con allegato
Marco Celentano.
La scissione della relazione tra filosofia e politica nel pensiero antico e il ripiegamento del filosofo su se stesso
Giulio De Rosa.
Note critiche sull'Atenaion Politeia
Clemente Sparaco.
La libertà del saggio e il ritiro dalla politica
Salvatore Bianco.
Segreto, religione, forza: i mezzi della conservazione politica in Ottavio Sammarco
Vincenzo Omaggio.
Forme del consenso. Contrattualismo "classico" e teoria dello scambio politico
Stelio Mazziotti.
Il tema del consenso ne La Democrazia in America di Tocqueville
Enrico Voccia.
Il consenso come fondamento del potere politico: L'Unico e la sua proprietà di Max Stirner
Lucia Aiello.
"Consenso" e "Obbedienza" attraverso la Leggenda del Grande Inquisitore di Dostoevskij
Luca Anzani.
Il ruolo della ricerca del consenso nella scienza
Aldo Oliveri.
Consenso e validità scientifica
Riccardo Galiani.
Il consenso ingannatore
Raffaella Ioimo.
Il consenso in Karl Otto Apel
Rosaria Gagno.
John Rawls e la stabilità della società ben ordinata
Giuseppe Perfetto.
L'espressione ideologica del consenso alla schiavitù nel pensiero cristiano
e liberale. Una lettura del pensiero di Domenico Losurdo
Étienne de La Boétie,
DISCORSO SULLA SERVITÙ VOLONTARIA
Ad uno stato sociale delle attività filosofiche che vede oggi lo studioso di queste discipline
sempre più disarmato e disancorato professionalmente fa riflesso, nel mondo dell'economia e del
lavoro, un giudizio che inquadra il filosofo come operatore culturale non portatore, in quanto tale,
di abilità e pratiche specifiche, - le cui forme di conoscenza possono essere utilizzate solo
riassorbendole in altre discipline portatrici di tecniche e di obiettivi precisi. Se questo
giudizio è a sua volta riflesso di una forma di pressione continua che attualmente viene esercitata
su tutte le forme del sapere (in funzione di una loro ristrutturazione in senso tecnologico/
specialistico e di una loro più immediata "commerciabilità") esso raccoglie d'altra parte l'eredità
di un giudizio più antico, radicato nel linguaggio comune, e che pure ha contribuito a costruire
un'immagine tradizionale del filosofo e della Filosofia. Questo più antico giudizio áncora il
filosofo alla sua immagine di uomo solitario e dedito alla meditazione, orientato a perseguire un
distacco e un'autonomia nei confronti del mondo, del corpo, dei sensi, uomo che si rifiuta di
inseguire ciò che i "molti" reputano più importante (piacere, amore, felicità, potere), che infine
trova il proprio spazio espressivo nel privato pensare e colloquiare, più che nel pubblico agire
- nella "teoria" piuttosto che nella "pratica". É questa un'immagine del filosofo che è stata
storicamente alimentata dall'interno e dall'esterno della Filosofia.
In questo primo numero il tentativo è stato quello di presentare una serie di elementi che
mostrassero lo sviluppo storico della riflessione filosofica sul rapporto di accettazione, da parte
dei sudditi, del potere politico. Ad esso affianchiamo la traduzione di un testo filosofico
classico sul tema: il Discorso sulla Servitù Volontaria di Étienne de La Boétie - il grande
amico di Michel de Montaigne, autore di un testo scritto "in onore della libertà contro i tiranni".
Il testo in questione è stato coeditato insieme all'Istituto Italiano per gli Studi
Filosofici, il cui spontaneo appoggio al nostro progetto editoriale non può che farci onore e a
cui vanno, fin dall'inizio di questa collaborazione, i nostri più sentiti e genuini ringraziamenti.
