Indice:

Fantascienza

Fantasy

Horror

Fantastico

Fiabesco

 

-Fantascienza:

"L’astro lebbroso", di Franco Enna

"Il grande ritratto", di Dino Buzzati

"Dove stiamo volando", di Vittorio Curtoni

"L’epopea", di Michele Bettini

"Vaffanculo", di Sandro Baldoni

"I segreti di Ajaif", di Claudio Tinivella

"La proposta", di Nino Filastò

"Partiranno", di Luce d’Eramo

"Ritorno alle stelle", di Stefano Cosimi

"Gli eretici di Zlatos", di Franco Forte

"I custodi", di Gloria Bàrberi

"Nel segno del serpente", di Pietro Caracciolo

"Ai due lati del muro", di Francesco Grasso

"Dagmar la terrestre", di Paolo Brera

"Motore d’anime", di Giancarlo Castello

"Terra!", di Stefano Benni

"La brigata dell’apocalisse", di Giovanna Bonsi Bresciani

"La notte dei pitagorici", di Claudio Asciuti

 

-Fantasy:

"La saga dei Virhel", di Gianni Pilo

"Gli occhi della notte", di Enzo Conti

"La dea del lago", di Tullio Bologna e Michele Martino

"Il nido al di là dell’ombra", di Renato Pestriniero

"Lo specchio di Atlante", di Bernardo Cicchetti

 

-Horror:

"Concerto rosso", di Pier Luigi Berbotto

"Maniax", di Giuseppe Arduino

"La sindrome", di Dario Argento

 

-Fantastico:

"Bàrnabo delle montagne", di Dino Buzzati

"Il segreto del bosco vecchio", di Dino Buzzati

"L'uomo è forte", di Corrado Alvaro

"Il deserto dei Tartari", di Dino Buzzati

"Anemia", di Alberto Abruzzese

"La casa di campagna", di Gilberto Coletto

"Gomorra", di Claudio Angelini

"I cani di Gerusalemme", di Fabio Carpi e Luigi Malerba

"Le nozze di Hitler e Maria Antonietta nell’inferno", di Rodolfo Wilcock e Francesco Fantasia

"L’uovo azzurro", di Gianluigi Gasparri

"La bestia", di Maurizio Enoch

"Nel solstizio del tempo", di Roberto Genovesi e Errico Passaro

"La nuova Alice", di Guido Almansi

 

-Fiabesco:

"Araj dimoniu-antica leggenda sarda", di Sergio Atzeni

"Le avventure di Pinocchio", di Carlo Collodi

 

Fantascienza

L’ASTRO LEBBROSO, di Franco Enna

"I romanzi di Urania" n. 73, ed. Mondadori, '55, "Narratori italiani di fantascienza" n. 1, ed. Libra, ‘80; © ’54, by Francesco Cannarozzo; 130, 4.000 £, prezzi remainders: 20,66, 10,33 €; 128, 186 pagine

Altri contributi critici

-"Introduzione", di Ugo Malaguti, pag. 5

 

È, questo, il primo romanzo di fantascienza italiana ad essere stato pubblicato non sotto pseudonimo.

Malaguti lo volle come primo numero di una collana che, nelle intenzioni, avrebbe potuto essere molto importante, per la nostra Sf, ma che, purtroppo, ebbe vita assai breve; infatti, dopo questo primo numero, ne uscì solamente un’altro, concludendo quindi la propria avventura decisamente prima di quanto ci si augurasse.

Vi si racconta una storia molto lineare, in un tipico stile Hard Sf, nel quale le nozioni scientifiche soverchiano di molto le motivazioni letterarie.

Un’astronave viene mandata a Saturno per debellare due minacce, una umana, un ribelle andato fin là per organizzare una rivolta, appunto, ed una astronomica; l’influsso deleterio di una cometa, la : "…lebbra radioattiva provocata dalla cometa Lamda." (pag. 82), una cometa che: "…invece di vagare da sistema solare a sistema solare in una ellissi molto prolungata, ruota attorno a Saturno come un satellite…", e che ha degli effetti, appunto, deleteri, sugli umani: "…l’influenza di Lamda è mortale, per gli organismi terrestri….provoca una stranissima, pericolosa malattia, molto simile alla lebbra, ma una lebbra radioattiva contagiosissima…" (pag. 102).

La struttura base è, anche in ragione del fatto che l’autore sia, prevalentemente, uno scrittore di gialli, quella, appunto, del giallo; evidentemente, scritto com’è alla metà degli anni ’50, ci risulta, oggi, lontanissimo al gusto, ma vi si trovano, comunque, non pochi spunti interessanti.

Ad esempio, una non poi neppur oggi così scontata dissertazione sulla stupidità dell’egocentrica concezione di uno Spazio nel quale potessimo essere gli unici abitanti: "…noi, piccoli esseri presuntuosi, ci eravamo ritenuti, fino a pochi secoli fa, i sdoli che Dio si fosse deggnato di creare a sua somiglianza.Quale presunzione!Quale infinito atto di superbia!" (pag. 39)

E, decisamente la cosa migliore che vi ho trovato, questo passo nel quale si dice del terror vacui che le vastità siderali danno all’Uomo: "…fuori dall’astronave, e sopra, e sotto, a destra e a sinistra, per milioni e milioni di chilometri, per decine di migliaia di anni luce , c’era il vuoto eterno e incolmabile.

L’orribile vuoto!

Lionel ebbe paura. Si sdegnò di quella sensazione irrazionale che sorgeva dalla sua stessa carne, ma non riuscì a comprimerla né a frenarla; non seppe neppure ragionarvi sopra un istante.

Il vuoto eterno.

Era come trovarsi al cospetto di Dio ed era lì, attorno a lui, immenso in quel vuoto, sotto forma di mondi luminosi, rappresentati dalla distanza come puntolini luminosi." (pagg. 57-58).

E, anche questa riflessione su che cosa sia l’Amore, successiva ad una, più vasta, nella quale si diceva, appunto, di spiegazioni razionali, freddamente razionali, a sentimenti ed emozioni: "Che cosa vi lega allora alla vostra Kais?… Quando un corpo entra nella zona di attrazione di un altro corpo più potente, ne resta attratto. È una delle leggi più semplici dell’universo. Kajs è stata attratta da me, o io da lei, non importa. Il fatto è che l’uno ruota attorno all’altra. Se uno dei due dovesse entrare nella sfera di attrazione di un altro corpo più potente si staccherebbe dal primo, né sarebbe logico appellarsi alla legge umana con parole grosse come tradimento, adulterio, gelosia, eccetera…. Qualunque fosse la legge alla quale il suo organismo ubbidiva, la forza di gravità che lo faceva vibrare in direzione di Ann gli dava una sensazione stranissima che lui chiamava felicità." (pagg. 107-8).

Ma, comunque, oggi, risulta una lettura decisamente stentata, difficile da seguire, visti i pochissimi, per non dire nulli, punti di contatto con ciò che, oggi, sono le nostre vite; davvero niente che ci riguardi, nel quale possiamo rispecchiare, in un qualche modo, le nostre vite quotidiane.

Nel finale, si dice di qualcosa che potrebbe essere di non-violenza, di pacifismo: "…i Terrestri che, una volta tanto, non avevano portato la guerra con sé." (pag. 186), ma davvero poco.

Ci sono delle leggerezze incredibili, tipo "…un biposto da turismo di fabbricazione americana…" (pag. 140), che se ne vola tranquillamente nell’atmosfera di Saturno.

Ma, anche, delle trovatine divertenti come "…un sorriso sturato lì per lì da una boccettina di veleno." (pag. 74), che ne sollevano decisamente il tono.

Ciò che il Malaguti dice nell’introduzione fa pensare; a quello che, in fondo, questa collana avrebbe potuto essere; e che, purtroppo, non è stata.

IL GRANDE RITRATTO, di Dino Buzzati

'60, "Narratori italiani" (4 edizioni), "Scrittori italiani e stranieri" (2 edizioni), "Oscar narrativa" n. 373, ed. Mondadori, ', ', '81; © by Arnoldo Mondadori Editore S.p.a.; 167 pagine, 2.500 £; prezzo remainders: 4,13 € (ed. "Oscar narrativa")-finalista (3) premio "Italia" ’82, miglior romanzo fantasy

 

Altri contributi critici

 

-"Introduzione", di Maurizio Vitta, pag. 5

-"Antologia della critica", con interventi di Pietro Citati, Giuliano Gramigna, Claudio Marabini, Renato Bertacchini, pag. 12

-"Invito alla lettura di Buzzati", di Antonia Veronese Arslan, "Invito alla lettura" n. 23, ed. Mursia, '74, pag. 97

-"Il fantastico nobilitato", in "Le frontiere dell'ignoto", di Vittorio Curtoni, "Saggi" n. 2, ed. Nord, '77, pag. 195

-"Il mondo come immagine", di Massimo Del Pizzo, "Future shock" n. 1, '86, pag. 1

-"Una macchina fantastica per Ceccato e Buzzati", di Giulio Nascinbeni, "Corriere della sera" del 28/12/'97

-vedi il mio "Il realismo magico di Buzzati"

 

Buzzati, come forse saprete, oltre alle sue opere più conosciute, di cui trattiamo più avanti, ha anche scritto questo romanzo, che si può senz’altro dire di fantascienza, anche se, come dice il Vitta nell’introduzione: "L’espediente dell’ambientazione fantascientifica è certamente più legato all’immediata attualità che alla riflessione pacata e bruciante sui tipici motivi della narrativa di Buzzati, ma l’interesse che lo sostiene è al fondo lo stesso." (pag. 10).

Nel bell’articolo del Nascinbeni, si dice di quale sia stato, per così dire, il fatto, di cronaca, che attizzò l’interesse di Buzzati per l’argomento che è il Novum specifico di ques’opera; la presentazione di una delle primissime macchine pensanti, ad opera di Silvio Ceccato, di cui scriverà, il 30 maggio ’64, sul "Corriere", "Il cronista meccanico comincia a muovere gli occhi".

Claudio Marabini, in "Gli anni Sessanta. Narrativa e storia", ed. Rizzoli, ’69, scrive, infatti: "S‘intuisce la suggestione subita da Buzzati da certi temi scientifici sospinti fantasticamente al limite estremo della profanazione dell’uomo come prodotto di laboratorio." (pag. 13).

E, a giudizio unanime della critica, non è certo fra le sue cose migliori, ma, ancora il Vitta, dice: ""Il grande ritratto", pur nell’esilità della sua sostanza narrativa, costituisce uno dei suoi tanti tentattivi di protendersi verso il mondo per cercare di comprenderlo attraverso i nascosti circuiti della sua sensibilità letteraria." (pag. 11)

Io, anche se concordando decisamente con quel giudizio, vi ho trovato parecchi spunti interessanti, prevalentemente tali per le loro interconnessioni con alcuni temi classici della nostra letteratura; infatti, il tema, dickiano per eccellenza, dell’umanità dei robot, della macchina costruita dall’uomo, ne è decisamente al centro, anche se, oltre ad alcuni brani in cui lo si dice appieno, poi, Buzzati, evidentemente, fa un discorso tutto suo, che ne esula alquanto.

Ma "Diversa dalla nostra (l’anima)? Perché? Che importa se l’involucro, invece che di carne, fosse fatto di metallo? Non è vivente anche la pietra?" (pag. 95), "E se un giorno il pensiero dell’automa sfuggisse ai vostri comandi e facesse da sé?" (pag. 96) e "…nel complesso era lei, però qualcosa ancora mancava, il segno, quella misteriosa essenza che fa ciascuno di noi unico al mondo." (pag. 119), potrebbero benissimo essere delle citazioni, appunto, da Dick, o Asimov.

Soprattutto l’ultima, con la quale, in qualche modo, si introduce quello che sarà il vero motivo del romanzo, che è un pensiero decisamente più sofisticato, un dire di temi umani decisamente più profondi.

La trama è incentrata su un progetto governativo mirante a costruire un computer dalle capacità illimitate, a scopi militari, ma al quale uno degli scienziati decide di…mettere l’anima di sua moglie morta.

"Era lontana, straniera, chiusa in desideri e pensieri inafferrabili…. E adesso ricomincia il supplizio. Di nuovo la sentivo vicina, palpitante, estranea e irraggiungibile." (pag. 120)

E l’aggiunta di Buzzati, che non credo conoscesse molto la fantascienza, è decisamente originale; ipotizza, infatti, dalla matrice letteraria sua, che, in un qualche modo, l’anima della defunta vada ad aggiungersi all’amalgama di umanità che le è stata inserita, con delle conseguenze sconvolgenti: "Se in questa Laura ricostruita da noi pezzetto a pezzetto, cellula a cellula, si insediasse l’anima della vera Laura, l’anima che finora vagava per la terra e per i cieli…(…)se questa Laura diventasse la autentica Laura fino in fondo, se a poco a poco ritornassero in lei i ricordi della prima vita? e i desideri? e i rimpianti? …che inferno diventerebbe allora la sua vita?" (pag. 124).

Infatti, quando la moglie di uno degli scienziati, sconsideratamente, decide di mostrarsi nuda a lei, di mostrare la sua umanità vera, di carne ed ardori, ecco che Laura ha come un collasso nervoso, se così si può dire: "Dice che vuole essere di carne. E non di pietra.……la città, la città, perché non la vedo? Dov’è la mia casa? Muovermi, perché non posso muovermi? Perché non posso toccarmi? Dove sono le mie mani? Dov’è la mia bocca? Aiuto, chi mi ha inchiodato qui? Dormivo, così quieta. Chi mi ha svegliato? Perché mi avete svegliato? Ho freddo. Dove sono le mie pellicce? Ne avevo tre. Quella di castoro, datemi almeno quella di castoro. Rispondetemi. Liberatemi…. Le gambe. Le gambe mie dove sono? Erano belle. Gli uomini, per la strada, si voltavano a guardarle. Io non capisco più, io non sono più la stessa. Cosa è successo? Mi hanno legata. Mi hanno imprigionata. Il sangue. Come mai non sento battere il sangue nelle vene? Morta? Sono morta? Ho nella testa tante cose, tanti numeri, un'infinità di spaventosi numeri, toglietemi questi orrendi numeri dalla testa che mi fanno impazzire! La testa. Dove sono i miei capelli? Lasciate almeno che possa muovere le labbra. In fotografia le mie labbra riuscivano così bene. Labbra voluttuose, avevo. Me lo dicevano tutti. Oh quella schifosa donna che mi si è appoggiata addosso stamattina. Aveva due bei seni, però. Quasi belli come i miei. I miei? Ah il corpo, io non me lo sento più. Mi par di essere di pietra, lunga e dura, mi hanno messo una camicia di ferro, oh lasciatemi tornare a casa! . " (pagg. 147-49-50).

E i ricordi, di quand’era umana, la portano a quell’inferno che si temeva possibile: "…se riesce a ricordare gli episodi di quegli anni, i giochi, le amicizie, le gite, le feste, le vacanze, i viaggi, i flirt, gli amori, i sensi, come potrà adattarsi all’immobilità assoluta, all’impossibilità di mangiare un pollo, di bere un whisky, di dormire in un morbido letto, di correre, di girare il mondo, di ballare, di baciare e farsi baciare?" (pag. 152).

L’umanesimo, tutto italiano, di Buzzati, poi, lo porta a dire, forse, qualcosa di dickiano in una maniera del tutto differente, ed estremamente toccante: "Non sono Laura, non so chi sono, non ne posso più, io sono sola, sola nell’immensità del creato, io sono l’inferno, io sono la donna e non sono la donna, io penso come voi ma non sono come voi." (pag. 162); così come, ad un certo punto, una riflessione su ciò che ciò che si stà raccontando può implicare: "…i ricordi di chi muore non svanivano nel nulla, essi vagavano nel mondo all’insaputa dei viventi, aspettando." (pag. 154).

Dunque questo romanzo, che, come altri, di Buzzati, ha la struttura, invece, del racconto, anche non essendo fra le sue cose migliori, ci offre notevoli spunti, idee, come questa definizione di uomo, che mi è parsa, nella sua, in fondo, spaventevolezza, estremamente azzeccata: "L’uomo… Nel quale con rapidità addirittura precipitosa, nel giro di pochi milioni d’anni si può dire, si è prodotta una deformazione, un caso di gigantismo, una tumescenza che quasi quasi dubito fosse compresa nel progetto iniziale della creazione, tanto va poco d’accordo con tutto il resto." (pag. 93).

"Il deserto dei Tartari", "Barnabò delle montagne" e "Il segreto del bosco vecchio", li tratto in "Fantastico", il genere decisamente più dell’autore: "Narrare è, per Buzzati, enucleare dal trascorrere indifferente del tempo un brandello di storia, della quale l’inizio e la fine rimangono necessariamente imprecisati perché inconoscibili" (Vitta, pag. 5).

DOVE STIAMO VOLANDO, di Vittorio Curtoni

"Galassia" n. 174, "Bigalassia" n. 42, ed. La tribuna, '72, '79; © by Vittorio Curtoni; 400, 1.400 £, prezzi remainders: 7,75, 4,13 €; 118 pagine

 

Altri contributi critici

 

-"Alla scoperta di noi stessi", intervista a Vittorio Curtoni, "La bottega del fantastico" n. 3, '81, pag. 28

-recensione in "Nei labirinti della fantascienza", a cura del collettivo "Un'ambigua utopia", "Universale economica" n. 879, ed. Feltrinelli, '79, pag. 67

-"La droga e il metadone", di Vittorio Curtoni, "La collina" n. 4, ed. Nord, '83, pag. 40

 

Dopobomba.

 

Un mutante senza sesso lascia il padre e va alla ricerca di Nuova Parigi, in compagnia di Ivo, questi in cerca del proprio fantasmatico fratello. Giuntovi, entra nel ghetto dei mutanti, si innamora di uno di loro e scopre la propria femminilità.

Decidono per l'operazione.

Mentre i due viaggiano alla volta del chirurgo, nel quartiere dei normali, apprendono della rivoluzione che i loro simili stanno per attuare, ma continuano.

La rivolta avviene ma è subito soffocata nel sangue.

Al ritorno lei viene presa da un raptus di misericordia cristiana, uno slancio di empatia, e corre in mezzo alla battaglia a portare soccorso; lui muore.

Rimasta sola, prima incontra l'assassino del suo uomo, poi raggiunge quella che era stata la sua dimora nel ghetto, apprendendo la morte di tutti i suoi amici, e, infine, viene violentata dal padre sulla spiaggia, attirata magicamente, per poi distruggere Ivo, rivelatosi un robot, e la sua di conseguenza falsa ricerca.

E il suicidio.

Questa, in sintesi di massima, la trama.

Quello che più colpisce, comunque, è lo stile, estremamente poetico, che, a volte, non riesce più a restare imbrigliato nelle linee regolari della prosa, e prorompe in versi veri e propri, magari non rimati, ma alquanto toccanti, come:

"Per quello che ricordo: /chilometri e chilometri di polvere; /un villaggio incontrato sul percorso; /qualche chilometro di prati; /un solo bosco senza animali; /tredici strade diverse tra cui scegliere; /la mia solitudine." (pag. 13).

"Come io adesso/sulla riva di questo mare/non conosco più bandiere." (pag. 33).

Dodici capitoletti, centosei pagine, appena appena un romanzo, l'unico, poi che il Curtoni abbia prodotto.

Narrato in prima persona, vede, in sintesi, lo svolgersi nelle pagine di un dramma umano legato, più che altro, al conflitto interiore tra interesse personale e comunitario, e questo soprattutto nel finale, ove la coppia suddetta si ritrova a dover scegliere tra continuare il viaggio e l'unirsi alla lotta, e dove, più avanti, la nuova lei sceglie per la seconda strada, con le conseguenze già accennate.

Quello che conta, però, è che in ogni pagina, in ogni riga, si ritrovino spunti e motivi di dibattito, che, per lo più, vanno a creare nel fruitore un ricchissimo bagaglio a cui molto spesso occorre attingere per poter continuare la lettura in modo decoroso. Ad esempio, ecco ciò che risponde il capo di una tribù nomade incontrata durante il viaggio di Charles e Ivo, dopo essere stato interrogato niente di meno che sul significato della vita: "È qui-mi disse Jacques-il significato della mia vita. Nel mio lavoro, nel mio campo, nei miei figli e in mia moglie; negli amici che ho e nei nemici che mi odiano. In tutte le cose che dico o faccio o vedo o penso in ogni minuto della mia esistenza" (...) "Credi in dio?" gli domandai.(...)"La morte chiude tutto"-rispose lui. "Vita e significati. Non puoi pretendere di più"" (pag. 21).

Nello stesso episodio, molto interessante la descrizione di un'usanza funebre, riguardante il comportamento femminile in quelle occasioni. (a questo proposito, interessante il volume "Morte e pianto rituale" di Ernesto de Martino, "Universale scientifica", ed. Boringhieri, '75).

Altro episodio: i due, in una città deserta, incontrano un vecchio morente, il quale, tirando gli ultimi, ha un delirio che diviene esplosone di significati riposti in lui, gettati fuori sotto forma di quattro lunghi periodi senza punteggiatura, luoghi mentali vomitati fuori all'impazzata, liberatori; sfogo liberatorio in linguaggio sciolto dalle catene della grammatica. (pag. 32-3).

Tra l'altro poco dopo leggiamo: "...muto, impenetrabile, il sole traccia le sue traiettorie e dietro di lui vengono la luna e ancora le stelle e i pianeti, e non sanno nulla di ciò che succede quaggiù", che a me ha ricordato il famoso "Canto notturno di un pastore errante dell'Asia" del Leopardi (nei "Canti").

Sempre in tema di apprendimento cognitivo, l'inizio del capitolo "Luci d'inverno": "E giù a Nuova Parigi", mi ricorda quello del racconto di Delany "Si, e Gomorra"(in "Al servizio di uno strano potere", "Robot" n. 35, ed. Armenia, '78, pag. 95), "E scendemmo a Parigi", anche per il tipo di prosa utilizzata, piuttosto simile. Le pagine 39 e 40 sono ricchissime; verso la fine della prima leggiamo: "A volte mi chiedo, e quasi sorrido di me stesso, se tutto quello che provo e sento venga realizzato da me, o non sia piuttosto imposto dall'esterno...", in cui si ripresentano dubbi epistemologici di base su ciò che si intende per reale, dubbi già espressi, più semplicemente, dal Curtoni nel suo saggio "Dove finisce la realtà"(in "La banca della memoria", "Robot" n. 30, ed. Armenia, '78, pag. 220)

Girata pagina, invece, ci ritroviamo a leggere del dubbio teologico, conseguente al primo; un dio burlone e crudele, ecco l'immagine che ne esce: "...esiste qualcosa di talmente superiore, di talmente grande da sfuggire alla nostra comprensione, che ci considera semplici giocattoli nelle sue mani fatte di spazi infiniti?".

Tirando le somme, quindi, una ricerca di un qualche tipo di trascendenza, di cui il Curtoni scrive nell'introdurre il bellissimo "Oltre Apollo" di Malzberg ("L'universo distrutto di Malzberg", "I libri di Robot" n. 6, ed. Armenia, '78, pag. 15).

A pagina 51, poi troviamo un pensiero razionale sul pensiero stesso, un contorcersi, quindi, dello stesso, seguito da un pensiero poetico-esistenzialista: "Il pensiero è l'unica vera maledizione dell'uomo, forte sulle sue spalle più di qualsiasi altro peso: vanifica la realtà, cancella i successi, immiserisce l'orgoglio."

"Come figure di carta stiamo immobili sull'orlo dell'abisso, poco salde sui nostri piedistalli; e il vento furioso che ci sferza da dietro, obbligandoci a piegarci in avanti, nasce esclusivamente dal nostro voler indagare. E dunque sia la pace, sia il riposo: costruiamo della nostra vita una tomba. Non avremo più orecchie per sentirci urlare.", a creare un bel contrasto, che, in definitiva, però, arriva alla conciliazione degli opposti, ad una espressione unitaria di un sentimento piuttosto pessimista, riscattato, però, nella pagina successiva: le radici profonde del comportamento umano rimangono le stesse "...nonostante l'inganno delle metafore/nonostante gli apparenti progressi/nonostante le rivoluzioni tentate.../niente (...) è mai cambiato."

Per fare un esempio delle descrizioni a tutto tonto dei vari personaggi vediamo quella di Joseph, vecchio ubriacone del ghetto: "Mi considerano pazzo. Pazzo sputato. È solo che ogni tanto mi capita tra i piedi una bottiglia, e allora mi si annebbia il cervello, te lo giuro, e scopro di averne due balle così. Di tutto, di tutto quanto. Non c'è una sola porca cosa che si possa salvare. Sento lo schifo, qui in gola." (pagg. 55-6).

"...Joseph...il tempo e le necessità quotidiane gli avevano insegnato a fare un uso strabiliante dei piedi... Riusciva perfino...a stappare le bottiglie...senza braccia e senza mani sei praticamente paralizzato...se gli veniva voglia di ubriacarsi sul serio si chiudeva da qualche parte, e per un paio di giorni non si faceva più vedere in giro." (pag. 66).

A pagina 63, poi, troviamo questa frase: "Se qualcosa di nuovo deve prendere possesso del pianeta, è fatale che noi scompaiamo... Come esperimento l'uomo è stato una grossa delusione, non trovi?", che a me ricorda l'apocalittico "Fase IV" di Malzberg ("La ginestra" n. 145, ed. Longanesi, '77), con le formiche che divengono le padrone del pianeta; a questo proposito leggiamo "...a me Malzberg piace molto", nella recensione che il Curtoni fa di quel libro. ("Robot" n. 4, ed. Armenia, '76, pag. 127).

In seguito, ecco che Charles si intrattiene prima con "Pierre, vent'anni, col suo volto da vecchio deluso", e poi col sopracitato Joseph; in questi due colloqui vengono esposte due posizioni filosofiche antitetiche, ovvero il velo di Maya, dietro al quale si nasconde "...l'aspetto segreto dell'universo" e "Scava sotto le cose, sotto tutto quello che vuoi, e vedrai che non c'è altro."

In conclusione, "il finale (è) venato di un misticismo chiaramente cristiano...", come dice Montanari nella presentazione, e ciò lo si constata, più che altro, in queste frasi: "...l'impulso di carità si andava facendo più forte di qualsiasi altra cosa ed ero veramente eletta ad un compito di consolazione, seppellire i morti, come mi disse il vecchio della città, visitare gli infermi, e non capisco perchè questi simboli d'una religione troppo vecchia per essere ancora valida tornino di continuo ad ossessionarmi e si trasformino da soli in parole coerenti o piene di ribrezzo." (pag. 102).

"Oh, dio, sei stato tu a permettere che arrivassero col ferro e col fuoco a sterminarci; sei stato tu a sanzionare l'assalto vigliacco, le ferite alle spalle; ed è questa la tua giustizia? È questo il mondo che avevi preparato per l'orgogliosa razza umana? È questa, veramente, l'unica strada possibile?" (pag. 112).

La prima esprime l'impulso di Charles, la sua risposta empatica, il suo gettarsi nella mischia, mentre l'altra è più che altro una preghiera a quel dio burlone e sadico di cui si diceva prima.

