani al di sotto dei 30 anni. Per alcune delle molecole citate, in particolare, per la metilendiossimetamfetamina (MDMA), l’uso ricreazionale coincide con momenti d’incontro con altri giovani in occasione di “rave parties”, feste danzanti, dove la musica è di un genere particolare, cioè musica techno.


Modalità d’uso. Queste sostanze sono utilizzate prevalentemente per via orale, anche se in letteratura sono riportate altre modalità di assunzione, come quella inalatoria, per “sniffo” o fumo. Le amfetamine producono senso di euforia ed aumentata fiducia in se stessi. Le “designer drugs” sono state definite anche empatogene; dopo l’assunzione di MDMA, il soggetto riferisce un migliore rapporto con il proprio mondo interiore. Ovviamente il sentirsi vicini agli altri ed in migliore comunicazione col proprio mondo interiore rende conto della facilità con cui questa sostanza abbia fatto breccia nel mondo dei giovani ed in particolare nei frequentatori di discoteche dove spesso manca, a causa anche della tipologia della musica e del volume con cui viene trasmessa, qualunque possibilità di scambio. Le molecole più note di questa classe sono la MDMA (ecstasy), la MDEA (Eva), la MDA (love drug) e la MBDB (TNT). Queste ultime si ritrovano nel 5-10% delle preparazioni di ecstasy.

Ad alti dosaggi di amfetamino-simili si riscontrano segni di iperattività adrenergica: aumento della frequenza cardiaca, ipertensione arteriosa (per cui gli accidenti cardiaci sono frequenti), bocca secca e dilatazione della pupilla. Possono essere osservati comportamenti stereotipati, formicolio, irritabilità, irrequietezza, labilità emotiva e paranoia. A livello del SNC si osserva anoressia, insonnia (in realtà spesso il paziente usa amfetamine nelle prime ore del mattino) o all’opposto letargia; l’umore è soggetto a repentini cambiamenti (o apertamente euforico o occasionalmente triste e ipersensibile).

L’effetto manifesta dopo poche ore dall’assunzione. Come per le amfetamine, gli effetti psichici nella fase acuta sono euforia, eccitazione, benessere, senso di potenza, assenza di fatica, voglia di muoversi e danzare, maggior vicinanza agli altri e, sebbene più raramente e con dosaggi elevati, aumento delle percezioni sensoriali, dispercezioni visive e uditive. A differenza delle amfetamine, episodi psicotici, talora del tutto simili a psicosi con depersonalizzazione ed ideazione suicidaria, possono manifestarsi anche dopo una sola assunzione di ecstasy. In caso di overdose i pazienti possono essere irritabili, paranoici o violenti; possono verificarsi crisi di grande male, e può sopraggiungere la morte per ipertensione, ipertermia, aritmia o attacchi epilettici incontrollabili.

Il consumatore di amfetamine e simili può presentare quadri di intossicazione cronica; infatti, nonostante tali pazienti siano soliti assumere la sostanza in occasioni particolari (rave parties) e con cadenza settimanale, possono presentare, quando l’uso di sostanze diviene costante e a dosaggi elevati, effetti cronici persistenti. Si tratta di disturbi di tipo prevalentemente neuropsichiatrico, quali attacchi di panico, ansia, atteggiamenti di auto- ed eteroaggressività, episodi di depressione maggiore. Tali sostanze agiscono sulla regolazione dell’umore e del comportamento alimentare. I pazienti hanno tendenza a diminuire di peso e variare il tipo di alimenti ingeriti con predilezione per i carboidrati e per il cioccolato. Una sindrome spesso riferita ed invalidante consiste nella ridotta capacità di concentrazione e di memoria, deficit cognitivi che spesso spingono i giovani consumatori (specie se studenti) a chiedere aiuto.

Sebbene non vi siano sintomi fisici di astinenza, i pazienti che utilizzano alti dosaggi per periodi prolungati possono sperimentare sintomi quali fatica, ipersonnia, iperfagia, grave depressione del tono dell’umore (anche se per breve periodo), anedonia, disforia e craving per il farmaco.


Terapia. Non esistono trattamenti specifici per l’abuso e per la dipendenza da psicostimolanti. L’utilizzo di un programma di cura integrato è di solito la migliore via da seguire. I pazienti dovrebbero comunque essere monitorati per intervenire prontamente se la depressione dell’umore permane in quanto il rischio di suicidio, in questo caso, è elevato.


1.4.6 Inalanti.

Con il grande sviluppo dell’industria moderna c’è stata una parallela crescita nella produzione e nell’uso di sostanze, per lo più volatili, verso le quali si è diretta l’attenzione della medicina, sia per la loro possibile influenza sulla genesi di patologie professionali, sia per la loro utilizzazione come sostanze di abuso, attraverso l’inalazione dei loro vapori. Si definiscono inalanti perché hanno la caratteristica comune di produrre vapori dotati di azione psicoattiva.

L’abuso di sostanze volatili interessa un gran numero di prodotti commerciali che contengono queste sostanze nelle loro preparazioni: sono soprattutto solventi, benzine, colle e vernici. In generale molti pazienti che abusano di inalanti non sono ammessi al ricovero o agli ambulatori o comunque non vengono destinati ad alcun programma di trattamento per i problemi associati all’abuso, all’overdose o alla dipendenza da inalanti.


Modalità d’uso. I metodi utilizzati per inalare i vapori tossici sono molteplici. La modalità più comune è quella di applicare alla bocca e/o al naso un pezzo di stoffa o un batuffolo di cotone imbevuti della sostanza. L’inalazione può avvenire anche attraverso aerosol.

I soggetti più giovani usano gli inalanti più volte alla settimana ma più di frequente nel week-end. Nella grave dipendenza vi possono essere assunzioni ripetute nella giornata e periodi occasionali di dosi più elevate. Da parte di alcuni consumatori, i più esperti, vi può essere la capacità di regolare l’assunzione in modo da ottenere e mantenere per alcune ore il grado di intossicazione preferito.

Caratteristiche importanti delle sostanze volatili sono quelle di essere facilmente disponibili, poco costose e legalmente ottenibili. Il loro uso consente all’individuo di dimenticare i propri problemi e di alleviare la noia, fornendo una rapida sensazione di benessere, che si esaurisce velocemente e che non apporta significative conseguenze immediate, sebbene il consumo protratto evidentemente impedisca un normale sviluppo psichico e somatico.

Il classico utilizzatore di inalanti sarebbe un minorenne che inizia precocemente, addirittura prima dei 10 anni, in seguito passa all’uso di altre sostanze che del resto possono essere assunte insieme agli inalanti e difficilmente interrompe l’uso delle sostanze volatili. La sua famiglia d’origine è caratterizzata da disfunzioni notevoli dovute a negligenza nell’accudimento dei figli, maltrattamenti, storie di separazioni, dipendenza da sostanze compreso l’alcool. Esiste una stretta correlazione tra alcolismo dei genitori e l’abuso di inalanti nei figli. Sul piano personale si rilevano problemi di adattamento scolastico, nell’ambiente di lavoro ed uno stile di vita bizzarro. È annoiato, depresso, aggressivo, ha comportamenti antisociali e violenti e tendenzialmente appare poco integrato socialmente. L’uso della sostanza inizia attraverso la conoscenza di amici o familiari che la utilizzano, ma la scoperta degli effetti psicotropi di alcuni prodotti può avvenire casualmente. La dipendenza può instaurarsi anche nell’ambiente di lavoro per esposizione a sostanze volatili. In genere le prime esperienze vengono fatte in gruppo ma poi, e soprattutto negli adulti, la pratica viene sempre più attuata in privato.

L’effetto degli inalanti è dose dipendente: a piccole e medie dosi possono agire da stimolanti e determinano la comparsa di una lieve eccitazione, senso di benessere, disinibizione, elevazione del tono dell’umore e compromissione della capacità di giudizio; il soggetto può apparire iperattivo, irritabile e teso. Sono riferite l’insorgenza di psicosi acute e di attacchi di panico. Dosi crescenti portano alla perdita di controllo. I soggetti riferiscono allegria con riso smodato come “se qualcosa di meraviglioso stesse avvenendo”; sono presenti fenomeni dispercettivi di tipo psichedelico (illusioni e allucinazioni uditive, visive e cenestesiche). Il paziente può avvertire capogiro, sensazione di galleggiare, distorsione temporo-spaziale. Un comportamento spesso presente è quello distruttivo, con aggressività autodiretta. Gli effetti sono immediati e durano da 5 a 45 minuti dopo la cessazione dello “sniffare”. Segue poi un periodo di sonnolenza che può protrarsi per un paio d’ore.

L’esposizione acuta ad alte dosi di solventi, nella maggior parte dei casi, induce effetti a breve termine sulle funzioni cerebrali, che solitamente sono reversibili.

Sono state descritte tolleranza agli effetti delle sostanze volatili tra i consumatori più gravemente compromessi e dipendenza fisica nei consumatori cronici, con i relativi sintomi da sospensione come allucinazioni, cefalea, tremore, delirium tremens, crampi gastrici. È possibile anche una sindrome da astinenza, con inizio da 2 a 5 giorni dopo l’interruzione dell’uso, caratterizzata da disturbi del sonno, tremore, irritabilità, diaforesi, nausea e illusioni fluttuanti, ma questa sindrome non è sufficientemente documentata e sembra di scarsa importanza clinica.


Terapia. Oltre alla necessità del semplice intervento medico, una vera e propria cura medica per questo tipo di abuso non esiste.

In linea generale lo sniffare sostanze volatili è un problema di natura sociale e richiede risposte orientate in tal senso. La prevenzione può svilupparsi attraverso attività ricreative di comunità che favoriscano la salute psicofisica e lo spirito critico, rendendo inutile la scelta delle sostanze psicoattive. L’importanza di questo tipo d’intervento è ben comprensibile anche in considerazione del fatto che spesso l’uso degli inalanti non è considerato deviante nella cultura dei gruppi giovanili. Infatti al contrario di altre droghe, verso le quali i giovani possono avere barriere psicologiche in ragione della difficoltà del loro reperimento, in quanto illegali e per l’alto costo, gli inalanti riscuotono un facile successo poiché l’effetto è immediato e non duraturo, il costo è basso, la disponibilità è ampia e legale, e possono essere reperibili facilmente a casa o nell’ambiente lavorativo; i rischi, infine sono poco conosciuti e sottovalutati.



1.4.7 Sedativi, ansiolitici o ipnotici.

I sedativi, ansiolitici o ipnotici, costituiscono un gruppo di farmaci largamente prescritti dal medico generico, dallo psichiatra e da altri specialisti.

Le loro principali indicazioni terapeutiche sono rappresentate dall’insonnia, dalla rigidità e dalla spasticità muscolare, dagli episodi convulsivi e soprattutto dall’ansia, sia primaria che secondaria a disturbi fisici o mentali. Sfortunatamente, i numerosi composti introdotti nella pratica clinica dagli inizi del secolo hanno dimostrato di produrre, invariabilmente, fenomeni di tolleranza, dipendenza e abuso. Questi, in passato, si sono resi particolarmente evidenti con l’impiego su larga scala dei barbiturici, ma sono stati osservati anche con sostanze di più recente introduzione e relativamente più sicure quali le benzodiazepine, che si sono sempre più diffuse per l’efficacia, la specificità e la rapidità d’azione, la scarsità degli effetti collaterali, la notevole sicurezza e maneggevolezza, dimostrate.

Recentemente, tuttavia, l’atteggiamento nei confronti di questi farmaci ha subito un netto cambiamento, determinato dalla crescente consapevolezza e preoccupazione per i problemi legati alla dipendenza ed agli effetti collaterali del trattamento a lungo termine.


Modalità d’uso. Le modalità con cui si instaura l’abuso di sostanze ad azione sedativa, ipnotica o ansiolitica sono diverse. La più comune è rappresentata dai casi nei quali l’assunzione inizia con una prescrizione medica per problemi di ansia o insonnia occasionali, spesso secondarie a disturbi fisici o stress. L’uso si protrae nel tempo, senza modificare sostanzialmente le dosi, anche perchè i tentativi di sospensione sono invariabilmente seguiti da una ripresa delle manifestazioni ansiose e dell’insonnia o da una comparsa di sintomi di astinenza. Il paziente si convince della necessità di assumere i farmaci in maniera continuativa ed il medico spesso asseconda questo atteggiamento.

Gli effetti tossici dell’assunzione protratta di sedativi, ipnotici o ansiolitici sono più frequenti a dosi elevate o quando i farmaci sono assunti in combinazione con altri depressori del SNC, come ad esempio l’alcool. I disturbi sono maggiori nei pazienti che hanno una patologia cerebrale concomitante, anche di lieve entità. Gli anziani sono maggiormente predisposti agli effetti tossici sia per la più probabile presenza di compromissione delle funzioni cerebrali, sia per il metabolismo più lento e per la ridotta clearance renale. La manifestazione principale dell’intossicazione è rappresentata dall’ipersedazione: il paziente può lamentare stordimento, apatia, difficoltà di concentrazione, problemi con l’attenzione, la memoria e riduzione dell’efficienza prestazionale. I barbiturici, in particolare, possono produrre facilmente instabilità emotiva, diminuzione della capacità di controllare gli impulsi e delle capacità di giudizio e, più raramente, stati confusionali con livelli fluttuanti di coscienza, disorientamento, perplessità, rabbia, aggressività, paura, disturbi psicosensoriali.

