Edgardo Sogno
Doppio Sogno o doppio Stato?

1. Funerali di Stato
2. Sogno antifascista?
3. Sogno eversore?
4. Sogno golpista «bianco»
5. Il biennio nero
6. Destabilizzare per stabilizzare
7. I volonterosi funzionari del doppio Stato
8. Revisionismo all’italiana
9. Bibliografia


7. I volonterosi funzionari del doppio Stato

Dopo il ’74 il «partito del golpe» si scioglie o, meglio, cambia tattica. Abbandonata quella dello scontro frontale, si avvia a praticare nelle mutate condizioni internazionali, politiche e sociali una più raffinata, foucaultiana occupazione dei centri di potere, coordinandosi in quel club dell’oltranzismo atlantico noto come Loggia P2. Continuità e cambiamento: tutti i protagonisti della dura stagione passata alla storia come «strategia della tensione», compreso Sogno, li ritroviamo nelle liste della loggia di Licio Gelli, che del «partito del golpe» aveva fatto parte, con ruoli non marginali; tutti gli elementi salienti di programma del «golpe bianco» passano nel gelliano Piano di Rinascita Democratica; e Sogno compare anche nella vicenda Sindona: con Gelli, John McCaffery, Philip Guarino, Carmelo Spagnuolo e Anna Bonomi Bolchini è tra i firmatari degli «affidavit» al bancarottiere, le dichiarazioni giurate che chiedevano alla magistratura americana di non estradare Michele Sindona in Italia, poiché qui era perseguitato dalla giustizia in quanto anticomunista. Intanto la vicenda giudiziaria di Sogno si risolve felicemente. Un mese e mezzo di carcere; i servizi e il governo che oppongono il segreto di Stato su molti dei documenti che lo riguardano; il trasferimento del procedimento a Roma; la richiesta di proscioglimento del pubblico ministero, il 7 dicembre 1977, per insufficienza di prove; la dichiarazione del giudice istruttore, il 12 settembre 1978, di non doversi procedere per le attività eversive di Sogno e dei suoi coimputati «perché il fatto non sussiste». Negli anni seguenti Sogno fa sentire la sua voce attraverso un’ossessiva attività pubblicistica, sempre a tinte forti. A un saggio sulla «guerra non ortodossa» apparso su Micromega (Gianni Barbacetto, Il Polo occulto, Micromega 8/95) reagisce scrivendo sul Giornale che si tratta di «ripugnante cinismo e di intollerabile aggressività totalitaria che continuano a imporci una risposta di totale rottura». Ma non risparmia critiche neppure alla destra, colpevole (scrive sul Foglio nel novembre 1998) di non opporsi con sufficiente energia al comunismo, di non lavorare per quella «paralisi totale del sistema» auspicabile per «approdare, dopo trent’anni, a un chiarimento se non col mitra, almeno britannicamente coi guantoni». La lotta politica si sovrappone alla voglia di menare le mani, e spesso in questa si esaurisce. Così fino alla fine, fino alla morte e ai funerali di Stato. Comprensibile, per un volonteroso funzionario del doppio Stato, «uomo dalla voce femminea, dal coraggio grandissimo e dalla debole intelligenza politica», come ha scritto Giorgio Bocca. Meno comprensibili i commenti di chi oggi lo ha descritto come un eroe vittima di una persecuzione giudiziaria, contro le sue stesse, orgogliose rivendicazioni: «Avevamo assunto l’impegno di sparare contro i traditori pronti a fare il governo con i comunisti», di «impedire con ogni mezzo che il Pci andasse al potere, anche attraverso libere elezioni», dichiara apertamente nel 1990. E nella sua ultima lettera, estremo messaggio inviato a un gruppo di amici e sostenitori il 13 luglio 2000: «La difesa sul piano del pensiero e della logica non esiste al di fuori della distruzione fisica, ossia della guerra civile. Per cinquant’anni mi sono battuto per la distruzione dello Stato. Non c’è soluzione al di fuori della distruzione totale di questa realtà». Questo è Edgardo Sogno, personaggio chiave della «guerra non ortodossa» italiana, più di chiunque altro (esclusi i politici, che si sono poi comunque rapidamente riciclati) protagonista cosciente del «doppio Stato»: proprio perché egli non era fascista, non era uno dei tanti neri che credevano di usare gli apparati dello Stato e ne erano invece usati. Ma Sogno ha almeno il merito di avere rivendicato orgogliosamente, senza ipocrisie e fino all’ultimo, di aver combattuto e di voler continuare a combattere. Non ha mai negato di aver compiuto le azioni per cui è stato processato, le ha solo ritenute necessarie e meritorie. Gli rende un cattivo servizio, dunque, chi sostiene che il processo in cui è stato imputato è stato una «persecuzione giudiziaria». Chi, come Silvio Berlusconi, ha scritto (sul Giornale): «Per aver combattuto il comunismo in tempo di pace e con le armi della parola e degli scritti egli è stato incarcerato, accusato di crimini inesistenti da parte di una magistratura più ligia ai principi dell’ideologia comunista che non a quelli dello Stato di diritto. Le vicende giudiziarie di Sogno sono state una delle pagine più tristi dell’Italia repubblicana, e continua ad essere un vulnus della nostra storia civile il fatto che coloro che ne furono protagonisti non hanno mai avuto il coraggio personale e la saggezza politica di riconoscere che non si trattò di un umanissimo errore giudiziario, ma di una persecuzione frutto, forse anche inconsapevole, dell’odio ideologico». Macché errore giudiziario, risponderebbe Sogno, se fosse in vita. Egli aspettava un riconoscimento per quello che aveva fatto, non una difesa per ciò che non avrebbe fatto. Lo sanno bene, in realtà, anche i suoi amici e difensori che però, privi della sua franchezza e bloccati dall’ipocrisia politica, si guardano bene dallo scrivere la verità.