Risulterebbe probabilmente impossibile comprendere la nascita stessa della filosofia, quale si
venne delineando tra VI e IV secolo a. C., e le sue successive trasformazioni, senza tenere conto
sia della vocazione politica che alle origini caratterizzò le azioni, le riflessioni e i discorsi
dei filosofi, sia del fallimento e dell'esito tragico cui questa vocazione andò incontro, già
durante i primi secoli di vita della filosofia. In questo saggio vengono ripercorsi quegli eventi
che, dal "sapiente" del VI secolo, la cui attività fu più fortemente caratterizzata in senso
politico, all'ultimo dei grandi filosofi dell'epoca classica greca che tentò l'attuazione di un
progetto politico globale, segnarono l'evolversi della relazione tra attività filosofica e attività
politica, e la sua prima drammatica rottura all'interno della cultura greca. Ricostruendo questo
percorso vengono poste essenzialmente tre domande: in che modo, ovvero con quali pretese, la
filosofia, e il movimento sapienziale che la precedette, si accostarono alla politica e quale fu il
senso dell'innovazione da essi introdotta in quell'ambito? Quali trasformazioni fondamentali la
filosofia stessa subì dal fallimento di questo suo primo grande tentativo di partecipazione diretta
alla regolamentazione e all'autorganizzazione della vita sociale, e dalla presa d'atto platonica di
questo fallimento? Quali trasformazioni subì entro questo percorso che va da Solone a Platone, la
stessa nozione filosofica dell'agire politico?
Composto molto probabilmente tra il 431 ed il 424 a. C., l'Atenaion Politeia è un dialogo
dalla paternità anonima. Si tratta di una riflessione "empirica" sul carattere della democrazia e
sulla difficoltà da parte dei suoi avversari di abbatterla - ovvero sulla coesione interna e sulla
coerenza complessiva di un tale sistema politico. Largo spazio alla "canaglia", sperpero del denaro
pubblico, "impersonalità" della decisione politica, lentezza esasperante delle pratiche
burocratiche, corruzione dei funzionari pubblici: per l'anonimo autore del trattato, quanto
elencato non sono i "difetti", bensì la forza della democrazia; essa può reggersi proprio perché si
comporta in questa maniera. Risulta pertanto utopistico immaginare di "cambiarla dall'interno": si
tratta di un regime politico con leggi ferree, perfettamente integrato ed omogeneo, che può
sopportare mutamenti molto delimitati. É opinione dell'anonimo ateniese che questo regime politico
- come tutte le forme politiche storicamente realizzatesi - consista in una società politica
esclusiva dal punto di vista della rappresentanza e per niente egualitaria. L'anonimo ritiene che
il carattere "degenerativo" e intollerante del regime politico democratico in cui si trova a vivere
non è un dato accidentale o contingente ma strutturale. La democrazia si trova perciò nell'
impossibilità materiale di tradursi in isonomia, nel regime di ciò che è uguale e giusto. Il
limite interno della sua analisi è però proprio qui: non si comprende su cosa sia fondata la sua
predilezione nei riguardi del regime oligarchico. Infatti appare chiaro da tutta la sua analisi
precedente che ogni forma politica sarà irrimediabilmente di parte e destinata a governare in
funzione di sé e in nome del tutto.
La questione politica prioritaria per Seneca è nella scelta fra l'impegno o il ritiro dalla vita
pubblica. Il soggetto di questa scelta non è un individuo qualsiasi ma un individuo speciale, il
sapiente, ossia il filosofo che si distingue nettamente in virtù della sua dirittura morale,
oltre ovviamente che per il suo sapere, dalla massa indifferenziata degli uomini comuni. In questo
contesto il consenso che si prende in esame è quello che riguarda il sapiente e che porta questo,
eventualmente, a discendere nell'agone politico in aiuto del suo cliente, mentre il dissenso
equivale al ritiro forzato dalla politica cui il sapiente si trova costretto in determinate
circostanze. Come l'etica, così anche la riflessione politica di Seneca è vocazionalmente
aristocratica, nel senso che non s'interroga sul rapporto fra politica e individuo, ma fra la
politica e un individuo del tutto particolare - il sapiente - ne s'interroga sul valore
della libertà in assoluto, ma soltanto sulla libertà del saggio. Si capisce ancor meglio che
consenso o dissenso verso il potere non possono che riguardare il saggio, e solo il saggio. Di
conseguenza in Seneca troviamo impostato in questi termini, e soltanto in essi, il tema politico:
è possibile al saggio non perdere la sua beata condizione di felicità nel contatto con la vita
pubblica?
