(tratto da Mozia, Una colonia fenicia in Sicilia, di J.I.S. Whitaker)

Parte I

CAPITOLO VI

ASSEDIO E CADUTA DI MOZIA

Nell'anno 397 a.C. (1), Dionisio, avendo ultimato i suoi preparativi militari, convocò un'assemblea ed annunciò le sue intenzioni ch portare guerra a Cartagine dato che il momento, egli sosteneva, era propizio a causa della pestilenza che aveva recentemente devastato quel paese ed indebolito le sue risorse.

Fu inviato un messo a Cartagine per dichiarare guerra a meno che essa non avesse accettato di rinunciare a tutte le città greche sulle quali dominava in Sicilia; ma, senza aspettare una risposta, gli abitanti di Siracusa e le altre città greche si sollevarono contro gli abitanti cartaginesi, li uccisero e ne confiscarono le proprietà.

La prima guerra di Dionisio con Cartagine era così cominciata. Il Tiranno, con un grosso esercito di Siracusani, mercenari ed ausiliari, si avviò verso l'angolo nord-ovest della Sicilia, marciando lungo la costa meridionale, mentre una potente flotta, composta da circa duecento navi da guerra con cinquecento navi da trasporto, salpò contemporaneamente per fornirgli assistenza durante la campagna.

Lungo la sua marcia Dionisio passò presso le città greche di Camarina, Gela, Akragas, e Selinus, che si trovavano sotto il dominio di Cartagine o le erano tributarie. Tali città furono tutte occupate ad una ad una, gli abitanti accolsero i liberatori a braccia aperte e ciascuna città contribuì a rafforzare il già potente esercito di Dionisio. Persino la nuova città di Himera, sebbene sulla costa settentrionale e molto distante, pare che abbia dato il suo aiuto mandando un contingente di uomini. Complessivamente le forze per terra del Tiranno, si dice che ammontassero ad ottantamila fanti e oltre tremila cavalieri, un esercito formidabile per l'epoca e tale che, insieme alla flotta di sostegno, formava un armamento quale mai prima aveva minacciato la potenza fenicia in Sicilia.

Lasciando il confine più occidentale della Sicilia greca e superando il fiume Mazaro, fu finalmente raggiunto il territorio del barbaro, e Dionisio si trovò di fronte al baluardo di quella potenza, la lungo desiderata città insulare, che si trovava lì come una gemma preziosa nel mezzo della baia chiusa dalla terra.

Si può quasi vedere il Tiranno accampato sull'opposta terraferma, possibilmente nel luogo in cui sarebbe sorta dopo poco tempo Lilibeo, che subentrò a Mozia e che oggi costituisce la moderna cittadina di Marsala e si può immaginare con quali sentimenti di soddisfazione e di trionfalismo abbia rimirato quella città circondata dal mare, la cui forza e potenza lo avevano tanto a lungo provocato, e che adesso non aveva più alcuna speranza di resistere alla schiacciante forza di tutta la Sicilia greca che la affrontava e doveva inevitabilmente arrendersi al proprio destino.

Mozia, comunque, non era una città da arrendersi senza una lunga e dura lotta né Dionisio si aspettava una facile vittoria, conoscendo la tempra dei suoi abitanti e la risoluta resistenza che erano in grado di opporre. Ad ogni modo egli decise come prima cosa di soffocare ogni eventuale opposizione che potesse giungere dalla vicina città di Erice, e così, passando oltre la città insulare, marciò con il suo esercito ancora più a nord, lasciando la flotta nella baia di Mozia, in attesa del suo ritorno. Questo non si fece aspettare molto, perché si dice che gli abitanti di Erice, allarmati dall'entità delle forze greche, ed inoltre, odiando a morte i Cartaginesi, si arresero subito e presero le parti del Tiranno, permettendogli così di tornare sui suoi passi senza ulteriore perdita di tempo e di dedicarsi all'attacco di Mozia, la cui conquista costituiva lo scopo principale della sua spedizione.

Nel frattempo, comunque, gli abitanti della città, a differenza di quelli di Erice, non si terrorizzarono alla vista del possente schieramento di forze che era stato apprestato contro di loro, e, contando di poter ricevere soccorso in breve tempo da Cartagine, ben sapendo anche che non potevano aspettarsi, una volta nelle mani dei Greci, una grande misericordia, a causa delle devota alleanza che li legava alla potente città-sorella decisero di resistere agli invasori fino all'estremo delle loro forze.