Dalla morte di Pierre, l'amante del (della?) protagonista, il romanzo si muove tutto in un'atmosfera di sospeso stupore, fino a culminare nell'attrazione primordiale del mare, il padre, il fuoco, la distruzione (Ivo), lo stupro, il sangue, la morte; archetipi basilari accatastati, un groviglio di vibrazioni; la catarsi, alfine, il chiudersi di ogni altra vicenda possibile, i fili riannodati, i conti che tornano, e la speranza di "un'altra resurrezione. Un mondo nuovo."

 

"The Dark Side" n. 3/4, anno 5°, '86

L'EPOPEA, di Michele Bettini

ed. Edizioni Italiane di Letteratura e scienze, '81; 235 pagine, 8.000 £

Altri contributi critici

 

-recensione di Angelo Lo Piano, "The Dark Side" n. 2, '82, pag. 24

-recensione di  Anna L. Conti, "Strips" n. 2, ‘82

 

"Roma 11 marzo '81

OMAGGIO

a

LA BOTTEGA DEL

Fantastico

nella certezza

che finisce in buone mani"

Michele Bettini

Questa la dedica ad ignoto che ho trovato subito all'interno del volume, avendolo appunto acquistato alla suddetta bottega, mio abituale luogo di Sf shopping.

Chiaramente, il Caso volle che finisse proprio nelle mie mani, quelle del miglior critico di fantascienza in assoluto... A parte gli scherzi, mi trovo, ora, essendomi proposto di recensirlo, appena ultimata la lettura, con una marea di idee e di dubbi, più o meno seri.

Questa E.I.L.E.S. è fantomatica o no? Io non l'avevo mai sentita prima; indirizzo e numero di telefono uniche garanzie. (facciamo presente ai lettori che la stesura della recensione è del 1985, comunque ho effettuato una piccola ricerca sugli elenchi telefonici romani, ma dell'"EILES" nessuna traccia. L'indirizzo era, comunque, in Via Cornelia 13-00166 Roma (una zona abbastanza periferica). (Fabrizio Frattari)).

E Luigi Bugliosi, "Il più noto collezionista di fantascienza in Italia", è mai esistito o è unicamente un altro degli innumerevoli parti della fantasia del Bettini? Anch'egli non l'ho mai sentito nominare, e si che un pochettino, di Sf , me ne intendo, qualche cosa ho leggiucchiato anch'io, qua e là!! (Luigi Bugliosi esiste davvero! L'indirizzo che di solito appare (o è apparso) in diversi annunci del "Cosmo informatore", è quello del suo studio legale, dove ho avuto modo di parlargli alcune volte, anni fa. (Fabrizio Frattari)).

Può comunque darsi che tra voialtri, qualcuno lo conosca benissimo, e che il Caso voglia che, addirittura, questa mia cada proprio nelle fauci dello stesso che, incazzatissimo, mi farà avere il suo curriculum fantascientifico, una pergamena di dodici chilometri.

Comunque, a parte questo, vediamo di arrivare alla recensione vera e propria; "Romanzo cosmico", "La Storia ufficiale dell'universo scritta tra qualche miliardo di anni", questo in effetti è; vi si narra di grandiosi cicli a cui l'universo tutto è sottoposto, in maniera, chiaramente, epica.

Del Big Bang sappiamo tutti, ed in effetti non è improbabile, se non addirittura estremamente possibile, che di questi inizi ve ne sia stato più di uno: l'entropia che domina l'universo reale, è stato più volte detto, sembra far pensare al lentissimo ma inevitabile esaurirsi dell'energia, fino a raggiungere un'altra volta una massa unica ed uniforme; un nuovo big bang è considerato da molti cosa praticamente certa.

Scienza e miti di creazione, per lo più biblici, si trovano riuniti in questo testo; più di una volta argomenti di origine evidentemente biblica sono trattati fino all'estremo del blasfemo, mentre cognizioni scientifiche sono a volte trattate con tale leggerezza da sembrare quasi scherzi, burlette, invenzioni fantasiose e stravaganti; per meglio dire, scienza e religione, con i loro diametralmente opposti parametri per interpretare e spiegare l'origine dell'universo, si trovano talmente affastonati l'uno all'altro, che lo sforzo e la credibilità, l'umanità della prima, si trovano a volte sovrapposti alla favolistica della seconda.

Mito, narrazione leggenda saputa tale, consolatoria e addolcente, e teorie faticosamente elaborate dalla mente umana, estrapolate dal divenire, razionale e irrazionale. A completare il tutto c'è, ovviamente, una dose massiccia di filosofia, Nietzsche in particolare.

La visione del mondo, il punto di vista che permea l'intera opera è decisamente nietzschiano, anche se, con l'andare della narrazione, il grande filosofo tedesco viene decisamente accantonato, per un superomismo decisamente sui generis.

Quello che rimane di pregnante, di Nietzsche, è comunque il pensiero abissale dell'eterno ritorno dell'uguale, il presente come attimo mirabolante tra il mare del passato e quello del futuro, da cogliere e vivere, in un eterno dir di sì; la figura del bimbo che gioca, che dice si, è recuperata in parte verso la fine, il concetto di eterno ritorno più volte ripreso e detto e ridetto, rivoltato o, per dirla in breve, ben espresso.

Tutto potrebbe far pensare ad una pesantezza inaudita, in una difficoltà di lettura terrificante, ed invece no,il tono è decisamente divertente, le vicende molteplici e, in alcuni punti, addirittura mirabolanti.

Una caratteristica macroscopica; la mancanza praticamente totale di conversazione; il tutto è narrato attraverso uno degli espedienti letterari più conosciuti, ovvero quello della narrazione fatta da un personaggio (Bugliosi); i punti in cui si può gustare una vera e propria narrazione, una vera e propria esposizione in forma romanzata di un accadimento, sono scarsissime, anche se aumentano con l'inoltrarsi nel testo.

Interessanti queste considerazioni dello stesso Bettini nella premessa: "Dall'inizio alla fine mi sono servito di tutto l'edificio...(l'impianto strutturale)...un edificio grande quanto un monumento...un monumento dove sono rappresentati tutti gli stili."; "Il mio romanzo è cosmico, tragico, comico, paradossale, onirico, fantascientifico, mitologico, pornografico, giallo, satanico, simbolico, iniziatico, orrido, filosofico, esoterico, realistico, esistenziale, ufologico, epicureo, magico, alchemico, utopico, individualistico, profetico, sociologico, sentimentale, razionale.". Poco oltre, comunque, riafferma: "Questo è un libro di fantascienza..."

Si diceva di razionalità e irrazionalità: "...dove finisce la fantasia e inizia la realtà?"; "...Dove alberga la certezza?...abbinamento ragione-sentimento...Quale equilibrio...?"; ovvero il principio di realtà che spesso e volentieri si contrappone insolubilmente all'esigenza di piacere.

Ed infine: "La mia unica Verità è nella Legge d'Amore, a cui si può attingere solo tramite la Conoscienza", ovvero la ragione, la razionalità, posta al servizio dell'uomo, per il raggiungimento di una migliore qualità della vita, cioè per il potenziamento del piacere potenziale racchiuso in ognuno di noi, ed estrinsecabile; vivere l'utopia subito!!!!

Ultima considerazione che vorrei fare, è quella sulla figura femminile; dice Bugliosi: "Bettini, l'autore, non ama le donne, anzi, più esattamente, non le stima; in tutta l'opera le donne vengono considerate esseri inferiori, prive di particolari capacità, che non siano quelle tipiche di oggetto sessuale..." (pag. 251).

Ed in effetti la misoginia del Bettini si estrinseca in più punti; riporto qui i più significativi: "Aveva concepito (Grande mente = Dio) la donna perché divenisse oggetto di piacere e di riproduzione, cioè perchè si rendesse dilettevole e utile. La più alta dignità della donna era quindi costituita da un'ossequiente complementarità...ad esse si addicono i piagnistei." (pagg. 52-54); "...nessun movimento femminista reclamava l'emancipazione, giacchè le donne presero coscienza di essere inferiori all'uomo." (pag. 77); "In quanto alle donne, esse non erano tanto da considerare sotto l'aspetto antropologico, quanto sotto quello zoologico." (pag. 117); "...l'incarnazione di tutte le negatività, corruzione ed emotività comprese." (pagg. 214-215), quest'ultima una specie di definizione di "donna".

L'antifemminismo, per essere buoni, o, come dicevo prima, la misoginia straripante ignoranza del Bettini, si esplicano qui nel migliore dei modi; ed è proprio questo modo di tenere in considerazione il gentil sesso, in effetti, la parte più deleteria del pensiero nietzschiano, vedasi quel "Delle donnicciole vecchie e di quelle giovani" di "Così parlò Zarathustra" (Also sprach Zarathustra", "Piccola biblioteca" n. 1, ed. Longanesi, '79, pag. 109), solo uno dei molti esempi.

Come avrete notato, della trama non vi ho detto praticamente nulla, e questo soprattutto perché, in effetti, essa non esiste, o, perlomeno, la si riesce solo alla fine ad individuare nel mare magnum delle idee, ipotesi, farneticazioni, divagazioni e cogitazioni che occupano, in percentuale, la maggior parte del romanzo.

Niente conversazioni, niente scavo psicologico, personaggi che sono unicamente più o meno vuoti simboli, non certo figure a tutto tondo in cui il lettore si possa identificare.

Comunque, come spesso accade, non bisogna scoraggiarsi all'inizio della lettura; una volta che la lunghissima parte iniziale ci ha introdotti nel clima, anzi qui più propriamente nell'universo del racconto, le cose si fanne decisamente più sopportabili, e un minimo, anche se pur sempre tale, di scorrevolezza, c'è.

A me non è che sia piaciuto un gran che, ma, comunque, qualcosa di buono vi si trova lo stesso, magari non a livello di di sentirsi narrare una storia, quanto a quello di filosofia esistenziale, di spunti di pensiero che, in qualche modo, germoglieranno.

 

"Alpha Aleph" n. 2, marzo '93

VAFFANCULO, di Sandro Baldoni

ed. di "Strafalari", '82; 156 pagine, 6.000 £

 

"Un insulto all'intellighenzia" è il sottotitolo, immediatamente sotto i caratteri dorati della famosa parolaccia. Nella realtà testuale essa assume tre significati precisi, oltre a quello con cui viene usato nella vita di tutti i giorni; il nome di un locale alternativo e la risposta finale del protagonista al martellamento dei giornalisti che lo assediano...non vi dico perchè, o, meglio, ve lo dirò più avanti, e, infine il nome che Spazzino e Chiara danno ad un micio.

Strafalari "è un posto dove si trovano alcuni giovani che vivono a Milano, e che hanno in comune l'intenzione di non farsi fregare, e di vivere, mantenendo almeno una certa libertà di pensiero e prendendo ai Ladroni il massimo cercando di dargli il meno possibile", che, purtroppo, ora, era; per intenti ed aria che vi tiravano siamo lì lì con Vaffanculo.

Diviso in tre parti, vede come protagonista uno spazzino, che, per tutta la durata del romanzo, verra denominato unicamente come Spazzino. La narrazione è in prima persona per le due parti "1977" e "1981" mentre per la terza, "1988", il Baldoni passa alla terza persona (che è più facile!).

C'è dentro un pò di tutto, tutto quanto il casino della quotidianità metropolitana, la voglia di fare e disfare, il terrorismo, la droga, l'amore più o meno disperato, l'incomunicabilità, il potere statale, che si manifesta con l'intervento della polizia a devastare il locale e a picchiarne gli avventori, le mille e mille strade che si aprono e poi si richiudono sul futuro di noi giovani; poco sesso, comunque.

La fantascienza c'è, eccome; nella terza parte il Baldoni descrive un mondo che non può non ricordare il 1984 di Orwell, ove l'acculturazione è obbligatoria per tutti, a qualsiasi età, fatto che, secondo un personaggio, avrebbe come conseguenza che nel frattempo il potere poteva metterlo nel tal posto senza troppo scalpore e praticamente inosservato.

Questo, quanto meno, quello che esprime Baldoni; io, sinceramente, credo che uno stato organizzato a tal punto da poter permettere ai propri cittadini di non lavorare in fabbrica, invece, di dedicarsi unicamente alla cultura, non sia poi un obbiettivo da scartare.

Spazzino si incazza, e decide, al limite della disperazione, di fare un gesto inutile, di chiaro marchio anarcoide, invece di suicidarsi, ovvero di fare un attentato; una bomba sotto la "Statua del cervello", nel giorno della sua presentazione alle folle. Ma lo beccano, e lì il Vaffanculo finale.

Tutto da gustare, comunque, e di lettura scorrevole, anche se a tratti diventa piuttosto pesante. Opera prima è, e credo non si possa pretendere altro di più.

Non mancano d'altronde gli spunti umoristici, ne alcuni momenti in cui la prosa raggiunge una discreta qualità lirica, come nella 3° parte del terzo capitolo.

Le scene di violenza sono volutamente esasperate, crude, vive, vere, una specie di campanello d'allarme per chi si fosse dimenticato del '68 e del movimento studentesco, le bastonate che ci siamo presi, i nostri morti.

Quello che volevo dire è tutto qui; a voi ora decidere se acquistare o meno questo Orwell nostrano, se dargli fiducia, incoraggiarlo; io, da parte mia faccio il tifo per lui; credo che abbia tutte le possibilità per fare ancora meglio!!!

I SEGRETI DI AJAIF, di Claudio Tinivella

ed. Emi, '84, 122 pagine, 12.000 £; © by Emi

 

Altri contributi critici

 

-recensione di Giampiero Prassi, "The Dark Side" n. 3, '84, pag. 22

 

Questa volta non sono i soliti alieni che, per un motivo e per l'altro, sono costretti a lasciare il loro pianeta e, guarda caso, capitano proprio sul nostro, me bensì sono i terrestri che, dopo l'armageddon nucleare, giungono su Ajaif; ma sentiamo dalle loro vive voci in succinto gli antefatti della narrazione: "...la follia che si stava impadronendo delle menti dei governanti delle varie nazioni, la follia di una guerra che poteva solo esser persa da una parte e dall'altra..."; "Noi, noi cinque, e tanti altri giovani come noi, ...e oltre a noi, altri scienziati, intellettuali, uomini politici... (fondammo) ...un'Associazione Mondiale, segreta, ma la cui esistenza era nota a molti, avente lo scopo di assicurare all'umanità un futuro...quando infine lo spettro della guerra divenne ormai più che una pallida minaccia quando si seppe che essa sarebbe inevitabilmente scoppiata, molti di noi-giovani membri dell'Associazione-vennero sottoposti al Procedimento (di animazione sospesa), posti a bordo di un'astronave e spediti nello spazio", nella speranza di ripopolare la Terra, nel peggiore dei casi, o di ridarle slancio; ma per una causa a loro stessi ignota, invece di ritrovarsi nell'orbita terrestre, si risvegliano nei pressi di Ajaif.

Qui vi sono tre razze, gli Uuauju, i Korix e i Nahej, questi ultimi un incrocio fra le prime due; popoli bellicosi.

I primi sei capitoli, direi, sono più che altro introduttivi; l'azione vera e propria inizia col settimo. Gli Uuauju condannano a morte i cinque, dandogli però la chance di avventurarsi nel deserto della follia; essi accettano...e così doveva essere, se no il romanzo finiva lì!

Il tentativo di sopravvivenza piuttosto disperato dei protagonisti diviene comunque ben presto una vera e propria quest: un popolo non antropomorfo, con facoltà telepatiche, chiede ai terrestri di andare alla ricerca di una vecchia base missilistica dei Koris che continua automaticamente a lanciare missili alcuni dei quali risultano letali.

Sulla trama non dirò altro; il finale...è strutturato in modo tale da risultare parecchio interessante, con parecchi colpi di scena. Sinceramente devo dire che idee non ne contiene moltissime, e noi sappiamo benissimo che la Sf è, innanzitutto, una letteratura di idee, di trovate, le più originali possibile; in effetti la struttura portante della trama è abbastanza originale, mescolando questione nucleare, viaggi spaziali e fantasy, ma contiene alcune trovate che, diciamolo, oggi come oggi non sono più tali, come quella degli alieni che in quattro e quattr'otto decifrano il terrestre e un minuto dopo conversano amichevolmente coi protagonisti; certo è un argomento affascinante, e forse Claudio l'ha sviluppato anche in modo originale, mah...quando leggo di alieni e terrestri che comunicano in qualche modo, penso sempre che sarebbe più corretto mostrare, invece, l'impossibilità o, perlomeno, l'enorme difficoltà di tale contatto a un livello di comunicazione complesso.

Per quanto riguarda lo stile, il Claudio raggiunge la sua forma migliore ad azione dispiegata, nei momenti in cui riesce, effettivamente, a far tenere il fiato sospeso, a meravigliare, e, perchè no, a divertire chi lo legge, e, questo, prevalentemente nella descrizione dei fenomeni del Deserto della Follia, se non nei dialoghi telepatici. I personaggi non tutti sono molto bene caratterizzati, ma alcuni risultano decisamente ben costruiti, soprattutto una piccola aliena liberata dalla prigionia e da una morte certa dai protagonisti, che farà per buona parte della narrazione da mascotte agli stessi.

In definitiva un buon romanzo godibile anche se, bisogna dirlo,un pò costosetto!

 

"Algenib notizie" n. 12,'84

LA PROPOSTA, di Nino Filastò

"Cosmo argento" n. 148, ed. Nord, '84, "Edgar fantascienza" n. 6 (22), ed. Interno giallo, ‘92; 157 pagine, 5.000 £, prezzo remainders: 7,75 €, 170 pagine, 10.000 £; © by Editrice Nord s.r.l.-premi "Italia" ’85 e ‘92

 

Filastò, qui al suo primo romanzo, prendendo spunto da un testo swiftiano del 1729, ha dato vita ad un lavoro decisamente originale e, in qualche modo, decisamente di denuncia sociale, e così non poteva che essere, visto il carattere corrosivo e graffiante del "modesto suggerimento" a cui deve la germinazione. "Niente mondi alieni per oggi" inizia la presentazione di Mauro Gaffo; e di Sf sociologica, infatti, si tratta, di un futuro molto vicino al nostro, in più punti facilmente identificabile con la società in cui viviamo.

Dicevo originale, nel senso di un'impostazione raramente riscontrabile, ma un paio di accostamenti si possono, credo, fare con Delany, soprattutto nelle descrizioni della povera gente, degli emarginati, degli incazzati. E poi, inevitabilmente, con "Redenzione immorale" di Dick. Infatti la proposta farneticante che viene avanzata in quella situazione già notevolmente degradata è, addirittura, di far passare una legge con la quale legalizzare la vendita di bambini a fini...gastronomici!! Se avete letto il romanzo di Dick, avete già capito perchè i due lavori si accostino l'uno all'altro.

La trama, semplicissima e lineare, vede contrapporsi due personaggi principali, il Signore dei Vetri, il potente che avanza la proposta di legge senza il benchè minimo scrupolo morale, a fini evidentemente e unicamente di lucro, e Degrado (sic!), l'Insistente ("...gli avvocati li chiamano sciacalli, i funzionari dei Palazzi inesistenti, la gente comune raccatta-merda...Si tratta di grattare rogne di chi non ha di che pagare un avocato...si viene pagati per attaccarsi alle costole degli avvocati, poliziotti e gente dei Palazzi e per non mollare finchè non si ottiene qualcosa") che, praticamente con nessun mezzo, gli si oppone o, perlomeno, tenta di farlo. Chi, alla fine, abbia la meglio, non lo dice neppure Gaffo nella presentazione, e non ve lo dico neanch'io: il che, a conti fatti, non è importante; importante sarà, semmai, notare l'abilità con cui l'autore riesce a rendere l'atmosfera che si respira tra i Vaganti, coloro che, volontariamente non integrati, vivono nella Città Bassa; è qui che, come dicevo, più si avvicina allo stile del Delany di "Nova", "Dhalgren" e altri suoi capolavori.

Tra tutti i personaggi, spicca decisamente Iskra, il Vagante, che, dopo non molto, si affianca a Degrado; è proprio per merito suo se l'Insistente riesce a dare una direzione al suo agire, prima alquanto sconclusionato, nel senso che non sapeva bene dove sbattere la testa. Comunque, a romanzo concluso, e avendo in seguito letto anche il testo switiano, si capisce benissimo in quale modo il Filastò abbia riproposto la satira dell'inglese; il Signore dei Vetri, nella sua foga di far soldi, non si accorge neppure della vera natura del testo che fa distribuire ai quattro venti; e, apparentemente, neppure la gente che lo legge se ne rende conto, anche per il martellamento pre-proposta.

Io, alla fine, vi intravedo, implicita ma non espressa in alcun modo, una speranza, e questa è data dalla cultura. Se in quel mondo degradato ci sarà ancora qualcuno capace di leggere tra le righe, allora l'ordito del potere sarà smascherato e coperto da una risata; il re è, potrebbe esserlo ancora, nudo.

Vi ricordo, anche se lo saprete sicuramente già tutti, che questo romanzo si è aggiudicato il Premio Italia '85 all'Italcon di Fanano.

 

"Future shock" n. 2, dicembre '88

PARTIRANNO, di Luce d'Eramo

"Omnibus", "Oscar narrativa" n. 1676, ed. Mondadori, '86, '98; 456-574 pagine, 22.000-15.000 £; © by Arnoldo Mondadori Editore s.p.a.

 

Altri contributi critici

 

-recensione di Vittorio Catani, "THX 1138" n. 4, '86, pag. 79

-"Luce d'Eramo: "Partiranno"", di Gianfranco de Turris, "Dimensione cosmica" n. 10, ed. Solfanelli, '86, pag. 22

 

Con questo romanzo la letteratura alta, il cosidetto mainstream, compie un'altra escursione nel nostro genere, dopo quanto fatto da Buzzati, Calvino, Morselli.

Tutto tenuto su di un tono fra l'ironico e il divertito, racchiude diverse trovate molto interessanti, cosa che non sempre, anzi, direi raramente, capita nei romanzi degli autori genuinamente Sf. Il novum specifico si identifica nella visita di tre alieni al nostro pianeta, di tre Nnoberavezi, per la precisione.

Ma vediamo le trovate di cui dicevamo. Un'esposizione di quello che da più parti e in vari modi è stato teorizzato come "il fantastico nel/del quotidiano", del vissuto personale: "È difficile ottenere l'eccezionalità mentre avviene assieme a tutto ciò ch'è comune nella comunità delle ore e dei minuti. Per il solo fatto d'accadere, l'impossibile diventa sperimentato, e, una volta che sia stato vissuto, il suo durare lo rende ordinario. L'aspetto eccezionale d'un fenomeno quotidiano è inafferrabile" (pag. 252), e, subito dopo, non molto originale ma notevole, una scena onirica e successivamente di sogno-risveglio: "frugo nella borsa a tracolla per estrarre i soldi, ma non porto borsa. Alzo gli occhi mortificata sul fioraio e lui risponde: "Sto benissimo", seduto in poltrona in casa mia..." (pag. 254), dove quel fioraio e lui appartengono a due stati di coscienza diversi.

Gli alieni comunicano attraverso la lettura del pensiero e, istruttivo e divertente al contempo, ecco quanto dice uno di loro del nostro modo di comunicare: "Perciò è normale che non comunichiate mentalmente per scambiarvi i pensieri, il che sarebbe il modo più immediato, più naturale, di comunicare fra esseri pensanti. Voi non potete volerlo, perchè la reciproca penetrazione mentale comporta un contatto volatile fra persone, senza possibilità di fissaggio. Voi fabbricate meccanismi ingegnosi e obbedienti, come la stampa, le apparecchiature audiovisive, i radiotelescopi per dirne qualcuno, con cui trasmettere quello che pensate" (pag. 317).

La d'Eramo fa poi delle citazioni dal nostro genere, che risultano, a noialtri, divertenti, al pubblico vasto, forse, incomprensibili, specie quella di "Oltre il cielo", dovuta presumibilmente all'amicizia di suo padre, Publio Mangione, giornalista aeronautico, con Armando Silvestri, curatore, assieme a Falessi, di quella rivista.

Si nomina Piper, col suo concetto, non facile, di altroquando, esposto, peraltro, in modo conciso, ma efficace: "Vai da Roma a Parigi e, ogni volta che ci torni, è lo stesso posto, non sentono coi sensi che quel posto sta altrove e che non tornano mai dov'erano stati ma in un altro stesso posto." (pag. 420), e "...un evento si disloca oggettivamente per noi umani in parecchi luoghi e tempi diversi, quello in cui è accaduto e quello in cui viene assunto" (pag. 441), e Hoyle, un altro tema classico, quello delle colonie nello spazio, con le tipicissime cupole: "È vero papà che sulla Terra l'aria è libera e ognuno ne può respirare quanta gliene va, (e che) i bambini della Terra possono correre quando ne hanno voglia, senza essere sgridati dai genitori perchè sprecano l'aria? (...) che l'acqua non sta chiusa nelle cisterne ma scorre in mezzo alla campagna con certi scrosci che ti spruzzano tutta la persona?" (pagg. 413-14). Altrettanto consueto il tema della capacità degli umani d'intendersi con il diverso, come nota il Catani. De Turris, invece, centra la sua attenzione sul fatto che "Partiranno, nella sua composizione a intarsio, si presenta con le caratteristiche della Spy Story (intreccio, suspance) e con quelle della Science fiction (invenzione e speculazione su alcuni topoi del genere)"; notando anche, e questa è stata anche la mia impressione, che "è indubbio che Luce D'Eramo conosce abbastanza bene i meccanismi non soltanto tecnici ma anche mentali dei Servizi Segreti.". Graficamente poi ci sono delle soluzioni molto gradevoli, che interrompono la monotonia della pagina stampata, forse l'unico apporto positivo del futurismo alla nostra letteratura.

A questo romanzo è stato conferito un premio speciale nell'ambito del Premio Città di Montepulciano, di cui la D'Eramo è divenuta presidente alla seconda edizione.

 

"La spada spezzata" n. 17, '88

RITORNO ALLE STELLE, di Stefano Cosimi

"Minas Tirith" n. 1, ed. Solfanelli, '86, 188 pagine, 10.000 £; © by Marino Solfanelli Editore

 

Altri contributi critici

 

-recensione, "L'altro regno" n. 10, ed. Solfanelli, '87

-"Introduzione" di Marco Solfanelli, pag. 7, e "Dimensione cosmica" n. 7, ed. Solfanelli, '86, pag. 31

 

Ambientato in una Terra post-atomica ("La guerra...era terminata per esaurimento dei contendenti e con la dissoluzione degli stati tradizionali. Negli anni seguenti la scarsa popolazione residua, attraverso lunghe migrazioni e faticosi assestamenti, si era concentrata nelle regioni più ricche di materie prime e meno contaminate fino a che, nel 2165, le nuove formazioni statali non si erano unite nella Grande Confederazione..." (pag. 31)), è una vera schifezza; risulta infatti essere un brutto poliziesco spionistico: "Nel riprendere della vita dopo l'ecatombe delle guerre nucleari, un gruppo tagliato fuori per motivi che lui ignorava aveva ripreso in modo autonomo la via della riscossa tecnologica.... Inoltre quel gruppo era riuscito a progredire senza che nessuno avesse potuto rendersi conto della sua esistenza, ...poteva senz'altro ipotizzarsi l'esistenza di una stretta relazione con gli episodi destabilizzanti..." (pagg. 113-4), camuffato da romanzo di Sf.