Nei pazienti con disturbi d’ansia e dell’umore può essere difficile distinguere i sintomi legati all’astinenza dalla ricomparsa del disturbo trattato. Infatti, un peggioramento della sintomatologia dopo la sospensione del farmaco può rappresentare sia una ricaduta del disturbo originario sia un aumento dell’ansia per la comparsa di sintomi da sospensione. In ogni caso la sindrome da astinenza da benzodiazepine presenta alcune caratteristiche peculiari: umore disforico, irritabilità, notevole aumento dell’aggressività-ostilità e dell’impulsività, insieme a fenomeni psicosensoriali e sintomi neurovegetativi quali insonnia, vertigini, cefalea, nausea, disappetenza, perdita di peso, astenia ed estrema sensibilità alle stimolazioni ambientali.

E’ importante considerare che nei diversi disturbi mentali si presentano in misura e con modalità diverse uso improprio, abuso, ed astinenza da benzodiazepine. I disturbi d’ansia ed i disturbi dell’umore, per la loro diffusione e per la tendenza ad essere trattati con terapie farmacologiche protratte, rappresentano le categorie diagnostiche maggiormente esposte alla dipendenza da benzodiazepine. Nei pazienti con disturbi d’ansia e dell’umore che fanno uso per lungo tempo di benzodiazepine si osservano frequentemente depressione, irritabilità, aggressività, disturbi della memoria di fissazione, discontrollo degli impulsi con elevato rischio di suicidio; tuttavia, dopo la fase iniziale di aggravamento dovuta alla sindrome da astinenza, i sintomi scompaiono, l’umore migliora e i livelli d’ansia si riducono. La sospensione dei trattamenti cronici con benzodiazepine, nei pazienti con disturbi dell’umore, deve farsi in maniera graduale e quando la sindrome da astinenza si complica con tematiche autolesive, si deve ricorrere al ricovero ospedaliero.

L’uso prolungato di questi farmaci porta alla dipendenza fisica propriamente detta, senza sviluppo di craving né ricerca compulsiva della sostanza.


Terapia. Il trattamento dell’intossicazione cronica non può prescindere da un esame accurato delle condizioni mediche e dell’anamnesi psichiatrica e del contesto sociale e personale del paziente.

Importante è la valutazione dell’affidabilità del soggetto e della sua capacità di seguire le istruzioni per la riduzione dei farmaci. L’esito di ogni precedente tentativo di sospensione deve essere valutato attentamente, ed è necessario informare il paziente sui disturbi che potranno comparire durante la sospensione e sulla loro transitorietà. Spesso è indispensabile un adeguato sostegno da parte dei familiari che devono essere coinvolti nella discussione del piano terapeutico. E’ indicato il ricovero se compaiono gravi complicazioni come delirium, stati misti, depressione con propositi autolesivi.

Lo scopo fondamentale del trattamento è la sospensione dei farmaci che deve essere ottenuta mediante una riduzione graduale. La gradualità della riduzione permette di attenuare l’effetto dei fattori che possono aggravare la sindrome di astinenza e dovrebbe essere messa in atto ogni volta che l’assunzione sia durata più di due settimane. Più lenta è la sospensione, meno gravi sono i sintomi di astinenza; questi sono influenzati dalla presenza di una psicopatologia concomitante che richiede un’attenta valutazione. Bisogna anche ricordare che i fenomeni di astinenza possono durare a lungo nel tempo e che per molti pazienti, come in altri tipi di dipendenza, il rischio di ricadere nell’abuso è presente anche a distanza di anni dalla sospensione.


1.4.8 Alcool.

La natura multiforme degli effetti dell’alcool, somatici e psichici, è conosciuta fin dall’antichità, ma il concetto di alcolismo si è evoluto nel tempo, mentre l’attenzione si spostava dai poteri di questa sostanza ai problemi e danni che ne derivano. L’interesse per questa visione della dipendenza da alcool inizia solo nel Diciannovesimo secolo; da allora si sono alternate concezioni rigidamente contrapposte: medico-biologiche, che riducevano l’alcolismo alle competenze del medico interno o del neurologo, ed etico-morali, che lo sottraevano all’area medica per attribuirlo al campo della devianza sociale (come durante il proibizionismo). Con i primi anni ’60 si è assistito ad un rapido quanto rigido recupero del modello medico di malattia progressiva e irreversibile, assolutistica.

La nosografia psichiatrica con il DSM-I (1952) inizialmente ha classificato l’alcolismo fra i disturbi della personalità, considerandolo uno specifico sottotipo della personalità sociopatica; nel DSM-II (1968) ugualmente è stato considerato tra i disturbi della personalità alla stregua delle devianze sessuali. È con il DSM-III (1980) e con il DSM-III-R (1987) che i disturbi da uso di sostanze, tra cui rientrano i vari tipi di alcolismo delle classificazioni precedenti, vengono separati dai disturbi di personalità e posti su un asse diverso. La dipendenza da alcool e l’abuso di alcool sono inclusi nella categoria dei disturbi da uso di sostanze psicoattive, distinta da quella dei disturbi mentali organici indotti dall’alcool. Nel DSM-IV i Disturbi Correlati all’Alcool vengono suddivisi in Disturbi da Uso di Alcool e Disturbi Indotti da Alcool, che rispetto al passato includono un maggior numero di categorie diagnostiche (Disturbo Psicotico Indotto da Alcool, con Deliri o con Allucinazioni, Disturbo dell’Umore Indotto da Alcool, Disturbo d’Ansia Indotto da Alcool, Disfunzione Sessuale Indotta da Alcool, Disturbo del Sonno Indotto da Alcool, Disturbo Correlato ad Alcool non Altrimenti Specificato).

L’approccio complessivo all’Abuso e alla Dipendenza da Alcool è divenuto progressivamente più integrato, e all’interesse per i soli fattori sociali e culturali ed al ruolo primario del versante somatico della patologia d’organo di un tempo si è unita l’attenzione per i fenomeni psicopatologici. Entrambe le diagnosi si connotano per una modalità patologica d’uso che può manifestarsi con segni di intossicazione, incapacità di ridurne o interromperne l’uso, la perseverazione nonostante la presenza di una malattia fisica che il soggetto sa essere esacerbata dalla sostanza, nonché per una compromissione delle attività sociali o professionali correlate all’uso smodato della sostanza. Importanza crescente viene attribuita alla cosiddetta “perdita di controllo”, cioè alla comparsa di un desiderio compulsivo, irrefrenabile di assumere alcool fino a raggiungere uno stato di ebbrezza; questa condizione viene definita come “craving” , con la “centralità del bere” secondo cui nei pensieri, nelle emozioni e nelle azioni dell’individuo il bere diviene il nucleo portante della vita cognitiva e fantastica e rappresenta l’unica forma di progetto gratificante che precede ogni scopo.

A livello psichico l’elemento di maggior rilievo è il decadimento etico tipico del soggetto alcolista, che ha un esordio lento e progressivo e si manifesta dapprima solo nell’ambiente familiare, per poi rendersi evidente in ogni campo, sia in quello lavorativo, sia in quello sociale. Il deterioramento riguarda dapprima la sfera volitiva, in seguito quella affettiva, con indifferenza verso i familiari, incapacità a mantenere un’attività lavorativa stabile, perdita di ogni interesse al di fuori dell’alcool, condotte tese ad un solo obiettivo.


Terapia. Le conseguenze legate allo stato di intossicazione cronica da alcool non sono esclusivamente di ordine biologico e somatico ma coinvolgono, in modo altrettanto importante, la sfera psicologica del soggetto ed i rapporti interpersonali e sociali. La molteplice natura di questo disturbo fa sì che la terapia da porre in atto non debba essere unicamente di impronta medica, ma debba prendere in considerazione con la medesima attenzione tutte le altre variabili.

Le fasi iniziali del trattamento sono volte alla messa in atto di misure detossificanti e di disassuefazione: il primo passo è proprio l’abolizione assoluta dell’introduzione di alcool. È possibile intraprendere queste misure in ambiente ambulatoriale, ma il ricovero in reparto ospedaliero è consigliato per gestire l’eventuale comparsa di una sindrome d’astinenza e perché la degenza consente sia l’evasione del soggetto dal proprio ambiente abituale e dalle problematiche ad esso connesse, sia una più agevole applicazione delle misure profilattiche comunemente attuate in questa fase.

Parallelamente alla terapia del divezzamento e della correzione dei deficit metabolici, è necessario mettere in atto provvedimenti volti a risolvere il problema della dipendenza. Questi interventi possono essere di ordine psicoterapeutico o di ispirazione sociale: si può scegliere tra diversi tipi di terapia psicologica (colloqui individuali di sostegno, terapie di gruppo, familiari), e gruppi di ispirazione psicosociale, basati sul volontariato e sul principio dell’auto-aiuto (Alcolisti Anonimi, CAT).


1.5 Trattamento dell’abuso di sostanze.


In accordo con la natura biopsicosociale della tossicodipendenza, il trattamento di questa problematica comporta attività integrate di tipo medico, psicologico-relazionale e socio-riabilitativo. È opportuno che ogni fase del trattamento, e tutte le finalità dello stesso, si articolino su questi tre filoni per affrontare i vari aspetti della malattia e i problemi che essa pone.

Oggi esistono numerosi trattamenti efficaci delle tossicodipendenze da eroina, capaci di coprire in pratica tutte le aree di necessità dei pazienti, e abbastanza conosciuti da poter essere praticati a livello di base, in strutture di primo livello, generalmente senza la necessità del ricovero, che si pone solo per pazienti particolarmente problematici (polidipendenti, affetti da disordini mentali in aggiunta alla dipendenza). È inoltre pratica comune che un soggetto trattato con una qualche forma di terapia farmacologica riceva anche una qualche forma di trattamento psicologico individuale, di gruppo o familiare, o una forma di autoaiuto, o un intervento di tipo socioriabilitativo o assistenziale.

Tali interventi devono essere somministrati in una logica “unitaria”, da parte di una équipe multidisciplinare ed essere integrati tra loro. A questa modalità di intervento sulle tossicodipendenze si dà il nome di “Trattamento Multimodale Integrato”, che vuol dire utilizzare all’interno di un singolo ciclo di trattamento tutti gli approcci conosciuti, siano essi di tipo terapeutico, riabilitativo, socioassistenziale, per coprire tutte le aree di problema che il paziente presenta.

Il trattamento multimodale integrato va naturalmente applicato tenendo conto del grado di motivazione ed accettazione dello stesso da parte del soggetto.









Elementi del Trattamento Multimodale Integrato


  1. Attività medica:

    • controlli medici generali e infettivi (connessi all’infezione HIV)

    • disintossicazione (ambulatoriale, ospedaliera)

    • assistenza in carcere

    • trattamento con metadone: a breve termine (disintossicazione) e

a lungo termine (mantenimento)

  • trattamento con naltrexone

    • trattamento di disordini psichiatrici


  1. Attività psicologica:

    • colloqui di appoggio

    • colloqui psicoterapici

    • terapia familiare

    • gruppi di discussione/terapia


  1. Attività di assistenza sociale:

  • assistenza domiciliare

  • vitto/alloggio/sussidio

  • problemi di lavoro


  1. Attivazione di percorsi di recupero:

  • avvio a Comunità Terapeutiche per

ex-tossicodipendenti

  • gestione di attività terapeutiche residenziali pubbliche

  • sostegno a gruppi di auto-aiuto (AA, NA, CAT)




Sono i Servizi per le tossicodipendenze (Ser.T.) ad assicurare la disponibilità dei principali trattamenti di carattere psicologico, socio-riabilitativo e medico-farmacologico. Tali trattamenti possono essere elencati come segue:


Interventi di prevenzione per la riduzione del rischio. Gli obiettivi della riduzione del rischio sono quelli di base, inerenti il mantenimento in vita, e in condizioni di salute accettabili, dei tossicodipendenti. I soggetti in tale situazione praticano spesso un uso endovenoso di eroina ed altre droghe, e generalmente persistono in uno stile di vita che li fa incorrere in numerosi rischi fisici.

Le iniziative di riduzione del rischio consistono innanzitutto in un impianto del servizio finalizzato ad attrarre al trattamento i soggetti che ne sono lontani, evitando di frapporre ostacoli all’accesso al servizio, tenendo bassi i requisiti dell’accoglienza, evitando pressioni nella direzione del conseguimento della disintossicazione o verso forme di trattamento non accette al paziente. Un approccio di questo genere viene talvolta definito “a bassa soglia”. In questo contesto ha una notevole importanza il counseling, una forma di dialogo con l’utente, che si svolge in un’atmosfera di rispetto della persona così com’è, e che tenta di portare al cliente informazioni capaci di aiutarlo a modificare i propri comportamenti a rischio (sia nell’assunzione della sostanza d’abuso sia nel comportamento sessuale) e ad elaborare le situazioni difficili che incontra. Tra le attività di riduzione del rischio è quindi compresa la distribuzione di siringhe e di preservativi. Inoltre viene proposto il trattamento con metadone come uno dei pilastri della riduzione del rischio di morte per overdose da oppiacei e dell’infezione da HIV ed altre forme contagiose da siringa. Oltre al trattamento metadonico a mantenimento è stato elaborato un modello di somministrazione di metadone “a bassa soglia” che si integra molto bene in programmi di riduzione del rischio.