E' fuori dubbio che Mozia in quei tempi era diventata a tutti gli effetti una dipendenza di Cartagine. Oltre agli stessi Moziesi sembra molto probabile che nell'isola si trovasse già qualche presidio militare di Cartagine, come guarnigione della città, e sembrerebbe anche che i Greci ivi residenti siano stati arruolati a forza o abbiano preso parte spontaneamente alla sua difesa. Sappiamo che vi erano dei Greci a combattere con i Moziesi da ciò che Diodoro ci dice (1) su Daimes e gli altri suoi concittadini che furono catturati e crocifissi alla caduta di Mozia.

Comunque, è presumibile che i difensori dell'isola siano stati abbastanza forti in questo periodo e, dato che la città era, per quei tempi, fortificata particolarmente bene, si può giustificare pienamente la loro arroganza nel considerarsi capaci di resistere per moltissimo tempo almeno fino a che non fosse giunto l'atteso soccorso da Cartagine.

Pertanto si diedero subito da fare per la difesa della città, iniziando con la distruzione della diga artificiale o terrapieno che collegava l'isola alla terraferma Questa fu senza dubbio una mossa strategica eccellente e sarebbe stata perfetta per i difensori, se essi fossero stati in grado di impedire al nemico di ricostruire la strada; ma forse non avevano i mezzi per farlo e, tranne il fatto che navi da carico rimanevano ancorate vicino alla spiaggia (4), lasciò Leptines ad eseguire questa importante opera insieme all'equipaggio delle numerose imbarcazioni, mentre egli stesso marciava verso l'interno con le forze di terra allo scopo di sottomettere le altre città fenicie e quelle alleate di Cartagine.

Pare, comunque, che, questa spedizione abbia avuto un successo solo parziale, perché, sebbene sia stato determinante che tutte le città di questa parte della Sicilia, con l'eccezione di cinque, si siano sottomesse immediatamente al Tiranno, quelle cinque città erano tra le più importanti, dal momento che ne facevano parte la fenicia Panormus e Solous, Ancyrae, città di cui si sa ben poco, e le città collinari ben fortificate di Segesta ed Entella. Pare che contro di esse le operazioni militari di Dionisio si siano limitate al saccheggio del territorio intorno alle prime tre città ed all'assedio delle altre, assedio che, comunque, non valse ad indebolirle; per la qualcosa, ritirato l'esercito, Dionisio ritornò a Mozia per la sua missione principale, sperando che, alla caduta di questa roccaforte, anche le città alleate si sarebbero arrese.

Nel frattempo, comunque, Cartagine aveva cominciato a mettersi in moto e, sperando in primo luogo di allontanare almeno una parte della flotta di Dionisio da Mozia per mezzo di una diversione, inviò a Siracusa dieci navi da guerra guidate da un ammiraglio, con l'ordine di entrare segretamente nel Porto Grande durante la notte e di distruggere tutte le imbarcazioni che vi avrebbe trovato. Pare che l'attacco sia stato eseguito con pieno successo per quanto riguarda il suo scopo immediato, visto che fu fatta una strage tra le navi di Siracusa; purtroppo il risultato che si voleva ottenere come scopo principale, non fu conseguito, perché lo stratagemma, anche se ben studiato, non riuscì a distrarre nemmeno una parte minima della flotta di Dionisio da Mozia (5). Il Tiranno, al contrario, pare che abbia semplicemente ignorato la mossa dei Cartaginesi; ad ogni buon conto, non c'è alcuna notizia che l'abbia notata affatto, perché al suo ritorno a Mozia, pare che si sia impegnato personalmente con tutte le sue forze al completarnento del nuovo molo e poté così, poco dopo, trasferirvi le sue macchine da guerra e cominciare l'assedio della città.

Il generale cartaginese Imilcone, vanificatosi il suo primo tentativo di soccorso ai connazionali, sferrò un secondo attacco, più decisivo, contro la flotta di Dionisio nella stessa Mozia; e, venuto a sapere, come pare certo, che il Tiranno aveva portato le navi da guerra entro il porto, sperò di poterle sorprendere in una posizione a loro sfavorevole, e di riuscire a catturarle e distruggerle senza grosse difficoltà con un assalto improvviso ed inaspettato assestando al nemico un colpo tale da dare luogo alla fine dell'assedio.