Vi si trova una sola buona idea che lo rende assimilabile al nostro genere:"...esperimenti di memorizzazione...(consistenti nel)...apprendere nozioni in poco tempo mantenendo inalterata la coscienza del proprio io...lo scopo della sperimentazione è quello di preparare gli equipaggi, destinati ai viaggi extragalattici di lunghissima durata..." (pagg. 132-3).

Una frase mi ha ricordato un racconto di Ballard compreso in "La civiltà del vento": "...la guerra nucleare, la paura di mettere al mondo mostri con tre teste..." (pag. 23).

In sintesi, non compratelo.

GLI ERETICI DI ZLATOS, di Franco Forte

"Cosmo argento" n. 206, ed. Nord, '90, 273 pagine, 25.000 £, prezzo remainders: 7,75 €; © by Franco Forte

 

È, questo, il primo romanzo di un personaggio che molti di noi fanzinari conosciamo abbastanza bene, specialmente noi qui a Milano. Comunque, per tornare a noi, il romanzo è ambientato in uno degli scenari classici della fantascienza, il dopobomba, in un'Europa ridotta per gran parte a deserto.

Ed è proprio il deserto uno degli elementi portanti della vicenda, e l'inevitabile accostamento al classico "Dune" di Frank Herbert non è per nulla casuale; infatti, presentando il romanzo all'Italcon di quell'anno, lo stesso Forte ha detto chiaramente di essere stato fortemente influenzato da quell'opera, visto che la stava leggendo proprio nel periodo in cui stava componendo la sua.

Due gli elementi di novità che lo caratterizzano, e cioè il manifestarsi di eccezionali capacità psichiche, poteri paranormali, e il fatto che l'umanità sia stata infettata da un: "...Morbo Silenzioso: una forma di cancrena genetica che storpiava arti e deformava colonne vertebrali, che sagomava volti come grumi di fango butterato e raggrinziva epidermidi come cortecce purulente scavate da minuscoli insetti." (pag. 219). Mutazioni, dunque.

Caratteristica essenziale della struttura dell'opera è il suo essere spezzettata in capitoli molto brevi, al massimo sette pagine, secondaria, ma non molto, quella di avere una moltitudine di personaggi, ma non un vero e proprio protagonista.

 

"Algenib notizie" n. 7, febbraio '91

I CUSTODI, di Gloria Bàrberi

"The Dark Side" n. 34, '90, 76 pagine, 3.000 £

 

Altri contributi critici

 

-"Fandom!", di Fabrizio Frattari, "Algenib notizie" n. 7, '91, pag. 27

 

È, questo, il secondo romanzo breve che la fanzine vercellese ha pubblicato; il primo è stato "Oltre il palazzo", di Mario Leoncini (n. 32, '92).

Vi si narra, in modo abbastanza originale, del contatto fra Umani ed Alieni.

Quello che si è soliti definire il messaggio di un'opera, è, qui, abbastanza discutibile; dopo essersi sforzata in ogni modo di far apparire il massimo della Positività gli Alieni e il contrario gli Uomini, ecco che si scopre che è l'abbandono di ogni forma di tecnologia inquinante quello che i primi vogliono dai secondi, per il loro bene e, soprattutto, delle loro opere d'arte.

Certo questo atteggiamento dietrista è il lato peggiore dell'opera, che, invece, è piuttosto piacevole, soprattutto nelle parti che si svolgono sul pianeta degli Alieni.

Molto ben fatta soprattutto la scena di un'unione spirituale fra un umano e un alieno, anche se l'idea non è nuova.

Precede una breve introduzione di Franco Ricciardiello, con la bibliografia dell'autrice.

NEL SEGNO DEL SERPENTE, di Pietro Caracciolo

"Cosmo argento" n. 221, ed. Nord '91, 223 pagine, 10.000 £, prezzo remainders: 7,75 €; © by Pietro Caracciolo

 

Altri contributi critici

 

-recensione di Mirko Tavosanis, "Algenib notizie" n. 19, '91, pag. 22

-"Premi e fantascienza", di Gianfranco de Turris, "L'eternauta" n. 106, ed. Comic art, '92, pag. 50

-"1191-cosa ti danno in cambio dei tuoi soldi?", di Mirko Tavosanis, "Intercom" n. 122/123, ' 92, pag. 29

 

Come sappiamo, gli autori italiani di fantascienza pubblicati dall'Editrice Nord sono stati, d'apprincipio, limitati ai romanzi che vinsero le prime edizioni del Premio "Cosmo".

Questo è proprio quello vincitore dell'edizione del '90. L'idea su cui si basa è alquanto strampalata: in un futuro non troppo lontano gli ebrei vengono additati come i maggiori produttori e distributori di una droga sintetica micidiale: "È ormai noto che il 90% della droga sintetica viene prodotto e smerciato dagli Ebrei..." (pag. 7); e per difendersi dalla furia del resto dell'umanità ("Gli Ebrei! Questi e questi soltanto sono i responsabili delle agitazioni che sconquassano gran parte del mondo, nonchè delle brutture e delle depravazioni morali che si cerca di imporre alla nostra società... Il popolo ebraico presume di diventare l'assoluto dominatore dell'intero Globo." (pagg. 8-9)), si decide, col loro consenso, di spedirli tutti nelle colonie marziane.

Ma, per fortuna, non è questo, il vero fulcro del romanzo, ma solamente il fatto scatenante. È, infatti, il viaggio nel tempo, affrontato abbastanza bene con, cioè, delle buone basi teoriche, oltre che con una bella trovata, ovvero quella di una civiltà temporale: "Rater era un mondo che si estendeva nel tempo..." (pag. 75); "...un universo temporale. Noi viviamo nel tempo. Siamo parte di esso. I nostri corpi sono formati da tempo e si identificano su quattro dimensioni che tu chiameresti temporali...siamo privi di massa spaziale." (pag. 167).

Molto debole nella parte iniziale, si riscatta poi in quella che si svolge nell'anno zero, con un uomo dell'OLG (Organizzazione per la Liberazione Giudaica), che vorrebbe uccidere Cristo per liberare il suo popolo da quell'accusa infamante, e rendere vana la deportazione su Marte.

Anche questa è un'idea piuttosto peregrina, ma che viene però presentata proprio così, come un'idea folle di persone poco intelligenti che non capiscono la gravità delle conseguenze di un simile gesto.

Non vi sono paradossi come quelli a cui siamo abituati, ma solo una forte reazione del tessuto spazio-temporale per la mancanza o l'assenza di massa, rispettivamente nel piano temporale da cui partono i protagonisti e in quello (anno zero), in cui arrivano.

Lo stile non è certo dei migliori, e si nota molto che questo è il primo romanzo dell'autore.

Una grande pecca del volume è la mancanza, anomala per questa collana, di una qualsivoglia introduzione.

 

"Algenib notizie" n. 19, novembre-dicembre '91

AI DUE LATI DEL MURO, di Francesco Grasso

"Urania" n. 1189, ed. Mondadori '92, 143 pagine, 5.000 £, prezzo remainders: 3,1 €; © by Arnoldo Mondadori Editore

 

Altri contributi critici

 

-recensione di Roberto Sturm, "Intercom" n. 128/129, '92, pag. 40

-"Premio Urania 1992: Francesco Grasso: Ai due lati del muro", di Marco Minicangeli, "Il paradiso degli orchi" n. 0, '92, pag. 44

-"Un premio per gli esordienti", di Gianfranco de Turris, "L'eternauta" n. 117, ed. Comic art, '93, pag. 88

-"I mondi illusori della fantascienza", di Giuseppe e Antonio Monaco, "Future shock" n. 22, '97, pag. 23

 

È, questo, il romanzo vincitore del Premio Urania '91, e, come è stato da molti detto, fà fare davvero una gran brutta figura alla Sf nostrana. L'autore è un esordiente, e, quest'opera, sembra racchiudere tutti quanti i difetti tipici delle opere prime di scrittori scarsamente dotati; e, inoltre, pecca di un impianto della trama che, anche se strutturalmente tiene, manca di una sua omogeneità, per concludersi con un finale davvero pessimo, uso sregolato di parolacce, che, se all'interno di narrazioni più buone, posso anche essere gradite, ma così risultano solamente stonate.

Per il resto, l'autore riesce a tenere il racconto su di un livello di scorrevolezza che lo lascia fruire molto facilmente, e, credo, che possa essere stata questa sua caratteristica a farlo scegliere dalla giuria del premio della nostra a più ampia diffusione. L'idea su cui si basa è cyberpunk, in quanto ipotizza l'invenzione di un sistema cibernetico che modifica, rendendolo più umano, il sistema carcerario: "Un anno di vita soggettiva, in prigionia simulata, corrisponde a una settimana di tempo reale. Il detenuto sconta la sua condanna, giorno per giorno; non può fuggire, perchè il programma non lo permette; ma al termine, staccato il collegamento, scoprirà che per il suo corpo gli anni non sono trascorsi, che ha ancora una vita davanti a sè." (pag. 49); "La galera simulata era molto meno costosa e molto più sicura; i rischi d'evasione parevano inesistenti." (pag. 59), e, la prima delle due parti, risulta, alla luce di ciò, essere in un certo senso dickiana, con quel rivelarsi altra della realtà ontologica.

Ma, poi, il racconto scade, e ci si trascina fra bande giovanili e una vendetta personale che scarsamente avvincono il lettore.

Il volume è completato da una presentazione/intervista all'autore di Stefano Di Marino e dal racconto di Bonita Kale "Miracolo in un piccolo villaggio" (Miracle in a Small Village, '92).

Dagmar la terrestre, di Paolo Brera

"Narratori europei di science fiction" n. 8, ed. Perseo libri '92, 225 pagine, 25.000 £, prezzo remainders: 12,91 €; © by Paolo Brera

 

Paolo Brera, forse qualcuno di voi, fra quelli che seguono la Sf da più tempo, se lo ricorderanno.

A quindici anni, nel '64, già pubblicava racconti ("Le sorprese dell'ipnosi", in "Urania" n. 359, ed. Mondadori, '64, in cui vi sono anche due sue poesie e un proverbio), ma è dal '91 che ha ripreso a scrivere, elaborando una storia futura (vedi "Le storie future", di Giuseppe Lippi e Piergiorgio Nicolazzini, in "Robot" n. 33, ed. Armenia, '78, pag. 178), un unico scenario futuro coerente, in cui ha ambientato vari racconti ("Rosso amaranto", "Aleydis e Hireann", rispettivamente in "Futuro Europa" n. 9 e 10, ed. Perseo libri, '90, '92, e "Garasim" ('91), in "Millemondiestate '92", ed. Mondadori) ed il presente romanzo.

Questo si svolge su Welt-am-Rande, un pianeta dell'ecumene, federazione di pianeti colonizzati dai terrestri, ed ha come punto focale il problema della schiavitù.

La trovata più originale che vi si trovi è quella delle registrazioni Turing, in cui vivono le personalità di persone che distinguono così la loro fase biologica dalla fase informatica: ...registrazione Turing, priva di un corpo vero e proprio e dei piaceri e dei dolori a esso collegati (...) (pag. 43) Noi stessi, devo riconoscerlo, non siamo persone, ma solo simulazioni. Indistinguibili o quasi dall'originale, questo si, ma sempre simulazioni, non esseri umani....) Non è possibile distinguere le reazioni di una registrazione Turing da quelle della fase biologica che ha fatto da modello, per cui se la base biologica è una persona, lo deve essere anche la fase informatica… Gli esseri umani sono anche istinti, sentimenti, sensazioni, non solo razionalità...I cubi Turing però incorporano una simulazione delle reazioni a tutte queste cose, mi risulta... Rispetto alla sua fase biologica, un cubo Turing resta un'imitazione, non una copia conforme.(pagg. 105-106).

Vi è anche una reminiscenza dickiana, o, meglio, uno dei tanti segni evidenti dell'influenza che P.K. Dick ha lasciato all'interno della nostra letteratura, ovvero la presenza di macchine parlanti: "-Ascolto-rispose il voice synthetizer della mitragliatrice...-Non mi freghi! Non mi freghi!-rispose petulante l'arma-Tu sei solo un ribelle! Viva il Siebenberg, abbasso la sovversione!" (pag. 101) "...una mitragliatrice automatica dotata di una rudimentale intelligenza artificiale..." (pag. 116)-"Non ho un nome, mi scusi. Sono un programma di intelligenza artificiale, che sovrintende all'arma installata nella sua stanza" (pag. 124).

 

"Alpha Aleph" n. 4, marzo '94

MOTORE D'ANIME, di Giancarlo Castello

"Narratori europei di science fiction" n. 7, ed. Perseo libri '92, 206 pagine, 24.000 £; © by the author

 

Giancarlo Castello: aveva dato promettenti prove di sè fino ad una quindicina di anni or sono (ora torna a scrivere, e) si cimenta nella difficile e spesso traditrice misura del romanzo. (pag. 7).

Ambientato in un futuro lontanissimo (nono millennio), in una società in cui i corpi naturali vengono sostituiti da corpi artificiali. Ma come in ogni buona antiutopia, o utopia negativa, ci sono i ribelli, quelli che non ci stanno, e che, qui, non vogliono trasformarsi in esseri privi di sentimenti, per quanto immortali e indistruttibili: Nessuno (...) poteva provare fame o sete o bisogni corporali (...) Possedere un corpo carneo era sinonimo di deviazione o di indegnità.(pagg. 59-60).

Questi sono organizzati e si oppongono al sistema, proprio rifiutandosi di venire trasformati in automi. La metafora è evidente: esprime la paura della disumanizzazione del mondo moderno,in contrapposizione alla naturalità dell'uomo.

Molto profondo, è scritto in ottima prosa, decisamente piacevole, e, come abbiamo visto, con contenuti decisamente impegnativi ed un messaggio positivo, anche se, appunto, di non facile comprensione.

Io, sinceramente, non ho letto i suoi racconti degli anni '70, ma mi sembra proprio che sarebbe una buona cosa per la fantascienza italiana se il Castello scrivesse altre cose si questo livello.

 

"Alpha Aleph" n. 3-settembre '93

TERRA!, di Stefano Benni

"L'avventura" n. 3, "Universale economica", ed. Feltrinelli, '83, '85, 317 pagine, 15.000 £; © by Giangiacomo Feltrinelli Editore

 

Altri contributi critici

 

-"Toccare Terra" di Goffredo Fofi, praticamente un'intervista all'autore, "Linus" n. 1/'84, ed. Milano Libri

-Antonio Caronia, in "Mondo impossibile!", "Linus" n. 4/'84, ed. Milano Libri, scrive: "...tutte le opere riconducibili al filone dell'utopia negativa, da "I viaggi di Gulliver" a "Terra!" di Benni si caratterizzano proprio per fatto che, facendo la vista di parlare del futuro o di paesi immaginari, parlano in realtà del nostro qui e ora." (pag. 100)

 

Con questo lavoro, Benni esordì come romanziere dopo aver pubblicato quattro libri consistenti per lo più di divagazioni umoristiche o polemiche di discreto successo, come il più recente "Spettacoloso" pubblicato da Mondadori nell''81, e aver collaborato "Il manifesto" e "Panorama".

Nello stesso anno,la casa editrice di questo romanzo pubblicò di lui anche una raccolta di poesie, "Prima o poi l'amore arriva".

Un "Guerre stellari" di sinistra, è, per l'appunto, un romanzo ad amplissimo respiro, nel quale, innestati ai due grandi fili conduttori della trama, si trovano una infinità di episodi il più delle volte estremamente divertenti, quasi sempre interessanti: "...dalla finestra della sala segreta del bunker, apparve la testina di un topo.L'animale cercò di scivolare dentro lungo il muro, ma precipitò e il suo corpicino schiacciò il tasto 15, allarme rosso, che faceva uscire i missili dalle postazioni sotterrane…Il tecnico si accorse subito dell'accaduto e lanciò un grido d'allarme, cercando il tasto AD, Annullamento Decisionale. Ma il topo, spaventato, lo precedette saltando dal tasto 15 proprio al tasto 12. Il tasto 12 era il tasto irreversibile dell'attacco diretto all'Unione Sovietica... La terza guerra mondiale cominciò così, e poi ce ne furono altre tre." (pagg. 10-11).

Dopo questo prologo, l'azione si sposta definitivamente nel futuro ultra-post-atomico di una Terra coperta dai ghiacci con un problema urgentissimo da risolvere, quello dell'energia, praticamente quasi del tutto esaurita nelle sue risorse classiche.

Dicevamo di due fili conduttori; due missioni, una nello spazio siderale e una sul nostro pianeta.

Ad unirle, il motivo scatenante di tutta la vicenda, ovvero il ritrovamento di un "vettore di rivendicazione di proprietà" nei pressi di Cuzco, Perù. Questo aggeggio sarebbe un ritrovato della tecnologia astronautica, usato dagli esploratori siderali per segnalare, appunto, il ritrovamento di un qualche importante giacimento minerario, o altro, in una qualche parte del cosmo.

Il primo è, infatti, la triplice missione alla ricerca di Van Cram, il mittente del vettore, da parte dei tre superstati in cui si divide la Terra: la Federazione Sineuropea, l'Impero Amerorusso, e l'Impero Sam, col al suo centro il Giappone. Infatti nessun computer riesce a stabilire da dove provenga tale oggetto, in cui si trova la registrazione di un ritrovamento eccezionale, "Terra due", un pianeta come era la Terra prima del molteplice disastro nucleare.

Il secondo filo consiste anch'esso di una ricerca, una quest, come dicevamo, sul nostro pianeta; ciò che si cerca è che cosa sia a produrre quell'immensa quantità di energia che i rilevatori segnalano proprio nei pressi di Cuzco; un qualcosa che gli indios chiamano "Il cuore della Terra".

In effetti la quest vera e propria attraverso la quale lo scrittore conduce il lettore è quella del nesso tra queste due storie parallele, che sarà svelato solo nel finale, con, direi, poche approssimazioni precedenti.

Senza, chiaramente, dirvi nulla di ciò, mi sembra interessante segnalare alcune delle caratteristiche che rendono questo romanzo avvincente, divertente: vi sono parecchie storie narrate da vari personaggi, dei veri e propri racconti a sè stanti, nella maggior parte dei casi; una di queste è una favola di Nonno Doc: Cappuccetto Nero (pagg. 211-13), in cui viene utilizzato un linguaggio molto triviale, costruendo una variante colorita della favola popolare, avendo come unico pretesto contestuale per il suo inserimento di essere la spiegazione di come siano diametralmente opposti i mondi culturali in cui sono cresciuti due personaggi, in una lettera d'amore di un lui a una lei.

Un altro di questi racconti è "La storia del capitano Quijote Patchwork" (pagg. 51-59), in cui si utilizza un linguaggio mitologico, facendo quindi rispuntare, appieno, quanto dicevo altrove sulla poetica dell'insorgere di nuovi miti in uno scenario in cui molti non sono del tutto scomparsi; per il pathos che vi si respira mi ha ricordato molto da vicino un racconto di Poul Anderson forse non molto conosciuto, ma che consiglio a tutti, "Joelle" ("Joelle", in "Isaac Asimov's Science Fiction Magazine" n. 3, ed. Mondadori, '78).

Questa tecnica di utilizzare svariati tipi di linguaggio, dal diaristico all'epistolare, dalla narrazione scorrevole a un tipo cappa e spada, dal racconto mitologico a uno tipico dell'hard Sf spaziale, mi ha ricordato invece più volte quel capolavoro della Sf sociologica che è "Stand on Zanzibar" di John Brunner ("Tutti a Zanzibar", "Sf narrativa d'anticipazione" n. 9, ed. Nord, '77).

Per esemplificare uno dei tanti passi in cui sembra di leggere un classico della nostra letteratura, mi pare non ci sia niente di meglio che questo, in cui si discute sull'eterna questione degli alieni; nel futuro descritto: "...vi sono allo studio solo tre casi di possibile organismo intelligente superiore", nei mondi fino ad allora esplorati; e, più interessante ancora, riguardante l'annoso dibattito sul perchè della rappresentazione quasi sempre ostile di eventuali alieni: "...perchè devi pensare che se c'è una forma di vita su quel pianeta, deve esserci per forza nemica?" (pag. 85), in cui rispunta quindi la psicopatia tipicamente borghese per tutto ciò che è diverso, strano, non rientrante negli schemi logici del potere, costruiti da esso e per mezzo di essi dominante; nella pagina successiva c'è una lunga tirata militarista su come reagirebbe un eroe heinleniano in una situazione simile, che si rivela poi un'ironizzazione su tale modo di pensare.

Per poi passare alla questione della relatività di ciò che è la vita; saremmo davvero in grado di riconoscere una forma di vita che si discostasse troppo dalla concezione che ne abbiamo noi?: "Quella che noi chiamiamo vita, sia che la crediamo creata dal carbonio, o da un Ente Supremo, è poi così facile da riconoscere?" (pag. 86).

C'è poi una pagina e mezza di stream of consciousness alla James Joyce (pagg. 80-1), che mi sembra perlomeno doveroso rivelare; ci vuol un bel coraggio a tentare questa tecnica, che, con un eufemismo, oserei dire complessa; incomincia, guarda caso, con una frase estremamente simile a quella dell'ouverture dell'"Ulisse" ("Ulisses", "Biblioteca" n. 1, ed. Mondadori, '78; The Borley Head London, '37) joyciano: Kook salì le scale della torretta-osservatorio dell'astronave. Portava in mano un bacile di schiuma, uno specchio ed un rasoio." (Benni); "Solenne e paffuto, Buck Mulligan comparve dall'alto delle scale, portando un bacile di schiuma su cui erano posati in croce uno specchio e un rasoio." (Joyce).

Altro riferimento a Ulisse, la presenza di un personaggio-Pintecaboru-gigante monocolo: "...c'ho un occhio solo, ma so riconoscere un furbone!" (pag. 349), in cui non è difficile scorgere l'omerico Polifemo.

In conclusione, qualcosa che veramente merita lo sforzo delle più di trecento pagine, un divertissment di qualità, dai molteplici ingredienti che, nell'insieme, danno un risultato gradevole e stimolante, in cui in pacifismo che lo sorregge non diviene retorica ma, contestualizzato, diviene espressione di sofferenza per il disastro nucleare che non si è saputo evitare: "Sarebbe ora che tu la finissi di pensare al passato, Dylaniev (...). Abbiamo cantato delle belle canzoni, e manifestato, e messo bombe nei computer, e fatto un gran casino, e il risultato è stato: tre guerre, una dopo l'altra, due miliardi di morti!" (pag. 92), dal dialogo fra due ex-pacifisti, di cui uno verrà suicidato poche pagine dopo, rabbia e rivolta per, alfine, trionfare sul cieco e insensato militarismo, sconfitto dalla sua esasperata dimostrazione di forza, dalla verità profonda, dall'amore e dalla costanza di chi invece di distruggere, vuole capire.

Dicevo che non avrei rivelato nulla del finale, e così farò, ma un indizio, una traccia che potrà sembrarvi irrilevante ma che si rivelerà essenziale, ve la voglio dare; a pag. 143: "...alcuni ragazzini giocavano saltando su un disegno di linee intere e spezzate...una giovane pellerossa, un'equimese e due piccoli indios"...vai per il lago il fuoco il vento

vai per lago fuoco e vento

e forse arriverai.""-destando la pensierosità di uno dei protagonisti; ma si dovrà giungere fino a pag. 281, per sentire da una strega spaziale di trecento anni pronunciare queste parole: "Una alla porta che stai cercando, e conduce attraverso il lago il fuoco e il vento" sono tra le poche parole recepite telepaticamente da un telepate a Terra di quella conversazione da una delle tre missioni, proprio quel personaggio che le aveva sentite originariamente pronunciare dai bambini.

Può voler dir tutto, e niente, ma in un certo senso il mistero del "Cuore della Terra..." per chi di voi volesse, a questo punto, andarsi a leggere il libro, o per chi l'avesse già fatto...è tutto qui.

Questo romanzo è stato tradotto in francese, inglese e tedesco. E in americano, e pubblicato dalla Pantam nell'ottobre '85.

Ne è stato tratto il film "Topo Galileo", Italia, '88, di Francesco Laudadio, con Beppe Grillo, Jerry Hall, Paolo Bonacelli e Eros Pagni.

 

 

"The Dark Side" n. 2, anno 5°, '86, e "Intercom" n. 138/139, '94

LA BRIGATA DELL'APOCALISSE, di Giovanna Bonsi Bresciani

"Cosmo argento" n. 231, ed. Nord '92, 220 pagine, 12.000 £; © by Giovanna Bonsi

 

Altri contributi critici

 

-"Un premio per gli esordienti", di Gianfranco de Turris, "L'eternauta" n. 117, ed. Comic art, '93, pag. 88

 

Divertente, narra di un'invasione di falsi omini verdi, sventata da veri extraterrestri.

Come dice anche l'autore ("Pareva l'assurdo rifacimento di qualche brutto film di fantascienza del passato" (pag. 82); "Tutto, in questa storia, sembra tratto da un vecchio film..." (pag. 142)), il tutto sembra ricalcare in modo decisamente ironico gli stilemi della Sf classica.

Orima di entrare nel vivo della vicenda, il romanzo fatica molto ad ingranare. I primi quattordici capitoli potrebbero essere, tranquillamente, di un romanzo giallo, anche se servono egregiamente ad introdurre la personalità del protagonista. La trovata più interessante mi sembra che sia quella dei veri extraterrestri che entrano in contatto con gli umani per via telepatica, durante il sonno. Il protagonista, un ispettore di polizia, dapprima fa sogni strampalati, ma poi li vive consciamente, e ne capisce la vera natura.

Con questo romanzo ha vinto il Premio Cosmo '92.

 

"Alpha Aleph" n. 2, '93

LA NOTTE DEI PITOGORICI, di Claudio Asciuti

"Urania" n. 1375, ed. Mondadori, '99; 331 pagine, 5.900 £; © by Arnoldo Mondadori Editore S.p.a.

 

Romanzo vincitore del Premio "Urania" 1999, è, prevalentemente, un romanzo filosofico.

Vi si dice, infatti, dell'essere venuto meno del concetto di Dio, nel divenire dell'essere, che è oggi in essere.

Niente di meno; ma l'Asciuti ci dice ciò in una maniera decisamente molto più accessibile, più fruibile, di quanto l'abbia fatto Nietzsche nel suo "La volontà di potenza".

Si arriva, infatti, a ciò, tramite una narrazione decisamente accattivante, densa di atmosfere belle, di accadimenti che, inevitabilmente, attanagliano l'attenzione del lettore.

Anche, o, forse, prevalentemente, per il loro essere eccessivamente assurde; basti dire che l'accadimento su cui ruota la trama è il ritrovamente del Nautilus, proprio quello di Julius Verne.