Trattamenti con agonisti. Questo gruppo di interventi riguarda in parte obiettivi di pura e semplice riduzione del rischio (metadone a bassa soglia), in parte trattamenti impegnativi e con finalità di recupero e riabilitazione (metadone a mantenimento), in parte finalità di disintossicazione (metadone a scalare).

Lo scopo del metadone a bassa soglia è quello di trattare il paziente che non intende smettere di usare eroina con una dose standard di metadone (intorno ai 50 mg/die) tale da inibire una eventuale crisi di astinenza, e da sottrarre il tossicodipendente alla necessità fisica di far uso di eroina. Il paziente non è soggetto agli impegni che caratterizzano gli altri modelli di trattamento con metadone, cioè non gli è richiesto di assumere il farmaco tutti i giorni né di consegnare campioni di urine.

Il trattamento con metadone a mantenimento ha invece lo scopo di ottenere l’abbandono della droga di strada e dello stile di vita correlato. Questo è possibile per le caratteristiche farmacologiche del metadone che, pur sostanzialmente simile all’eroina, ha effetti diversi da questa sostanza. Infatti gli effetti del metadone registrati dopo una singola dose orale giornaliera non producono i picchi euforici seguiti rapidamente da fasi astinenziali secondo il ciclo plurigiornaliero caratteristico dell’eroina, e sono compatibili con condizioni di normalità psichica. L’efficacia del trattamento si valuta osservando la cessazione del consumo di eroina e di altre droghe, la modificazione dello stile di vita e la riduzione dell’attività criminale. I dosaggi medi sono intorno ai 60-100 mg/die e il trattamento è di lunga durata. Si è visto che il trattamento anche temporaneo con metadone, anche isolato da altri trattamenti, tanto più se coniugato con un counseling per quanto minimo, può ridurre l’uso di eroina e aumentare la percentuale di tossicodipendenti che iniziano un trattamento riabilitativo; l’aggiunta di altri servizi psicosociali è molto utile ai fini di migliorare l’esito dei trattamenti.

Il requisito per l’ammissione al trattamento è uno stato di tossicodipendenza noto e accertato; a tal fine occorre una serie prolungata di esami, o l’osservazione dell’astinenza, spontanea o provocata attraverso il Narcan-test. Si procede alla somministrazione del metadone attraverso necessari aggiustamenti della dose, fino a conseguire quella adeguata al conseguimento del fine ricercato, la soppressione del craving. Vanno effettuati frequenti controlli urinari, che devono risultare positivi per metadone e negativi per cataboliti oppiacei. Il trattamento della eroinopatia con metadone è comunque uno dei punti più controversi della medicina delle dipendenze: da un lato ci sono quelli che affermano che il mantenimento con sostitutivi è una condizione di gran lunga migliore del mantenimento della dipendenza dall’eroina da strada; dall’altro c’è il diffuso pregiudizio secondo cui il metadone sarebbe un rimedio peggiore del male, una perversa droga di Stato, giacché porterebbe l’operatore a colludere con la parte tossicomanica del paziente, e, sdrammatizzandone l’esistenza, gli impedirebbe di “toccare il fondo” e quindi ne favorirebbe la cronicizzazione.

Il metadone è in realtà uno strumento indispensabile per fronteggiare i compiti del servizio rispetto a quei pazienti che, sebbene non riescano a stare in una condizione drug-free, possono tuttavia essere sottratti alla vita di strada. Il metadone in generale va considerato il farmaco d’elezione in casi di tossicodipendenza grave in soggetti poco motivati al cambiamento. Naturalmente esso va usato con le dovute precauzioni, per contrastare la tendenza cronicizzante che si può osservare in soggetti trattati con metadone a lungo termine, inserendo il paziente nel Trattamento Multimodale, aiutandolo psicologicamente a superare la dipendenza.

Il trattamento antiastinenziale con metadone si effettua a dosi scalari, a partire da un dosaggio idoneo a sopprimere l’astinenza, generalmente 40-50 mg/die, riducendo la dose del farmaco di 5 mg ogni tre giorni, oppure più velocemente, se le circostanze lo richiedono e le condizioni del paziente lo consentono. Alla fine del trattamento il soggetto va incontro ad un’attenuata sintomatologia astinenziale che può essere trattata con farmaci idonei. Per evitare il rischio di ricadute questo trattamento deve essere svolto in ambiente appropriato e con i dovuti supporti.

La buprenorfina è un altro farmaco potenzialmente utile per la tossicodipendenza da oppiacei, largamente testato da diversi anni e considerato molto promettente. Essendo agonista parziale dei recettori per gli oppiacei, ha elevata affinità per queste sostanze ma bassa attività oppiacea intrinseca, per cui induce un grado di dipendenza inferiore rispetto agli agonisti puri. Produce un disturbo astinenziale più modesto di eroina e metadone, ma è capace di sopprimere l’astinenza da tali sostanze e l’autosomministrazione di eroina nei soggetti dipendenti da oppioidi. Questa proprietà è la base dell’uso terapeutico. La dose giornaliera ritenuta più appropriata ai fini della sostituzione dell’eroina è intorno agli 8 mg, da assumere per via sublinguale; oppure può essere assunta una dose di 16 mg ogni 2 giorni, con evidenti vantaggi organizzativi per il cliente e per il servizio.


Trattamenti di disintossicazione (antiastinenziali). Oltre al metadone a scalare esistono altri farmaci utilizzati nei trattamenti disintossicanti. La più nota ed usata è la clonidina.

La clonidina viene somministrata alle dosi di 10-15 mcg/kg/die per via orale in tre somministrazioni. La durata del trattamento deve coprire quella dei disturbi astinenziali: almeno 4 giorni nel caso di intossicazione da eroina, 8 da metadone. A partire dall’ultimo giorno si va alla sospensione in tempi brevi, scalando rapidamente il farmaco per evitare rimbalzi ipertensivi. In generale la clonidina è un farmaco sicuro. Essa sopprime quasi tutti i sintomi astinenziali ma non il craving e le algie mioarticolari, più efficacemente trattabili con acetil-salicilato di lisina o con viminolo, sostanza che ha assunto negli anni più recenti un ruolo crescente nel trattamento farmacologico dell’astinenza da oppiacei perché produce una rapida e prolungata riduzione dei sintomi d’astinenza da oppiacei (bisogna però usare cautela in quanto tende ad essere abusato).

Nel trattamento antiastinenziale hanno poi molta importanza la situazione ambientale, il grado d’informazione sui problemi e sul trattamento, l’appoggio psicologico, condizioni che non devono essere tralasciate in alcun caso.


Trattamenti con antagonisti. Il trattamento con naltrexone è indicato nei soggetti che siano disintossicati e che desiderino prevenire la ricaduta nell’uso di droghe oppiacee. Lo scopo è quello di proteggere il tossicodipendente dall’assunzione impulsiva (cioè non programmata) di oppiacei attraverso un farmaco che li antagonizza a livello del recettore e ne annulla gli effetti euforizzanti e produttori di dipendenza.

Il naltrexone è infatti un antagonista puro degli oppiacei, dotato di un lungo tempo di occupazione del recettore (72–108 ore), di elevata potenza, e attivo per os. Per tutto il tempo in cui il paziente effettivamente assume naltrexone egli non può tornare a far uso sistematico di droghe oppiacee, ed è quindi messo in condizione di usufruire di periodi drug-free altrimenti assai difficili da conseguire. Poiché in soggetti intossicati il naltrexone scatena gravi e durevoli sintomi astinenziali, possono essere ammessi a questo trattamento solo soggetti disintossicati, ai quali si chiede che accettino le regole fissate: controllo sull’assunzione, trattamenti psicologici o socio-riabilitativi. All’atto pratico, in 4a-5a giornata dall’ultima assunzione di oppiacei (8a-10a in caso di metadone) si pratica il Narcan-test, che deve essere negativo. Si somministra quindi il naltrexone, ed è consigliabile proseguire la terapia almeno per un anno.

Per alcuni tra quelli che accettano tale trattamento il distacco dalla droga è di per sé una terapia: non presentano disturbi, non ricadono, cambiano stile di vita e mentalità, si impegnano fruttuosamente in attività valide e gratificanti. Altri soggetti hanno problemi, per cui sono necessarie forme specialistiche di trattamento psicologico o psichiatrico. Per questo gruppo di pazienti la compliance verso il naltrexone, e quindi la permanenza in trattamento, è un obiettivo non facile, e la difficoltà giunge in non pochi casi a configurare una vera e propria controindicazione al trattamento con antagonisti.


Trattamenti psicologici. La psicoterapia della tossicodipendenza è tradizionalmente considerata molto difficile. La spiegazione di tale difficoltà sta nella “profondità” del disturbo tossicomanico, che presenta marcati aspetti di tipo narcisistico, una debolezza nel nucleo della personalità, rispetto al quale la droga assume una funzione di “terapia”.

Le esperienze pratiche di trattamento psicoterapico dei tossicodipendenti in passato non sono state in genere confortanti, sia in continuità di assunzione della sostanza, sia durante trattamenti comunitari, in cui il soggetto è libero da droga, perché spesso in tali casi il soggetto si trova completamente demotivato al trattamento.

Oggi invece si ritiene che esista non solo la possibilità ma anche una concreta utilità di trattare i tossicodipendenti sul piano psicologico. Al campo delle dipendenze sono stati applicati tutti i principali approcci psicoterapici: quelli di derivazione psicoanalitica, quelli di gruppo, quelli familiari dei vari orientamenti, quelli cognitivi e comportamentisti. Al di là delle specifiche tecniche psicoterapiche, una visione psicologica del problema è essenziale in tutte le fasi del trattamento del tossicodipendente. La psicoterapia si presenta con obiettivi, tecniche e caratteristiche differenti nelle varie fasi della tossicodipendenza. Nei casi di tossicodipendenza nei quali la maturazione personale è disturbata o compromessa da problematiche di relazione interne alla famiglia, la terapia familiare-relazionale è largamente e utilmente usata. Anche esperienze di terapia di gruppo per alcolisti e tossicodipendenti trattati con metadone si sono dimostrate efficaci.


Attività socio-riabilitative. La dimensione sociale nel trattamento del tossicodipendente è complessa ed essenziale in tutte le fasi della malattia.

L’attività sociale va armonizzata con le altre sezioni professionali dell’intervento, nella logica dell’aiuto alla crescita della persona. Si possono prevedere, nella fase della eroinopatia, interventi di difesa dell’occupazione, di aiuto nelle situazioni familiari critiche. Nelle fasi successive la terapia del paziente è di solito condizionata da fattori lavorativi (minaccia di licenziamento, disoccupazione) e abitativi (mancanza di alloggio, esclusione da casa) o da problemi di famiglia, (figli istituzionalizzati, affidati) da problemi di giustizia, (processi da affrontare, pene da scontare).

Al di là di una pur necessaria attività assistenziale, inoltre, serve una riflessione di taglio sociale sul problema. Con questa affermazione si intende riferirsi da un lato alle problematiche di carattere sociale che coinvolgono le giovani generazioni e possono giocare un ruolo nel complesso determinismo dell’approccio all’uso e all’abuso di droga e alla tossicodipendenza; dall’altro ci si riferisce invece alla necessità che la società intesa come insieme di istituzioni e di comunità locali, prenda coscienza che ad essa appartiene il problema tossicodipendenza, e che ad essa compete il carico di affrontarlo, mentre troppo spesso esso viene semplicemente rimosso.


Autoaiuto. Fino a pochi anni fa, quello dell’autoaiuto è stato l’unico approccio valido alla tossicodipendenza: quando ancora non esisteva alcuna forma di trattamento farmacologico, disintossicante o sostitutivo, né alcuna teoria psicologica era tanto sviluppata da supportare un intervento che avesse una razionalità nel settore, quella di ritrovarsi insieme tra persone con lo stesso problema al fine di sostenersi reciprocamente nel cammino per uscire dalla dipendenza da sostanze era l’unica alternativa concreta.

Questa fu la ragione principale per cui Alcolisti Anonimi (AA), negli anni ’30, divenne una struttura attraverso la quale sarebbero passate migliaia di persone per un cammino di recupero, sostanzialmente separata dalle strutture ufficiali della medicina pubblica e privata. Il primo approccio di autoaiuto che si sviluppò a favore dei tossicodipendenti, all’inizio degli anni ’50 negli Stati Uniti, fu quello di Narcotici Anonimi (NA), derivante con minime variazioni dal più affermato e diffuso AA. Base comune delle due organizzazioni è quella dei “12 Passi”.