Oggetto di questa lavoro è un testo apparso per la prima volta a Napoli nel 1628: si tratta del
libro Delle mutazioni de' Regni, scritto da Ottavio Sammarco, un autore politico che ha
lasciato ben poche tracce di sé. Delle mutazioni de' Regni testimonia la decisa revisione
del paradigma tradizionale dell'aristotelismo politico anche nel pensiero politico meridionale del
primo Seicento. Naturalmente, risulta problematica l'utilizzazione in chiave interpretativa della
categoria di consenso, almeno nell'accezione moderna del termine. Nondimeno, anche il
Seicento ha conosciuto l'emergenza di far coincidere, sul piano teorico e pratico, comando
principesco e obbedienza dei sudditi. L'obiettivo dell'articolo sarà appunto quello di smontare
nelle sue parti semplici il dispositivo prudenziale messo a punto da uno dei tanti trattatisti
politici del primo Seicento, alle prese con la difficile "arte" di garantire la conservazione al
detentore del potere politico. L'analisi del testo di Sammarco conduce quindi alla conclusione che
la modernità politica tende a nascere con un preoccupante vizio di fondo, una sorta di "peccato
originale": in altre parole, con una componente nient'affatto residuale di violenza e segretezza
che gli sviluppi successivi dello stato moderno non sembrano aver modificato nella sostanza.
Le maggiori linee di frattura teoriche tra il contrattualismo sei/settecentesco ed i modelli
contemporanei sono da ricercare: a) nella perdita del radicamento individualistico e perciò
tendenzialmente universalizzante del patto a favore di una titolarità dei gruppi; b) nella
corruzione della funzione "originante" del patto rispetto allo stato a vantaggio di una prassi
contrattuale, parte integrante della politica statuale anche nella vicenda successiva alla sua
formazione; c) nel coinvolgimento del potere sovrano nella prassi negoziatoria: questo non è più
risultato, ma parte contraente, e, ambiguamente, anche garante della legittimità di questa prassi.
Ad andare perduta è così la tensione deontologica dello schema contrattuale, che nell'ipotesi
classica, tentava risposte ai problemi fondamentali della filosofia politica: perché sorge lo
stato? perché deve essere obbedito? Il modello neocontrattualista contemporaneo è invece
completamente assorbito dal piano descrittivo della dinamica della forze interne al sistema. Dalla
multiforme presenza dello stato nei processi economici prende avvio un sistema fondato su una
prassi di "scambio politico" tra i suoi protagonisti organizzati. In questa prassi vengono
scambiati beni non formalmente negoziabili (i "beni d'autorità") che riguardano il consenso alla
politica di governo, l'autodisciplina del lavoro, ecc. La teoria dello scambio politico ha il
pregio di un'alta capacità descrittiva rispetto all'esistente, ma è sul piano giustificativo, in
ordine alla capacità di legittimazione delle proprie procedure, che la teoria mostra i propri
limiti. Dove vige uno scambio sui beni d'autorità il dissenso non è più tale, è soltanto conflitto
d'interessi, e per ciò stesso non più legato alla rivendicazione della cittadinanza, bensì al
potere di fatto che ciascuno ha.
La sovranità popolare è l'aura della democrazia e, già al tempo del viaggio di Tocqueville nel
1830, il suffragio universale ne era stata la conseguenza ben presto ammessa in tutti gli Stati
dell'Unione Americana. Ma a chi si aspettava dal suffragio universale ogni bene ed ogni male
possibile Tocqueville oppose lucide osservazioni sui suoi effetti, "generalmente diversi da quelli
che si suppongono." Il consenso come legittimazione del potere ha, secondo Tocqueville, nelle
società democratiche la tendenza a trasformarsi e farsi strumento del principio di maggioranza,
del suo dominio assoluto e del suo imperio morale.