La prosa dell'Asciuti, di cui molti di voi sicuramente avranno letto qualche racconto, riesce abbastanza bene a tenere anche sulla lunghezza del romanzo; rari, infatti, i momenti in cui la tensione subisce dei cali sensibili.

E, alla fine, il protagonista, che, significativamente, si…chiama, Senzanome, ad incontrare una figura che ha molte delle caratteristiche della divinità, senza, però, esserlo; che gli dice, al suo interrogarlo sulla Morte: "Tu non hai paura del nulla. Hai paura del qualcosa…hai paura che quest'inferno, il tuo personale inferno, continui anche dopo la morte e sia peggio." (pag. 301), della sua paura, che poi riconosceerà, in sé, che: "…la vita di tutti i giorni potesse trascorrere ancora dopo la morte." (pag. 305).

Ambientato in una Terra della metà del XXI° secolo, in cui la Scienza ha trovato un modo per togliere, dalla psiche dell'Uomo, ogni aspetto creativo, immaginativo; per mezzo dell'ablazione della cuspide: "Un'ablazione della cuspide, con conseguente estinzione di ogni desiderio insaziabile, e quindi di ogni comportamento anomalo." (pag. 49).

Ma in cui, ciò, non è obbligatorio; ci sono, infatti, anche coloro che hanno scelto di non farsi operare, gli Svitati: "…solitudine, malinconia, estraneità sono i termini che ci costringono a suonare, a dipingere, a scrivere, a recitare, a dirigere film o commedie, a salire sul palcoscenico per recitare una vita diversa dalla nostra…", e in cui gli: "…Strutturati (quelli che hanno scelto di farsi ablare la cuspide)…sentirono sempre più forte il bisogno di leggere i romanzi e le poesie, di ascoltare la musica creata dai primi." (pag. 50).

Ed è proprio questo feeling quello che regge tutta quanta la narrazione; Senzanome, il protagonista, è, proprio, uno Svitato che, in tarda età, decide di farsi ablare la cuspide, ma al quale, per un motivo che si capirà solo verso la fine, ciò non porterà gli effetti che ha portato a tutti gli altri.

È, anche, caratterizzato da molte citazioni di scrittori di fantascienza; da Ellison ("…scrittore di fantascienza del secondo millennio e perpetuo incazzato contro i benpensanti di ogni credo e illusione" (pag. 49), a Ballard, a Zelazny ("…alcuni romanzi di uno scrittore del secondo millennio, Roger Zelazny, i cui protagonisti traslavano da un luogo all'altro del mondo di Amber servendosi degli Arcani Maggiori." (pag. 90), a Dick ("Conosco un Philip Kindred Dick…che abita in un castello, neppure troppo malandato, sulle alture. È uno scrittore di fantascienza. Ha preso il nome in onore di "questo" Dick?" (pag. 256); di quest'ultimo, vi sono, oltre ad una rappresentazione teatrale, o, meglio, di body art, ispirata al suo "Ubik", la droga PKD, e quelle, citate dal suo "Le tre stigmate di Palmer Eldritch", Chew-Z e Can-D.

E, ancora, vi è un personaggio, detto Mente Microfilmica, che non può non ricordare il Mente di "1997, fuga da New York" di Carpenter, vi si cita "…Stormbringer: la "Tempestosa"…" (pag. 172), dai romanzi di Moorcock di Elric di Melniboné; e, anche, nel lungo colloquio finale fra Senzanome e Il Re del Mondo (così viene infatti chiamata quella figura semidivina che abbiamo detto), si dice: "Inventammo la fantascienza New Wave e lui (il Nemico Bellissimo, una trasposizione del concetto di Demonio) rispose con l'avventura spaziale e il cyberpunk." (pag. 291), in cui quell'aver messo il cyberpunk fra, per così dire, i cattivi, mi suona decisamente male.

Un ruolo importante, che non vi stò a dire, nell'economia della narrazione, ha un manoscritto di Vaslav Nijinsky, un famoso ballerino russo di inizi secolo; i suoi "Diari" sono stati stampati presso la Adelphi, 2000.

Nel finale, c'è una bella ripresa del concetto base che dicevamo, nel dire di un simbolico riincontrarsi con dei trapassati: "…c'erano tutti…benchè non esistesse una vita nell'Aldilà, non esistesse sopravvivenza, vita oltremondana, meno che mai salvezza…ma riflessi di me stesso che prendevano vita per non sentire quell'assooluta solitudine che accompagna, tutti noi, in ogni momento della nostra crociera nel mare dell'essere." (pag. 326).

Per concludere, dunque, ancora un esempio di come la Sf sia in grado di veicolare concetti altrimenti difficilmente comprensibili ai più, in un modo, cioè, da istruire divertendo.

E, con questo romanzo, l'Asciuti vi è riuscito decisamente appieno.

In appendice, c'è una nota autobiografica, direi, quasi, romanzata, dell'autore.

Fantasy

LA SAGA DEI VIRHEL, di Gianni Pilo

"I libri di fantasy" n. 2, ed. Fanucci, '82; 202 pagine, 8.000 £; © by Fanucci Editore

 

Romanzo di Space Fantasy, a me ha ricordato "I vendicatori di Carrig" di John Brunner ((The Avangers of Carrig, '69), "Cosmo argento" n. 119, ed. Nord, '82), e "L'ultimo pianeta al di là delle stelle" della Le Guin ((Rocannon's World, '66), "Cosmo argento" n. 296, ed. Nord, '99, col titolo "Il mondo di Rocannon"), in quanto a struttura esteriore.

Fusco, nel saggio introduttivo, opera un parallelo, invece, con van Vogt e Vance; sul primo sono in accordo con lui, in quanto a complessità e, soprattutto, in quanto a vorticosità degli eventi che vi succedono, mentre per quanto riguarda Vance, c'è da dire che le descrizioni paesaggistiche dell'americano sono di una qualità molto ma molto superiore a quelle del Nostro, in quanto a capacità di creare atmosfere.

Dico subito che questo romanzo non mi è piaciuto un gran che, tanto è vero che dopo i primi nove capitoli ne ho interrotto la lettura. Comunque, in questi primi capitoli vi sono alcune cose interessanti da notare, al di là della trama, facilmente schematizzabile. L'impressione generale che se ne ricava è quella di assistere dall'alto ad una partita a scacchi di dimensioni galattiche, e, questo, unito alla relativa semplicità delle mosse, fa si che...

"...donna cominciò a parlare, ed il suono melodioso delle sue parole fu come il tintinnio di gocce d'acqua su un bicchiere di cristallo.". Non è certo alta prosa, ma qualcosina c'è, di buono!

A questo punto mi viene da dire che codesto romanzo, prima di comparire in questa veste, era già stati pubblicato, a puntate, su Sf...ere; là, in più, c'erano delle illustrazioni del bravissimo Alessandro Bani, mentre qui il Gianni ha aggiunto le parti dell'enciclopedia galattica; tra i due teast, ci sono delle differenze, anche se non sostanziali: "...Alti calici di cristallo, poggiati su steli sottilissimi, erano disposti dinanzi a piatti di argento cesellato, ...e di argento sbalzato erano fatte anche le posate che si trovavano sulla tavola imbandita.

I posti che attendevano i commensali erano tredici: sei per parte ed uno a capo tavola, ma non si vedeva alcuno." (Sf...ere-inserto pag. 57)-"Degli alti calici di cristallo poggiati su steli sottilissimi erano disposti dinanzi a piatti d'argento cesellato, e sempre d'argento sbalzato erano fatte anche le posate che si trovavano sulla tavola imbandita.

Gli scranni che attendevano i commensali erano tredici: sei per parte ed uno a capotavola, ma in giro non si vedeva nessuno." (pag. 81).

Altro espediente letterario usato più di una volta, è quello dello svenimento per questa o quella causa, e il successivo rinvenire del malcapitato in un altro luogo, il suo riprendere coscienza; è un classico, questo lo sappiamo tutti; perfino della Divina Commedia, lo troviamo!

A pagina 94, troviamo la descrizione scritta di quella pittorica del Bani a pagina 64 dell'inserto della rivista; Sandro l'ha visualizzato molto bene, ed altrettanto bene riprodotto.

Interessante, in uno degli estratti della fantomatica enciclopedia galattica, la storia dei Guardiani stellari, divenuti una "razza di superuomini", a causa di una mutazione genetica che li ha dotati di "poteri paranormali quali la telecinesi, la levitazione, la precognizione e diversi altri.", e il loro proposito di utilizzare queste loro risorse a fini di pace, anzichè di dominio imperiale; qui il Gianni dice che "Verrebbe logico..." (pag. 97) pensare che, in sintesi, si provi una certa qual sensazione o illusione di potere, di essere come dei burattinai del cosmo.

Questa impressione viene poi ad acuirsi nelle parti in cui il Gianni inserisce degli inserti della Storia Galattica (vedi trilogia galattica di Asimov), in cui si trovano spiegazioni sulle origini dei vari popoli, le guerre, le rivalità...dunque un vero e proprio testo storico di un futuro galattico lontanissimo, che, più che altro, serve a dare un attimo di respiro alla narrazione molto serrata, ponendo il topos letterario ad una distanza considerevole, come se, improvvisamente, la macchina da presa, da uno zoom ravvicinatissimo, si spostasse ad una distanza, appunto, astronomica.

La trovata più originale risulta quella dell'installarsi dello spirito di Klein, il primo re di Cihr, nel corpo di Kalmar, allo scopo di portare a termine una ben determinata impresa, durante la quale avvengono, come al solito, infiniti episodi che, in definitiva, risultano ben più interessanti della trama vera e propria, che è, in questo tipo di opere, per lo più di carattere surrettizio che basilare. Segue quella della mescolanza tra armi ed apparecchiature ultramoderne ed invece rudimentali mezzi di trasporto oltre che di offesa e difesa.

Interessante, a pag. 64, la descrizione della caccia di Rahaz, il capo del clan della tigre, uno dei tanti clan in cui sono suddivisi gli umani di quel pianeta. In quanto ad espedienti letterari, ecco, a pagina 68: "...che avevamo lasciato...", facilmente ritrovabile, ad esempio, nell'Orlando Innamorato; durante tale battuta di caccia, il capo clan viene rapito, ma poi, velocissimamente, in soli quattro paragrafi, lo vediamo liberarsi, scappare, ritrovarsi fra i suoi nella sua posizione di partenza, facendo così fallire il tentativo di abdicamento forzato, o meglio di colpo di stato a suo favore...ma la trama, ricordo, ve la lascio scoprire a voi, a chi di voi vorrà farlo.

Nel settimo capitolo troviamo il tipico salvataggio della donzella in pericolo, topos classico dei poemi cavallereschi e, di conseguenza, degli innumerevoli romanzi di cappa e spada. Poco più sotto, nella stessa pagina (80), troviamo un buon esempio della liricità che a volte il Gianni raggiunge: "Fu allora che la...ad una facile campagna di conquista di tutto l'universo conosciuto da parte di quella superrazza.". A me non sembra affatto vero, è molto più logica la scelta oprata dai guardiani, ovvero una scelta di pace, di utilizzazione in positivo dei loro poteri.

Ecco due esempi, poi, di descrizione banale se non ridicola, ed uno dei tanti pensieri profondi che ogni tanto fanno capolino: "Val-Arn, (uno dei guardiani) grazie soprattutto allo scudo protettivo azzurrino che ancora lo avvolgeva, dava l'impressione di un essere mitico"; "L'enormità del deserto che lo (Kalmar) circondava gli faceva sentire quanto fosse piccolo e fragile davanti alla forza della natura".

Ultima nota di una certa rilevanza, a riguardo di questa frase: "Nell'immenso fluire dell'universo, le linee dei nostri destini si sono incrociate e, per un breve attimo, hanno camminato insieme... Penso sia ben difficile che, nel corso della nostra esistenza, tale evento possa verificarsi una seconda volta." (sempre Val-Arn).

GLI OCCHI DELLA NOTTE, di Enzo Conti

"I libri di fantasy" n. 8, ed. Fanucci, '83; 211 pagine, 8.000 £; © by Fanucci Editore

 

Di Enzo Conti Pilo, nell'introduzione, dice che ha "...bruciato le tappe...", nel senso che è arrivato a questa sua prima esperienza professionale, dopo che i suoi racconti giravano nelle fanzine da appena la metà dell''82.

In ogni modo, nel volume sono compresi un romanzo, quello del titolo, più un romanzo breve, "Il patto".

Il romanzo, di conseguenza, non è molto lungo, 129 pagine; innanzi tutto, vi dirò, a me è piaciuto abbastanza, così, a puro livello di gradimento estetico personale e velleitario; comunque, per dire qualcosina di un attimino più pregante, c'è da dire che caratteristica principale del modo di scrivere di Conti sono le frasi brevi, scattanti, e una trama lineare, non eccessivamente complicata, molto facilmente seguibile, gustabile, con poche concessioni al superfluo.

Le scene sembrano, a volte, trascinarsi un pò troppo per il lungo, ma ciò non viene a connotarsi negativamente, nel senso che va a finire che ci si accorge solo alla fine di un capitolo che ciò che vi è stato descritto è un accadimento molto limitato, ma senza che se ne sia ricavata un'impressione di stiracchiamento; buon esempio il sesto capitolo, in cui l'unica cosa che succede è l'attraversamento di un ponte da parte di alcuni personaggi; poco più di sei pagine, niente di forzato, tutto funzionale alla trama.

Pilo, sempre nell'introduzione, parla di fantasy religiosa, e a ragione: il substrato è indubbiamente religioso, anche se, a risaltare, a fare interessante il tutto, stà proprio il netto contrapponimento tra la valutazione religiosa e quella storica dei fatti; in sintesi il messia che stà al centro della narrazione è mal interpretato dal clero, per ignoranza, mentre coloro che sanno, disprezzano la religione come un mucchio di fandonie.

Direi che la posizione che si profila è piuttosto gnostica, con il destino a svolgere un ruolo decisamente centrale. Non c'è, poi, una gran fiducia nella possibilità dell'uomo di giostrare il proprio destino a proprio piacimento, ma, piuttosto, lo si vede come quasi un'entità a se stante, quasi tangibile, che gioca le sue carte al di là dei desideri e delle speranze degli uomini...un pò come in alcune tragedie dell'antica Grecia.

I vari protagonisti dell'opera sono, in un certo senso, stratificati, cioè hanno ognuno una visione di ciò che realmente accade, chi più chi meno consapevole, una specie di scala di consapevolezza, che, in definitiva, diventa anche una scala di potere. La conoscenza come potere, quindi, ma con sempre quel qualcosa di ineluttabile che soverchia tutti quanti, e che, alla fine, soprafarrà gli intenti di tutte le parti in gioco, gettando il tutto in un nulla di fatto.

Sconfitta si della religione dogmatica, fondata sull'ignoranza, ma sconfitta anche di quelli che sanno; e tale sconfitta, significativamente, viene proprio da un fattore non calcolato, non calcolabile, ovvero da un innamoramento, proprio fra due esseri posti agli estremi opposti della scala di consapevolezza; il messia che non sa di esserlo e che è il più sballottato dagli avvenimenti, e colui che è maggiormente cosciente di ciò che stà accadendo.

Razionalità e religiosità sconfitti, dunque, dall'empatia fra esseri umani, che scavalca pregiudizi, progetti e millenni di storia e tradizioni, che si pone su di un piano di atemporalità, di rivoluzionarietà; l'amore è dunque scardinante, anche qui, più di qualsiasi altra cosa. Ma anch'esso dovrà subire le angherie del destino.

Il romanzo breve "Il patto", è molto denso, innanzi tutto, nel senso che accadono più cose qui che non nel romanzo; l'atmosfera è molto pastosa; profumi e sensualità, mistero e morte, schiave, e un rito pagano della fertilità. Una vendetta e una quest al centro dell'opera, più il patto di sangue che diviene unione mistica fra due donne.

Anche qui la trama è lineare, ma molto debole il finale; sempre nell'introduzione, Pilo dice che questo brano fa parte di un ciclo; ciò, penso, può essere il motivo per un finale siffatto, in cui l'atmosfera sapientemente creata si disfà, si scolora, non perviene ad una sintesi, ad una conclusione reale; si ha il vago senso di qualcosa di incompiuto, di lasciato lì, si vorrebbe sapere come va a finire, al limite si prospetta come un buon inizio che avrebbe potuto trovare la sua soddisfazione in se stesso, e che invece si è voluto aprire ad una molteplice possibilità di proseguimento.

Alla fin fine mi auguro di poter reperire altri brani di detto ciclo, per sapere che fine faranno Alinor di Seregonn, la prostituta-guerriera, Evill, la ex Suprema, e se mai il loro patto di sangue si scioglierà, con la morte di Sharu, il sacerdote...che, chiaramente, è esattamente l'intento di Conti!

LA DEA DEL LAGO, di Tullio Bologna e Michele Martino

ed. La regione, '83, 136 pagine, 7.000 £; © by Editrice "La regione"; finalista (2), premio "Italia" ‘84

 

Altri contributi critici

 

-"Recensione", in "S&F" n. 1, ed. Italy press, '84, pag. 105

-"Biblionews", in "Dimensione cosmica" n. 1, ed. Solfanelli, '85, pag. 31

 

Questa è, per Bologna e Martino, il primo impegno sulla distanza del romanzo; con esso si sono classificati al 2° posto al "Premio Italia" '84.

Il volume, ben introdotto da Adalberto Cercosimo, e con una splendida copertina di Mario Di Donato, reca la dicitura: "Romanzo di heroic fantasy"; effettivamente così è, anche se chi predilige un certo tipo di h.f. non dovrà farsi ingannare da tale etichetta, in quanto non si tratta certo di cose alla Burroughs del ciclo marziano, alla "Almuric" di Howard o alla "Trilogia di Marte", di Moorcock.

Qui, l'azione si dipana molto lentamente, e non nel modo rutilante e vorticoso di quel particolar modo di intendere l'h.f..

Caratteristica saliente della struttura della trama, è il suo essere divisa in due parti molto ben distinte, anche se non graficamente. Nella prima vengono presentati al lettore i tre personaggi, gli antecedenti che li porteranno, nella seconda, alla loro comune destinazione.

Per quanto riguarda questa prima parte, c'è da dire che gli autori hanno dato un rilievo particolare ad uno dei tre eroi, il primo ad esserci presentato, Raimondo, la cui narrazione del motivo del viaggio al lago luminoso e della prima parte della stessa occupa tutti i primi sette capitoli, praticamente un terzo dell'intera opera.

Il motivo della quest, dunque, immancabile, ma è un fantasy che non si avvale del secondary world, ma che si svolge in un ben preciso contesto storico-geografico, il medioevo, e, per la precisione, l'anno domini 1350, nel nostro paese, in cui vengono inseriti personaggi quali gnomi, silfidi, ondine e simili che siamo soliti trovare in ambienti decisamente più fiabeschi.

In questo testo, invece, questi si trovano accostati a precise descrizioni di fatti storici, legati al vissuto personale dei protagonisti, che, a volte, appesantiscono la lettura.

Infatti, se a pagina 54 vi è un breve inciso di storia medioevale, motivato dall'inizio, per i personaggi, di un nuovo anno, altrove tali cronache divengono ben più che incisi, e la loro evidente non necessità all'economia dell'opera li rende, appunto, pesanti.

Lo stile, non particolarmente eclatente, quello tipicamente aulico dell'h.f., raggiunge, comunque, a volte, anche momenti di lirismo non dozzinale, apprezzabile per la riuscita creazione di situazioni che riescono a trasmettere quel quid di atmosfera che si instaura fra le persone e le cose.

Per concludere, un'annotazione: c'è sesso, e anche non a piccole dosi, cosa che, comunque, non è tanto rara, per fortuna, nella fantasy, contrariamente che nell'Sf

Per finire, Marco Solfanelli scrive che il romanzo avrebbe venduto: "...in quantità soddisfacente..."; in mancanza di dati più precisi, è comunque decisamente confortante, soprattutto vista la piccolezza della casa editrice.

 

"Algenib notizie", n. 9/10-aprile '91

IL NIDO AL DI LÀ DELL'OMBRA, di Renato Pestriniero

"Thule" n. 10, ed. Solfanelli, '86, 136 pagine, 10.000 £; © by Marino Solfanelli Editore; premio "Italia" ‘’87; tradotto in catalano

 

Altri contributi critici

 

-"Zanzibar", di Luigi Bruno, "L'eternauta" n. 48, ed. Produzioni Carttons s.r.l., '86, pag. 23

 

Romanzo vincitore dell'edizione '84 del "Premio Tolkien", l'unica in cui vi fù quella categoria.

Questa la motivazione della giuria, quell'anno composta da Gianfranco de Turris, Mario Bernardi Guardi, Franco Cardini, Giuseppe Lippi, Giuseppe Pederiali e Alex Voglino: "Per averci dato, lo scrittore veneziano, con la sua opera più matura dal punto di vista stilistico e tematico, una storia fantastica del tutto italiana in cui all'interesse della vicenda si aggiunge un valido retroterra simbolico"; il romanzo ha vinto anche il premio Italia e il premio Europa '87.

Ambientato nella sua Venezia ai giorni nostri, ha come caratteristica rilevante quella di essere un fantasy con tendenze all'horror lovecraftiano, con la prospettata esistenza, al di là del nostro piano di realtà, di altre dimensioni, interagenti con la nostra.

Il tema del libero arbitrio, centralissimo in tutta la produzione dell'autore, è, poi, centralissimo; si ipotizza infatti la sua non esistenza, le nostre azioni determinate interamente dalla lotta fra due opposte fazioni, quella del Cosmo e quella del Caos che, nel nostro pianeta non sono riuscite ad avere il sopravvento l'una sull'altra, e che continuano a lottare.

Lo stile è scorrevolissimo, stringato, tutto essenziale alla trama; nell'insieme un gran bel romanzo, con emozioni a ripetizione.

 

"Algenib notizie" n. 16, '91

LO SPECCHIO DI ATLANTE, di Bernardo Cicchetti

"I libri di fantasy" n. 28, ed. Fanucci '91, 202 pagine, 17.000 £; © by Fanucci Editore

 

"...sogni e specchi hanno in comune più di quello che si può pensare.(...)...sono porte comunicanti con Realtà adiacenti alla nostra." (pag. 87). In un tipico Secondary World vi è una statua, "...la regolatrice delle leggi che lo governano..." (pag. 19), che è malata, e di conseguenza, provoca molteplici distorsioni nella realtà: "La vita si incarnava in forme atipiche." (pag. 85); "La ragazza era stesa sul giaciglio del suo sonno perenne. Lei era stata uno dei primi sintomi della malattia di Atlante.Dormiva dal giorno della sua nascita." (pag. 28); "Erano sempre più numerose le nascite deformi.(...) Si diceva di un oste la cui bocca era diventata un grugno porcino. Di un cane cui erano diventate braccia le zampe anteriori.(...) Un intero villaggio era stato ingoiato da una nube senziente." (pagg. 85-86).

Bisogna sostituirle una ghiandola, ma il materiale di cui è fatta è introvabile, in quel mondo, e, cos', bisogna cercarla altrove; la trama è incentrata proprio sulla quest di questo metallo immaginario, la "drimite". La prima parte di questa ricerca si svolge in una sorta di universi paralleli che Heron, un apprendista mago, può raggiungere attraverso i propri sogni: "...tutti riusciamo a dirigere le nostre fantasie notturne. Tu crei. In altri termini, i tuoi sogni esistono. In un altro continuum, ma esistono.(...)...tu interagisci con un altro universo, o, addirittura, con altri Universi." (pag. 22); "...con piani di realtà preesistenti." (...) "C'è una parte di te, della quale non hai consapevolezza, che presiede alla creazione e provvede a colmare le lacune." (pag. 23).

Ma la cosa riesce solo a metà, infatti la quantità di drimite recuperata è troppo scarsa, e, per di più, viene rubata attraverso uno specchio: "...una mano concreta, non un prodotto del riflesso della luce, una mano di carne, simmetrica della destra del Mago, emerse dallo specchio.

Zephiro, sbalordito, vide sul volto del suo riflesso un sorriso che lui non aveva. La mano afferrò la sua mezza ghiandola e si ritrasse.

Adesso il simmetrico di Zephiro, la sua immagine...reggeva fra le mani l'organo completo. Laggiù, oltre lo specchio." (pag. 78). La seconda parte è incentrata proprio sulla quest della ghiandiola pineale, l'organo da sostituire, ritenuto la sede dell'anima in quel mondo oltre lo specchio. Interessante un accenno alla necessità di mantenere l'equilibrio fra le varie realtà, che ricorda quella analoga fra i continuum spazio-temporali dei viaggi nel tempo: "...non possiamo modificare ad arbitrio la quantità di materia presente in un Universo. (...) In caso contrario si provocherebbe la rottura dell'equilibrio interno ad ogni realtà, con lo sconvolgimento delle forze che le rendono stabili." (pag. 34).

Divertente uno dei viaggi negli specchi della seconda parte, in un mondo tecnologico, unico non magico, in cui Heron si trova del tutto disorientato, e in cui, d'altra parte, lui appare buffo allo scienziato che, in quel mondo, è l'immagine del suo Maestro: "Il dottore gonfiò le guancie e strabuzzò gli occhi. Soffiò un paio di volte, spruzzando saliva. Infine, non riuscendo più a contenersi, esplose in una risata titanica." (pag. 107).

Quella del Maestro è una figura assolutamente centrale: della sua morte sono accusati i suoi due apprendisti, Heron e Kalamon; ma si scoprirà non essere stato nessuno dei due, ma...importante il significato simbolico di quest'uccisione: "Ogni allievo desiderava uccidere il proprio Maestro.(...) Gli allievi ci pensano sempre a dare la morte ai loro maestri e, prima o poi, ci riescono. In un modo o nell'altro. Il modo più diffuso è quello di superarli, e non è meno letale che un omicidio." (pagg. 193-194; la sottolineatura è mia).

Alla fine si viene a creare una contrapposizione fra due mondi tra di loro simmetrici, in lotta per non regredire, ma guarire: "Questa realtà e quella sono simmetriche: ecco la risposta. La nostra stà degradandosi, la loro...depurandosi, per le disfunzioni di Atlante-Atlan." (pag. 174).

È senz'altro una lettura molto impegnativa, anche se tutta tenuta su di un tono piuttosto scherzoso, per le implicazioni filosofiche non da poco che comporta. Ma, come ho detto, è narrata nel più classico stile della fantasy, con tutti i suoi bravi mostriciattoli ed incantesimi: omuncoli, piccoli esseri alati, demoni dalle impronte di fuoco, corpi astrali, ecc..

Al romanzo fa seguito un poscritto dell'autore, in prosa poetica: "Mi piace sognare, ed essere sogno.

E continuare ad essere.

E non, in un attimo, svanire, cancellato dalla luce del mattino." (pag. 202).

Pecca del volume, senz'altro, quella di essere priva di qualsivoglia apparato critico.