Si suppone anche che debba essere venuto a conoscenza del fatto che in quei giorni Dionisio aveva lasciato Mozia con il suo esercito e che abbia contato su una assenza del Tiranno abbastanza lunga da permettergli di conseguire il suo scopo senza ostacoli da parte delle forze di terra.

Comunque sia, Imilcone equipaggiò prontamente cento delle sue migliori navi da, guerra, e salpò immediatamente alla volta della Sicilia, giungendo di notte al largo delle coste di Selinus, e facendo vela da questo luogo, costeggiò il cosiddetto promontorio Lilybaeum, ora Capo Boeo e raggiunse il porticciolo di Mozia sul far del giorno.

Nei pressi dell'imboccatura di questo mare interno o baia, Imilcone trovò all'ancora le navi da trasporto greche, non protette, e, naturalmente, non ebbe alcuna difficoltà a distruggerle, quindi, addentrandosi di più nella baia, certamente ad ovest di Mozia e tra questa e l'attuale isola Lunga, pare che abbia disposto le sue navi in ordine di battaglia e fece i preparativi per il preventivato attacco alla flotta da guerra di Dionisio, che come è stato riferito prima, stazionava probabilmente in questa parte del porto (6).

Fin qui il progetto di Imilcone era stato eseguito con pieno successo e tutto aveva contribuito all'audace tentativo di soccorrere la città assediata; ma l'onda della fortuna adesso stava per passare dall'altra parte.

Dionisio era tornato dalla spedizione verso l'interno ed aveva ripreso il comando delle forze a Mozia, preparandosi egli stesso ad affrontare il generale cartaginese. Senza dubbio si rese subito conto dell'errore commesso di aver fatto addentrare troppo nel porticciolo le navi da guerra, e si diede subito da fare per porvi rimedio come meglio poteva. Le sue capacità di risorsa furono messe in tale momento alla prova, ma egli fu all'altezza della situazione.

La posizione della flotta siracusana, così chiusa in quelle acque basse e limitate dalla parte più interna del porticciolo di Mozia, era senza dubbio svantaggioso e critica e solo un'abile manovra, insieme ad una azione energica da parte del comandante, poteva salvarla. Dionisio portò le forze di terra, quante ne poté raccogliere, lungo le spiagge interne dell'attuale Isola Lunga, verso l'ingresso dei porticciolo, e, armate di catapulte ed altre macchine da guerra, esse impegnarono il nemico, sia dalla spiaggia, sia dal ponte di qualche imbarcazione che forse era ivi piazzata ma che probabilmente era stata varata in quel momento. Nel frattempo ricorse allo stratagemma di trasportare una notevole parte della sua flotta, per terra o lungo i bassifondi, nel mare aperto fuori dalla menzionata isola; in tal modo, non solo le navi furono salvate, ma vennero anche poste così nella posizione di poter volgere le prue al nemico sopraggiungendo con forze superiori e dal mare aperto (7).

L'allusione di Diodoro (non si può che chiamare così) all'azione di Dionisio del trasporto delle navi in mare aperto è molto laconica, e sfortunatamente la descrizione di Polyaenus, anche se più dettagliata, non è affatto esplicita, e ci lascia in dubbio circa il luogo preciso in cui fu eseguita la manovra. Questa è stata una questione molto controversa che ha dato luogo a notevoli discussioni e congetture.

Secondo Polyaenus, il trasporto delle imbarcazioni fu effettuato "in una zona piatta e paludosa dell'estensione di venti stadia", ma è difficile dire se ciò significava che di fatto le navi furono trascinate per venti stadia di terra, o soltanto che la striscia di terra in cui le operazioni furono eseguite aveva una linea costiera o fronte di tale misura.

Se non fosse stato per tale riferimento ai venti stadia, guardando la carta geografica, non si esiterebbe a collocare la linea di trasporto di Dionisio nella parte più stretta della striscia di terra nota ora come l'Isola Lunga, perché è quella che offrirebbe le maggiori possibilità di manovra sia perché in questo luogo essa è relativamente poco ampia, ma anche per il fatto che è particolarmente pianeggiante e paludosa, anche se tali termini si possono pure applicare ad altre parti delle spiagge esterne della baia di Mozia.