NA è presente anche in Italia, e certamente è uno degli approcci più efficaci nella lotta alle dipendenze; è un gruppo di autoaiuto, non professionale, basato sull’anonimato più rigoroso, e sulla concezione della dipendenza come malattia (contrapposta a quella della dipendenza come vizio morale da un lato e come comportamento appreso dall’altro). NA parte dal punto di vista secondo cui la persona alcolista o tossicodipendente ha perduto il controllo sul rapporto con la sostanza e sulla sua stessa vita. Nel quadro di accettazione dell’impotenza che ne deriva, AA e NA propongono all’alcolista e al tossicodipendente un “cammino spirituale” che sfocia in un “risveglio spirituale”. Da qui la trasmissione del messaggio ad altre persone sofferenti per lo stesso motivo.

Per partecipare ai gruppi dei “12 Passi” basta “il sincero desiderio di smettere”, e il rispetto delle “12 Tradizioni”, che sono le coordinate operative del gruppo. Dopo un periodo piuttosto lungo in cui, tra le iniziative professionali e la realtà dell’autoaiuto ristagnava una profonda diffidenza reciproca, da tempo si è sviluppata un’attitudine diversa, con notevoli punti di contatto, “contaminazioni” reciproche, e addirittura applicazioni professionali dei principi e dei metodi dell’autoaiuto ad iniziative professionali, e con l’accettazione da parte dell’autoaiuto del ruolo delle attività professionali per i propri membri.


Trattamento comunitario. I programmi comunitari in Italia sono condotti generalmente da organizzazioni private, laiche o religiose, complessivamente definite “privato-sociale”. Circa trenta comunità sono state poi create da strutture pubbliche e alcune di esse sono organizzate in un coordinamento nazionale.

Nel percorso di recupero di un tossicodipendente l’inserimento in comunità può corrispondere ad esigenze diverse: allontanarsi dai luoghi dove la droga è endemica e impone al paziente il suo stile di vita; allontanarsi dalla famiglia, teatro delle relazioni patologiche che sono il contesto e talvolta l’origine della tossicodipendenza; immergersi in un mondo dove le reazioni tra le persone sono caratterizzate in maniera opposta a quella “della strada”; sottoporsi ad un processo personale di cambiamento e di crescita che favorisca la maturazione personale e quindi il distacco dalla droga; recuperare un sistema di valori antitetico con quello che si è dimostrato compatibile con la vita nella droga.

Alcune comunità si richiamano ad una funzione “terapeutica”, altre rifiutano esplicitamente tale dimensione, e criticano l’uso del concetto di terapia nel campo del recupero. Queste differenze riflettono la visione specifica che ogni comunità ha della tossicodipendenza: chi la considera una malattia, cioè un fatto di rilevanza clinica individuale, può ipotizzare una terapia. Chi considera la tossicodipendenza una sorta di vizio morale è portato a vedere nella comunità prevalentemente una finalità rieducativa e di redenzione. Chi la considera prodotto di una contraddizione sociale, espressione di una società corrotta e corruttrice, mirerà alla costruzione di una situazione alternativa dove si sviluppino nuovi rapporti tra le persone e dove la vita comunitaria si ispiri a nuovi valori. Chi ha una visione complessa della tossicodipendenza, come è la grande maggioranza dei casi, fa perno intorno a certi punti critici (la terapia, il lavoro).

Molti concetti e valori sono comuni a tutte le comunità: l’idea di rifiuto della droga, l’importanza del gruppo, l’adesione al contratto terapeutico, la solidarietà, l’onestà nei rapporti comunitari. Tra le comunità italiane più note e discusse, quella di San Patrignano è un vero e proprio villaggio con alcune migliaia di abitanti, praticamente autosufficiente, dove si svolgono molte e qualificate attività produttive (allevamento, viticoltura, artigianato), ed in cui il senso generale è che il cambiamento rispetto allo stile di vita della strada (ozioso, disonesto, sfruttatore) si fonda su un processo di presa di coscienza e di responsabilizzazione, in cui il lavoro in un contesto comunitario solidale è il perno.
























2 La Doppia Diagnosi


2.1 Introduzione.


Con “doppia diagnosi” si intende una situazione morbosa in cui c’è concomitanza tra una condizione tossicomanica e un altro disturbo psichiatrico. In realtà il termine è piuttosto ambiguo per la complessità diagnostica dei soggetti che presentano un quadro di comorbilità: nella maggior parte dei casi le varie condizioni psicopatologiche si influenzano reciprocamente e i quadri risultano molto complessi.

Questi pazienti hanno esigenze particolari di trattamento, e rappresentano una sfida per le risorse terapeutiche dei clinici, perchè presentano più bassa compliance ai trattamenti e percentuali più elevate di ospedalizzazione. La creazione di servizi integrati sembrerebbe la soluzione ideale per seguire e trattare le due patologie, mentre ora vi è netta separazione dei luoghi di cura, servizio psichiatrico e per le tossicodipendenze, e questo non permette di offrire trattamenti adeguati ai pazienti con doppia diagnosi. Il modello integrato sarebbe il più adatto a pazienti con doppia diagnosi, che presentano forme acute o subacute di disturbi psichiatrici maggiori e forme di dipendenza non stabilizzata.

L’assunzione di sostanze può essere concomitante, causa o conseguenza di sintomi psicopatologici più o meno gravi, associati a compromissione del funzionamento sociale, familiare, scolastico o lavorativo.

L’uso di sostanze può nascere in risposta al disturbo psichiatrico. Ci sono pazienti con disturbo psichiatrico primario (capita spesso nella schizofrenia) che assumono sostanze a scopo autoterapico, per alleviare la sofferenza psichica causata da una psicopatologia; le sostanze compensano i deficit nell’organizzazione difensiva dell’Io del tossicomane, rappresentano un sostegno all’identità precaria del tossicomane, garantiscono una certa modulazione affettiva, favoriscono la fuga-evitamento dei conflitti e facilitano l’espressione delle proprie capacità e l’inserimento sociale. Ci sono anche pazienti con disturbo da uso di sostanze primario che sviluppano sintomi psichiatrici secondari durante l’astinenza o l’intossicazione; infatti l’uso di sostanze può causare la comparsa di una sintomatologia psichiatrica del tutto simile ad una psicopatologia primaria. Le sostanze con i loro effetti acuti e cronici sono in grado di esacerbare i sintomi psicopatologici e contribuiscono a mantenere la resistenza alla terapia.

Si arriva poi spesso a constatare come i pazienti trattati farmacologicamente per controllare quei disturbi sociali (anomalie del comportamento), che peggiorano in genere in seguito all’uso di sostanze, vadano spesso a cercarne in maggior quantità per antagonizzare gli effetti del lavoro terapeutico. Esiste dunque un’automedicazione riferita soprattutto agli effetti legati ai farmaci utilizzati con questi soggetti (effetti collaterali) ed un’automedicazione legata alle conseguenze (depressione, appiattimento, deriva sociale ecc.) che certe terapie – soprattutto i neurolettici e il metadone – inducono in queste popolazioni di utenti.

Il problema della doppia diagnosi è di forte attualità perché per molto tempo in queste situazioni complesse ha dominato la tendenza ad effettuare un’unica diagnosi basata sul quadro clinico dominante: o disturbo psichiatrico o disturbo da assunzione di sostanze. Ciò spesso ha comportato un approccio terapeutico unidirezionale con risultati inferiori a quelli attesi. Inoltre i disturbi da assunzione di sostanze in passato sono stati spesso considerati più un problema di devianza sociale che non una sindrome psichiatrica, mentre al giorno d’oggi vengono considerati a tutti gli effetti un disturbo psichiatrico. Non dimentichiamo infine che, data l’ampia diffusione nella popolazione generale dell’uso proprio o improprio di farmaci e sostanze lecite o illecite, in tutti i quadri psichiatrici si pone il problema delle condizioni subsindromiche di assunzione di sostanze.


2.2 Studi.


I primi studi sull’epidemiologia della doppia diagnosi non sono stati molto indicativi, data l’imprecisione diagnostica in gran parte dovuta al contesto in cui era valutato il paziente. Infatti se il paziente veniva valutato nei servizi specialistici per l’abuso e la dipendenza da sostanze, la diagnosi era più precisa per questi disturbi e più generica per i disturbi psichiatrici. L’opposto si verificava se il paziente arrivava per primo ai servizi di psichiatria generale. In molti studi poi erano inclusi tra i disturbi psichiatrici anche i disturbi di personalità che, dal DSM III, sono classificati a parte. Questo spiega la differenza tra gli studi pubblicati.

Tre studi recenti, condotti nella popolazione generale, hanno permesso di ottenere informazioni più precise nella doppia diagnosi, tra il 1984 e il 1992: sono l’Epidemiological Catchment Area Survey (ECA), il National Longitudinal Comorbidity Survey (NCS) e il National Longitudinal Alcohol Epidemiologic Survey (NLAES). Dallo studio ECA è risultato che circa 1/5 delle persone che hanno assunto almeno una volta una droga illecita ha poi sviluppato un disturbo da abuso/dipendenza. Inoltre è stata rilevata un’alta associazione tra abuso/dipendenza da droghe e abuso/dipendenza da alcool. Per quanto riguarda i disturbi di personalità si è riscontrato un elevato livello di comorbidità con il disturbo antisociale di personalità (più nei maschi che nelle femmine); la comorbidità con disturbi psichiatrici è elevata soprattutto per quanto riguarda lo spettro depressivo e fobico.

Lo studio NCS ha messo in evidenza una conferma per molti disturbi psichiatrici rispetto allo studio precedente: qui è stato rilevato un alto livello di comorbidità tra depressione maggiore e, rispettivamente, disturbi di abuso/dipendenza da alcool e da droghe.

L’elevata comorbidità tra depressione e disturbi da abuso/dipendenza è stato oggetto dello studio NLAES condotto nel 1992, e ha confermato l’alta frequenza di associazione tra depressione maggiore e abuso/dipendenza da alcool, cannabis e cocaina.

Un dato riassuntivo dei risultati di questi tre studi è dato dal calcolo comparativo della “odds ratio”, che esprime la probabilità di un’associazione significativa, non casuale, tra disturbi da assunzione di sostanze ed altri disturbi psichiatrici. La odds ratio è data dal rapporto tra le percentuali di associazione di un disturbo psichiatrico con un disturbo da uso di sostanze nella popolazione generale e la percentuale di incidenza dello stesso disturbo in assenza di un disturbo da uso di sostanze. Se questo rapporto è pari a 1, l’assunzione va ritenuta casuale; valori superiori ad 1 sono indicativi di un’associazione tanto più significativa quanto maggiore è il valore numerico del rapporto.



Odds ratio relativa alla doppia diagnosi in studi epidemiologici sulla popolazione generale

Studio ECA

Studio NCS

Qualunque disturbo e droghe

4,5

Psicosi non affettive ed alcool 2.2

Qualunque disturbo ed alcool

2,3

Psicosi non affettive e droghe 2.7

Schizofrenia e droghe

6.2

Disturbi fobici e droghe 2.2

Schizofrenia ed alcool

3.8

DPTS e droghe 3.2

Disturbi affettivi e sostanze

2.6

Disturbi bipolari e sostanze 4.2



Depressione maggiore ed alcool 2.6



Depressione maggiore e droghe 3.0



Un’analisi comparativa e globale dei dati pubblicati sulla doppia diagnosi permette di trarre alcune conclusioni:


2.3 Inquadramento nosografico.


La doppia diagnosi è legata all’evoluzione dei sistemi standardizzati di classificazione dei disturbi psichiatrici, ed allo sviluppo che negli ultimi anni ha avuto la nosografia dei disturbi da abuso e dipendenza da sostanze. Questo sviluppo si spiega in due modi: per il crescente impatto che la dipendenza da sostanze ha avuto nel contesto sociale, e per la consapevolezza che abuso e dipendenza da sostanze sono quadri clinici psichiatrici indipendenti. Ciò ha comportato il loro inquadramento nosografico in modo analogo a quello di altri disturbi psichiatrici, in base a eziopatogenesi, quadro clinico, diagnosi, prognosi e terapia. Il problema è che in psichiatria, al contrario di altre branche della medicina, i dati su eziologia e patofisiologia di una malattia sono disponibili solo per una limitata serie di situazioni cliniche; per questo motivo i sistemi di classificazione dei disturbi psichiatrici si basano su principi organizzatori non omogenei.

I due sistemi nosografici di riferimento utilizzati attualmente sono l’ ICD-10 e il DSM-IV. Le diagnosi effettuate con l’uno o l’altro dei due sistemi sono convertibili reciprocamente anche se la presenza contemporanea di uso di sostanze e disturbo psichiatrico viene codificata in modo diverso in essi.


Doppia diagnosi e ICD-10. La doppia diagnosi viene classificata nell’ ICD-10 nel gruppo diagnostico dei “Disturbi mentali e comportamentali dovuti all’uso di sostanze psicoattive”. Nell’ambito di quest’ampia categoria diagnostica, sono elencati dieci sottogruppi sulla base di altrettanti gruppi di sostanze (alcool, oppioidi, cannabinoidi, sedativi, cocaina, stimolanti, allucinogeni, tabacco, sostanze volatili, altre sostanze). Relativamente ad ogni sostanza sono poi previste nove sottoclassi, descrittive delle caratteristiche specifiche del quadro clinico (intossicazione acuta, uso dannoso, sindrome da dipendenza, stato di astinenza, stato di astinenza con delirium, disturbo psicotico, sindrome amnestica, disturbi residui e psicotici a inizio tardivo, altri disturbi).