 

"Alpha Aleph" n. 2, '93

Horror

CONCERTO ROSSO, di Pier Luigi Berbotto

"Omnibus", ed. Mondadori, '85, 365 pagine, 20.000 £; © by Arnoldo Mondadori Editore

 

Altri contributi critici

 

-"Viaggio agli inferi alla scoperta di una "Torino magica"", di Leda Di Malta, "Grazia" del 14/4/'85

-"Dialogo sul romanzo fantastico italiano", di Alessandro Scarsella, "Oltre..." n. 4, anno II°, ed. Villaggio globale, '92, pag. 65

 

Nella mia ricerca di pietre preziose nel mare della letteratura fantastica italiana mi sono imbattuto in questo romanzo, credo poco conosciuto nel nostro ambito, prima prova sulla lunga distanza del suo autore, che aveva precedentemente al suo attivo alcuni racconti su "Paragone".

Il dubbio che potesse, effettivamente, in qualche modo rientrare nel nostro genere devo dire mi ha assillato non poco, perchè temevo potesse rivelarsi esclusivamente un buon giallo, per quanto magico (o mistico?) come da risvolto di copertina. Ma quanto avevo subodorato dalla recensione di Leda Di Malta si è poi rivelato esatto.

C'è quel quantun sufficente di sense of wonder che lo rende parte di quella non sovrabbondante ma esistente schiera di opere che stanno fra la Sf e il giallo (vedere a questo proposito "Il giallo come narrativa insolita", di Renato Besana, "La collina" n. 1, ed. Nord, '80), certo intendendo Sf nel senso molto ampio di letteratura fantastica, cosa che ultimamente ci siamo abituati a fare (vedi, in particolare, l'introduzione da parte di Vegetti a "Il gioco delle perle di vetro" di H. Hesse, nell'elenco annuale ufficiale delle opere fantastiche pubblicate nel nostro paese, "Cosmo informatore" n. 1/'85, ed. Nord).

Direi, per entrare nel vivo della trattazione, che si possa parlare di un prolungato e reiterato sospingere il lettore verso una sospensione del giudizio, quel ben conosciuto stato di incertezza fra il protendere per una soluzione razionale e una irrazionale, che in questo testo però non viene lasciata tale fino alla fine; infatti l'autore nell'ultimo capitolo, evidentemente centrale per importanza, e molto più lungo degli altri, propende definitivamente per la spiegazione irrazionale, anche se vi è una specie di riserva, a un certo punto: "Dunque era stato tutto un sogno?", benchè subito rimangiata: "...la memoria dei fatti si prospettava troppo netta...perchè al tutto potesse venire sbrigativamente apposta l'etichetta di sogno." (pagg. 335-6). Quel qualcosa che non può essere sogno, ma che l'Io del protagonista tenta, per un attimo, di razionalizzare per non esserne travolto, è un'escursione, da spettatore inosservato e inosservabile, nella Torino del 1731, alla quale giunge attraverso una soglia spazio-temporale, vero nucleo della fantasticità dell'opera, e che a me ricorda il bellissimo Nodi, di Renato Pestriniero (in "La collina" n. 2, ed. Nord, '81, e in "Sette accadimenti in Venezia", "Biblioteca del cigno" n. 22, ed. Solfanelli, '85), vero capolavoro e punta di diamante di cui possiamo, a ragione, andare orgogliosi.

Altro tema classico che vi si riscontra è quello dei paradossi temporali, che per il modo in cui è esposto mi fa seriamente pensare che l'autore non sia del tutto all'oscuro dell'esistenza del mondo della Sf.

Il protagonista stà infatti per intascarsi un foglietto con l'idea di riportarlo ai giorni nostri, quando pensa: "Ma la stessa confusione che faccio nei tempi dei verbi, quando volgo la mente a cose della mia epoca, m'induce a rinunciarvi. Nessun mio gesto-perchè dimenticarlo?-potrà mai alterare il già stato; neppure l'irrilevante sottrazione d'un foglio dalla sede che gli è toccata." (pag. 314). Quel già stato è infatti segnale di una ben massiccia e consistente presenza, nella teorizzazione del concetto portante del novum specifico dell'opera ("...il novum è quell'incognita che, secondo Suvin, aggiunta al racconto dà la caratteristica più riconoscibile della Sf...il novum propriamente sarebbe uno scarto temporale-storico della nostra attività." (dalla nota 4 a "La ricerca del modello fantascienza, tempo, analisi" di P.F. Conti, "Arcon" n. 2, '85, pag. 58. Cfr. "La fantascienza e il novum" di Darko Suvin, in "La fantascienza e la critica", ed. Feltrinelli, '80), del pensiero abissale nietzschiano dell'eterno ritorno dell'uguale.

Il resto è trama, da leggersi senza averne anticipazione; pecche rimarchevoli, direi, due: l'eccessiva lunghezza, nel senso di risultare in più punti stiracchiato; secondo me se fosse stato alleggerito un pò qua e là il tutto ne avrebbe giovato; e poi una costruzione sintattica delle frasi a mio parere troppo pregna di arcaismi, anche come scelta stessa dei vocaboli.

 

"La spada spezzata" n. 16, giugno '86

MANIAX, di Giovanni Arduino

"Narrativa" n. 184, ed. Sperling & Kupfer, '95; 226 pagine, 15.000 £

"Final fantasy" & Co. insegnano; "Maniax" è, infatti, un videogioco, sinceramente non so quanto reale o di pura fantasia, che, nelle pagine di questo libro, prende vita.

Vi si immagina, infatti, che un hacker, per creare in traquillità i suoi virus, vada a stare in una tipicissima casa maledetta, infestata fino al midollo di male e demoni ferocissimi; che rimangono molto attratti dai videogiochi che vedono nei computer dell’hacker, fino al punto da, appunto, materializzare i demoni di uno di essi: "Maniax".

La trama vede uno scrittorucolo di romanzacci horror (!!!) e i suoi amici alle prese con questi demoni virtuali diventati decisamente qualcosa di molto più terrificante, e micidiale.

Ma, il racconto, procede davvero ai limiti del sopportabile, fra una quantità incredibile di termini inglesi (che fanno molto in), un turpiloquio sovrabbondante, e scarsi momenti nei quali la prosa, quasi, sembra avvicinarsi a qualcosa tipo…la prosa.

Peccato per l’Arduino, che qui si firma con lo pseudonimo di Joe Arden, ma, questa, è decisamente una prova mancata.

LA SINDROME, di Dario Argento

ed. Bompiani, '96, © by '96, R.c.s. Libri & Grandi Opere S.p.a.; 227 pagine, 27.000 £

ùUnico romanzo del regista cult, tratto, ovviamente, da un suo film, "La sindrome di Stendhal"; la trama dice molte più cose, del film, a partire da una sequenzialità temporale degli accadimenti lineare, invece che a flash back, come nel film, mentre il finale è lasciato a dei nastri, nei quali la protagonista parla allo strizzacervelli che l’ha in cura, nei quali scopriamo ciò che, nel film, viene invece raccontato normalmente.

E ciò che risulta è che, l’Argento, oltre che ha filmare, è bravo pure a scrivere; si, perché questo romanzo è scritto bene, e, per giunta, mostra una buona capacità di utilizzazione di linguaggi; la parlata della poliziotta protagonista, e dei suoi colleghi, è assolutamente realistica, e le scene di violenza efferata, che contraddistinguono la sua opera, sono descritte con un’abbondanza di particolari che li rende i tremendi che la sua filmica dice con altri mezzi, mostrando, al contempo, l’incredibile conoscenza, dell’autore, dell’animo umano: "…è come parlare, anzi, è parlare: e quindi non si fa fatica come a scrivere, lì prima uno deve pensare, e lo sforzo che si fa a far seguire alla penna il ritmo del pensiero costringe a trascurare molte cose." (pag. 199), si legge ad un certo punto, nel dire di quei nastri che abbiamo detto, che mi è parso significativo.

 

Fantastico

BÀRNABO DELLE MONTAGNE, di Dino Buzzati

"I Garzanti" n. 442, ed. Garzanti, '77, "Oscar narrativa" n. 1416, "Scrittori italiani", ed. Mondadori

 

Altri contributi critici

 

-"Invito alla lettura di Buzzati", di Antonia Veronese Arslan, "Invito alla lettura" n. 23, ed. Mursia, '74, pag. 53

-Al "Caffè Letterario" di Milano si è tenuto, il 29 gennaio 2002, un incontro con Marcella Borghi su di esso

-vedi il mio "Il realismo magico di Buzzati"

 

Fu questo il primo lavoro letterario di Dino Buzzati; esso non può ancora essere definito romanzo, ma piuttosto racconto lungo, che del racconto ha la struttura narrativa e la trama. Valutato dalla critica in disparati modi, rimane comunque indispensabile lettura per chi voglia addentrarsi nell'universo buzzantiano.

È una storiella leggera, con una "struttura narrativa molto esile", come ebbe a dire lo stesso autore, una storia che però oltre alla trama spicciola racconta molte altre cose. La storia è semplice: Bàrnabo è un guardiaboschi, e insieme a pochi suoi compagni monta la guardia ad una vecchia polveriera, poichè si sa che sui monti si nascondono dei briganti. Un giorno un vecchio guardiaboschi viene ucciso, ed iniziano le ricerche. Quando ormai sembra tutto inutile, e quasi ci si è dimenticati dell'assassinio, viene avvistata una colonna di fumo che sale dalle crode più inaccessibili dei bricchi, e Bàrnabò sale a vedere con il suo compagno Berton; nulla.

Ma i briganti assaltano la polveriera, ed è in quel preciso momento che accade qualcosa alla vita di Bàrnabo; egli commette un atto di viltà, poichè invece di combattere fugge davanti all'aggressore. Viene allontanato dal servizio di guardaboschi, e andrà a lavorare da un suo cugino in pianura, a fare il contadino. È un vero e proprio esilio, e alla fine decide di ritornare alle sue montagne. Ma là tutto è cambiato, i guardaboschi ora risiedono in paese, e la polveriera è stata abbandonata. A lui viene affidato il compito di guardiano della casa dei guardiaboschi. Lì ritrova la felicità, e quando, alla fine, i briganti tornano per l'ultima volta, pur potendo ucciderli tutti, rinuncia alla vendetta e al trionfo.

Quest'opera racchiude in sè gli elementi futuri del discorso letterario di Buzzati, anche se non ancora esplicitati completamente nel suo tipico simbolismo. La storia acquista il suo vero sapore, la sua giusta dimensione, nell'atmosfera magica, al di fuori del tempo, in cui si svolge; benchè alcuni particolari lascino intuire che la vicenda si svolga nel primo decennio del secolo, è proprio questa una, come dicevamo, di quelle ancora larvate caratteristiche che rendono l'universo letterario buzzantiano una delle più vaste riserve di immaginario della letteratura italiana.

Nella prima parte, che descrive la vita dei guardiaboschi, già si notano le singolari presenze che animano gli elementi del paesaggio di una propria vita e il senso angoscioso del trascorrere del tempo: "Il sole si leva dalle grandi cime, gira sopra la casa dei Marden, e tramonta dietro il colle verde. Soffia il vento della sera, portando via un'altra giornata." (pag. 7); "Senza che nessuno vi faccia caso, il tempo continua a passare; siamo già verso l'autunno e molti ricordi vanno perduti." (pag. 34).

I rapporti interpersonali tra i guardiaboschi sono descritti con una lucidità eccellente, così come con un certo realismo viene descritta la festa del paese per l'inaugurazione della nuova casa dei guardiaboschi. Comunque il realismo di quest'opera prima è solo un residuo che verrà successivamente abbandonato; Paul Guiton parlava di "freschezza e realismo dimostrati dallo scrittore nella descrizione dell'ambiente alpino."

Altro elemento che risulta di primaria importanza è il prefigurarsi del tema simbolico della montagna, che traspare ad ogni istante, riempiendo ogni atto ed ogni azione in sua funzione. È una presenza incombente, magica, in cui si agitano presenze misteriose, che incute timore e reverenza, è implacabile desiderio di capire, di svelare, di scalare le sue crode inaccessibili proprio sulle quali sembrano manifestarsi i suoi misteri; altro elemento, questo del simbolismo, che rende quest'opera decisamente meravigliosa, di un favolismo che non utilizza quasi mai quelli che sono i meccanismi che siamo soliti ritrovare nelle opere etichettate fantasy, ma che, senza dubbio, lo permea in tutta la sua struttura: "Bàrnabo… sente come non mai la vicinanza delle montagne, con i loro valloni deserti, con le gole tenebrose, con i crolli improvvisi di sassi, con le mille antichissime storie e tutte le altre che nessuno potrà dire mai." (pag. 122). Dicevo "quasi"; leggete un pò qua: "Tanti anni prima, nei boschi, si trovavano una specie di piccoli spiriti. Del Colle (il guardiaboschi ucciso dai briganti) li aveva ben visti qualche volta. Così leggeri, verdi come il prato, potevano essere stati loro a impedire i lavori della strada? Certo è che con i colpi di fucile, uno sparo oggi, uno domani, con l'arrivo dei lavoranti, con i rimbombi delle mine, gli spiriti della foresta forse erano stati disturbati e chissà dove si sono nascosti... Del Colle tira fuori di tasca una piccola armonica (...) Gli spiriti amavano quelle canzoni e dopo un pò...comparivano tra i tronchi." (pag. 19).

Questo è il punto culminante della trama, il preciso momento attorno a cui ruota l'intera vicenda, concentrato in un'unica pagina, di una concisione allucinante, in cui si avverte tutto il senso dell'impotenza, dell'irreparabile, del fato maligno. Così Buzzati ci scaraventa, dopo una cinquantina di pagine di narrazione pacata, nell'azione frenetica di quegli attimi: "Oltrepassato il contrafforte, Bàrnabo scorge quattro individui coi fucili che strisciano verso la polveriera". L'azione precipita, un brigante giunge alle spalle di Bàrnabo, e lo minaccia con lo schioppo. Ed ecco il momento, terribile e allucinato: "Un tremito nelle gambe. La lingua che non riesce a muoversi. Bàrnabo si ritira qualche passo, si getta dietro un lastrone. Si sente paralizzato dalla paura, se ne rende perfettamente conto, mentre si moltiplicano vicini gli spari." (pagg. 59-60).

Ed è tutta qui la sua vita, spazzata via dalla sua inabilità di cogliere il momento.

In altri termini, quindi, un sentimento di scoramento di fronte al già accaduto, una visione del passato come fatalmente condizionante il presente ed il futuro, dato proprio da quell'accadimento repentino; una decisione da prendersi in una frazione di secondo, lo sbaglio, e il segno che esso poi lascia per tutta la restante vita; non vi è rimozione, troppo importante, emotivamente, il cambiamento provocato, troppo legato a quelle montagne, quella gente, quei dirupi perchè ciò possa avvenire, in lui.

Tornando, comunque, al testo, dopo l'esilio, ad accompagnarlo nella sua nuova vita, solo una cornacchia, quella che, involontariamente, l'ha scaraventato nella rovina. In essa sembrano riflettersi gli stati d'animo di Bàrnabo, e può risultare interessante andare a rivedere in che modo sia entrata nella vicenda. Stava scendendo da un'ennesima esplorazione in cerca dei briganti, sulle crode, quando vede la cornacchia, ferita, su un masso; si ferma a curarla, perdendo quegli attimi che gli avrebbero permesso di giungere in tempo alla polveriera per la sparatoria. Poi la cornacchia lo seguirà sempre, fino a che gli si affezionerà.

Interessante notare come la sua vita in pianura praticamente non esista, come egli viva solo e unicamente in uno stato di interiorizzazione completa, in cui nulla significano i propri compiti quotidiani, tutto teso a vivere nel ricordo, nella tensione a quella vita perduta, che viene idealizzata.

Il tempo corre via con una velocità vertiginosa, agghiacciante, resa artisticamente con una tecnica che Buzzati applicherà poi anche nel "Deserto dei Tartari", e cioè con il susseguirsi di brevi capitoletti distanti l'uno dall'altro mesi e anni, che bene esprimono lo stato interiore sopra indicato. E la cornacchia, giorno dopo giorno, perde forze, si debilita, e sempre più insistentemente punta lo sguardo verso le montagne, finchè un giorno, con uno sforzo supremo, spicca il volo verso di esse. E anche Bàrnabo torna; là tutto è cambiato, o, meglio, sono cambiate le cose degli uomini: "Ecco la casa dei Marden. È diventata ancora più vecchia" (pag. 110); ma le cose vere, la natura, no: "Guardò insistentemente le pareti corrose e verticali, toccò con le mani i tronchi degli alberi, ascoltò con piacere i ben noti rumori. Nulla davvero era mutato." (idem).

Nella vecchia casa, da solo, crede di aver ritrovato la pace, ma: "Ma ormai non si sente più tranquillo; continua ad aspettare qualcosa, come aveva fatto per anni e anni. Deve venire il 25 Settembre, arriverà bene la sua giornata." (pag. 112). Aspettando qualcosa, sempre, come sempre, una delle angoscie della poetica buzzantiana, così umana e così vera. Lì cerca con tutte le sue forze di ritrovare l'atmosfera dei bei tempi, quel qualcosa sui cui aveva fantasticato quando era in pianura, va alla polveriera, e i ricordi scorrono in lui, e in un momento di sconsolazione tenta addirittura di recitare un turno di guardia, come se il tempo fosse tornato indietro, ma: "Per quanto si sforzi, neppure nelle giornate più belle Bàrnabo sa ritrovare la bellezza di certe mattine quando era guardiaboschi." (pag. 113); "Sembra che il tempo ci metta tanto a passare e poi invece fugge come il vento.", e giunge il 25 Settembre, giorno in cui i briganti avevano detto di tornare.

Gli altri guardiaboschi, che avevano promesso di raggiungerlo, non si fanno vedere, provocando un suo scatto d'ira. Ma c'è un fuoco sulle crode, il fuoco dei briganti, ed è: "...come se egli si fosse liberato da tutti gli affanni." (pag. 123).

Eccolo, sulle crode, ad aspettarli: "Per sè, Bàrnabo davvero non sente il bisogno di prendersi una vendetta" (pag. 128); "Sarà invece la sua vittoria; i nemici precipitati nel fondo, il suo ritorno al paese, il racconto meraviglioso. Il racconto, proprio il racconto. Egli ci tiene a poterlo narrare ai compagni; ed è tutto qui, c'è poco da dire." (pag. 127).

E alla fine arrivano, ed ecco che di nuovo assistiamo al dilatarsi del tempo, al suo fermarsi, in un preciso momento, e la grande vittoria, il rompersi di un incanto: "Stavolta non è per paura, ma qualcosa è rimasto indietro insieme con la fuga del tempo. Bàrnabo, in silenzio ha un sorriso, il suo fucile si abbassa, le sue mani si sono allentate." (pag. 129).

Tutto è riparato, l'evento è compiuto: "Le montagne sono nascoste ma si sentono vicine; sono immobili e solitarie, sprofondate nelle nubi." (pag. 132).

Bàrnabo, in effetti, non è un personaggio, non ha caratteristiche personali, individuali, di uomo singolo, ma è un tipo, un ricettacolo di sensazioni e di vite multiformi, in cui non ci si può immedesimare, ma nel quale si sentono vibrare sensazioni che sono dell'Uomo.

Ne è stato tratto un film, omonimo

 

 

"The Dark Side" n. 4, anno 4°, '85

 

IL SEGRETO DEL BOSCO VECCHIO, di Dino Buzzati

"I Garzanti" n. 442, ed. Garzanti, '77, "Oscar narrativa" n. 1319, "Master junior" n. 5, ed. Mondadori

 

Altri contributi critici

 

-"Invito alla lettura di Buzzati", pag. 56

-"Il fantastico nobilitato", in "Le frontiere dell'ignoto", di Vittorio Curtoni, "Saggi" n. 2, ed. Nord, '77, pag. 193

-"Utopia anni trenta", di Cecilia Ghelli, "Linus" n. 4/'82, ed. Milano libri, pag. 118

-"Nel bosco di Buzzati", di Giuseppe Tesorio, "Corriere della sera" del 6/4/'91, su una riduzione teatrale

-"Al tavolo di redazione, sognando i boschi e gli abissi", di Giulio Nascimbeni, "Corriere della sera" del 6/10/'93

-"Buzzati, quanti bambini nel bosco vecchio", di Giovanna Grassi, "Corriere della sera" del 7/3/'99

-vedi il mio "Il realismo magico di Buzzati"

 

"Il segreto del bosco vecchio", è un racconto lungo, e forse sarebbe più giusto dire che è una lunga fiaba, in quanto a struttura, come anche "Barnabò delle montagne", col quale è edito nell'edizione Garzanti.

Pubblicato nel '35, passò praticamente inosservato a causa della situazione politica italiana estremamente tesa e piena di paure.

Abbiamo detto fiaba, e non a caso, che della fiaba ha tutte le caratteristiche essenziali. Benchè all'inizio della narrazione si ponga un anno ben definito, il 1925, come tempo in cui si svolge l'azione, qui ancora più che in "Barnabò delle montagne" abbiamo un tempo metastorico, da cui è avulso ogni riferimento alla realtà storica. Inoltre, abbiamo la tipicizzazione della lotta fra le forze del Male e quelle del Bene, basilare elemento del fantasy da sempre, e quindi dei personaggi che sono unicamente dei tipi, senza uno spessore psicologico; si descrivono, attraverso di essi, simboli, non esseri umani reali, immersi in un ambiente reale.

Ma andiamo con ordine: il colonnello Sebastiano Procolo prende in eredità un appezzamento di terreno nella Valle in Fondo, e, inoltre, la cura degli interessi dei terreni del nipote Benvenuto. Nei suoi terreni è compreso il così detto Bosco Vecchio, in cui "Da centinaia e centinaia d'anni non era stata tagliata neppure una pianta." (pag. 137); ma il colonnello vuole sfruttarlo razionalmente, e ordina il taglio di alcuni alberi.

Ed è a questo punto che entra in scena la favola, con uno slittamento graduale, ma deciso, nell'irrazionale e nel fantastico. Questo slittamento è tipico delle fiabe moderne, in cui i contorni di una realtà fino a poco prima creduta normale diventano a poco a poco incerti e favolosi, creando una credulità ed una adesione del lettore alla storia, che certo non potrebbero sussistere se fin dall'inizio fosse stato palesato il carattere anomalo del racconto. Il primo slittamento lo abbiamo quando il colonnello arriva nel bosco insieme ad una commissione forestale che vorrebbe fermare la sua opera di distruzione; Bernardi, uno di questi, per giustificare le sue suppliche, racconta una leggenda per cui il bosco sarebbe stato piantato da un vecchio brigante, secoli prima, e poi aggiunge: "...ma chi lo dice, colonnello, che Giacomo non possa tornare? Le dirò di più; lo si aspetta da un momento all'altro, può darsi che sia di ritorno proprio stasera." (pag. 145).

Si arriva, poi, al punto più significativo, all'introduzione a quella che sarà la vera atmosfera del racconto; il colonnello, infastidito dal gracchiare di una gazza, le spara con un fucile; lei, caduta a terra, così lo apostrofa: "-Vigliacco-gridava la gazza-adesso mi hai ferita gravemente. No che non ti dirò chi ho visto passare stanotte, no che non te lo dico." (pag. 149). E lui non si scompone minimamente, anzi, intavola con l'animale una conversazione serrata.

A questo punto tutta la narrazione si è spostata su di un piano completamente fantastico, e veniamo a sapere che Bernardi è uno dei geni che dimorano negli alberi del Bosco Vecchio, e che il vento Matteo è stato imprigionato in una grotta sotterranea. Il colonnello libera Matteo, e così si delineano chiaramente quelle che sono le contrapposizioni fra Male e Bene: da una parte il colonnello e il Vento Matteo, dall'altra i geni del Bosco Vecchio e il nipote Benvenuto. Gli scopi delle forze del Male sono due: principalmente, il taglio degli alberi del bosco, e, poi, l'uccisione di Benvenuto per ampliare la tenuta.

Al taglio del primo albero assistiamo ad una scena magistrale, in cui il genio che sta per morire insieme a quell'albero viene salutato da tutti gli altri, con un accenno ad un paradiso per alberi veramente divertente.

Nel frattempo assistiamo al dilatarsi del fantastico, e man mano Buzzati ci avverte che tutto è animato, pensante, perfino i mobili, i sassi, le montagne, e ci troviamo di fronte ad una profonda, formicolante, vita delle cose, una specie di esplosione vitale che dà un nome a una struttura espressiva a tutte le cose.

Il dodicesimo capitolo è forse uno dei più significativi, e, comunque, contiene il succo di tutta la storia; il colonnello va, una sera, al Bosco Vecchio, perchè avverte che proprio quella sera vi succederà qualcosa di insolito; giuntovi, infatti, vi trova una festa dei geni, con il Vento Matteo che tenta di cantare delle canzoni di cui però non ricorda mai tutte le parole; ad un certo punto interviene la voce di un bambino, a cantare, e i due riescono a portare a termine il canto, in un'atmosfera da idillio naturale. Ma il colonnello vi riconosce quella del bambino Benvenuto, e lo sgrida, provocandone la fuga. La festa si smorza, si spegne, e tutti se ne vanno, con un'aria di desolazione immensa.

L'ultimo genio risponde all'ovvia domanda del colonnello: "...i miei compagni, lo confesso, hanno avuto sempre una propensione per i bambini." (pag. 183); "A una certa età tutti voi, uomini, cambiate. Non rimane più niente di quello che eravate da piccoli. Diventate irriconoscibili. Anche tu, colonnello, un giorno, dovevi essere diverso..." (pag. 184).

A questo punto penso che la nostra trattazione abbisogni di un'affermazione estremamente importante per la comprensione dell'opera; la trama è molto frammentaria, fatta di brevi capitoletti che il più delle volte potrebbero essere favole a sè stanti, ed alcuni lo sono nel senso più pieno della parola, come il capitolo in cui si narra della lotta tra il vento Matteo ed un altro vento, più giovane e più forte, che alla fine prenderà il predominio sul territorio prima controllato da Matteo.

Dal capitolo tredici inizia la serie dei tentati attentati ala vita di Bernardo, che si risolveranno sempre in un fallimento, sia quello tentato personalmente dal colonnello, lasciandolo da solo nel Bosco Vecchio, sia quello di Matteo, che tenta di schiantare una vecchia casa in cui il ragazzo si era rifugiato.

Da questo punto alla fine del racconto abbiamo un intrecciarsi fittissimo di episodi diversi, che si intersecano continuamente. Dalla parte del colonnello e di Matteo si mette anche un topo, di cui Benvenuto ha occupato il materasso in cui era solito dormire, il quale lo minaccia di morte il ragazzo. Veniamo poi a sapere che Benvenuto è solito andare a giocare con i suoi coetanei in un prato al limitare del Bosco Vecchio; questi giochi sono: "...incomprensibili faccende..." e "...poche cose sono misteriose e ancor oggi difficili da penetrare come i giochi dei ragazzi di campagna." (pag. 231). Ogni qual volta sul posto giunge il colonnello per spiate il ragazzo, tutto svanisce: "Basta però la presenza di un solo uomo adulto a rompere quella specie di incanto." (pag. 232, in nota).