Max Stirner sostiene che la società contemporanea è totalmente ideologizzata e sacralizzata:
noi non ci troviamo immersi nel regno dei valori materiali bensì in quello degli "spiriti", dei
"fantasmi", delle "idee fisse". Con il passaggio all'età contemporanea non si è avuta una
desacralizzazione, ma semplicemente un mutamento dell'oggetto sacralizzato. I nuovi idoli, l'
"uomo", gli "interessi pubblici", il "bene comune", ecc. sono - non meno del Dio della religione
cristiana - oggettivamente inesistenti e pure funzioni linguistico/ideologiche con le quali
si portano avanti i propri interessi privati depotenziando le altrui volontà. Il potere politico,
lo Stato, è nell'analisi di Stirner l'esatto contrario di una funzione pubblica, non essendo altro
che il privato più forte - così forte proprio perché riesce a convincere il resto della
società che il perseguimento dei suoi scopi privati coincide con il "bene pubblico". L'unica
possibile strategia di rifiuto del consenso dovrà passare a sua volta per l'"egoismo", per i
"biechi interessi materiali del singolo". Stirner afferma infatti che l'egoismo è distruttivo se
- e solo se - una parte della società è depotenziata di esso, a tutto vantaggio della parte
restante. L'egoismo generalizzato, invece, eguaglierebbe di fatto le condizioni umane, impedendo
la formazione delle gerarchie sociali. Rifiutare il consenso alla società gerarchica significa
dunque, per Stirner, rompere il meccanismo ideologico di autodenigrazione che porta il singolo a
rinnegarsi, a credersi un essere abietto, le cui inclinazioni e i cui desideri devono
necessariamente passare in secondo piano davanti a Dio, Patria, Nazione, Bene Pubblico, Interesse
Generale, Società, Comunità, Chiesa, Uomo, Verità, Santità e via all'infinito. Per questo Stirner
afferma che noi viviamo ancora pienamente immersi in una cultura mitico/religiosa: dal suo punto di
vista è assolutamente indifferente inginocchiarsi davanti alla volontà di Dio o all'essenza
dell'Uomo, alla Fede o alla "Libertà". Avremo sempre a che fare con meccanismi ideologici che
depotenzieranno alcuni individui a tutto favore di altri, creando servi e padroni: la società
gerarchica.
Se, dunque, la libertà è un "dato naturale", se "non si può tenere nessuno in schiavitù, senza
fargli torto, e che non c'è niente al mondo di così contrario alla natura, che è tutta razionale,
dell'ingiustizia", perché, si chiede La Boétie, sembra che nell'uomo sia più radicata la "ostinata
voglia di servire"? É questo anche il quesito del Grande Inquisitore dostoevskiano nel suo
drammatico "dialogo" con Cristo. Al centro del ragionamento di Ivan/Grande Inquisitore non è il
rapporto tra un tiranno o un sistema di potere tirannico e i suoi "servi volontari"; vi è
l'individuo che, essendo libero non per "dato naturale", ma grazie al sacrificio di Cristo che ha
voluto l'uomo libero anche di scegliere il male, e quindi ha legittimato la presenza del male come
una delle possibilità di scelta date all'uomo, sperimenta nella sua concretezza i limiti di questa
esperienza originaria che è la libertà. I confini tra "Consenso" e "Obbedienza" risultano sempre
più sbiaditi, nel momento in cui un atto di obbedienza si qualifica come atto di volontaria
rinuncia alla libertà di scegliere, e quindi, ancora una volta esercitazione delle possibilità date
da quel dono o dato originario.
Attraverso l'analisi delle posizioni di, Popper, Kuhn, Feyerabend, viene analizzata l'ipotesi
epistemologica in base alla quale una teoria scientifica nuova diviene accettabile,
indipendentemente dalla sua validità "intrinseca", solo dopo aver riscosso consenso
all'interno - innanzitutto ma non solo - della comunità dei ricercatori. Tutto ciò che si dirà
all'interno della casta che costituisce la comunità scientifica sarà in direzione della ricerca del
consenso, e si può dire che le teorie correntemente esposte nei manuali nella stragrande
maggioranza dei casi vengono accettate sulla base del principio di autorità (dell'autore e della
comunità scientifica).
Il metodo della verifica sperimentale sembrerebbe costituire un arbitro imparziale della validità
oggettiva di una teoria rispetto alle altre teorie alternative, della sua effettiva
"corrispondenza" con la realtà. L'epistemologia critica moderna, però, ha posto seri dubbi su
tale "imparzialità", mostrando come il consenso della comunità scientifica sia il fondamentale
criterio su cui poggia lo sviluppo della scienza, della tecnica, e, in definitiva, del modello
sociale in cui viviamo e vivremo.