Nell’ ICD-10 la comorbidità tra assunzione di sostanze e disturbi psichiatrici viene inquadrata sulla base di un principio organizzatore di tipo eziopatogenetico dove l’assunzione di sostanze viene considerata primaria e il disturbo psicopatologico secondario. Ciò fa sì che sul piano formale venga formulata sempre un’unica diagnosi, anche se in essa sono compresi entrambi i termini del quadro clinico.

In questo modo l’ ICD-10 permette l’inquadramento preciso di ogni caso di comorbidità, ma pone due problemi: 1) viene stabilito a priori un rapporto di causalità tra assunzione di sostanze e quadro psicopatologico; 2) l’abuso/dipendenza da sostanze non è considerato di per sé stesso come un disturbo psichiatrico indipendente, a prescindere dai quadri psicopatologici che ad esso possono accompagnarsi.


Doppia diagnosi e DSM-IV. Il DSM-IV si presta meglio ad un inquadramento diagnostico-nosografico della doppia diagnosi, che è inserita in questo caso nella categoria generale dei “disturbi correlati a sostanze” definiti come “Disturbi connessi all’assunzione di sostanze soggette ad abuso (compreso l’alcool), agli effetti secondari di un farmaco e all’esposizione di agenti tossici”. Questa definizione allargata include praticamente ogni sostanza suscettibile di indurre alterazioni cognitive, emozionali e comportamentali. Nell’ambito dei disturbi correlati a sostanze, nel DSM-IV vengono distinti due gruppi:

Dipendenza, abuso, intossicazione e astinenza possono essere considerati come disturbi specifici perché il loro quadro clinico e i relativi criteri diagnostici sono caratteristici dell’assunzione di sostanze.

Esistono poi situazioni più complesse in cui vi è associazione di un comportamento di assunzione di sostanze con quadri clinici non associati in modo specifico a questo comportamento. È il caso di una serie di quadri sindromici con le medesime caratteristiche degli analoghi disturbi primari classificati tra i “Disturbi indotti da sostanze”. In questo caso deve essere assolutamente accertata una relazione causale tra assunzione di sostanze e quadro clinico sindromico; la doppia diagnosi non è formulata esplicitamente anche se è implicita nella definizione diagnostica.

Nel DSM-IV sono utilizzati due principi organizzatori: il primo è eziopatogenetico e regola l’inquadramento nosografico-diagnostico dei disturbi che abbiano una causa dimostrata. Il secondo è sindromico e si basa sull’identificazione di entità morbose indipendenti, riconosciute tali solo se non causate da fattori eziopatogenetici noti, e definite ognuna da un insieme di sintomi caratteristici.

Quindi il DSM-IV utilizza un criterio gerarchico di classificazione dove il criterio eziopatogenetico è prioritario rispetto al criterio sindromico ed è preferibile evitare le diagnosi multiple. Infatti si afferma che, quando un disturbo mentale dovuto a una condizione medica generale o un disturbo indotto da sostanze è responsabile dei sintomi, questa condizione è incompatibile con la diagnosi del corrispondente disturbo primario con i medesimi sintomi.

Questa procedura di classificazione e diagnosi ha una sua logica interna ed è coerente con la priorità terapeutica, e teoricamente dovrebbe limitare le condizioni di doppia diagnosi. Il problema principale però, nella clinica, è stabilire se un quadro sindromico è causa o conseguenza dell’assunzione di sostanze: nel primo caso è giustificata una doppia diagnosi, nel secondo no. In molte situazioni cliniche, purtroppo, il problema gerarchico non è di facile soluzione e la doppia diagnosi viene formulata in modo estensivo e diffuso.


2.4 Quadri subsindromici.


Esiste una vasta gamma di situazioni inquadrabili nell’ambito della doppia diagnosi di evidente interesse clinico anche se non rispondono agli stretti criteri diagnostici richiesti dai sistemi standardizzati.

Una prima situazione è quella di abuso/dipendenza da sostanze riferita in anamnesi ma non più attuale nel momento che viene effettuata una diagnosi per un disturbo sindromico psichiatrico; in altre parole, una storia di abuso/dipendenza può aver condizionato indirettamente l’insorgenza dell’attuale sintomatologia, come una storia pregressa di uso di sostanze può condizionare la risposta alle terapie per il disturbo psichiatrico di base.

Una seconda situazione si verifica quando, in concomitanza con una diagnosi psichiatrica sindromica attuale, vi è un’assunzione di sostanze che può influire sul quadro psicopatologico attuale e sul suo decorso, ma che non ottempera ai requisiti minimi richiesti dal DSM-IV per un inquadramento nei disturbi da uso di sostanze.

Una terza situazione è quella di abuso/dipendenza da sostanze in concomitanza con una diagnosi di disturbo di personalità in Asse II. In senso stretto questo tipo di comorbidità non rientra nei criteri formali per la doppia diagnosi, perché essa viene presa in considerazione solo in caso di comorbidità in Asse I. D’altra parte oggi è aperto il dibattito sul significato clinico dei disturbi di personalità, da alcuni considerati forme attenuate di corrispondenti disturbi sindromici di Asse I; non vi è dubbio che, nell’ambito di ogni disturbo di personalità, la presenza o meno di abuso/dipendenza da sostanze, attuale o pregressa, può comportare notevoli differenze a livello dell’intervento terapeutico.

Nell’inquadramento diagnostico formale di casi clinici dove l’assunzione di sostanze sia subsindromica ma ritenuta rilevante, il DSM-IV offre diverse possibilità di codificazione. In molti casi di assunzione di sostanze sono concomitanti disturbi somatici, conseguenza di quest’assunzione; la patologia somatica viene allora classificata in Asse III mentre in Asse I accanto alla patologia psichiatrica sindromica può essere usata la categoria diagnostica “comportamenti maladattativi di salute che influenzano condizioni mediche” specificando il tipo di comportamento maladattativi (assunzione di sostanze). Un’altra possibilità di inquadramento nosografico di queste forme subsindromiche è data dalla categoria diagnostica “adverse effects of medication Nas”, categoria usata in caso di disturbi da uso di sostanze sottosoglia che abbiano una rilevanza clinica dove l’abuso riguarda una sostanza di regolare prescrizione medica (ad esempio, un uso improprio di benzodiazepine può rientrare in questa categoria). Un’altra possibilità di inquadrare un’assunzione di sostanze sottosoglia è l’uso dell’Asse IV del DSM, che fa riferimento ai problemi psicosociali ed ambientali, nel cui ambito può essere menzionata l’assunzione di sostanze.

Tutte queste possibilità possono facilitare il clinico nell’inquadramento formale come doppia diagnosi di quei casi dove non vi è un quadro netto di abuso o dipendenza ma dove si ritenga che un’assunzione di sostanze possa avere una rilevante importanza sul piano diagnostico e terapeutico.


2.5 Oltre la doppia diagnosi formale.


La doppia diagnosi pone una serie di problemi di carattere psicopatologico e clinico.

Il primo problema è la possibile estensione del concetto di doppia diagnosi ad altre aree di comorbidità. La principale di queste aree è la presenza contemporanea di un disturbo del comportamento alimentare e di un disturbo sindromico psichiatrico. Ciò che è rilevante per stabilire il confine tra normalità e patologia non è tanto il tipo di sostanza assunta ma le modalità formali di quest’assunzione. Tutte le considerazioni psicopatologiche, diagnostiche e patofisiologiche relative alla doppia diagnosi nel caso delle sostanze si possono fare anche per quanto riguarda il consumo di alimenti. Il caso limite è rappresentato dall’alcool, considerato da molti una sostanza alimentare e oggetto di consumo universale che è tuttavia inserito in tutte le casistiche relative alla doppia diagnosi.

Il secondo problema è in rapporto ad alcuni aspetti formali dei comportamenti di abuso/dipendenza nell’ambito della doppia diagnosi. Le modalità di assunzione di sostanze sono piuttosto variabili: ad esempio talvolta essa assume i caratteri formali della ritualità compulsiva, e la doppia diagnosi di abuso/dipendenza da sostanza e di disturbo psichiatrico sindromico rientra nella comorbidità tra un disturbo dello spettro del Disturbo Ossessivo-Compulsivo ed un altro disturbo psichiatrico.

Il terzo problema riguarda il possibile abuso/dipendenza da sostanze endogena, come nel caso del gioco d’azzardo patologico, classificato tra i disturbi del controllo degli impulsi, che si presenta con elevata frequenza in comorbidità con disturbi d’ansia e disturbi dell’umore. Varie linee di evidenza clinica e sperimentale indicano che il gioco d’azzardo patologico è associato ad un’autostimolazione periodica e ripetitiva dei sistemi endogeni della dopamina.

Il quarto problema è l’azione patoplastica delle sostanze assunte nella comorbidità della doppia diagnosi. In una corretta prospettiva di diagnosi differenziale, a livello clinico si tenta di distinguere in un panorama sintomatologico complesso quali sintomi siano dovuti all’assunzione di sostanze e quali sintomi siano una conseguenza del disturbo psichiatrico concomitante. A questo livello, tuttavia, gli studi di psicopatologia oggi disponibili sono ancora carenti.

2.6 Il problema della gerarchia diagnostica (il rapporto di causalità).


La doppia diagnosi è riferita a quella particolare situazione di comorbidità dove è presente un disturbo specifico correlato all’assunzione di sostanze e un disturbo sindromico psichiatrico ad eziopatogenesi non conosciuta. La comorbidità di due o più disturbi pone sempre il problema del rapporto che esiste tra di essi, ma la doppia diagnosi rappresenta una condizione particolare, soprattutto per le sue implicazioni terapeutiche. Possono infatti verificarsi quattro possibilità:

  1. L’associazione in comorbidità dell’assunzione di sostanze e di un disturbo psichiatrico è un evento casuale, cioè le due classi di disturbi hanno determinanti diversi ed indipendenti. Sul piano terapeutico ognuno dei due disturbi verrà trattato in modo specifico e differenziato, ma senza gerarchia di priorità ed importanza.

  2. È presente un disturbo sindromico primario, i cui sintomi caratteristici rendono il paziente più recettivo e vulnerabile all’assunzione di sostanze. Il tipo e la disponibilità della sostanza possono indurre successivamente la comparsa di un disturbo da assunzione di sostanze; è questo il modello dell’automedicazione. Vi è un solo insieme di determinanti patofisiologici, propri del disturbo psichiatrico primario. Sul piano terapeutico l’asse portante dell’intervento diventa la cura del disturbo primario; con la remissione di quest’ultimo ci si aspetta che anche il disturbo da assunzione di sostanze regredisca.

  3. Vi è rapporto di causalità accertato tra assunzione di sostanze e comparsa di un quadro psicopatologico sindromico. I meccanismi di impatto della sostanza sul SNC sono il determinante principale, mentre i meccanismi alla base del disturbo sindromico sono attivati in via secondaria. Può accadere che la sospensione della sostanza porti con sé la remissione del quadro sindromico, oppure che il quadro sindromico rimanga anche dopo l’eliminazione dell’agente esogeno. Sul piano terapeutico l’intervento principale è centrato sul disturbo da sostanze, mentre l’intervento collaterale avrà come obiettivo il quadro psichiatrico sindromico.

  4. Un disturbo-dipendenza da sostanze può avere una serie di determinanti e concause comuni. Può essere ipotizzata quindi una matrice comune nei due tipi di disturbi; la terapia sarà centrata proprio sul meccanismo patofisiologico comune.

Queste quattro possibilità possono essere riscontrate in tutti i casi dove viene effettuata una doppia diagnosi, con varia frequenza in rapporto alle associazioni possibili tra tipo di disturbo da assunzione di sostanze, tipo di sostanze assunte e tipo di disturbo psichiatrico concomitante. Teoricamente per giungere a conclusioni che possano servire da linee guida al di là della variabilità interindividuale dovrebbero essere messi a punto studi sistematici in popolazioni selezionate con adeguati gruppi di controllo per tutte le associazioni possibili della doppia diagnosi.

Alcuni studi hanno affrontato il problema esplorando alcune frequenti associazioni riscontrate nella doppia diagnosi: da questi studi si deducono alcuni criteri di massima per chiarire il rapporto di causalità nei casi in cui non sia chiaramente dimostrato.

Questi criteri sono: 1) la sequenza temporale, 2) la familiarità, 3) le caratteristiche del disturbo indotto, 4) il tipo di sostanza.

  1. La sequenza temporale. I dati della ricerca e la clinica indicano che il tipo di disturbo che si è manifestato per primo nella storia del paziente ha buone probabilità di essere considerato come primario nell’ambito della doppia diagnosi. Per stabilire la sequenza temporale bisogna però tenere conto non solo dell’episodio attuale ma di tutta la storia clinica precedente, spesso caratterizzata da manifestazioni subsindromiche che possono precedere anche di molto la manifestazione conclamata del disturbo, ma di cui bisogna tener conto per effettuare una corretta doppia diagnosi.