Ancora un salto di scena, ed ecco un episodio di chiaro significato allegorico: l'arrivo di una strana carrozza da cui escono infinite farfalle che si dirigono verso i Bosco Vecchio. Il colonnello compera una radio, ma non riesce ad ascoltarla per i continui disturbi, "...quasi il rumore che fanno i boschi quando ci passa il vento." (pag. 251). Bernardi, genio del bosco, confida al colonnello che si tratta del lamento degli alberi, che sentono una minaccia incombere su di loro. Ed infine ecco la sciagura; un'infinità di vermi invade il Bosco Vecchio, incominciando un'opera di distruzione lenta ma inesorabile. Per salvarlo, il vento Matteo raduna un esercito di icneumoni, insetti ostili ai vermi; la battaglia è lunga, ma alla fine il Bosco Vecchio è salvo.

Altro episodio molto importante è quello narrato nel trentesimo capitolo, che si riallaccia strettamente al dodicesimo. Qui abbiamo una conversazione tra Benvenuto e Bernardi, in cui quest'ultimo pronuncia le seguenti parole: "Eppure verrà un giorno, non so quando...ricordatelo, mi par già di vederti, ne ho visti troppi ormai di uomini...ecco, tu verrai al bosco, girerai tra le piante, ti siederai con le mani in tasca, continuerai a guardarti attorno, poi te ne andrai via annoiato." (pag. 267). E poi racconta di come ciò sia già accaduto, con altri ragazzi che prima giocavano nel prato vicino al Bosco Vecchio e che parlavano con i geni e cantavano con il vento Matteo: "Come se il bosco sembrasse loro diverso"; "Eppure non si poteva più intenderci..."; "...Loro ci passavano vicini senza darci neppure un'occhiata..."; "Non riuscivano più a vederci, ecco la ragione, non udivano più le nostre voci..."; "Avevano finito di essere bambini, non se l'immaginavano neppure. Il tempo, c'è poco da dire, era passato anche sopra di loro e non se n'erano affatto accorti." (pagg. 268-9).

Poi Benvenuto rischia di bruciare vivo per uno dei giochi misteriosi dei ragazzi, e si ammala, sia fisicamente che moralmente, in quanto sembra aver perso ogni voglia di vivere. Nella notte bussano alla porta: "Erano cinque incubi..."; "Siamo gli incubi per il ragazzo malato..."; "Il colonnello non parve stupirsi...e precedette le cinque parvenze fin sulla soglia della camera di Benvenuto." (pagg. 277-8).

Nel frattempo il colonnello è dichiarato colpevole da una giuria di animali per il tentato omicidio del nipote.

Le vicende si susseguono a ritmo serrato; l'ombra del colonnello, stanca di tutte le sue malefatte, decide di abbandonarlo. Scacciati gli incubi, Procolo uccide il topo che stava per far cadere una trave su Benvenuto. Poi stende un accordo con i geni perchè guariscano il ragazzo e in cambio promette di non toccare più il bosco, e l'ombra ritorna al suo posto. L'azione si quieta, anzi, pare immobilizzarsi, e il colonnello si richiude in una vita solitaria e pigra, fino a quando il vento Matteo, la notte di capodanno, lo avvisa che Benvenuto è stato travolto da una valanga, notizia che poi si rivelerà falsa.

Il finale è melodrammatico, forse un pò forzato; il colonnello esce nella notte e nella neve con una pala per salvare il ragazzo, ma muore assiderato. Il vento Matteo, legato misteriosamente a lui, muore, a suo modo, con un'ultima conversazione fra lui e Benvenuto, con cui si chiude il discorso iniziato nel dodicesimo capitolo e proseguito nel trentesimo: "Del resto, questa forse è la notte famosa in cui tu finirai di essere bambino...è una netta barricata che si chiude d'improvviso...non li capirai più, quando parlano, gli animali, nè gli uccelli, nè i fiumi, nè i venti...rideresti anzi di queste cose." (pag. 316).E Matteo s'innalza: "...fino a che fu completo silenzio." (pag. 320).

Arrivati alla fine, ci si rende conto che in effetti Buzzati ha voluto sì, fare una fiaba, ma certo non ha rispettato tutte le regole: il Male non rimane tale fino in fondo, e il Bene, come abbiamo visto, lo è al punto tale da dare suggerimenti all'avversario; il colonnello si redime muore per fare del bene. Questa è la morale, che risalta con estrema efficacia: la natura dell'uomo porta inequivocabilmente e inesorabilmente all'allontanamento da quello stato naturale e fanciullesco in cui si ha la capacità di meravigliarsi sempre e di tutto e di ascoltare le mille voci del Mondo.

Ne è stato tratto un film omonimo 

 

"The Dark Side" n. 2, '87

L'UOMO È FORTE, di Corrado Alvaro

ed. Bompiani, ’38, poi almeno 7 edizioni, l’ultima del ’45, "Garzanti per tutti" n. 66, ed. Garzanti, ’66, "I delfini" n. 23, nuova serie, ed. Bompiani, ’74, "Tascabili" n. 353, "I grandi tascabili" n. 348, ed. Bompiani, ’84, ‘94

 

Spesso, nel vivere come nel leggere, nella letteratura, troviamo, nel passato, cose nelle quali, con un sorriso, scorgiamo segni, abbozzi di qualcosa che è oggi.

Ecco; in questo bellissimo romanzo di Alvaro, prevalentemente, ho scorto questi segni, che dicono bene, credo, quanto acuta, sottile, fosse la mente dell’autore.

"…ogni epoca ha la civiltà che corrisponde ai mezzi meccanici di cui si serve. E gli uomini d’oggi non sono altro che a immagine e somiglianza degli apparecchi radio…. Noi non ci apparteniamo più. Qualche cosa ci ha invaso. Qualcuno è padrone di noi. Non materialmente, ma moralmente. Ha invaso i nostri sogni, i nostri pensieri, i nostri propositi e la nostra volontà…ognuno crede di essere un’altra persona…. Tutta la gente che lei rasenta per istrada crede di essere altro…più sono livellate più credono di essere qualcuno." (pagg. 232-3-5-6; qui, e per le successive: dalla prima edizione).

Nel quale sembra proprio di leggere di quel dibattito, così odierno, su cosa i moderni mezzi tecnici di comunicazione potranno cambiare, nella vita, e negli animi degli uomini.

"…vivendo come noi viviamo, ognuno di noi entra nell’altro, invade l’altro, occupa l’altro di sé." (pag. 232).

È un romanzo, essenzialmente, fantastico nell’accezione nella quale lo possono essere, prevalentemente, le opere di Kafka; intriso ad ogni parola di un simbolismo denso, e al contempo molto criptato, e, appunto, nel quale il mistero, il dubbio, l’incertezza del razionale sono continuamente messi alla prova.

Uno straniero giunge in un Paese, appunto, imprecisato ed indistinto, nel quale aleggia un’atmosfera decisamente inquietante: "Si trovava in un mondo in cui c’era qualcosa di proibito, e senza una ragione evidente; proibito come in un seminario, dove tutto obbedisce a motivi che sfuggono a un estraneo e che hanno la loro origine in una dottrina e in un metodo…. Pericoloso come il peccato. Ma esisteva in questo mondo nuovo il peccato?" (pag. 20).

Ed è proprio questa, il suo essere un Mondo Nuovo, la sua caratteristica essenziale; quasi una sorta di Utopia, nella quale si esperimentano nuove modalità di convivenza: "Il mondo intero deve essere pulito, senza ombre, senza dubbi, senza segreti, senza veleni di desiderii e di nostalgie. Ora esiste una pianta umana che non siamo riusciti ad estirpare del tutto. È una intera razza di uomini. Essa deve scomparire. Dopo, il mondo sarà felice, soltanto dopo. Deve essere felice…. Non è ancora nato l’uomo nuovo. Bisogna distruggere tutto quello che è privato, personale, intimo, e che è la causa di tutti i mali di cui soffre oggi l’umanità…. Tutto quello che l’umanità ha compiuto di grave e di delittuoso negli ultimi secoli dipende esclusivamente da questo senso privato, dal sentimento della propria persona." (pagg. 115-6; le sottolineature sono mie); nel quale si dice, in sintesi, ciò di cui, effettivamente, si dice nel romanzo.

La problematica società/individuo, vista, prevalentemente, nell’aspetto della privacy, che la modernità, indubbiamente, minaccia: "…in questo modo si corre il pericolo di alimentare negli altri proprio quel senso individuale che si vuole estirpare; l’individuo, sentendosi aperto da tutte le parti, cercherà i suoi segreti in cose che in condizioni diverse non lo interesserebbero affatto…. L’uomo è abituato a vivere per sé. Lo abitueremo a vivere per la collettività." (pagg. 116-7).

Questo, delle piccole cose alle quali l’individuo si attacca per riuscire a sentirsi tale, è ripreso più volte, e detto molto bene, nella prosa che, per lunghi tratti, risulta davvero ottima, perquanto, come abbiamo visto, un pochino lontana da quella nostra di oggi.

E, questa contrapposizione individuo/società, è detta per mezzo del senso di colpa; un senso di colpa, come dire, generalizzato, indistinto, che l’individuo, appunto, sente, nei confronti della società, come se anche il suo agire normale lo dovesse comportare: "Ma noi non facciamo niente di male… Potremmo fare del male…ci comportiamo come se ci fosse qualcosa di male." (pag. 43; il corsivo è implicito nel senso, anche se non nel testo); "Quello che noi facciamo…è un delitto? Non lo sa nessuno. Ma noi ci regoliamo come dei delinquenti. Operiamo come si trattasse di un crimine." (pag. 75); "Ho il dubbio che vogliano espiare perfino le colpe che non hanno commesse. Espiare così, in generale, come se scontassero delitti che portano nel sangue da secoli." (pag. 88); "…un peccato d’origine…di un’umanità intera." (pag. 97); "…una colpa che echeggiava in profondità misteriose, in una specie di vita predestinata dalla stessa formazione delle loro fibre." (pag. 215).

Senso di colpa che si accompagna ad un sentire estremamente paranoico, del Potere, come di qualcosa di terribilmente accostabile alla divinità, o che, forse meglio, avesse preso il posto, nella psiche, di quello lasciato vuoto dalla Morte di Dio: "Agivano come alla presenza di un individuo che vedesse tutto e cui era impossibile nascondere ogni più piccolo atto o pensiero. Questi non era un essere divino; forse ne era l’immagine e il ricordo…con un’onnipotenza e un’ubiquità da dio…che si era sostituito al cielo e all’inferno, e che dominava di sé anche i sogni notturni." (pag. 82); "Gli accadeva come nel tempo in cui, giovinetto, quasi ragazzo, aveva orrore del peccato che portava in sé, in un’età di fede e di religione profonda, il peccato che è in ognuno di noi contro noi stessi, seminato da un dèmone invisibile: allo stesso modo che allora, in quegli anni lontani, aveva parlato al Signore, umiliandosi in ogni fibra del suo essere, si rivolgeva ora a quest’uomo dal piccolo gesto e gli diceva mentalmente che non voleva mancare in nulla contro di lui." (pag. 85).

E, questo aspetto dell’educazione religiosa, viene ripreso, ed ha una sua importanza notevole: "…se fossi stata educata dai religiosi, ti accorgeresti che è la stessa cosa. Che quando ti sei messa nell’animo l’idea del peccato non te la levi mai più. Ti sembra sempre che qualcuno ti veda e ti giudichi.""(pag. 181), in cui si sintetizza ciò che si vuol dire con quel senso di paranoia che abbiamo detto.

E la rivolta, il tentativo di restare individui, dei protagonisti, ancora, tipico di ogni Utopia, non a caso un Lui e una Lei, ad un certo punto ha come un cedimento, prende la direzione della facilità, del facile che potrebbe portarli a vivere senza più angoscia: "Sarebbe molto bello trovarsi d’accordo con tutta questa gente ed essere come loro; essere come tutti gli altri, in pace." (pagg. 180-1); "Tornare come gli altri. Tornare come tutti gli altri…potere andare insieme dappertuto senza paura." (pag. 183); "Ci voleva ben poco per essere tranquilli, essere d’accordo con tutti, essere come tutti, non nascondere nulla" (pag. 201); in cui, evidentemente, c’è il richiamo prepotente della collettività, invitante, insidioso.

E, ancora, molto kafkianamente, questa colpa, ha la connotazione, anche, di non essere; sentita, vissuta, in ogni istante, ma, terribilmente, con la consapevolezza certa di non averla; di non meritarla: "Ma in verità noi non abbiamo fatto nulla per non essere come tutti gli altri." (pag. 184).

Questa coppia di ribelli, dunque, che cerca di affermare il suo esserci, contro tutto il brutto che gli stà attorno: "Bisognava inventare un nuovo modo di amarsi, nel crollo di un mondo e nelle macerie d’ogni cosa passata….bisognava essere buoni, caritatevoli, innocenti, mentre fuori tutto era preciso e feroce." (pag. 81).

Che introduce a quello che vi si dice ad un altro livello, forse il più profondo; l’amore, la coppia, come società a delinquere regolarizzata, sentita, normalmente, per la cosa normale che è: "Essere di uno solo, riservargli qualcosa di profondo e di incomunicabile agli altri. Staccarsi dagli altri. Avere ripugnanza degli altri. Essere uno. Ecco la colpa. Bisognava essere tutti." (pag. 102).

In cui, appunto, quell’aggrapparsi a qualcosa di proprio, per rimanere individui, acquista il suo significato più pieno: "…le era rimasta una sola cosa veramente sua, ed era il suo corpo, una cosa inalienabile, ed era questo che doveva risanare e guarire." (pag. 125), in cui, quasi, mi pare di avvertire qualcosa che si era detto, evidentemente in maniera molto differente, in "The Dispossessed: An Ambiguos Utopia", della Le Guin, in cui, appunto, vi erano questi dispossessati, di loro stessi, impossibilitati a…gestirsi.

E, significativamente, è il letto ad essere fuori dalla possibilità di poter essere controllato, dal Potere: "…l’unico posto è il letto, Là non può ascoltare nessuno." (pag. 146), nel quale, infatti, poi, avverrà qualcosa di catartico, che non è, nella trama scritta, l’amore fisico, anche se, molto bene, lo è in quella che si può cogliere: "Erano chiusi in un letto, isolati dal resto del mondo. Nessuno li poteva raggiungere, nessuno li poteva toccare….erano innocenti. Innocenti come chi sappia di essere guardato. Non avevano nessuna colpa, nessun peccato, poiché alla fine avevano ridotto tutta l’idea del peccato a quesa vicinanza." (pagg. 162-3).

L’Uomo, dunque, non è, forte: "Il fragile uomo che si aggirava per quelle strade sembrava più forte e più resistente di tutto…" (pag. 16); lo è la donna: "Sono molto più coraggiose le donne." (pag. 71), che capisce le cose dell’amore molto più dell’uomo: "…entrare nell’altro essere, occuparlo, invaderlo di sé. Poiché era donna, queste cose le capiva, e meglio le sentiva." (pagg. 101-2), in cui non a caso si riprende quell’essere invasi, in questa altra, decisamente differente maniera; ad evidenziare la contrapposizione amore/sopraffazione; "…gli uomini non erano altro che fatti per tramandare la vita, e tutto, grazia, bellezza, eleganza, erano le lusinghe di questo destino naturale." (pag. 176), in cui, ancora, si ha questo evidente rovesciamento, che significa, appunto, che non è l’uomo, ad essere forte, ma la donna.

L’Uomo, invece, è vile; meschino e spaurito: "Sei vile come tutti gli altri. Sei vile perchè sei un uomo, per questo, Dale. Io non ne posso più, ecco. Tutti siamo vili. E io ho paura. Io sono una donna." (pag. 189).

Barbara, la protagonista femminile, ad un certo punto ha come un momento di scoramento, nel quale, rivivendo, come aveva fatto Dale, il suo sentire di fanciulla, risente gli uomini come: "Pazzi e scatenati", riavvertendo "…la enorme violenza del mondo", mondo nel quale "Gli uomini hanno costruito…la pompa maestosa del potere, del dominio, della forza", e nel quale "Ella si sentiva…senza difesa e senza aiuto…pensando come eludere tanta violenza." (pagg. 196-7).

La Donna, dunque, per quello che, purtroppo, troppo spesso deve dover essere, quasi un ricettacolo del Male del mondo, sulla quale si riversa, senza che ella possa poterci fare gran che: "…e come se non fosse lei a dirle, ma tutta la sconcezza del mondo parlasse per la sua bocca." (pag. 172).

Detto questo, vi sono, anche, alcune considerazioni marginali; ci sono due passaggi, il primo apparire dell’Inquisitore, personaggio molto importante: "Come sgorgando dal più profondo della memoria, il vetro d’uno di quei negozi abbandonati si aprì davanti a loro." (pag. 55), e l’arrivare di Dale in un quartiere povero, mentre è in fuga da, ancora, una oscura minaccia solamente infrasentita: "…una dimensione più palese (dove) tutto era senza mistero…" (pag. 225), nei quali quasi pare di avvertire echi della migliore letteratura fantastica, da Buzzati a Borges.

E vi si dice anche di una cosa che, curiosamente, ricorda decisamente quanto si dice in "Minority Report", di Dick, recentemente trasposto cinematograficamente, e in "Privacy", di Furio Colombo (ed. Rai-Eri/Rizzoli, 2001); di quella fantagiurisprudenza che punisce ancor prima che il delitto sia stato commesso, l’intenzione, quasi: "Ha fatto o pensato qualche cosa di delittuoso, e che non si deve fare…. Tuttti pensiamo cose delittuose." (pag. 35); "Avevano già il seme del delitto." (pag. 114).

Ed uno nel quale, quasi, si può rilevare del fantascientifico: "…mi curano con gli ultimi ritrovati della scienza rivoluzionaria." (pag. 22); medicina fantastica, in un’Utopia.

Vi si dice, poi, anche, di una cosa decisamente vera, tanto che la si può ritrovare qua e là, in letteratura, come quella della possibilità, dell’uomo, di deragliare: "…l’uomo ha una sola vita e una sola possibilità, e che sbagliato l’indirizzo delle proprie azioni non vi sia più rimedio….a un tratto, per una disattenzione, per aver misurato male le proprie possibilità, l’uomo decade in un mondo basso, tra i disperati, gli oziosi, i vagabondi, i fuorilegge." (pag. 193); "Ognuno di noi ha una strada segnata che deve percorrere. Se uno l’abbandona è perduto. Chi esce dall’orbita segnata cade…" (pag. 250), che mi ricorda una delle cose della poetica di Jeter (vedi il mio "Kevin Wayne Jeter, a friend of Dick, o dell’abisso": http://www.intercom.publinet.it/ic11/jeter.htm), anche se, qui, vista, evidentemente, sotto un’altra prospettiva: "Hanno ridotto bene il mondo. Nessuno può uscire, nessuno può rivolgere diversamente la sua vita e le sue azioni…. Un mondo divenuto tutto razionale, predestinato e predisposto." (pagg. 251-2), in cui, ancora, si risentono echi di quella primordiale globalizzazione che abbiamo detto, in un’atmosfera altrimenti esistenzialista: "Ognuno pensa all’altro in un alone di solitudine. La vita non è altro che un rasentarsi di solitudini." (pag. 250); "Si è soli." (pag. 132).

E, di quell’atmosfera kafkiana che dicevamo, ci sono, anche, dei sentimenti decisamente paranoici, dei protagonisti, ancora nei riguardi del Potere osservantigli: "…quello non poteva essere un incontro fortuito…" (pag. 113); "…convinta che il biglietto scivolato sotto la porta contenesse un avviso precisamente per lei…" (pag. 199); un dire della condizione dell’uomo nella quale, ancora, c’è un senso del Destino molto forte: "…ognuno di noi deve fornire un effetto. E non ne può uscire. Perché non ne può uscire? Non lo sappiamo. Non ci curiamo neppure di saperlo." (pag. 244), appena precedente la scena forse più kafkiano in assoluto, nella quale, abbastanza perturbantemente, vi è un repentino mutamento di atteggiamento, dal rassicurante al, appunto, perturbante: ""Non posso dirti nulla."-"Tu sai!"…-"So tutto"…-"Tu m’hai cercato!"…-"Sissignore!"" (pag. 245).

E, ad un certo punto, un dire, classico, della funzione dell’arte: "Gli uomini erano scomparsi, travolti dagli avvenimenti, dall’incalzare delle generazioni, e le cose rimanevano miracolosamente illese….letteratura e arte avevano fatto lo stesso…" (pag. 89); che penso si possa accostare a quest’altro: "Lei crede possibile…che un uomo possa passare sulla terra senza aver detto nulla di quello che ha nel cuore, e senza avere la sua parte?…io sono un uomo. Io vivo. Altrimenti, perché avrei dovuto nascere? Ci sarà una ragione." (pag. 157).

Nel finale, poi, si dice dell’Intellettuale: "…li hanno allevati a credere che si possa accomodare ogni cosa ragionevolmente, ragionando. È insomma gente che si contenta soltanto di capire, e crede così di risolvere tutto…. A che serve, capire? Non serve proprio a niente… Il mondo sa troppo. Dove volete arrivare? A capire di non capire niente." (pagg. 272-7), in cui, ancora, c’è la contrapposizione amore/violenza, anche se in un’altra prospettiva.

Moltissimo, dunque; e tutto detto molto bene, in una prosa che, come abbiamo detto, per gran parte dell’opera mantiene una qualità molto elevata; l’essere stato scritto negli anni ’40 si sente, eccome; espressioni come "pei", per "per i", "movevano", per "muovevano", "fidava", per "sperava", "menomamente", per "minimamente", "al canto del fuoco", per "accanto al fuoco", la dicono lunga.

IL DESERTO DEI TARTARI, di Dino Buzzati

"I meridiani" n. 1, ed. Mondadori, '99-tradotto in olandese come "Eenzame vesting", ’55, e "De Tartaarse woestijn", ‘72

 

Altri contributi critici

 

-"Antologia critica", in "Oscar narrativa" n. 53, ed. Mondadori, '87, con interventi di Paolo Monelli, Pietro Pancrazi, Renato Bertacchini, Giacomo Debenedetti, Carlo Bo, Enrico Falqui, Raffaele Carrieri, pag. 14

-"Invito alla lettura di Buzzati", pag. 60

-"Il fantastico nobilitato-Dino Buzzati", pag. 192

-"La fortezza e la forma: "Il deserto dei tartari"", di Giorgio Barberi Squarotti, "Letteratura italiana contemporanea", anno III°, n. 3, pag. 1

-"Buzzati e i termini del discorso umano", di Marino Biondi, "Antologia Vieussaux", gennaio/giugno '76, pag. 39

-"Il tenente Drogo da "lei" a "voi"", di Gaetano Afeltra, "Corriere della sera" del 20/9/'90

-"La scienza della fantascienza", di Renato Giovannoli, "Strumenti" n. 18, ed. Bompiani, '91, pag. 204

-"I Tartari sul tavolo del cronista", di Guido Nascimbeni, "Corriere della sera" del 30/11/'92

-"La lunga notte dei Tartari nel Corriere di Buzzati", di Guido Nascimbeni, "Corriere della sera" del 2/12/'92

-"Cronaca nera e sogni", di Franco Manzoni, "Coriere della sera" del 13/12/'92

-"Rousseau, Buzzati, Borges nella valigia del Duemila", "La speranza", di Silvio Bertoldi, "La lettura", allegato al "Corriere della sera" del 9/5/'99

-"Itinerario fantastico nei romanzi di Dino Buzzati", di Lucia Vaccarella, "Parsifal" gennaio/febbraio ’88

-vedi il mio "Il realismo magico di Buzzati"

 

"Il deserto dei Tartari" fu il primo vero e proprio romanzo di Buzzati e l’opera che gli diede la notorietà. Uscito nel '40, subito suscitò pareri favorevoli sia dalla critica che dal pubblico. Buzzati stesso ci dice come arrivò alla pubblicazione: "A quel tempo non ero legato per contratto a nessun editore. Al principio del ’39, quando il romanzo era già avanti, Longanesi mi ha chiesto se per caso avevo un romanzo da dargli per una collezione, chiamata poi "Il sofà delle Muse" (Da "Un’intervista all’autore", di Alberico Sala, introduzione al romanzo, pag. 13).

Il titolo iniziale dell’opera doveva essere "La fortezza", che poi venne cambiato per via delle possibili analogie con la già fin troppo triste realtà storica.

Per quanto riguarda la genesi artistica dell’opera, l’ispirazione, prenderemo un altro passo estremamente significativo della stessa intervista dalla quale è tratto il brano precedente, in cui ritroviamo in pieno il personaggio Buzzati: "Probabilmente tutto è nato nella redazione del "Corriere della sera". Dal 1933 al 1939 ci ho lavorato tutte le notti, ed era un lavoro piuttosto pesante e monotono, e i mesi passavano, passavano gli anni e io mi chiedevo se sarebbe avanti sempre così, se le speranze, i sogni inevitabili quando si è giovani, si sarebbero atrofizzati a poco a poco, se la grande occasione sarebbe venuta o no, e intorno a me vedevo uomini, alcuni della mia età, altri molto più anziani, i quali andavano, andavano, trasportati dallo stesso lento fiume e mi domandavo se anch’io un giorno non mi sarei ritrovato nelle stesse condizioni dei colleghi dai capelli bianchi, già alla vigilia della pensione, colleghi oscuri che non avrebbero lasciato dietro di sé che un pallido ricordo destinato a svanire. Chiaro che la stessa condizione si presenta in tutti i generi di lavoro, in tutte le carriere.

Era insomma un tema abbastanza universale, una macchina nei cui ingranaggi ero preso anch’io, ma che macinava anche la stragrande maggioranza dei miei simili." (idem, pagg. 11-12).

In queste parole si prefigura quale sia l’atmosfera e l’ansia che pervadono il romanzo, quale sia la sensazione universale che l’artista vuole trasmettere.

Il fatto, poi, che Buzzati abbia scelto l’ambiente militare per rappresentare la sua storia, ce lo spiega ancora una volta lui stesso: "...la disciplina e le regole militari erano assai più lineari, rigide e inesorabili di quelle instaurate in una redazione giornalistica... Pensavo, insomma, che in un ambiente militare la mia storia avrebbe potuto acquistare perfino una forza di allegoria riguardante tutti gli uomini." (idem, pag. 12).

Chiariti ora la genesi e l’intento artistico del romanzo, passiamo ad analizzarlo più da vicino.

È un romanzo con una trama fatta di niente e di tutto, che sembra raccontare una storia smilza e nel contempo suggerisce un’immensità profonda.

La storia. Giovanni Drogo ha finito gli studi all’Accademia militare, lascia la casa e la famiglia per il servizio militare, che trascorrerà alla Fortezza Bastiani, come ufficiale. Dovrebbe rimanervi pochi mesi, ma invece vi rimarrà fino alla morte, con la sola eccezione di una visita a casa. Se ne andrà proprio quando sta per scoppiare la battaglia col nemico, in funzione della quale ha speso tutta la propria vita, colpito da una malattia che lo stroncherà ancora in viaggio, in una locanda, da solo. Ed è tutto qua.