Più di uno scrittore su questo argomento è stato pienamente a favore di tale opinione e non c'è dubbio che le prove a suo sostegno sono fondate. Studiosi autorevoli più recenti (8), comunque, interpretando l'allusione ai venti stadia da applicarsi al tratto di terra lungo cui sono state trasportate le imbarcazioni siracusane, preferiscono collocare la linea di trasporto a nord-ovest di Mozia, cioè a dire, dalla parte più interna del porticciolo, ad ovest del molo o terrapieno, verso l'attuale canale che separa l'Isola Lunga dalla terraferma nel punto oggi noto come Capo San Teodoro, e, per fare riferimento ai venti stadia, suppongono che tutta quella parte della baia dall'una e l'altra parte dell'isoletta di Santa Maria e a nord di questa, che oggi non è altro che acqua e bassifondi, un tempo sia stata terra asciutta.

Oggi, in considerazione delle prove offerte dalle ricerche recenti (9), cioè che il rapporto terra-acqua nello Stagnone di Marsala è più o meno identico a quello dell'antichità, non si può più sostenere quella ipotesi, a meno che non si sia disposti ad accettare l'idea alternativa di collocare la linea di trasporto di Dionisio attraverso l'Isola Lunga. Pare che ci sia solo una possibilità di uscire da tale difficoltà di interpretazione.

Essa consisterebbe nel supporre che le imbarcazioni siracusane siano state trascinate non attraverso un territorio completamente asciutto ma su dei bassifondi, quelli tra la parte interna della baia di Mozia e l'attuale Capo San Teodoro, che probabilmente apparivano a quei tempi più o meno come si presentano oggi. Holms colloca la linea di trasporto a nord-est, o lato interno dell'isola di Santa Maria ma potrebbe lo stesso essere stata a sud-ovest, o lato esterno. Ciò, comunque, è irrilevante, e non prende in considerazione la distanza dei venti stadia, che è il punto importante.

Si potrebbe pensare che il trasporto effettivo delle imbarcazioni attraverso i bassifondi sia stata una impresa meno ardua di quanto sarebbe stato trascinarle di peso su terreno completamente asciutto e di conseguenza la manovra sarà stata eseguita in quel luogo con relativa celerità. Polyaenus parla del trasferimento di 80 triremi in un giorno.

La parte più grande dello Stagnone, al giorno d'oggi, ha un'abbondantissima vegetazione marina composta soprattutto di un'Alga particolarmente soffice attraverso cui si possono facilmente tirare o spingere imbarcazioni senza che le chiglie o le parti inferiori ne abbiano al soffrire danni (10); e nelle parti più rocciose i rotolatori di legno di cui erano fornite le imbarcazioni greche avrebbero certamente offerto maggiore protezione contro questo inconveniente.

Anche se la necessità di trascinare imbarcazioni per terra o su bassi fondali non sarà stata una cosa insolita nell'epoca delle triremi, si potrebbe anche dubitare che ciò sia mai stato fatto prima con una portata tanto ampia quanto quella relativa a tale situazione particolare quando la sua esecuzione è stata di molto facilitata, per non dire resa possibile dal consistente numero di uonùni che Dionisio fu in grado di impegnare in tale impresa. La perfetta manovra del Tiranno non è stata che la prima di operazioni simili a cui hanno fatto ricorso altri capi nella storia di epoche successive (11).

Torniamo adesso a Imilcone. Rendendosi conto non solo che Dionisio lo aveva messo nel sacco, ma anche che la flotta cartaginese era in pericolo, e, inoltre, essendo stato forse già colpito dalla grandinata di dardi ed altri proiettili scagliati contro le sue imbarcazioni con un effetto terribilmente catastrofico dalle catapulte inventate da poco (12) e da altre armi siracusane perfezionate, decise di abbandonare il tentativo di salvare Mozia e, ritirando la sua flotta, fece rotta di nuovo verso l'Africa.