Da cosa, e come, nasce il consenso sociale? Esso è il risultato della pressione all'uniformità/
conformità, o meglio: il consenso rappresenta l'obiettivo implicito (ed ultimo) della pressione
all'uniformità/conformità, espressione che si riferisce al processo concludentesi con l'adesione
ad una norma (più spesso implicita che esplicita). L'esistenza e l'efficacia della pressione all'
uniformità/conformità è stata l'oggetto di alcuni esperimenti di psicologia sociale, divenuti ormai
classici: quelli di Muzafer Sherif (1935), di Salomon Ash (1946) e di Stanley Milgram (1965). Non
era nelle intenzioni di questi psicologi analizzare, attraverso questi esperimenti, la natura del
consenso; pare tuttavia legittimo porre in relazione le categorie di "uniformità",
"conformità" ed "obbedienza", proprie della psicologia sociale, con la natura del consenso. Infine,
dopo la discussione di questi esempi, viene posta la domanda: può darsi un consenso non indotto?
In altri termini: esiste la "libera scelta del consenso"?
Di fronte al tentativo di sostituzione della fondazione ultima attraverso il ricorso all'eticità
habermasiana del mondo della vita (Lebenswelt), Apel propone un progetto di scienza critico/
ricostruttiva, affinché sia possibile una comprensione scientifica delle azioni comunicative. In
tal senso egli dà l'avvio ad un processo di smascheramento di quei tipi di "cripto-metafisica"
(come il riduzionismo scientifico e le posizioni storicistiche). Apel sostiene che colui che
rifiuta in linea di principio il discorso come oggetto di teorie, si deve supporre che rifiuti
anche il discorso di autocomprensione.
La natura generale del contratto è quella di fornire uno schema tipico di ingresso volontario in
società. In Una teoria della giustizia Rawls affida a questo strumento teorico il compito di
realizzare una promessa: far germinare la società migliore dalla correzione morale del mercato. Da
un lato Rawls assume la logica di mercato come ossatura obiettiva e razionale di una teoria della
giustizia sociale, dunque come parte formale dell'etica, dall'altro è alla ricerca di vincoli morali
alla massimizzazione del benessere perché interpreta la caduta del consenso, cui le moderne
democrazie a capitalismo avanzato sono esposte, come una richiesta di moralità che la cittadinanza
rivolge alla struttura fondamentale della società. Quando nella riflessione politica diventa
centrale il problema del consenso, unito a quello della tutela dei diritti e del cambiamento
sociale, si possono dare due alternative: o si vuol far valere un punto di vista esterno, di
rifiuto della logica degli ordinamenti giuridici vigenti, oppure si fa un discorso di riformismo
interno e garantismo giuridico. Rispetto a queste opzioni, la riproposizione contemporanea del
contrattualismo, che ripropone il pathos catartico della protesta morale alle ragioni della
ratio strumentale, sembra avere una forte connotazione ideologica. Il contrattualismo o è la
veste ideologica di una prassi politica già sperimentata oppure non può che tacere. Il
contrattualismo, poiché azzera la funzione sociale del sapere, può produrre esclusivamente utopie
sociali praticabili - cioè già praticate.
In vari luoghi della sua opera di ricercatore, il Professor Domenico Losurdo ha condotto una serrata
analisi sulla giustificazione ideologica dell'istituto della schiavitù nella tradizione cristiano/
liberale - un momento della cultura occidentale assai spesso rimosso ed anche occultato dalla
cultura ufficiale. In questa sua linea di ricerca Losurdo è andato evidenziando come Nietzsche,
pensatore che passa per critico radicale del moderno pensiero cristiano/liberale, può invece essere
tranquillamente letto come la massima espressione di quello stesso pensiero, smussato dai falsi
moralismi e da determinate mistificazioni ideologiche. In altri termini, Nietzsche rappresenterebbe
un "liberale estremista" che considera l'istituto della schiavitù in modo spregiudicato e duro,
privandolo delle tradizionali trasfigurazioni ideologiche. La riflessione di Domenico Losurdo
giunge a portare alla luce come non ci sia stato istituto sociale inegualitario che, per quanto
oggi possa essere disprezzato ad ogni pie' sospinto, non abbia trovato ieri la sua corte di
estimatori e giustificatori. E, volendo, l'oblio che circonda oggi queste posizioni è a sua volta
un fondamentale meccanismo ideologico consensuale, teso presentare la teoria politica liberale alla
base delle attuali forme politiche planetarie come un inno senza macchia alla libertà politica e
magari sociale.