  2. La familiarità. In linea di massima, un’alta incidenza familiare nei consanguinei di disturbi da uso di sostanze dispone per una predisposizione genetica per questi disturbi. Una predisposizione genetica per la dipendenza da alcool, come per il tabacco, è stata dimostrata in studi familiari, gemellari e di adozione. In genere i dati disponibili suggeriscono l’importanza di una raccolta sistematica ed approfondita di informazioni a livello familiare per identificare una possibile predisposizione genetica all’abuso di sostanze. Va tuttavia rilevato che spesso questa raccolta di dati anamnestici può incontrare difficoltà per la comprensibile volontaria resistenza ad ammettere l’uso di droghe soprattutto illecite e per l’altrettanto comprensibile involontaria imprecisione nel fornire informazioni attendibili. Di conseguenza l’anamnesi familiare va considerata un fattore di probabilità ma non di certezza.

  3. Le caratteristiche del disturbo indotto. Le caratteristiche del disturbo psichiatrico di Asse I possono venire modificate dall’assunzione di sostanze in modo specifico in rapporto alla sostanza utilizzata. Ad esempio l’uso-abuso di psicostimolanti in un disturbo depressivo può dare a quest’ultimo caratteri psicopatologici di tipo misto, l’abuso di sostanze tranquillanti può conferire una connotazione depressiva ad un disturbo d’ansia. Un sovradosaggio o un’assunzione prolungata di farmaci può indurre rilevanti modificazioni della sintomatologia di base. Se un episodio psicopatologico sindromico si esaurisce con la sospensione della sostanza, esso va considerato secondario rispetto alla diagnosi principale di disturbo da assunzione di sostanze. Come è riportato nel DSM-IV, i sintomi che persistono per più di 4 settimane dopo la cessazione di un’intossicazione acuta o dopo la sospensione dovrebbero essere considerati manifestazioni di un disturbo mentale indipendente non indotto da sostanze.

  4. Il tipo di sostanza. Nel DSM-IV sono riportati due disturbi dove l’unica causa è legata all’assunzione di sostanze, sono due disturbi specifici il cui quadro clinico si sovrappone ad un’eventuale psicopatologia preesistente: intossicazione da sostanze e astinenza da sostanze. I relativi quadri clinici sono relativamente specifici per ogni sostanza e sono in genere facilmente diagnosticabili.



2.7 Disturbi di Personalità.


Formalmente i disturbi di personalità, in quanto appartenenti all’Asse II del DSM-IV, non dovrebbero essere inquadrabili nella doppia diagnosi. Tuttavia l’alta frequenza di queste manifestazioni nell’abuso/dipendenza da sostanze rende necessarie alcune considerazioni.

La capacità di sperimentare vissuti depressivi o disforici potrebbe costituire nei tossicodipendenti con disturbi in Asse II un indice predittivo di buona risposta ai trattamenti convenzionali. Oltre alle motivazioni di insight legate all’intensità ed alla consapevolezza della natura morbosa dei deragliamenti depressivi e disforici, è valorizzato in senso prognostico anche il grado di sviluppo di relazioni oggettuali e la capacità di stabilire validi e significativi rapporti interpersonali. I tossicodipendenti con disturbi di personalità in grado di sviluppare una stabile alleanza con il proprio terapeuta mostrano una migliore compliance e risposta alla psicoterapia individuale.

E’ stato anche proposto di dividere i tossicodipendenti con disturbi di personalità in due gruppi: uno con basso grado di psicopatia e buona capacità di instaurare valide relazioni oggettuali, sensibili specialmente a metodiche psicoterapiche basate sul rapporto interpersonale; l’altro con disturbi primari di personalità, principalmente di tipo antisociale, refrattario alla psicoterapia individuale e sensibile a programmi di terapia comportamentale.

Sul piano del trattamento metadonico, infine, pazienti borderline mostrano i maggiori problemi di aderenza terapeutica e richiedono nei confronti di altri pazienti dosaggi di stabilizzazione più elevati.


2.8 L’ipotesi dell’automedicazione.


L’ipotesi interpretativa della doppia diagnosi come conseguenza di un’automedicazione impropria prevede che un paziente psichiatrico possa assumere delle sostanze al di fuori di una prescrizione medica per alleviare la sofferenza soggettiva e le alterazioni di funzionamento che il suo disturbo comporta. La riduzione della sofferenza agirebbe poi come rinforzo e porterebbe all’assunzione ripetuta della sostanza fino a creare un disturbo da uso di sostanze in comorbidità al disturbo psichiatrico di base.

Il modello dell’automedicazione può essere visto a tre livelli:

  1. il primo livello si basa sulla dicotomia tra stati di inibizione e di iperattivazione del SNC: una depressione dell’attività nervosa potrebbe portare all’assunzione di sostanze stimolanti, un’iperattivazione potrebbe indurre l’assunzione di sostanze ad azione sedativa;

  2. il secondo livello è più preciso, ed ipotizza che il comportamento di ricerca e di assunzione di una sostanza sia motivato da una carenza di un’analoga sostanza presente fisiologicamente nel SNC: l’assunzione di una sostanza avrebbe così una funzione compensatoria. L’uso di psicostimolanti come la cocaina e le amfetamine può trovare un utilizzo autoterapeutico in alcune condizioni depressive dove ci sia un’ipofunzione dei sistemi DA e NA; un’azione dopaminergica indiretta è data anche dalla nicotina e dalla caffeina, e questo spiega il frequente abuso di queste sostanze nelle situazioni sopra indicate. Il modello dell’automedicazione può essere applicato anche alle sostanze ad azione diretta o indiretta sul sistema GABA, che risulta deteriorato nel caso dei disturbi d’ansia; in questo caso le benzodiazepine sono considerate l’intervento autoterapeutico di elezione, ed è frequente anche l’utilizzo di alcool. Gli oppiacei possono rientrare in alcuni casi nel modello dell’automedicazione, soprattutto nei disturbi dell’umore;

  3. il terzo livello si basa sull’ipotesi dell’imprinting: essa postula la possibilità che un evento di separazione o perdita, intervenuto in una fase di evoluzione del cervello, abbia modificato il normale sviluppo di alcuni sistemi recettoriali (in particolare quelli degli oppioidi). Questo si tradurrebbe in una difficoltà a realizzare stabili legami di attaccamento e in un rilevante livello di sofferenza soggettiva comune a questa difficoltà. L’assunzione di oppioidi o di altre sostanze compenserebbe al deficit funzionale del sistema endogeno.

Il modello dell’automedicazione è stato il primo ad essere proposto nell’ambito del problema disturbo primario – disturbo secondario della doppia diagnosi. Generalizzando si potrebbe considerare ogni abuso di sostanze come la conseguenza di un disturbo psicopatologico. Se così fosse la terapia dei disturbi da uso di sostanze dovrebbe essere solo quella del disturbo psichiatrico di base, ma studi longitudinali hanno dimostrato che in molti casi l’assunzione di sostanze precede la comparsa del disturbo psichiatrico e che quest’ultimo regredisce ad una certa distanza di tempo dalla sospensione della sostanza. In ogni caso va tenuto presente che l’ipotesi dell’automedicazione va criticamente valutata alla luce del tipo di sostanza oggetto di abuso, soprattutto per la differente tendenza a dare fenomeni di dipendenza. Tanto più gravi sono i fenomeni di tolleranza e di craving tanto è più probabile che l’automedicazione, pur avendo giocato un ruolo iniziale, abbia successivamente perso il suo peso e la sua importanza.


2.9 L’approccio dimensionale alla doppia diagnosi.


La doppia diagnosi è un termine nato nell’ambito della nosografia e della diagnostica categoriale, che identifica e definisce entità morbose discrete ed indipendenti sulla base dell’eziopatogenesi, della patofisiologia e dell’anatomia patologica. Quando questi dati non sono disponibili, come avviene spesso, le entità morbose sono identificate su base sindromica; talvolta le entità sindromiche permettono di identificare i meccanismi patofisiologici su cui si basano.

I sistemi di classificazione attuali dei disturbi mentali hanno sempre più moltiplicato il numero delle possibili categorie diagnostiche, e questo ha comportato vantaggi e svantaggi. Il vantaggio principale è la definizione precisa ed operativa dei confini di ogni disturbo, mentre tra gli svantaggi c’è l’eccessiva frammentazione di quadri clinici unitari, con la crescente difficoltà di identificare meccanismi patogenetici specifici per ogni disturbo.

Inoltre una classificazione categoriale introduce il concetto di comorbidità nei quadri clinici complessi ponendo problemi di gerarchia diagnostica. Svantaggi e vantaggi della classificazione categoriale si manifestano spesso nel caso particolare di comorbidità costituito dalla doppia diagnosi. Vi è allora un altro approccio alla psicopatologia che può essere più utile a livello clinico: è quello dimensionale, che si basa sull’ipotesi che alla base dell’ampio spettro dei sintomi psichiatrici ci siano alcune dimensioni psicopatologiche fondamentali, che si manifestano con peso diverso. Una dimensione psicopatologica può essere identificata sulla base dell’osservazione clinica; ad esempio l’osservazione e la descrizione di un numero sufficientemente elevato di pazienti con comportamenti e vissuti aggressivi permette l’identificazione di un complesso di sintomi che sono espressione comune di una dimensione rappresentata dall’aggressività-ostilità. Questa può essere considerata una dimensione psicopatologica presente con vario peso in tutto lo spettro dei disturbi psichiatrici categoriali.

L’identificazione delle dimensioni psicopatologiche trova conferma nelle analisi statistiche fattoriali dove, partendo dalle valutazioni ottenute da rating scales o da questionari utilizzati su ampi gruppi di pazienti viene estratto un ridotto numero di variabili, identificate come altrettante dimensioni psicopatologiche.

Il metodo è stato usato con successo identificando le dimensioni psicopatologiche che sottendono a disturbi dello spettro depressivo, schizofrenico, bipolare e dei disturbi d’ansia. Il risultato di un’analisi dimensionale permette in ogni paziente di avere il peso relativo di ogni dimensione psicopatologica, a prescindere dal suo inquadramento nosografico categoriale. Ogni quadro clinico nella prospettiva dimensionale è caratterizzato da una combinazione delle principali dimensioni psicopatologiche, dove tuttavia una o più dimensioni possono assumere un carattere dominante.

L’analisi e la valutazione dimensionale possono essere applicate anche nel caso della doppia diagnosi, dove coesistono una diagnosi di abuso/dipendenza da sostanze ed una psicopatologica sindromica. E’ difficile stabilire rapporti significativi tra questi due gruppi diagnostici, ma il problema si può semplificare se nell’ambito dei comportamenti di abuso di sostanze viene identificato un comune denominatore, un insieme di indicatori clinici della tendenza all’uso improprio, all’abuso ed all’assunzione ripetuta di sostanze. In sintesi, è una dimensione psicopatologica specifica che spinge ad assumere ripetutamente sostanze per modificare i propri stati cognitivi o emozionali, per ridurre condizioni di malessere soggettivo o anche semplicemente indurre sensazioni di piacere o di benessere.

L’approccio dimensionale alla doppia diagnosi presenta vari vantaggi sia sul piano della ricerca che su quello della clinica. In presenza di quadri clinici complessi, come nel caso della doppia diagnosi, la dissezione dimensionale permette di ipotizzare o identificare i meccanismi patofisiologici delle varie dimensioni e le loro possibili interazioni, indirizzando così la terapia. Nell’approccio dimensionale non sono postulati criteri di dipendenza tra le varie dimensioni. Nel caso di pazienti con doppia diagnosi, nella descrizione dimensionale del caso non vi è più un disturbo primario ed un disturbo secondario, ma semplicemente una dimensione psicopatologica che è più evidente di un’altra. Ciò ha conseguenze sul piano terapeutico perchè l’intervento sarà in funzione dello spettro dimensionale del caso clinico e non in funzione del disturbo principale e di quello da esso derivato.


2.10 Patofisiologia e psicopatologia.


Le ricerche sui disturbi da abuso/dipendenza da uso di sostanze sono ancora poco numerose rispetto alle ricerche sulle grandi sindromi psichiatriche, per il relativamente recente inquadramento dei disturbi da abuso come disturbi psichiatrici.

Evidenze cliniche e sperimentali indicano che esiste una vulnerabilità individuale all’abuso/dipendenza da sostanze, condizionata da determinanti biologici cerebrali. Tutti gli studi epidemiologici condotti sulla popolazione generale concordano nel dimostrare che l’esposizione saltuaria a sostanze classificate come illecite porta a condizioni cliniche di abuso/dipendenza in una minoranza di casi (circa il 15-20%). In altri casi l’assunzione di sostanze ha continuato a verificarsi in modo saltuario ed occasionale senza configurarsi in una diagnosi di abuso/dipendenza. Inoltre la presenza di un disturbo psichiatrico sindromico aumenta lo probabilità di una dipendenza/abuso da sostanze. Queste osservazioni indicano che esiste un rischio biologico (e una trasmissione genetica) per la dipendenza/abuso da sostanze condizionato geneticamente e modellato da fattori interagenti. Numerosi studi sperimentali hanno messo poi in evidenza il ruolo fondamentale dello stress attraverso l’azione ormonale; condizioni di stress acuto potenziano la ricerca di sostanze psicoattive, e condizioni di stress cronico tendono a mantenere attiva questa ricerca.