Ma la trama, la sua apparente insignificante esterna, è riempita da Buzzati di una profonda "allegoria riguardante tutti gli uomini" che la pervade tutta, la trasforma, trasmettendoci un messaggio che è, si, quello da lui stesso prefigurato nell’intervista, ma dal quale traspare ben altro, il vero motivo di tutta la sua opera. Innanzi tutto, fin dalle prime parole avvertiamo come, pur con un andamento cronicistico, la narrazione si ponga in un’atmosfera sfuggente, irreale, sia per l’assoluta mancanza di riferimenti storici, sia per l’uso di determinate parole che giungono a porre un accento marcato di dubbio e di attesa di qualcosa di minaccioso.

Mentre Drogo sta per lasciare la casa natale e dirigersi verso la Fortezza, in lui sorgono dei dubbi, o, meglio, delle angoscie interiori, quasi delle precognizioni su quanto lo aspetta, come ben si nota in questa frase: "Adesso era finalmente ufficiale, non aveva più da consumarsi sui libri né da tremare alla voce del sergente, eppure tutto questo era passato." (pag. 23, cap. 1).

Quell’eppure si inserisce di straforo, rovesciando il senso dell’intera proposizione, e mettendo in evidenza il significato angoscioso della fine della giovinezza, tutta passata nell’attesa di incominciare a vivere, e dell’inizio di qualcosa in cui si avverte una terribile premonizione: "...ma su tutto ciò gravava un insistente pensiero, che non gli riusciva di identificare, come un vago presentimento di cose fatali, quasi egli stesse per incominciare un viaggio senza ritorno. (pag. 24, cap. 1). Ed è poi al chiudersi del primo capitolo che troviamo il primo accenno alla Fortezza, nel quale sembrano materializzarsi i timori inconsci fino ad ora solo accennati: "In uno spiragli delle vicine rupi, già ricoperte di buio, dietro una caotica scalinata di creste, a una lontananza incalcolabile, immerso ancora nel rosso sole del tramonto, come uscito da un incantesimo, Giovanni Drogo vide allora un nudo colle e sul ciglio di esso una striscia regolare e geometrica, di uno speciale colore giallastro: il profilo della Fortezza." (pag. 28, cap. 1). Ed è qui che Drogo ha gli ultimi istanti di dubbio in cui si chiede: "...che cosa ci potesse essere di desiderabile in quella solitaria bicocca, quasi inaccessibile, così separata dal mondo."Ma poco dopo questi ultimi dubbi svaniranno.

Il giorno successivo, proseguendo sulla via per la Fortezza, scorge un ufficiale che sta percorrendo una via parallela alla sua, dall’altra parte della valle, e lo chiama, per poi proseguire il dialogo una volta che le strade si sono ricongiunte: "Quello era il primo legame e ne sarebbero venuti poi innumerevoli altri di ogni genere, che l’avrebbero chiuso dentro (pag. 31, cap. 2). Il viaggio si conclude con il capitano Ortiz che fissa le mura della Fortezza, uno sguardo in cui si possono scorgere mille significati: "Si, lui che ci viveva da diciott’anni, le contemplava, quasi ammaliato, come se rivedesse un prodigio. Pareva che non si stancasse di rimirarle e un vago sorriso insieme di gioia e di tristezza illuminava lentamente il suo volto (pag. 40, cap. 2).

Nell’economia dell’intero romanzo questi primi due capitoli sono di capitale importanza e intorno al senso di essi ruoterà poi l’intera vicenda. È il viaggio da una sicurezza alla ricerca di un’altra sicurezza, attraverso un sussultare di paure, di angoscie interiori ma anche materializzate.

Drogo lascia la casa, la madre a cui non riesce a parlare serenamente nel momento dell’addio, una madre che: "...si illudeva di poter conservare intatta una felicità per sempre scomparsa, di trattenere la fuga del tempo." (pag. 26, cap. 1). Drogo lascia anche la sua vita all’Accademia militare, tutto. Ma, appena si allontana, si ritrova in un mondo insicuro, pieno di monti e vallate, di "caotiche scalinate di creste", in cui nessuno gli sa indicare la via per la Fortezza, o, se lo fa, gli dà un’indicazione sbagliata; fino a quando, di mezzo a tutto questo caos, scorge le mura della Fortezza, che destano subito, in lui, un fascino enorme, anche se inspiegabile e ambiguo.

Quando poi strinse la mano al capitano Ortis comincia a capire, e ne trova la conferma nello sguardo rapito dello stesso sulle mura giallastre: l’ambiente militare, la disciplina della Fortezza, il cameratismo fra compagni sostituiranno nell’animo di Drogo, incapace di autonomia psicologica, la sicurezza perduta, gli eviteranno il duro compito di dovere scegliere in una realtà che gli è ostile, incomprensibile. Ma per il momento tutto ciò è solo nell’aria, a Drogo assorbirà quest’atmosfera solo più tardi, per gradi.

Questo processo di assorbimento operato dall’atmosfera della fortezza si svolge con fasi alterne, incomprensibili per lo stesso Drogo; inizialmente egli chiede di essere trasferito immediatamente, ma il maggiore Matti gli suggerisce di restare alla Fortezza almeno quattro mesi, per rendere il trasferimento più regolare e nel frattempo per fare un notevole passo in avanti per quanto riguarda la carriera militare. Benchè alquanto poco convinto della soluzione suggeritagli, Drogo finirà per accettarla: "Gli pareva così di sentire crescere attorno una oscura trama che cercasse di trattenerlo...; tuttavia una forza sconosciuta lavorava contro il suo ritorno in città, forse scaturiva dalla sua stessa anima, senza ch’egli se ne accorgesse." (pag. 55, cap. 4). E così incomincia ad inserirsi in quel meccanismo perfetto ed assurdo della Fortezza, a capirene il funzionamento, lo spirito, e una sera, mentre era il suo turno di ufficiale di guardia, si addormentata: "E, intanto, proprio quella notte-oh, se l’avesse saputo, forse non avrebbe avuto voglia di dormire-proprio quella notte incominciava per lui l’irreparabile fuga del tempo." (pag. 66, cap. 6). Evidente, qui, il richiamo al tipico preciso momento della poetica buzzantiana, che abbiamo già trovato sia nel "Bàrnabo delle montagne" che nel "Segreto del bosco vecchio", e in particolare il parallelismo con quest’ultimo, in cui si parla appunto di: "...famosa notte in cui finirai di essere bambino", e di: "netta barriera" che si chiude inesorabilmente. "Chiudono a un certo punto alle nostre spalle un pesante cancello, lo rinserrano con velocità fulminea e non si fa a tempo a tornare." (pag. 68, cap. 6).

Il tempo poi correrà via impazzito, mentre lui continuerà disperatamente a cercare qualcosa: "Fino a che Drogo rimarrà completamente solo e all’orizzonte ecco la striscia di uno smisurato mare immobile, colore di piombo." (pag. 68, cap. 6). Intanto, lentamente, fa conoscenza con gli altri ufficiali della Fortezza, sui quali grava la stessa oppressione, la stessa forza oscura, e nei quali si incominciano a distinguere chiaramente quelli che se ne andranno presto e quelli che invece resteranno.

Passano i quattro mesi, e quando sarebbe già tutto pronto per il suo trasferimento, Drogo ha come una visione, guardando dalla finestra verso il cortile della Fortezza: "Poi, per quanto fosse inverosimile, le mura...si alzarono lentamente verso lo zenit, e dal laro limite supremo...cominciarono a staccarsi nuvole bianche a forma di aironi naviganti negli spazi siderali." (pag. 88, cap. 9). Poi pensa allo squallore della città, che alla sua mente appare come in preda ad un decadimento irreversibile e tremendo, e lo confronta con la Fortezza:"Qui invece avanza la notte grande delle montagne, con le nubi in fuga sulla Fortezza, miracolosi presagi. E dal nord, dal settentrione invisibile dietro le mura, Drogo sentiva il proprio destino." (Idem).

E così non parte, o meglio, non può più partire poiché: "...c’era già in lui il torpore delle abitudini, la vanità militare, l’amore domestico per le quotidiane mura." (pag. 90, cap. 10).

Incomincia la pazza corsa del tempo: dal 10° all’11° capitolo passano due anni. Questo undicesimo capitolo è una interessantissima digressione dalla vicenda del romanzo, in un mondo onirico, che si rivelerà poi in un certo senso premonitore; Drogo sogna di essere tornato bambino e, affacciandosi alla finestra, di vedere un corteo di fantasmi che si appressa; lui vorrebbe chiamarli, ma non sono venuti per lui, bensì per un altro bambino, in cui Drogo riconosce Angustina, un altro ufficiale della Fortezza; ma poi capisce: essi sono usciti dall’abisso per prendere il bambino e non riportarlo mai più; Augustina sembra felice, e: "...si allontanò nella notte, con nobiltà quasi inumana." (pag. 103, cap. 11).

Dal 12° al 15° capitolo si svolge un episodio che è poi tutto in preparazione di un solo singolo evento. Sotto le mura della Ridotta Nuova compare un cavallo, mentre all’orizzonte si scorge una striscia scura che si muove; l’agitazione si impossessa di tutti, e un rimescolio guerriero si propaga per i meandri della Fortezza." (pag. 119, cap. 12). Ma il colonnello Filimore, a capo della Fortezza, esita, combattuto fra la smania di dare l’allarme generale tanto atteso ed il timore di un’ennesima truffa, di un’ennesima illusione: "...troppe volte si era ingannato, adesso basta." (pag. 134, cap. 14). Proprio quando stà per cedere e proclamare lo stato di guerra, giunge un messaggio, in cui si comunica che quegli uomini che si stavano avvicinando, sono, sì, soldati del "Regno del Nord", ma disarmati, e col solo compito di stabilire la linea di confine in alcuni tratti non ancora delineata: "Giù per la pianura del nord dilaga quella inoffensiva parvenza di armata e nella Fortezza tutto ristagna di nuovo nel ritmo dei soliti giorni." (pag. 141, cap. 14).

E si giunge alla spedizione, all’episodio importante: i soldati della Fortezza arrivano in ritardo alla cima contesa e rimangono bloccati su di una larga cengia ghiaiosa da una violenta ed improvvisa nevicata, e lì devono passare la notte; a capo della spedizione vi sono il capitano Monti e Angustina; i due si mettono a giocare a carte sotto la neve, ostentando indiffrenza alle intemperie per non perdere completamente la faccia di fronte agli ufficiali nemici, fermi sulla sovrastante vetta, di cui rifiutano l’aiuto, che permetterebbe loro di scendere a valle. Ma anche quando quelli se ne vanno, Angustina rimane esposto, invece di ripararsi sotto le rocce con gli altri. A nulla valgono le esortazioni del Monti, così incomincia la lenta morte del giovane ufficiale, inframmezzata da flash back sul sogno di Drogo, in parallelo; è una morte piena di dignità, di "nobiltà quasi inumana".

Poi la vita alla Fortezza ritorna calma ed uguale a quella che è sempre stata. Passano altri due anni, giunge la primavera in un baleno e nell’animo di Drogo si affaccia una strana sensazione, quasi di noia, di ribellione: "E intanto fermentano teneri desideri, non è facile stabilire con esattezza cosa si vorrebbe, certo non quelle mura, quei soldati, quei suoni di tromba." (pag. 168, cap. 17); e decide: "Adesso ritorna alla pianura, rientra nel consorzio degli uomini." (Idem). Ma tutto questo suo slancio viene brutalmente frenato: in città il tempo sembra trascorrere molto più velocemente, corrodere tutto e tutti e vi si respira un’aria di decadenza infinita: "La casa gli pareva vuota in confronto ad un tempo, dei fratelli uno era andato all’estero, un altro era in viaggio chissà dove, il terzo in campagna"; "Aprì una finestra, vide le case grigie, i tetti dopo i tetti, il cielo caliginoso." (pagg. 170-1, cap. 18). Anche la madre è diventata estranea e i vecchi amici sono scomparsi. Va a trovare Maria, che sembra essere stata una sua vecchia fiamma, ma: "Ma qualchecosa si era messo fra loro." (pag. 175, cap. 19), e non riescono a dirsi nulla di sincero, solo vuoti discorsi sul tempo, facezie come di due che non si siano mai conosciuti.

Poi Drogo fa domanda per essere trasferito in città, ma viene a sapere di un nuovo regolamento, per cui ci sarà una notevole riduzione di organico alla Fortezza e se ne andranno quelli con una maggiore anzianità. Dovrà rimanere ancora lassù. La vita alla Fortezza è ora notevolmente mutata: tutti i suoi amici se ne sono andati. A ranghi ridotti, tuttavia, si cerca di mantenere i vecchi sistemi, le vecchie regole perfette, geometriche, fino all’eccesso di precisione. Ma ecco che qualcosa giunge a turbare quella nuova quiete: guardando con un canocchiale all’orizzonte: "...dove ogni immagine svaniva entro alla cortina perenne di nebbia, gli parve di scorgere una piccola macchia nera che si muoveva" (pagg. 198-9, cap. 22).

Su questa presenza si incominciano ad accentrare tutti i pensieri di Drogo; il tempo passa via fulmineo, ma lui continua ad aspettare: "C’era poi la speranza segreta per cui Drogo sperperava la migliore parte della vita... Venuta la buona stagione gli stranieri avrebbero ripreso i lavori della strada" (pag. 216, cap. 24). Quel movimento all’orizzonte sembrava avvicinarsi progressivamente ed è appunto da ciò che Drogo arguisce la costruzione di una strada su cui poi giungeranno i mezzi pesanti dell'esercito nemico. Ma poi, improvvisamente come sono giunti, anche quegli uomini si allontanano, scomparendo. Ormai Drogo è alla Fortezza da quindici anni. Tornando da una breve licenza, rivive i momenti del suo primo viaggio verso casa, ma in un’altra posizione, cioè in quella del capitano Ortiz, quando vede sulla strada, al di là della valle, un giovane ufficiale che lo saluta: "Capì Drogo come un’intera generazione si fosse in quel frattempo esaurita, come lui fosse giunto ormai al di là del culmine della vita, dalla parte dei vecchi, dove in quel giorno remoto gli era parso si trovasse Otiz" (pagg. 223-4, cap. 25).

"Si volta pagina, passano mesi ed anni... Ha cinquantaquattro anni, il grado di maggiore ed il comando in seconda del magro presidio della Fortezza". (pag. 230, cap. 27), ma è anche ammalato, e seriamente, e passa tutta la giornata a letto. E poi la bomba: "Vengono! Vengono!... Dalla strada vengono, se Dio vuole, dalla strada del nord! ...la guerra!" (pagg. 234-5, cap. 27). Drogo rimane abbagliato, prega Dio: "Fammi star meglio, te lo scongiuro, almeno per sei sette giorni" (pagg. 235-6, cap. 27).

Intanto arrivano i rinforzi dalla città e si devono sgombrare le stanze per ospitarli. E lo scacciano. "Un’ira tremenda si ingorgò nel petto di Drogo. Lui che aveva buttato via le cose migliori della vita per aspettare i nemici, che da più di trentanni si era nutrito di quell’unica fede, lo scacciavano via proprio adesso che finalmente la guerra arrivava?" (pag. 241, cap. 28). Ma non c’è nulla da fare, per lui è inutile, e perde la sua camera.

Intraprende il viaggio verso la "vile pianura" con un senso di assoluto abbandono, in cui "Non gli importa più di nulla, assolutamente." (pag. 249, cap. 29); e decide di fermarsi a passare la notte in una lurida locanda, per ritardare il suo rientro nell’odiata città, ormai completamente estranea. E lì, da solo, in una stanza buia, "Gli parve che la fuga del tempo si fosse fermata, come per rotto incanto." (pag. 252, cap. 30) ed è a questo punto che nell’ultimo capitolo, Buzzati rovescia la sua posizione psicologica, trasformando in trionfo morale la solitudine squallida in cui termina la storia di Drogo. E la morte diviene il nemico di fronte al quale i Tartari e tutto il resto scompaiono. Essa costituisce un nemico che infine Drogo può affrontare direttamente, tremendo e avvincente; ed egli si sforza di "scherzare con il pensiero tremendo" e di affrontarlo con coraggio, fino a che gli diviene "cosa semplice e conforme a natura.". Un alito di vento; la porta si schiude: è la morte. E "nel buio, perché nessuno lo veda, sorride."

L’apologo si conclude, ed è assolutamente completo. Il protagonista, trascorsa tutta la vita aggrappato disperatamente a una sicurezza ambigua, solo alla fine, una volta che la fuga del tempo si è arrestata, intuisce la futilità di tutto, la propria meschinità e perfino la vanità di una morte come quella di Angustina, che prima gli era sembrata desiderabile. Si riscatta, perciò, affrontando la morte, il grande mare buio e immobile, che sente essere ciò che effettivamente ha sempre aspettato, e in cui perlomeno gli pare di ritrovare un minimo di quel qualcosa di grande che ormai ha perduto.

Un elemento assai interessante che emerge qua e là dal romanzo è come il protagonista non si ponga neppure il problema di completare la propria personalità attraverso un legame amoroso. La donna è vista come momentaneo oggetto di piacere: "...una locanda dove (...) si udivano fresche risate di ragazze con cui si poteva fare l’amore" (pag. 91, cap. 10), oppure come vaga nostalgia di un focolare, surrogato di quello domestico; non una donna precisa, ma un elemento femminile abbastanza generico e impreciso, simbolo, al massimo, di un fascino che altri esercitano, come risulta evidente dall’episodio con la ex fidanzata.

Anche qui, poi, vi è un unico personaggio, Drogo, e gli altri sono solo pallide comparse che vivono in sua funzione.

Ne è stato tratto un film omonimo

ANEMIA, di Alberto Abruzzese

"Riflessi" n. 15, ed. Theoria, '84, 146 pagine, 7.500 £; © by Edizioni Theoria s.r.l.

 

Altri contributi critici

 

-"Vizi privati di pubbliche figure", di Antonio Caronia, "Linus" n. 4/'85, pag. 112

 

Dopo l'enorme successo letterario de "Il nome della rosa" di Umberto Eco, ecco che un altro semiologo tenta la via della narrativa; e per la prima volta, come dice Antonio Caronia. Nella stessa recensione troviamo questa indispensabile indicazione: "...una tendenza che sembra timidamente affiorare nella letteratura italiana...gli scrittori mett(o)no in scena figure pubbliche del nostro tempo...spesso colti nel loro soccombere all'ineluttabile forza di situazioni che essi dovrebbero (si suppone) padroneggiare e che invece li trovolgono."

Nel romanzo di cui andiamo a trattare questa tendenza si manifesta come "...lo scacco della razionalità di fronte all'irrazionale..."

È, comunque, di primaria importanza il fatto che l'autore sia un ottimo conoscitore ed estimatore delle ghotic stories, come dimostra ampiamente nel suo ottimo saggio "L'abbandono della sacra dimora" (in "Racconti di fantascienza", "Cultura politica" n. 182, ed. Savelli, '77, pag. 189), in cui, in una delle sezioni in cui si articola, dà un'interpretazione decisamente stimolante del "Dracula" di Bram Stoker ("Oscar classici" n. 380, ed. Mondadori).

La storia è, nel complesso, estremamente lineare: un potente, un burocrate del P.C.I., come risulta evidente, anche se l'autore non ne esplicita la sigla, malato della malattia di cui al titolo, ne è il protagonista; il primo dei tre capitoli di cui si compone è caratterizzato dall'accumularsi, dal susseguirsi di stati di coscienza anomali, di sempre più frequenti irruzioni dell'anomalo nel quotidiano di questi.

Cinofilo da sempre, adesso, quando entra in una sala cionematografica: "A poco a poco l'energia fuggiva altrove. Cominciò questo suo nuovo centro vitale sensitivo, ad oscillargli sopra la testa... Si muoveva con rapide cadute...ad un palmo dai volti pallidi degli spettatori, tra i quali con raccapriccio vide se stesso...gli pareva di volare in un antro maleodorante e di lambire le carni dei suoi abitanti." (pagg. 32-33).

Durante una cenetta in un ristorante, mentre Marcella, la sua compagna, gli sta raccontando un sogno, lui si incanta, la sua coscienza si fissa in un altrove lontanissimo da lei; dopo essere stato destato, tra gli sguardi sbigottiti di quelli: "Quel che vide gli provocò un singulto di vomito (...); nel fondo del piatto le sue mani, armate di coltello e forchetta, continuavano ancora, meccanicamente, a martoriare la carne del filetto ridotta ormai ad una poltiglia di sangue." (pagg. 50-51).

Questi ed altri fatti lo inducono a chiudersi in casa, senza voler vedere nè sentire nessuno.

Vi sono qui due paginette e mezza, neanche, tra le più pregnanti dell'intera opera: "Ridotta la casa a pochi percorsi ossessivi... Umberto U. trascorreva lunghe ore di silenzio con...la mente concentrata su un qualche gesto che sin dal mattino s'era imposto di compiere e che invece rimandava continuamente e, con ostinata rinuncia, proiettava nella sfera del possibile e forse anche del necessario, ma non fattibile... Spesso...perdeva il controllo su sè stesso. Si smarriva, allora, in opposti e contrari desideri, in fantasie sparse e tra loro ostili, in fissazioni corporali...lo insidiava una smania di uscire nell'umido della sera, di cercare le prime ombre della notte... A volte resisteva, a volte cedeva. Non poche volte, a notte ormai inoltrata, riusciva, pieno di angoscia, ad abbandonare l'appartamento e, scivolando per i vicoli già deserti del centro, ad inoltrarsi nei giardini più bui o, affacciato da qualche ponte, a fissarsi sullo scorrere dell'acqua." (pagg. 53-55).

In seguito a tutto ciò decide di trasferirsi nella villa in cui era stato da fanciullo, in un paesino.

Il secondo capitolo è nettamente distinto in due parti, ovvero il proseguimento della narrazione sul piano narrativo del primo, e una lunghissima parentesi diaristica, consistente nella lettura, da parte di Umberto U., di vecchie e logore pagine del povero nonno.

E senza dubbio nella prima che si trovano le cose migliori: "La tranquillità del luogo gli aveva concesso una sonnolenta calma... Aveva ritrovato tutti i luoghi della sua memoria... Ma...non ricordava il sapore di un tempo." (pagg. 71-72).

Il tema della "sacra dimora" direi che è qui molto esplicito; dopo il suo abbandono, il ritorno e quindi la "...dimora ritrovata..."; la poetica dell'ultima frase citata mi ricorda molto da vicino quella del Barnabò buzzantiano (vedi), quando, dopo l'esilio in pianura, torna alle sue crode.

La parte diaristica descrive la follia del vecchio, terrorizzato dalla sorte a tal punto da, appunto, impazzire, per compiere orrendi atti di vandalismo nei cimiteri; ma questa atroce verità Umberto U. la scoprirà in un secondo tempo; nel diario tutto è narrato attraverso il fitto velo dell'erudizione tutta particolare del vecchio: "...se leggo di fantasmi, il cuore mi sembra ricevere sollievo e quasi rallegrarsi nella finzione dell'orrore." (pag. 95); si cita Hoffmann, tra le sue letture, che fra l'altro, questi, sicuramente, è tra i favoriti del Nostro.

Nel terzo ed ultimo capitolo si possono notare alcuni motivi sovrapposti: l'atteggiamento psicologico del burocrate dinanzi al sottoproletariato, al ceto medio, agli operai, la non comunicabilità con questi, il loro essere, per lui, solo "...forti referenti del lavoro..."; "...risorsa da scambiare." (pag. 137). La sua angoscia di non riconoscersi "...nel numero dei superstiti..." in una eventuale "...catastrofe universale..." (pag. 146). E, poi, la ripresa, direi essenziale, di un motivo delle prime pagine, il soffermarsi della libido di lui "...il pulsare tranquillo e allettante di una piccola vena..." di Marcella (pag. 34), che qui "...sta offrendo allo sguardo di Umberto U...." (pag. 145).

A letto con l'amante, infine, le succhia il sangue da un graffio al seno: "Così, riverso sul petto di Silvana, Umberto U. poco a poco riprende energia, sente tornargli un calore prima sconosciuto, prova un lungo e inestinguibile piacere." (pagg. 149-150); ove l'ipotesi razionale dell'anemia e quella irrazionale del vampirismo cozzano duramente; "...gli sembra possibile il paradosso fantastico, e tuttavia per lui così familiare, di essere un vampiro." (pag. 152).

Ed ecco che, quindi, magistralmente, un grande della nostra intellighentia ha saputo dar corpo ad un'opera sul vampiro, archetipo che "...non è di nessun autore, ma è ormai entrato nel patrimonio archetipico, oltrechè artistico, del mondo occidentale e non." (Claudio De Nardi, in "Mainstream, vampiri e dintorni", "L'altro regno" n. 2, anno 1°, ed. Solfanelli, '85, pag. 13), che qui "...segna l'irruzione nella vita di ciò che la politica, per fondare se stessa, ha dovuto rimuovere: il senso del pericolo e della morte." (Antonio Caronia, op.cit.).

Da questo romanzo è stato tratto un film omonimo

 

"Algenib notizie" n. 9/10, '91

LA CASA DI CAMPAGNA, di Gilberto Coletto

"Narrativa" n. 1, ed. Del Campus, '84, 49 pagine, 5.000 £; © by Edizioni Del Campus

 

Coletto ha fondato egli stesso questa piccola casa editrice, inaugurandola proprio con questo suo racconto. Gilberto ha pubblicato in proprio una raccolta di poesie, "Gli orti di Volterra" ('80), ed un romanzo breve, "Diario d'inverno" ('81), ed ha tradotto un lavoro del poeta elegiaco francese Francis James come "Il lutto delle primule" (Città armoniosa,'78), ed è stato collaboratore saltuario di "The Dark Side".

Nota dominante che caratterizza quest'opera, è senz'altro un non-sense pessimisticheggiante, che lo intride tutto quanto. I personaggi sono molteplici, e tutti dai nomi improbabili; la trama c'è, diluitissima, ma, innanzitutto, naufragata nella ridda di dialoghi assurdi che ne costituiscono la maggior parte.

Un uomo, Brano, giunge alla casa, e, ad accoglierlo, Svarano; questi al primo: "Purtroppo io devo andare... Forse lei è venuto per svolgere qualche compito. Lei mi riterrà uno sbandato per non averglielo chiesto subito (...) Io mi fermo all'aspetto esteriore. E lei ha un abito molto sciupato. Un buon tè può alleviare un pò di disperazione..." (pag. 20). E quegli, rimasto solo: "Io non ricordo alcunchè di me... Tutta la mia vita si erge su memorie di altra gente. Se qualcuno mi chiedesse notizie di me fino a quando arrivai alla soglia di questa casa dovrei fare uno sforzo per ricordare." (pag. 21); e ve ne sono di ben più assurdi.

Altra cosa; i rapporti che legano i vari personaggi che la popolano non sono quasi mai esplicitati; di esplicito solo un rapporto madre-figlio, il resto è sì intuibile, in una struttura plausibile, ma non mai verificabile contestualmente.

Gli accadimenti veri e propri sono molto pochi, e presi unicamente come tali, insignificanti, mentre il feeling che si viene sapientemente a creare, pervadendoli, li carica di significati emotivi molto acuti. Si potrebbe parlare di outer ed inner space, ballardianamente, ma credo che qui Joyce sia più presente, soprattutto in forza del monologo interiore esteriorizzato da Svarano verso la fine, emblematico del clima di inside out che lo caratterizza tutto, in cui, per l'appunto, contenuti che sono propri dell'inconscio emergono alla coscienza dei personaggi.