Negli Essais di Montaigne troviamo un lungo capitolo intitolato "Dell'amicizia", quasi
totalmente dedicato alla celebrazione ed al ricordo di un amico scomparso in giovane età: il
Consigliere al Parlamento di Bordeaux Étienne de La Boétie, noto come l'autore di un un testo
"maledetto" che - assai probabilmente interpolato e spesso in edizioni clandestine - ha percorso
con la sua carica liberatoria i movimenti di opposizione all'ancien régime prima, allo stato
borghese/liberale poi, e che in Italia conobbe la sua prima traduzione durante la Rivoluzione
Napoletana del 1799.
Il nome che una rivista si sceglie è, in genere, indicativo della sua essenza e dei suoi obiettivi.
Infatti, un termine come Porta di Massa assume, nella cultura filosofica di lingua italiana,
una serie di valenze ed assonanze del tutto particolari. A poche decine di chilometri da Napoli si
trovano gli scavi dell'antica Elea, la patria di Parmenide, il padre della Filosofia che ambienta il
suo poema filosofico proprio sotto la porta della sua città: una porta che, riportata alla luce
negli anni sessanta dall'archeologo Mario Napoli, ha assunto simbolicamente il significato di luogo
della filosofia. Nella lingua italiana, poi, il termine "massa" ha una duplice valenza, significando
al contempo "gente", "popolo" ed uno dei concetti fondamentali della fisica contemporanea. Ma
"Porta di Massa" è anche la strada di Napoli dove sorge la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'
Università Federico II, e la grande maggioranza dei redattori della rivista che state
leggendo ha vissuto gli anni universitari all'interno dell'edificio che sorge in quella strada, ed
all'interno di questo luogo buona parte di essi si sono conosciuti. Alcuni di essi erano attivi
all'interno del movimento studentesco e, da poco laureati o in procinto di laurearsi, diedero vita
al progetto di una rivista autogestita che intendeva dar voce alle energie di ricerca presenti
all'interno della Facoltà, offrendo loro uno spazio che si collocasse al di fuori della mediazione
con le varie cattedre istituzionali. Nacque così Porta di Massa - Rivista di Lettere &
Filosofia, che uscì per alcuni numeri e si interruppe poi per motivi contingenti. I contatti
tra i redattori non si sono tuttavia mai interrotti, e, in tempi recenti, lavorando collettivamente
al progetto di un manuale scolastico di Filosofia, si è riaffacciata l'idea di riprendere
l'esperienza di una pubblicazione autogestita. Si è giunti così alla costituzione in associazione,
dando vita al prodotto che avete tra le mani, che, in continuità critica con la precedente
esperienza, intende costituire un momento autogestito di lavoro collettivo e di confronto tematico
- un "laboratorio" - in vista di un rinnovamento extraistituzionale del dibattito e della ricerca
filosofica.
In modo evidentemente più sottile e mediato uno stato sociale di marginalità culturale delle
discipline filosofiche trova oggi riflesso nella cultura che si occupa in modo specialistico di
questa disciplina, esprimendosi in una forma di autocomprensione della Filosofia che, quasi
schierata a difesa delle proprie tradizionali forme di lavoro e di espressione contro l'invadenza
di altre modalità di comunicazione, tende a racchiudere le attività filosofiche nel circolo delle
attività solitarie della riflessione, della lettura e della scrittura, e a circoscrivere il loro
momento pubblico nei luoghi, istituzionalmente predisposti, dell'insegnamento scolastico/
universitario e del convegno tra esperti.
Ciò che rischia di andare perduto e/o occultato in queste immagini della Filosofia tuttavia è
proprio una caratteristica che è stata matrice essenziale per la nascita stessa di questa
disciplina, e che nel corso della sua storia si è ripresentata puntualmente ogni volta in
connessione con i momenti essenziali di rinnovamento e di svolta della cultura occidentale. Tale
caratteristica va individuata nella pretesa della Filosofia di essere una modalità di partecipazione
diretta alle forme di comprensione dell'essere e della vita sociale, nonché revoca di quel consenso
che viene concesso, per autorità di rivelazione o di tradizione, per timore della forza o per
invidia, ai poteri culturali e politici vigenti.