Le prospettive più interessanti di queste ricerche sono a livello terapeutico. Oggi la terapia in caso di doppia diagnosi è ancora ad un livello relativamente primitivo, in quanto ci si limita ad interventi specifici per ognuna delle due diagnosi più o meno variamente integrati (è una conseguenza dell’inquadramento diagnostico categoriale). Nella prospettiva dimensionale l’intervento viene modulato in funzione del peso relativo delle varie dimensioni psicopatologiche, della loro patofisiologia e dei possibili determinanti comuni coinvolti nella doppia diagnosi. Ma si aprono, almeno sul piano teorico, altre interessanti prospettive: ad esempio, la manipolazione farmacologica degli ormoni dello stress può essere un possibile intervento aggiuntivo in funzione del profilo dimensionale. In generale, il trattamento psicofarmacologico della doppia diagnosi si propone come un intervento efficace e sicuro, capace di controllare i sintomi di quadri psicopatologici ben più gravi del solo abuso/dipendenza da sostanze.















3 Un’esperienza pratica:
riabilitazione nella Doppia Diagnosi


3.1 Introduzione.


Durante la preparazione della mia Tesi di Laurea ho svolto un periodo di tirocinio presso la Comunità Terapeutica di Doppia Diagnosi “Castore e Polluce”, dove per la prima volta mi è stato possibile entrare in contatto con una realtà, quella delle tossicodipendenze, varia e diversa dalle altre esperienze che ho svolto nel corso dei miei studi.

All’inizio mi sono limitata ad osservare l’ambiente e le persone che ci vivono e lavorano, ma con il tempo ho imparato a sentirmi parte integrante della Comunità e a prendere parte alle attività terapeutiche. I momenti che ricordo con più piacere sono comunque quelli in cui, seduta nella sala comune insieme ai ragazzi, abbiamo parlato dei più svariati argomenti: politica, letteratura, arte, e anche esperienze personali.

La mia impressione più forte è che queste persone si avvicinino agli altri con il desiderio di comunicare quello che hanno dentro e che spesso non riescono ad esprimere a parole, non riescono a far capire. Si sono avvicinati a me per parlare e io li ho ascoltati, ricavandone un’insieme di storie affascinanti e anche divertenti. Ho così scoperto la loro ricchezza intellettuale e personale, un ottimo punto di partenza per iniziare il lavoro di riabilitazione.


3.2 La Comunità Terapeutica.


Nel corso degli ultimi trent’anni la Comunità Terapeutica si è affermata come uno dei trattamenti più importanti per pazienti con dipendenza da sostanze psicoattive.

La Comunità si presenta idealmente come un luogo di contenimento, che favorisce nello stesso tempo un buon livello regressivo protetto per affrontare il lavoro riabilitativo. Essa permette di vivere insieme esperienze comuni, salvaguardando contemporaneamente l’individualità di ciascuno, favorendo il piacere dell’avvicinamento senza causare spiacevoli sensazioni di invasione.

La Comunità Terapeutica è una struttura retta da norme precise, che divengono i confini entro cui avviene l’intervento educativo; perché si arrivi a questo è fondamentale il ruolo del gruppo, la cui collaborazione attiva permette la valutazione globale e il monitoraggio del percorso terapeutico dell’utente. Per quanto la struttura non sia deputata ad affrontare emergenze ed acuzie (per cui sono competenti l’SPDC e la Clinica Psichiatrica), provvede a tutto ciò che riguarda la gestione del paziente psichiatrico cronico che presenta in aggiunta una problematica di dipendenza patologica. Il gruppo di lavoro ha così la possibilità di integrare pienamente le diverse competenze professionali. La presenza dello psicologo e dello psichiatra permette il lavoro terapeutico con i famigliari e la conduzione di gruppi di sostegno per gli utenti stessi, mentre gli operatori garantiscono loro un sostegno quotidiano psico-educativo.


3.3 La presa in carico.


Gli utenti che arrivano alla Comunità Terapeutica mostrano una certa omogeneità sotto il profilo sociale; circa la metà proviene da famiglie disgregate, la maggior parte ha difficoltà lavorative ed ha preso parte ad attività criminali in qualche momento della sua vita. Anche i profili psicologici ottenuti con strumenti standard sembrano notevolmente uniformi; ansia e depressione sono solitamente elevate in modo patologico e i punteggi di socializzazione sono scarsi.

La maggior parte dei pazienti che entrano in trattamento presenta un disturbo di Asse II: i disturbi di personalità, specialmente il disturbo borderline, sono prevalenti su quelli psicotici. I programmi comunitari danno un’attenzione particolare alle differenze individuali degli utenti per garantire una maggior flessibilità del programma stesso riguardo alla durata e alla struttura della permanenza. Le caratteristiche psichiatriche degli utenti richiedono inoltre un regime psicofarmacologico e minore pressione lavorativa, sia individuale che di gruppo; infatti questi soggetti tendono più degli altri ad interrompere il percorso comunitario, ad agire in modo autodistruttivo, richiedendo trattamenti insoliti e speciali.

Gli utenti interessati al progetto riabilitativo di Doppia Diagnosi nella maggior parte dei casi fanno ingresso direttamente in Comunità Terapeutica, provenienti dai Ser.T. e dai servizi di Salute Mentale, dopo colloqui preliminari con lo psichiatra ed altri membri dell’equipe, tesi a stilare una diagnosi, dopo un’osservazione adeguata alla persona osservata, definendo così una progettazione personale efficace per la riabilitazione e il miglioramento della vita dell’utente.


3.4 Organizzazione del lavoro.


I tempi di permanenza in Comunità Terapeutica e di reinserimento socio-lavorativo per quanto riguarda gli utenti con Doppia Diagnosi sono sicuramente diversi rispetto a quelli con problemi di dipendenze patologiche ma esenti da altre diagnosi psichiatriche. Per un esito positivo del trattamento di pazienti doppia diagnosi è necessario l’intervento simultaneo sia sull’aspetto tossicomanico sia su quello psichiatrico.

Essi vengono prevedibilmente seguiti nel lungo periodo, ma la programmazione temporale deve comunque essere elastica e direttamente proporzionale alla compromissione sociale, mentale e fisica di ciascuno, determinata dal grado e dalla severità del Disturbo da Uso di Sostanze e in base alla diagnosi psichiatrica. In generale viene prevista una permanenza in Comunità tra gli otto mesi e i due anni, a cui segue un periodo per il reinserimento sociale.

Per realizzare un intervento terapeutico adeguato per queste problematiche è necessario stabilire alcuni principi tecnici:


3.5 Il “Progetto Uomo”.


Il “Progetto Uomo” è un programma terapeutico, nato come risposta alle problematiche della tossicodipendenza; è stato elaborato su precedenti esperienze internazionali, e pone al centro della sua attenzione l’uomo nella sua globalità. Il processo di crescita del singolo, supportato da strumenti psicopedagogici, promuove la presa di coscienza della dipendenza da sostanze stupefacenti come negazione della possibilità di costruzione della propria personalità. La presa di coscienza di sé, unita al lavoro fisico e psichico, contribuisce all’acquisizione di una stima reale di sé stessi, attraverso lo sviluppo dell’autonomia e delle potenzialità dell’individuo. Ciò promuove il ripristino delle relazioni sociali, degli interessi culturali, sportivi e scolastici della persona stessa.

La scommessa del programma è, appunto, quella di reinserire la persona nel proprio contesto sociale, lavorativo e culturale, che precedentemente ha prodotto la dipendenza, nel tentativo di migliorarlo per quanto è possibile. Il programma “Progetto Uomo” si propone di seguire l’individuo, senza pregiudiziali, offrendo percorsi differenziati, semi-residenziali, residenziali, brevi o di sostegno, alla sola condizione che venga accettato lo stato di dipendenza e si voglia modificarlo.

I valori che sono alla base del “Progetto Uomo” sono:

Il “Progetto Uomo” discende direttamente dalla filosofia del Daytop Village (comunità fondata a New York intorno al 1960 per il recupero dei tossicodipendenti): “Se un tossicomane viene da te e ti chiede di essere aiutato, non rispondergli subito di sì. Digli di tornare il giorno dopo, in un’ora precisa, se veramente desidera il tuo aiuto. Si offenderà perché abituato ad ottenere molte cose, attraverso l’esibizione del suo bisogno di aiuto e le sue promesse di cambiare. Forse non tornerà. Se viene, tuttavia, sei partito con il piede giusto e puoi cominciare il tuo lavoro con lui”.


3.6 Il percorso riabilitativo.


Dal “Progetto Uomo” sono nati vari modelli di intervento terapeutico riabilitativo che cercano di operare con il giovane rendendolo protagonista della propria crescita, coinvolgendo dove possibile la famiglia, programmando il recupero della persona in funzione della sua totale autonomia e del ritorno nel contesto sociale di provenienza. L'obiettivo generale del percorso riabilitativo è quello di mettere l'uomo al centro della propria vita, in modo da favorire una crescita consapevole e permettergli di compiere scelte di vita responsabili, utilizzando strumenti e valori che lo aiutino a riprendere il controllo della propria esistenza.

Per assicurare all’utente tossicodipendente un efficace trattamento di recupero, la Comunità Doppia Diagnosi si è ispirata alla filosofia del “Progetto Uomo”, adattandone le caratteristiche alla realtà sociale e culturale del territorio genovese, partendo dal presupposto che per un ex tossicodipendente sia importante reintegrarsi pienamente nel contesto famigliare, lavorativo e culturale da cui proviene. Il percorso riabilitativo perciò è adeguato alla persona, al luogo e al tempo in cui si svolge. Per questo motivo, il “Progetto Uomo” è un percorso a termine, cioè ha un inizio e una fine, dopo la quale la persona lascia la Comunità per continuare la propria vita in maniera autonoma e indipendente.

L’intervento comunitario si propone di garantire un contenimento psicosociale, di ottenere una riduzione del danno e il cambiamento comportamentale rispetto allo stile di vita precedente e di stabilizzare la situazione psichiatrica risolvendo al contempo il problema tossicomanico.

Il periodo strettamente comunitario è preceduto da un percorso di accoglienza, finalizzato ai seguenti obiettivi:



3.7 Attività terapeutico-riabilitative.


Riabilitazione significa sia acquisizione di abilità mai possedute, sia riacquisizione di abilità perdute in relazione al disturbo psichico od alle sue conseguenze. La riacquisizione di abilità e gli opportuni interventi sull'ambiente di vita permettono alla persona disabile di funzionare socialmente e di reintegrarsi nella comunità, al massimo grado possibile di autonomia e di qualità di vita.

Uno degli aspetti essenziale della riabilitazione è la continuità negli interventi messi in atto. Poiché la disabilità del paziente è legata all’interazione tra cause multiple, il processo riabilitativo deve identificare, prevenire o minimizzare questi fattori, aiutando l’individuo a sviluppare ed usare le sue capacità, acquistando così una migliore stima di sé, e sperimentando il successo nelle varie mete riabilitative.

Per questo le mete riabilitative non devono essere generiche ma, passo per passo, adeguate alle condizioni del paziente, con senso realistico di ciò che è possibile ottenere. Ciò di cui la gente disabile ha prima di tutto bisogno è l’esperienza del successo. Fondamentale è quindi un’accurata valutazione del paziente ad ogni stadio del processo riabilitativo, evitando mete troppo ambiziose da parte dei curanti, ma ponendosi nell’ottica dei piccoli passi. La valutazione del paziente fatta dall’equipe riabilitativa deve tener conto del comportamento quotidiano del paziente e delle sue abilità occupazionali, delle attitudini personali, dell’ambiente sociale di vita del paziente. E’ questa la valutazione che permette di programmare il tipo di intervento e di osservarne il percorso.

In generale, la caratteristica comune delle procedure riabilitative è di muoversi su due livelli: quello psicologico del paziente con le sue reazioni e difficoltà (mondo interno) e quello della realtà esterna (mondo esterno), creando o favorendo situazioni di lavoro, di apprendimento di compiti, etc. in maniera adeguata alle possibilità evolutive del singolo. E’ importante soprattutto il lavoro, dalla cosiddetta terapia occupazionale all’inserimento in attività produttive, sia come mezzo di riabilitazione sia come meta in sé. Lo stesso vale per i programmi di apprendimento e training di capacità operative nella vita quotidiana del paziente. I programmi di riapprendimento da parte del paziente di abilità (skills training individuali) sono importanti nella riabilitazione, anche perché si pongono in circuito con il miglioramento del supporto sociale al paziente cronico; il miglioramento delle relazioni, nella rete sociale, dipende anche dal miglioramento delle capacità e competenze sociali, di capacità ed abilità lavorative e di comportamento interpersonale del paziente.