Così fallì la seconda ed ultima spedizione di soccorso cartaginese, che lasciò al suo destino la città devota. Mozia, senza più speranza di soccorso da parte della sua consorella potente o di congiunti o alleati nella stessa Sicilia, dovette cavarsela da sola nel tentativo di fare lo sforzo supremo, uno sforzo per la vita o la morte, proprio ciò di cui non aveva avuto bisogno prima.

Lasciato libero, come era adesso, di dedicarsi al suo compito principale, Dionisio cominciò l'assedio vero e proprio di Mozia.

Il nuovo terrapieno, nella cui costruzione erano state impegnate le legioni del Tiranno durante la sua temporanea assenza, era a questo punto completato, e, da ciò che si può arguire era più di un molo ordinario o un semplice accesso. Si può immaginare che diventasse più largo all'approssimarsi dell'isola, fino a diventare un argine abbastanza ampio o una banchina che permettesse il trasporto di numerose macchine da guerra, di cui, si legge, faceva parte l'equipaggiamento dell'esercito siracusano e lasciasse uno spazio sufficiente di manovra.

Si potrebbe qui osservare che il litorale lungo la costa settentrionale di Mozia è particolarmente basso, e che, con l'abbondante numero di uomini che Dionisio aveva a sua disposizione, si può anche pensare che la costruzione di tale argine o banchina non sarà stata una impresa estremamente ardua.

Un po' più ad ovest dell'accesso settentrionale alla città, oggigiorno si vede un plateau roccioso di considerevole estensione. La sua superficie lambisce l'acqua quando questa è al suo livello ordinario ed è notevolmente piatto e levigato, a tal punto da dare l'impressione di essere stato livellato artificialmente, anche se non vi è nulla che lo provi. Può darsi che questo plateau di roccia, apparentemente naturale, sia stato utilizzato dagli assedianti nel loro attacco alla città. Le mura di cinta nelle sue vicinanze non sono resistenti quanto in molte altre parti, ed in un punto mostrano i segni di quello che pare una breccia che vi è stata praticata, probabilmente la stessa breccia che è stata menzionata nel resoconto dell'assedio fatto da Diodoro (13).

Sebbene non sia stato riferito proprio così, pare che l'attacco su Mozia sia stato soprattutto sferrato in questo limitare nord dell'isola ed in prossimità del molo, con i suoi argini, naturali o artificiali, da entrambe le parti. Senza dubbio questa era la sola cosa da aspettarsi perché qui si trovava l'ingresso principale alla città, il grande accesso a nord, nelle cui prossinùtà si trovavano presumibilmente le case principali ed altri edifici di importanza.

Abbiamo prove certe dei feroci combattimenti che ebbero luogo in luoghi diversi lungo questa parte di costa attraverso la grande quantità di dardi e punte di frecce che sono stati trovati nel terreno e tra i resti delle rovine. Nello stesso tempo, comunque, anche se non ne abbiamo notizia, è anche possibile che altri attacchi siano stati sferrati pure in altre parti della città. Abbiamo infatti prove di ampi preparativi che sono stati eseguiti per difendersi da questi, nelle opere fatte per barricare l'accesso a sud e l'ingresso al Cothon adiacente ad esso. Anche se questi attacchi hanno avuto luogo, pensiamo che devono essere stati ad un livello meno importante di quelli effettuati nel nord della città. Oggi non vi sono tracce le quali dimostrano che vi sia stata una strada intorno all'isola, attraverso cui siano stati trasportati gli arieti e le torri mobili dei Siracusani, né, d'altro canto, il passaggio attraverso l'accesso a sud mostra segni di un uso per il traffico a ruote.

A prima vista può apparire strano che non sia stato sferrato su Mozia nessun attacco per mare da alcuna parte, soprattutto considerando la flotta che Dionisio aveva condotto con sé; ma è molto probabile che la scarsa profondità delle acque intorno all'isola possa essere apparsa come uno ostacolo serio ed imprevisto a tale impresa, ed abbia precluso l'attuazione del tentativo.

Comunque sia, visto che il predominio assoluto del mare intorno all'isola era nelle mani di Dionisio, fu sufficiente, anzi più che sufficiente, per il suo scopo, la via per terra. Portate le truppe ed i potenti armamenti nei pressi delle mura della città, cominciò l'assalto scagliando gli arieti contro i bastioni e le fortificazioni, mentre le torri mobili e le altre macchine da guerra riversavano i loro proiettili mortali sugli strenui difensori, portando morte e distruzione da ogni parte.