Il progetto/laboratorio di Porta di Massa è volto perciò alla costruzione di un lavoro di
ricerca non elitario ed esoterico, che riscopra quel ruolo sociale che la Filosofia aveva all'atto
della sua nascita e che ha caratterizzato i suoi momenti maggiormente autentici. L'obiettivo è
mostrare come la Filosofia possegga la capacità di parlare in modo razionale e sensato - di offrire
cioè momenti di riflessione, di elaborazione di categorie e comportamenti culturali la cui valenza
sia al tempo stesso interpretativa e pratica - sui nodi cruciali dei vari e diversi campi
dell'esperienza umana. La scelta del tema consenso come filo conduttore del primo numero non
è perciò casuale, ma ha inteso affrontare una tematica che potesse suscitare interesse anche al di
fuori dell'ambito degli "addetti ai lavori" della speculazione filosofica e, nel contempo,
permettesse di in qualche modo di ritrovare le fila dell'attitudine critico/pratica della
Filosofia.
Al di là di ciò, non esiste una "linea" culturale prefissata della pubblicazione, il che la rende
simile ad una sorta di matematico insieme di Cantor: come questo, essa è definita in modo esclusivo
dai suoi elementi, ovvero dai testi che di volta in volta, numero per numero, costituiranno
l'ossatura del dibattito e del lavoro collettivo. D'altronde la redazione stessa è costituita da
persone provenienti da esperienze culturali e politiche eterogenee, che ritrovano nell'autogestione
culturale - in una forma e non in un contenuto - il loro punto di incontro.
Scrivere su Porta di Massa - Laboratorio Autogestito di Filosofia significa pertanto
riaffermare la volontà di mantenere uno spazio aperto e totalmente autogestito di discussione e di
dibattito; ciò, ovviamente, non implica la corresponsabilità reciproca degli indirizzi d'indagine.
Il ruolo e la responsabilità del dibattito redazionale e, in ultima istanza, quello del Direttore
Responsabile sono limitati perciò, nella piena libertà di indirizzi culturali dei singoli, alla
garanzia nei confronti del lettore della correttezza scientifica dei materiali presentati alla sua
attenzione.
Marco Celentano
La scissione della relazione tra filosofia e politica nel pensiero antico ed il ripiegamento del
filosofo su se stesso (abstract)
Giulio De Rosa
Note critiche sull'Atenaion politeia (abstract)
Clemente Sparaco
La libertà del saggio e il ritiro dalla politica (abstract)
Salvatore Bianco
Segreto, religione, forza: i mezzi della conservazione politica in Ottavio Sammarco
(abstract)
Vincenzo Omaggio
Forme del consenso. Contrattualismo "classico" e teoria dello scambio politico
(abstract)
Stelio Mazziotti
Il tema del consenso ne La Democrazia in America di Tocqueville (abstract)
Enrico Voccia
Il consenso come fondamento del potere politico: L'unico e la sua proprietà di Max Stirner
(abstract)
Lucia Aiello
"Consenso" e "Obbedienza" attraverso la Leggenda del Grande Inquisitore di Dostoevskij
(abstract)
Luca Anzani
Il ruolo della ricerca del consenso nella scienza (abstract)
Aldo Oliveri
Consenso e validità scientifica (abstract)
Riccardo Galiani
Il consenso ingannatore (abstract)
Raffaella Ioimo
Il consenso in Karl Otto Apel (abstract)
Rosaria Gagno
John Rawls e la stabilità della società ben ordinata (abstract)
Giuseppe Perfetto
L'espressione ideologica del consenso alla schiavitù nel pensiero cristiano e liberale. Una
lettura del lavoro di Domenico Losurdo (abstract)
Étienne de La Boétie
Discorso sulla Servitù Volontaria (abstract)
Il testo che qui presentiamo nella traduzione italiana di Vincenzo Papa è tratto dal cosidetto
"Manoscritto di Mesmes", ovvero dalle trascrizioni - pressocché identiche - che Henry de Mesmes e
Claude Depuy, amici di Montaigne, faranno del manoscritto originale di La Boétie conservato presso
la biblioteca dell'autore degli Essais. Ad esso si accompagna, a cura di Enrico Voccia, un
approfondito saggio introduttivo (Un'ambigua utopia repubblicana) ed un ricco apparato
bibliografico e di note.