Quindi, anche se, soprattutto nelle ultimissime pagine, e forse a farla ancor maggiormente risaltare, vi siano delle tracce di realismo, il testo si rivela come un'allegoria surrealista sulla vita, la morte, il sangue e l'amore.

Non certo di facile lettura, nella quarta di copertina l'autore ne dice che si muoverebbe su di "Un percorso marcato da prose di Büchner, Ducasse, Schwob, Woolf e Fleur Jaeggy.". Io, sinceramente, non conosco questi signori ,ma, forse, a qualcuno di voi potrebbero...invogliare; ma soprattutto che "È un libro che, nonostante la veste editoriale, conserva la maniera trasandata, esasperata e segreta degli scritti nel cassetto, frutto di un'arte sentita ormai come esigenza di una vita."

"Alpha Aleph" n. 2, '92

GOMORRA, di Claudio Angelini

ed. Bompiani, '89, 160 pagine, 16.000 £; prezzo dei remainders: 10,33 €; © by '87, by Gruppo Editoriale Fabbri, Bompiani, Sonzogno, Etas S.p.a.

Esempio abbastanza buono delle escursioni che scrittori mainstream nostrani, non di rado, hanno fatto nel nostro genere.

Qui, abbiamo un futuro nel quale la situazione politico-economica del nostro pianeta si è notevolmente modificata, a causa di un virus, apparso contemporaneamente alla scomparsa di quello dell’AIDS; l’SBD, una sigla che ricordava un vecchio allucinogeno, forse non casualmente." (pag. 14); "…Sweet Death Blow, soffio di tenera morte…" (pag. 54).

La società occidentale è in pieno collasso ("…il cinque per cento della popolazione sta bene, gli altri muoiono o fanno la rivoluzione o fuggono nelle campagne." (pag. 11)), mentre un Unione sovietica che risente dell’essere un romanzo pre caduta del muro di Berlino è in piena auge ("…abbiamo ripudiato tesi obsolete, come la lotta di classe e la dittatura del popolo, tutto va meglio. Abbiamo un reddito pro-capite di cinquemila dollari al mese, un’inflazione dello zero quattro per cento annuo, una disoccupazione dello zero zero due per cento." (pag. 98)), ed il mondo arabo ha il vero, reale potere: "…(una) miriade di stati arabi…si erano andati rinsaldando sotto il Sultanato di Gomorra." (pag. 23).

La trama segue le gesta di un giornalista/spia, che, sulle tracce della ricerca dell’antidoto al virus, diventa, appunto, una spia, forse l’unico uomo realmente in grado di salvare l’Umanità: "Lavorava per i servizi di sicurezza della Nato o per quel poco che ne restava." (pag. 29).

Questo SDB è un virus ad alto tasso di…simbolicità; infatti, contrariamente all’AIDS, che si diffondeva tramite l’amore fisico, carnale, questo si trasmette tramite l’amore platonico: "…la carne, il contatto fisico, il rapporto sessuale non c’entrano. L’SDB ha scelto il sentimento come veicolo di contagio." (pag. 45); "…è proprio nella castità che il virus sorge, eccitato dal desiderio che non si è compiuto, dall’amore ingenuo e limpido dei giovani." (pag. 54); e, forse di più: "L’SBD è sempre esistito. Ogni volta che l’umanità si è vergognata di se stessa, ha assunto forme morbose, talora apocalittiche, prendendo varie denominazioni: vaiolo, peste, colera, cancro, Aids. Ma l’SBD è stato anche guerra tribale, stupro, massacro; e ancora, inquisizione, superstizione, razzismo." (pag. 52).

Che cosa ciò voglia dire, vi viene enunciato chiaramente: "È come se chi ama non voglia più accettare la realtà che lo circonda, le sue brutture, le sue regole infami, e, in un impeto di estrema sfiducia, e di estrema gioia, decida di sopprimersi: un tenero suicidio da adolescenti." (pag. 45); "…l’unico amore possibile è la morte e più intenso è il sentimento, più rapidamente il rapporto consuma tutto ciò che è di troppo, la carne, i muscoli, le ossa, finchè resta soltanto l’eros degli occhi, l’anima che ha osato sfidare le leggi dell’odio e della noia." (pagg. 54-5).

E Gomorra, la mitica capitale araba, di cui nessuno conosce l’ubicazione, è altrettanto fortemente connotata simbolicamente: "Gomorra…il regno delle idee, l’amore platonico per ogni sesso e ogni età, compresa quella della saggezza. A Gomorra la bellezza prevale su ogni moralismo, su qualunque bassezza e crisi isterica." (pag. 15).

La trama spionistica procede con andamento incerto, fra accadimenti e rivelazioni dalla verosimiglianza, direi, scarsa: "…si sospetta che una potenza straniera ne diffonda il virus. L’SDB è un’arma, la vera bomba atomica del ventunesimo secolo." (pag. 22); "…SUB (Stupidity Universal Bomb)…produce lesioni e alterazioni irreversibili solo in alcune parti del cervello umano, salvando le altre. Distrugge la volontà, il libero arbitrio, il coraggio. Rende gli uomini del tutto dipendenti dalla volontà del più forte." (pag. 86); ma dai quali emerge, netto, il futuro che si va prospettandovisi: "Chi sopravviverà?"-"Coloro che sono incapaci di amare, i cinici, i malevoli, i diseredati dello spirito. Per tutti gli altri non ci sarà speranza, verranno falciati da un’epidemia sentimentale." (pag. 111).

Per arrivare ad un finale che si perde un po’, fra un antidoto, ancora, simbolico ("…il virus da opporre all’SDB, il sentimento con cui trasformare la forza nichilistica dell’attrazione. È l’odio questa forza contraria, questo fratello saggio dell’amore." (pag. 114)), e una Gomorra che ne scopre uno decisamente ambiguo ("…la vita a ritroso che voi avete creato è l’unico modo di sconfiggere l’SDB….solo una gioventù che rinasca dalla vecchiaia può vincere il male del nostro secolo." (pag. 145)), per poi venire distrutta in un’inverosimilissimo attacco militare del…resto del mondo.

Ad un certo punto vi si dice una cosa che potrebbe essere abbastanza esplicativa del senso: "…la morte delle cellule del corpo nasce dalla morte della fantasia, ovvero dalla incapacità di inventare momenti diversi, altre cellule mentali." (pag. 54).

Ma, in tutto ciò, vi sono anche molti, e ben detti, riferimenti alla Sf vera e propria, che si vanno ad assommare all’impianto fantasociologico che abbiamo visto, anche se sottendente ad un significato simbolico; ad un certo punto, nel cielo di Berlino, compaiono delle figure enigmatiche: "Un’astronave, un disco volante, forse qualcosa di più demodé, un vecchio dirigibile scriveva nel cielo slogan luminosi…" (pag. 74); ma che si capiranno essere solamente dei giochi decisamente…fantascientifici: "Non esistono, nessuna astronave sorvola il nostro territorio, i radar non danno segnali; sono soltanto Ufo, sogni, rifrazioni sulla coltre celeste, insomma miraggi….Sono segnali lanciati da migliaia di chilometri, videogiochi che scherzano con le nuvole; è la nuova tecnologia della Libia che riproduce in laboratorio il miraggio, per usarlo come strumento di propaganda." (idem); in cui sembra proprio di leggere Gibson, o Sterling.

E, in un altro passo, se ne fa uno preciso, ad una delle questioni più dette della robotica: "…il robot, purtroppo, non è neppure diventato nemico dell’uomo, ne è solo una copia, flaccida e ottusa." (pag. 86).

Fino ad arrivare ad un’intera, lunga scena di vera e propria Space Opera, in un’atmosfera che ricorda un po’ quella di "2001 odissea nello spazio": "…il grande kolchoz orbitante su cui si vendevano, a pochi rubri, brillanti e rubini seleniti dagli influssi magici….Un piccolo incidente alla navicella e sarebbero finiti negli spazi, immagini da stampare nella notte, altri gridi dell’universo…. mille computer controllavano la parabola giusta…collegamento in diretta con Marte, dove l’ennesimo astronauta stava per deporre una bandierina sovietica." (pagg. 99-101), nella quale vi è, anche, una sorta di "mito di creazione", divertente quanto sconclusionato, e, decisamente, proprio per questo: "La luna un tempo era il pianeta e la terra un corpo sconosciuto, uno dei tanti servi di un mondo che si riteneva all'avanguardia del creato per presunzione e ricchezza. Ma dall'est avanzava questo corpo più vitale, il sole l'aiutò, il satellite diventò grande, i ruscelli si trasformarono in fiumi, gli stagni in mari e in oceani. La terra diventò il centro del creato, l'unico punto di riferimento possibile per l'uomo. Così Selene fu roccia, morte, storia inutile e il nostro mondo subentrò al suo ruolo di pianeta." (pag. 100).

Il vero tema del romanzo, l’omosessualità, come abbiamo detto, è solamente sotteso, anche se, in vari punti, decisamente in maniera abbastanza facilmente decriptabile; ne esce, anche, una visione della donna decisamente non positiva, vista, appunto, dalla parte del terzo sesso.

I CANI DI GERUSALEMME, di Fabio Carpi e Luigi Malerba

"Riflessi" n. 49, ed. Theoria, '88, 146 pagine, 8.000 £; © by Edizioni Theoria s.r.l.

 

Altri contributi critici

 

-"La crociata del barone attorno al suo castello", di Giovanni Raboni, "Corriere della sera" del 4/12/'97

 

Come ben sappiamo, di tipi di letteratura fantastica ce ne sono molti, ed ,effettivamente, credevo proprio di averne letti, almeno esempi, proprio tutti, prima di leggere questo romanzo. Non è, infatti, fantascienza, né fantasy, né horror, né alcuno dei vari sottogeneri di essi. Si tratta di quel tipo di fantastico che nasce dalla satira filosofica, e che si svolge in un mondo normale, ma che non per questo è meno fantastico.

Questo "I cani di Gerusalemme" è infatti la storia di un barone e del suo servo che intraprendono un viaggio metaforico. Come si possa intraprendere un viaggio metaforico è presto detto. Essi vogliono percorrere tanta strada quanto quella che ci sarebbe fino a Gerusalemme, ma girando intorno al castello, per andare alle crociate. Ed è già fantastico.

Il reale del loro assurdo girare per centinaia di volte e quello del viaggio reale si sovrappongono, nelle loro menti, creando una gustosa situazione.

La differenza sociale e culturale fra i due protagonisti insaporisce ancor più la cosa: "L'odio del servo per il padrone è l'odio più antico, più sicuro, più umano, fra tutti i modi di odiare." (pag. 97).

Per capire che cosa abbiano voluto dire gli autori basta sapere che l'assurdo viaggio è stato suggerito dal prete del castello, vista la riluttanza del barone per ogni tipo di violenza, per, esplicitamente, far si che i debiti del padrone venissero annullati per beneficio dell'intervento della Chiesa, come succedeva a chi andava alle Crociate, ma, segretamente, per farlo morire di fame e di stenti a pochi passi dal suo castello ed impossessarsi, lui e la sua curia, dei suoi beni; e questa frase: "...oggi tutto quanto si compie in nome di Dio e per volontà...dei migliori uomini della Chiesa, è solo vanità e opera di inganno, e perciò porta il marchio della sopraffazione e della violenza. Allora io scelgo il non-fare, la non-azione, la non-partecipazione, l'assenza. È il mio modo di battermi contro l'ignoranza e la crudeltà di questa nostra epoca ottusa.Io mi nascondo, mi cancello,dico di no." (pagg. 30-31).

Molto nichilismo, dunque, che rispunta anche nell'ultimo capitolo, intitolato appunto: "Dove Nicomede dichiara che il mondo non c'è e che è meglio dormire per sognare di esistere." (pag. 144). E un fortissimo anticlericalismo, all'insegna di una scetticismo filosofico.

 

"Algenib notizie" n. 12/13, '91

LE NOZZE DI HITLER E MARIA ANTONIETTA NELL'INFERNO, di Rodolfo Wilcock e Francesco Fantasia

"Il labirinto" n. 29, ed. Lucarini, '90, 83 pagine, 21.500 £; © by Lucarini Editore s.r.l.

 

Romanzo breve assolutamente divertente, dalla prima all'ultima parola, e non è certo cosa facile, anche se non sulla distanza del romanzo.

Già l'ambientazione è tutto un programma; si svolge niente di meno che all'inferno!!

E poi i personaggi: innumerevoli, storici, e scrittori di ogni tempo, e già il fatto che coagiscano è divertente, ma gli scrittori fanno molto di più, li fanno dialogare ed agire in forme decisamente molto divertenti: ogni dialogo, ogni scena è un siparietto pieno di arguzie e di rimandi.

Di questi siparietti, brevissimi, ve ne è un'infinità, tenuti assieme dal filo conduttore del matrimonio del titolo.

Alla fine vi è un' "Antapodosi", una sorta di commento satirico degli autori stessi, scritto a mò di "Postfazione" di un ipotetico curatore.

Il tutto è ottimamente introdotto da Giacinto Spagnoletti.

L'UOVO AZZURRO, di Gianluigi Gasparri

"Biblioteca universale ", ed. Mondadori, '90, 233 pagine, 27.000 £; © by Arnoldo Mondadori Editore s.p.a.

 

Strano romanzo, questo, in cui, più che altro, si mischiano il sacro e il profano.

È, infatti, la storia di un angelo del paradiso che, nato, anomalamante, col pisellino, viene scacciato dal paradiso, sulla Terra. E della figlia che nasce dal suo seme impiantato in una giovane scienziata. Questa troverà la cura dell'AIDS, e porterà la pace e la letizia nel mondo.

Il tono è decisamente anticlericale, in un certo senso di irrisione dei concetti cattolici, da una parte, di angelo, e da un'altra, di quello messianico-salvifico.

Scorrevolissimo, di facile e divertente lettura, in ultima analisi direi che è un'irriverente apologo contro le religioni, a favore di un prosaicissimo rimanere coi piedi per terra, aprendo una prospettiva decisamente ottimistica sull'Uomo, sulle sue intrinseche capacità di poter apportare contentezza nel mondo anche senza bisogno di affastellate e inconcludenti montature piene di bugie.

LA BESTIA, di Maurizio Enoch

"la Lampada di Alhazred" n. 13, ed. Solfanelli '92, 62 pagine, 5.000 £; © by Marino Solfanelli Editore

 

Bel racconto surreale ("Tutto accadde: in quel tempo...), in cui si racconta della comparsa di una strana bestia in un tranquillo villaggio. Ad avvistarla per primo è un adolescente, e dapprincipio nessuno gli crede, ma ben presto la vedono tutti, e cominciano ad occuparsene le autorità.

È proprio questo il perno su cui si basa la narrazione; come ben dice il Pestriniero nella prefazione, è una specie di critica al Sistema, qui visto come un qualcosa che, non appena può, si impossessa dell'immaginario, e ne da la visione che più gli aggrada: "...il Sistema agisce per salvaguardare la propria sicurezza, i propri benefici acquisiti, il tornaconto personale...manipola...l'oggetto perturbante...(e ne da) l'immagine...voluta da coloro che la gestiscono." (pagg. 8-9).

La Bestia è, appunto, qualcosa di brutto e sgradevole ("un oggetto volante dalla forma astrusa e sconosciuta, macchina o animale che fosse...cosa volante simile a una visione, veloce come un lampo e sgargiante di colori... Un essere gigantesco, di potenza e velocità inaudite..." (pagg. 13-16-17-46)), un qualcosa di estremamente alieno ("Un intricato sistema di mandibole, mascelle, proboscidi era costantemente in moto, quasi dovesse convulsamente digerire se stesso....scaglie metalliche che armavano le ali." (pag. 48), che nel finale viene catturata, custodita, resa, in poche parole, inoffensiva, non più perturbante.

Si legge davvero di un fiato (di narrazione sono sole 50 pagine), piacevolmente.

NEL SOLSTIZIO DEL TEMPO, di Roberto Genovesi e Errico Passaro

"I calicanti" n. 1, ed. Keltia '92, 103 pagine, 18.000 £; © by R. Genovesi & E. Passaro

 

Altri contributi critici

 

-recensione di E.d.T., "L'eternauta" n. 111, ed. Comic art, ’92, pag. 20

-"Nuove vie del fantastico italiano", di Gianfranco de Turris, "Space opera-fancon '93", pag. 7

 

La Keltia è una piccola casa editrice di Aosta, nel cui catalogo si trovano anche opere di narrativa fantastica (Rue du Pont Romain, 2-11100 Aosta); come vedremo, questo non è un gran che, ma ci sono alcuni altri volumi molto più interessanti, quale, per esempio, la bella antologia "Universo privato ed altre storie".

La prima edizione di questo romanzo breve è stata stampata, nell’ormai lontano ’92, in 501 copie.

Brutto romanzetto fantasy, in cui si mescolano spy-story, quotidianità malamente descritta e, appunto, un fantasy assolutamente insoddisfacente.

In sintesi, uno di due turisti italiani in vacanza in Irlanda scompare, e l’altro si mette sulle sue tracce; molto stentatamente, la vicenda scivola nell’irreale, di un’antica battaglia e di morti che aspettano di tornare in vita. Per, poi, perdere definitivamente ogni seppur minima plausibilità e scadere nella più totale assurdità.

I timidi tentativi di introdurvi dei richiami di trama sono fatti decisamente male, e contribuiscono a renderlo, in alcuni punti, quasi risibile.

Dal Genovesi e dal Passaro, di cui abbiamo avuto modo di leggere ben altro, francamente, mi aspettavo qualcosa di meglio.

Il volume è introdotto da Antonio Faeti.

LA NUOVA ALICE, di Guido Almansi

"Romanzi e racconti, ed. Marsilio, '98, 170 pagine, 24.000 £; © by Marsilio Editori S.p.a.

 

Altri contributi critici

 

-"E Alice corre di nuovo dietro il magico coniglio", di Giovanni Raboni, "Corriere della sera" del 14/6/'98

 

Guido Almansi è un cittadino inglese che abita in Svizzera, ma alcuni suoi libri li ha scritti in italiano.

Questo, è una rivisitazione, dal punto di vista di un anarchico, del capolavoro di Carroll "Alice nel paese delle meraviglie".

È strutturato a capitoli alterni, nei quali si racconta delle due personalità del creatore schizofrenico di un grattacielo di tremila piani, delle loro infinite discussioni e disquisizioni parafilosofiche e parasociologiche.

E delle incredibili avventure, in esso, della nuova Alice, impertinente e saputella, ma che, in fondo, risulta simpatica.

Il tutto risulta abbastanza divertente, anche se in molti, troppi punti delle parti dedicate all'inventore/scrittore la narrazione risulta forse eccessivamente appesantita.

Sinceramente, io il classico di Carroll non l'ho letto, e non so quindi dirvi se, ed in quale misura, gli episodi di questa Alice riprendano quelli di quello, che, comunque, sono talmente strampalati da risultare decisamente divertenti.

Nel capitolo finale, classicamente, i due filoni di vanno ad intrecciare.

Verso l'inizio l'autore ci dice qualcosa di questo suo aver voluto riprendere quel classico: "…non gli interessava essere originale: voleva essere semi-originale…era convinto che solo gli sciocchi fossero profondamente originali e unici nella loro originalità….qualche particella di idee nuove, impiantata però su un fondo già conosciuto e sfruttato." (pag. 35).

E, verso la fine, della morale che vuole trasmettere: "…non c'è morale: ma neanche un bricilo. È un libro che non vorrebbe far del male a nessuno, tranne agli ipocriti." (pag. 169).

Molti i rimandi letterari, i dire sulla letteratura, e, sopra a tutto, l'irridente mentalità anarchica che lo sottende tutto, che vi si espande libera, e liberatoria.

Fiabesco

ARAJ DIMONIU-Antica leggenda sarda, di Sergio Atzeni

ed. Le Volpi, '84, 42 pagine, 14.000 £; © by Sergio Atzeni e Le Volpi Editrice s.r.l.

 

Una vera e propria fiaba, anche se non classica, ma ricavata dalle tradizioni popolari di molti paesi di Sardegna, Nuragus, Dualchi, Cabras, Alghero, Berchidda, Guspini, Desulo, Modolo, Nuoro, Aritza, Villacidro e Quartu, racconta, tipicamente, la storia di un bambino, Luisu, che, qua, decide di "andare a vedere il mondo", e che incontrerà, altrettanto tipicamente, infinite peripezie.

Nelle quali, appunto, gli elementi propriamente fantastici abbondano, ad iniziare da una fontana dalle caratteristiche e dai poteri magici: "…una fontana, e scivola tranquillo oltre il bordo, si perde nell'erba. Bianco come il latte, alla luna…. L'acqua della fontana è bianca come latte.

Luisu unisce le mani, si piega. Beve. È latte caldo…. Non può morire, chi beve quel latte benedetto."; "A settembre il latte della fontana è acqua…" (pagg. 27-28); per passare ad un'erba che si trova in una maniera davvero strana, e che ha, sicuramente, un potere grandissimo, anche se non si sa bene quale sia: "Una manciata di erbaluzza rende inesauribile l'oro di qualunque baule."; "…il picchio fugge appena vede il gomorroi (una spece di specchietto), e (invece che l'erbaluzza, che "fa sparire il gomorroi nel nulla") cerca un nuovo albero dove fare il nido. Un cercatore lo segue e prepara il gomorroi…. Mai nessun picchio cerca erbaluzza. Non so se l'abbiano mai cercata, nella notte del tempo, né perché i cercatori si ostinino a credere che la cercheranno…. Ognuno dei cercatori ha una verità, una fede diversa da quelle di tutti gli altri. Uno dice che cancella i peccati mortali dall'anima, un altro che restituisce i capelli ai calvi (etc.)" (pagg. 38-41-43-44).

Evidente l'atteggiamento negativo dell'autore nei riguardi delle credenze popolari che portano a compiere azioni decisamente insensate: "Soltanto se berà quell'acqua figlierà un puledro verde…" (pag. 45), che fa prendere a calci, ad un personaggio, una giumenta incinta, e, poi, calpestare "…senza badarci…" il puledro.

Nel suo viaggio, Luisu incontrerà una giana, una strega, ma, poi, gli verrà spiegato che: "Anche la strìa (altra denominazione sarda della strega) è una donna. Voleva ucciderti per prendersi il cavallo e venderlo al mercato…. Sotto la sua casa c'è una fossa dove ha sotterrato cento e cento viandanti. Li avvelena per derubarli, ma anche per il gusto di vederli agonizzare…. Ma è donna, non demonio." (pag. 61), da uno dei due personaggi veramente magici che vi si trovano; uno: "può parlare con ogni voce creata e inventarne di nuove, e cambiare naso, età, colore dei capelli, e diventare grasso, untuoso e puzzolente come un mercante, o alto, chiaro, elegante, profumato, barone.", l'altro: "…(ha) la vita del gatto, della nube e del fiato sospeso…" (pag. 62), che operano della vera e propria magia: "Appaiono dal nulla un tavolo tarlato, tre sedie nere e un camino che protegge il fuoco dal vento…. Voglio una tavola imbandita con tovaglie di batista ricamate e piatti di porcellana-ordina, la voce è un canto sommesso…e che dalle guance e dalle mani di Luisu spariscano le spine dei cardi-Mentre parla tutto si avvera, il sole di primavera, la voliera gialla e la tavola imbandita. Quando tace tornano notte e vento, camino e capra sul fuoco. Le spine dei cardi non tornano." (pagg. 58-61), ma che, poi, si riveleranno essere degli esseri solamente onirici.

Evidente l'impostazione marxiana dell'autore, che, dopo gli accenni che abbiamo visto, nel finale fa una lunga tirata contro i "baroni", in chiave evidentemente classista.

Pubblicazione destinata ai bambini, fin dai caratteri, è illustrata da Giorgio Pellegrini, cagliaritano del '52.

Vi si dice che uno studio su questa leggenda, del linguista Gino Bottiglioni, è stato pubblicato nel '22 dall'ed. Olschki.

LE AVVENTURE DI PINOCCHIO, di Carlo Collodi

"Biblioteca di letteratura fantastica" n. 23, ed. Theoria '92, 197 pagine, 25.000 £; © by Edizioni Theoria s.r.l.

 

Altri contributi critici

 

-"Pinocchio:un libro per adulti?", di Aldo Toffoli, "Libri & libri", supplemento a "Il quindicinale" dell'11/12/'93

-"Contro mastro ciliegia", di Giacomo Biffi, Jaca books, '91

-"Interni e dintorni di Pinocchio", a cura di Pietro Clemente & Mariano Fresta, ed. del Grifo, '86

-"L'albero di pinocchio", di Maria Teresa Gentile, ed. Studium, '82

-"Collodi e pinocchio", di Paolo Lorenzini, ed. Salani, '81

-"Pinocchio, un libro parallelo", di Giorgio Manganelli, ed. Einaudi, '82

-"Carlo Collodi", di Italiano Marchetti, ed. Le Monier, '70

-"Pinocchio, analisi di un burattino", di Rodolfo Tommasi, ed. Sansoni, '92

-"Pinocchio", di Carmelo Bene, e "Pinocchio o lo spettacolo della provvidenza", di Giancarlo Dotto, ed. La Casa Usher, '81

-"Pinocchio, bravo burattino cattolico.I laici insorgono", di Dario Fertilio, "Corriere della sera" del 15/4/'99

-"Pinocchio e la Fata dai capelli turchini.Ménage bizzarro, talvolta inquietante", di Giuliano Gramigna, "Corriere della sera" del 26/7/2000

-"Ipotesi su Pinocchio", di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, ed. Ancora, 2001

2° fra i libri più letti in Italia nel '900

 

Ecco dunque che le avventure di pinocchio, raccontate più volte ad ognuno di noi nella nostra infanzia, o facenti parte, comunque, del nostro inconscio collettivo, attraverso i media o i vari gadgeds e racconti e filmati derivati, ci vengono riproposte in quella bella edizione della Theoria, corredata da 22 tavole a colori di Mario Schifano.

La storia la sappiamo tutti, più o meno, ed è una fiaba con intento morale rivolta all'infanzia.

Bisogna infatti ricordare che il Collodi visse in pieno ottocento, e che questa storia venne pubblicata tra l'81 e '83 del secolo scorso, a puntate, sul "Giornale per i bambini", per essere successivamente raccolta in volume nell''83.

Mi sembra di poter dire che, oggigiorno, sia molto sorpassata, che ai bambini di oggi servirebbero fiabe differenti, ben più consone al mondo enormemente mutato che li circonda; questa rimane un capitolo della storia della favolistica molto importante, ma che, oggi, è divenuto oggetto di lavoro per studiosi, avendo completamente perso la sua valenza originaria.

Il volume è corredato anche da un'introduzione di Nico Orengo e da una nota alle tavole dello Schifano, "A un palmo di naso", di Achille Bonito Oliva.

Di questa fiaba esiste un'altra edizione recente, illustrata da Giocondo Faggioni, detto Futiqua, ed. Giunti, 2000