Comunque i Moziesi resistettero a tutti gli attacchi con valore, e risposero, a loro volta, col tentativo di distruggere le torri di legno e gli altri strumenti simili bruciando tizzoni e fagotti di stoppa impregnati di pece, che alcuni degli uomini, rivestiti di armature a maglia, lanciarono da alcune posizioni dominanti o da travi aggettanti collocate in alto a questo scopo.

Abbiamo appreso che le torri di legno che si muovevano su ruote, anche se erano un'invenzione recente, erano state costruite in questa occasione ad una altezza eccezionale, sei piani, e misuravano quanto le più elevate case moziesi contro cui vennero usate.

Pare che alcune delle macchine da guerra abbiano preso fuoco e un bel po' di danno sia stato arrecato al nemico, ma non sembra che il tentativo dei difensori abbia avuto conseguenze sull'attacco generale o abbia impedito l'assalto alle fortificazioni; perché in breve tempo, apprendiamo, fu praticata una breccia in una area delle mura e l'enorme bastione su cui i Moziesi avevano riposta la loro fiducia e su cui avevano contato per la loro salvezza, nel momento del bisogno non si dimostrò più in grado di resistere al violento attacco sferrato contro di loro.

Così ebbe luogo un mortale corpo a corpo tra assedianti ed assediati; quelli, che credevano che la città era già in mano loro e che incalzavano attraverso il varco effettuato dagli arieti; e questi che, determinati a resistere per quanto possibile all'accesso del nemico, impiegarono il massimo delle forze allo scopo di difendere la breccia e di trattenere le schiere che invadevano.

Riuscendo vano questo sforzo, comunque (sebbene, ne possiamo essere sicuri, non per mancanza di coraggio e di pertinacia testarda, ma probabilmente solo per la superiorità numerica del nemico) e quando il nemico si trovò già entro le mura, i Moziesi furono costretti a ritirarsi e a ricorrere ad un altro metodo di difesa. Si intraprese allora una nuova fase o forma di combattimento molto più terribile di quella che era stata precedentemente sostenuta.

Abbandonando la difesa delle mura esterne e chiudendo gli accessi e le altre possibilità di ingresso verso l'interno della città per quanto possibile, i Moziesi si diressero verso le case e gli edifici adiacenti alle fortificazioni, che essendo stati essi stessi costruiti solidamente, come ci è stato detto, si può supporre che abbiano costituito una seconda, più interna linea di difesa, che invero era stata forse precedentemente programmata per la resistenza nel caso che le fortificazioni esterne fossero state forzate (14).

Qui pare che il combattimento reale abbia avuto luogo non al livello del suolo, ma in alto, sui tetti a terrazza delle case e nei piani superiori degli edifici, nonchè tra questi e le impalcature sollevate delle torri mobili, che i Greci, visto che non erano riusciti a penetrare nei piani superiori e negli edifici bassi, avevano portato dalle mura esterne della città ed avevano collocato contro le case. In questo modo furono in grado di combattere un feroce corpo a corpo in condizioni più favorevoli, rinnovando l'attacco quotidianamente, come ci è stato detto, e ritirandosi nei loro alloggi di sera, quando veniva suonato dalle trombe il segnale della ritirata (15).

Questo conflitto singolare, per non dire unico, ingaggiato tra avversari ugualmente determinati e coraggiosi e per il momento uguali in forze (dal momento che la superiorità numerica dei Greci non poté essere sfruttata qui in tutta la sua potenza) sebbene indubbiamente implacabile e terribile, se ci riferiamo all'enorme perdita di vite che comportò, non fu in grado, comunque di conseguire un successo immediato, anche se in fine dovette concludersi a favore della parte più forte. Ciò si desume dal fatto che sia durata tanto a lungo senza che sia stato conseguito alcun risultato né vantaggio dall'una o dall'altra parte (16).