Gli operatori della Comunità seguono gli utenti in tutte le attività, con una funzione sia educativa che di contenimento e controllo.

Gli strumenti terapeutici utilizzati all’interno della Comunità sono diversi: colloqui, gruppi, laboratori, attività lavorative e ludiche (che contengono comunque aspetti terapeutico-educativi). Tali strumenti si alternano nel rapporto educativo quotidiano, permettendo non solo un efficace percorso di crescita personale, ma anche l’emergere di dinamiche di gruppo sotterranee. Nel programma terapeutico è importante che le diverse aree di intervento non siano vissute come compartimenti stagni senza prestare attenzione alla persona nella sua globalità, per non correre il rischio di un atteggiamento settoriale che si prenda carico solo di alcuni aspetti della persona che chiede aiuto. E’ essenziale, dove possibile, anche il coinvolgimento della famiglia nel percorso di recupero dell’utente, rendendola parte attiva nel recupero e risorsa primaria.

Nel corso del tempo sono stati organizzati diversi laboratori (fotografia, informatica). L’attività in palestra e la piscina sono molto valide, soprattutto intese nel processo globale di riabilitazione che prevede un innalzamento del livello di qualità di vita. Pur considerando la necessità di tempo libero e di attività ricreative personali, esse non devono assorbire tutti i momenti liberi degli ospiti dentro o fuori la struttura, piuttosto ogni attività dovrebbe essere finalizzata agli obiettivi riabilitativi da raggiungere.

Positive sono poi le uscite per le rappresentazioni teatrali ed altri eventi esterni.

Gli utenti sono divisi in tre gruppi, ognuno affidato a operatori diversi: durante il percorso riabilitativo si passa dal primo al terzo gruppo, come segno della crescita della persona. Sono previsti anche colloqui pratici sulla programmazione della giornata, che servono a ridurre le aspettative e le ansie degli utenti aiutandoli ad organizzare il loro tempo. Le attività pratiche nella quotidianità vengono concordate e modulate in base all’andamento dell’utente e vengono gestite in collaborazione con gli operatori.

3.8 Reinserimento sociale.


Il reinserimento sociale e lavorativo degli utenti rappresenta un aspetto fondamentale del progetto terapeutico, ma spesso complicato da gestire. Il soggetto in Doppia Diagnosi, tra le altre problematiche, presenta anche il doppio stigma di “pazzo e drogato”, che lo pone spesso all’ultimo posto della scala sociale. Eppure i soggetti che abusano di sostanze sollecitano un’attenzione maggiore riguardo alle loro possibilità di recuperare sul piano lavorativo, forse perché nel periodo che intercorre tra i diversi episodi di esacerbazione sintomatica molti di loro funzionano abbastanza bene. Essi possono essere aiutati a ritrovare la forza di lavorare dal semplice inserimento in un ambito lavorativo più o meno protetto.

L’obiettivo dell’ingresso (o del reingresso) nel mondo del lavoro è di permettere il ritorno dell’utente in zone non marginali della società: utili strumenti sono situazioni come appartamenti protetti e speciali opportunità di formazione al lavoro (le Borse Lavoro), non solo nell’ambito di Cooperative Sociali.

L'obiettivo generale è quello di mettere l'uomo al centro della propria vita in modo da favorire una crescita consapevole e permettergli di compiere scelte di vita responsabili utilizzando strumenti e valori che lo aiutino a riassumere il controllo della propria esistenza.


3.9 Due diverse esperienze dalla Comunità Doppia Diagnosi: Francesca e Gianluca.


Francesca (il nome è di fantasia) ha 29 anni ed è in Comunità da cinque mesi; presenta un disturbo borderline di personalità in comorbidità con dipendenza da più sostanze: cannabis, oppiacei, sedativi, ipnotici e ansiolitici. Segue un programma farmacologico con farmaci sostitutivi e antagonisti, e psicoterapico individuale di sostegno; le precedenti esperienze comunitarie sono fallite per la mancanza di motivazione della ragazza, che non è stata ancora capace di affrancarsi dalla dipendenza, anche perché manca di una progettualità autonoma: non ha idea di quello che potrebbe fare nella vita, le sue richieste sono limitate (avere le sigarette e i soldi per le piccole spese). Non partecipa molto alla vita di Comunità, i suoi rapporti con gli altri utenti sono spesso conflittuali, soprattutto perché non sa adeguarsi alle regole e non accetta che glielo si faccia notare. Svolge abbastanza bene i lavori che le vengono assegnati, anche se deve essere stimolata a farlo.

Francesca è la prima persona che incontro quando arrivo in Comunità; mi colpisce subito il suo atteggiamento: cammina a grandi passi nel corridoio chiedendo attenzioni da un operatore in modo infantile. Ha bisogno di tempo per abituarsi alla mia presenza; per diverso tempo ci limitiamo a salutarci, e quando le parlo mi risponde a monosillabi. E’ molto nervosa, con l’espressione sempre inquieta, chiede spesso di andare via dalla Comunità; quando però ci riesce, torna il giorno dopo, e rimane fuori dal cancello finché non le riaprono. Al rientro, è molto più disponibile: quando l’aiuto a sistemare le sue cose in camera, mi chiede se posso rimanere con lei a parlare. In quell’occasione le dico che quando sorride è molto più carina, e da quel momento mi ha sorriso spesso. A questo punto, al di sotto della sua “corazza” di malata ho cominciato a vedere la persona, con le sue vulnerabilità e le sue possibilità.


Gianluca (il nome è di fantasia) ha 31 anni ed è in Comunità da circa tre mesi. Ha una diagnosi di disturbo bipolare di tipo I con abuso politossicomanico.

Il mio ricordo di Gianluca è legato soprattutto ai libri: passa la maggior parte del suo tempo libero nella sala comune immerso nella lettura (o, negli ultimi tempi, nel gioco degli scacchi con il computer) mordicchiandosi le dita, ed è impossibile distoglierlo da questo ritiro quasi autistico. Per questo motivo anche con lui non è stato facile stabilire subito una relazione, perché non cerca il dialogo né la compagnia di nessuno, né ha richieste per gli operatori tranne quando è davvero necessario. All’inizio ho cercato di coinvolgerlo nella conversazione, senza molto successo, fino a quando lui stesso ha deciso di darmi fiducia e ha imparato ad aprirsi un po’ di più.

L’esperienza comunitaria nel suo caso è finalizzata soprattutto all’allontanamento da un nucleo familiare piuttosto compromesso, e gli permetterà di recuperare la capacità relazionale e di sviluppare l’autonomia necessaria perché possa vivere da solo e lavorare, cosa che fino a questo momento non è stata possibile.

Le basi per questo lavoro ci sono, il ragazzo ha diverse abilità personali, e soprattutto ha la volontà di ritornare ad una vita normale; lui stesso vive la Comunità come una parentesi temporanea e di breve durata.

Riabilitazione è …


“Riabilitazione è…

Curare la loro parte malata e lasciare vivere la loro parte sana.

Difendere il loro posto di lavoro o aiutarli a trovarne uno.

Lasciare che tutta la loro creatività venga espressa.

Inventare luoghi di socialità.

Coinvolgerli sempre su ogni questione che li riguardi direttamente.”

(Gisella Trincas)



“Dedicato agli operatori che non si arrendono di fronte alle gravi disabilità mentali e che, anzi, acquistano forza nella continua ricerca di metodi di riabilitazione sempre più efficaci, certi che il proprio lavoro potrà trasformarsi nella possibilità di una vita migliore per i pazienti, le loro famiglie e coloro che li assistono.”

(Robert P. Liberman)



“Riabilitazione è …

Parlare della malattia senza vergognarsi.

Sperimentare una vita normale.

Speranza di un futuro senza malattia.

Sentirsi protetti e uniti l’uno all’altro.

Essere più sorridente e meno triste.

Allenarsi ad affrontare le difficoltà.

Condividere la malattia con altri.

Fare cose che non sono abituata a fare.

Sentirsi sereni in mezzo agli altri”

(Gli utenti dei Centri di Salute Mentale di Pavullo, Sassuolo e Vignola)


4 Conclusioni


Il disagio psichico associato alla tossicodipendenza è una realtà riconosciuta da anni. In questi casi si parla di “doppia diagnosi”, ovvero coesistenza nello stesso soggetto di disordini psichiatrici e di problemi legati all’abuso di sostanze stupefacenti.

La comorbilità di disturbi psichiatrici e di disturbi da uso di sostanze è una situazione comune nella popolazione generale e si traduce anche in una elevata prevalenza di casi di doppia diagnosi nei servizi psichiatrici e per le tossicodipendenze. Questi casi rappresentano purtroppo una quota rilevante di fallimenti terapeutici, perché sono pazienti che spesso vengono esclusi da entrambi i tipi di servizio perché hanno anche l’“altra diagnosi”. Anche coloro che sono ammessi a frequentare un servizio ricevono in genere poco in termini di trattamento per l’altro disturbo.

Nella maggior parte dei casi i servizi prendono in considerazione esclusivamente la patologia di propria competenza, e capita di assistere ad un “palleggiamento” dei pazienti tra psichiatria e tossicodipendenze. L’argomento della disputa riguarda di solito quale sia la diagnosi primaria e, di conseguenza, dove si collochi la competenza per la cura. Spesso sono proprio i pazienti a favorire questo atteggiamento, più o meno deliberatamente, perché tendono ad evitare o minimizzare la diagnosi del disturbo psichiatrico: per alcuni è più accettabile essere tossicodipendenti piuttosto che malati di mente, mentre per questi ultimi spesso è vero il contrario.

I pazienti con doppia diagnosi hanno tassi di ospedalizzazione maggiori, sono più spesso senza fissa dimora, hanno comportamenti violenti o commettono reati, presentano scarsa compliance ai trattamenti e tendenza a comportamenti suicidari. Insomma, hanno più problemi in più settori della loro vita, con costi psicologici e sociali maggiori per se stessi, per le loro famiglie e la società. Fino a pochi anni fa non si faceva molto per integrare il lavoro terapeutico ed assistenziale in un unico sforzo per trattare entrambe le condizioni. Per fortuna ora questo atteggiamento sta cambiando, sia per una maggiore consapevolezza dei problemi di doppia diagnosi sia per il maggior numero di ricerche condotte su questo problematica, con l’avviamento di nuove metodologie di trattamento integrato che comprendano sia la malattia psichiatrica sia la tossicodipendenza, in un intervento che dev’essere individualizzato sulla base dei problemi specifici di ogni paziente, ma sempre mirando a ripristinare un benessere individuale ed un funzionamento sociale valido nella famiglia e nella comunità, ad un livello commisurato al potenziale del paziente.

L’intervento in Comunità Terapeutica è indicato per molti di questi pazienti: essa rappresenta un setting collettivo, dove le relazioni interpersonali ed i legami affettivi si possono sviluppare spontaneamente e liberamente. In Comunità sono permessi scambi che nella vita esterna sono impoveriti o mancano del tutto, si imparano le regole della convivenza, favorendo l’autocontrollo ed una maggiore responsabilità sociale; la Comunità è anche un antidoto alla passivizzazione, perché offre agli utenti una rigida strutturazione del tempo comune (si distinguono il tempo del lavoro, il tempo del sonno, il tempo libero), e conseguentemente li aiuta ad organizzare il loro tempo interno.

















Bibliografia


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V. Manna, Dipendenze patologiche da sostanze e depressione: verso un trattamento integrato multimodale, Minerva Psichiatrica, marzo 2003, volume 43/numero1


Ringraziamenti

Prima di mettere la parola fine alla mia tesi, vorrei dire grazie a tutte le persone che mi sono state vicine durante i lunghi anni di studio, e mi hanno aiutato ad essere quella che sono:

… alla mia famiglia: a mamma e papà, che non mi hanno mai fatto mancare fiducia, amore e sostegno… al mio fidanzato Paolo, perché non so cosa davvero cosa farei senza di lui … a Kitty e Davide, i miei suoceri, e a Elena, mia cognata, per il loro affetto…

… alle mie compagne di casa: a Monica, Daniela, Giusy e Raffaella, perchè mi hanno “sopportato” anche nei momenti peggiori, con malumori e acidità all’ennesima potenza…

… alle mie amiche speciali: a Giorgia, Rossella, Sabrina, Michela e Margherita, perché dopo la laurea mi aspetta un altro grande passo, e so che mi sarete sempre vicine…

… a tutti i miei amici… siete tutti nel mio cuore…

… alle mie compagne di corso che ora sono compagne anche nell’avventura della laurea: a Debora, Simona e Claudia, perché ne abbiamo passate tante insieme negli ultimi quattro anni… ragazze, non è stato facile ma finalmente ci siamo!


Vorrei inoltre ringraziare la mia relatrice, dott.ssa Anna Lunetta, e tutti gli operatori e i ragazzi del Centro di Solidarietà di Genova e della Comunità “Castore e Polluce”, che mi hanno permesso di fare una importante esperienza e di essere contenta della mia tesi.


E per finire, un ringraziamento perché il mondo è pieno di libri, film e musica… perché senza queste piccole distrazioni sarei impazzita!




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