Dionisio, rendendosi senza dubbio conto di ciò, e desiderando giungere ad un punto di rottura al più presto possibile, ed anche probabilmente per risparmiare le sue forze, decise di cambiare tattica, e ricorse ad uno stratagemma. Non essendo riuscito a soverchiare le forze dei Moziesi di giorno in un combattimento aperto, decise di conseguire il suo intento di nascosto di notte. Un drappello di soldati scelti, sotto il comando di un tale Archylus, un Tirio, fu inviato nel cuore della notte allo scopo di rendere possibile l'ingresso in città o piuttosto nella parte interna della città, nella quale, evidentemente, i Greci non erano ancora riusciti a penetrare.

I Moziesi, abituati ormai alla guerriglia di giorno, seguita regolarmente da un riposo indisturbato di notte, non prevedendo per il momento alcun cambiamento, avevano allentato, senza dubbio, la sorveglianza e così furono colti di sorpresa.

Archylus, col suo manipolo di seguaci, riuscì, per mezzo di scale d'assedio, ad arrampicarsi sulle costruzioni semidiroccate e ad assicurarsi alcuni punti di forza che permisero l'accesso alla sua pattuglia ed ai grandi rinforzi che Dionisio teneva pronti a seguirli. La città cadde dunque nelle mani del nemico e fu in breve tempo saccheggiata dalle schiere dell'intero esercito greco.

Era adesso giunta la terza ed ultima fase di questo grande conflitto e, grazie al cielo, visto che non vi era altra possibilità che una sola conclusione al conflitto diventato impari, fu di breve durata e tutto finì presto.

I Moziesi, per quanto fossero coraggiosi e lottassero per le loro famiglie e le loro case, per tutto ciò che era a loro più caro con l'inflessibile coraggio e l'ostinata tenacia della loro razza, raddoppiati dalla disperazione, non ebbero alcuna possibilità contro le legioni del Tiranno. Vae victis! Furono abbattuti crudelmente dagli invasori che in gran massa si riversarono sulla città in ogni direzione.

I Greci avevano atteso a lungo questo giorno di vendetta e, furiosi per la prolungata ed irritante resistenza incontrata recentemente, non mostrarono misericordia, sibbene trucidarono uomini, donne e bambini, vecchi e giovani senza clemenza o pietà. Massacro, niente altro che massacro, era nelle loro menti per il momento e il terribile massacro continuò fino a che la loro sete di vendetta non fu placata.

Infine Dionisio per salvare quei cittadini che potessero essere ancora in vita allo scopo di poterli vendere come schiavi, riuscì a trovare il mezzo di arrestare la mano dei soldati infuriati. Pare che il suo primo comando per arrestare il massacro sia rimasto inascoltato e non abbia avuto effetto. Diffuse allora un proclama per mezzo di un banditore pubblico, ordinando che i Moziesi sopravvissuti che volessero salvare la loro vita dovessero rifugiarsi nei templi di quegli dei che fossero oggetto di culto sia dei Greci che dei Fenici (17). Ciò ebbe l'effetto sperato ed il terribile massacro ebbe fine (18).

La città fu allora consegnata nelle mani delle truppe vittoriose che la saccheggiarono a loro piacere quale ricompensa per i loro servigi e ad incoraggiamento per il futuro, invece Archylus, il capo delle vittoriose truppe, ricevette una ricompensa speciale di cento mine per la grande maestria che aveva mostrato nel conseguire la vittoria. Si trarnanda, cosa che possiamo certamente credere, che il bottino sia stato enorme, visto che si impadronirono di una vasta quantità di oro e argento, per non parlare di abiti costosi ed altri oggetti ricchi e preziosi.

L'epilogo o atto conclusivo di questa grande tragedia storica fu molto triste. Riguarda la vendita in schiavitù dei Moziesi prigionieri, coloro che erano sfuggiti all'assedio ed al massacro e l'esecuzione capitale di Daimenés e degli altri Greci che erano stati presi prigionieri mentre combattevano tra le fila dei difensori. Questi ultimi, quali traditori del loro paese, furono, per ordine di Dionisio, condannati a morire per crocifissione secondo l'uso cartaginese.

Si dice che in seguito Dionisio avesse lasciato un presidio di Siculi nell'isola sotto il governatorato di un siracusano chiamato Bito e, dopo aver ordinato al suo ammiraglio in capo, Leptines, di controllare i movimenti sul mare dei Cartaginesi, oltre a continuare le incursioni su Segesta ed Entella, egli stesso con il grosso dell'esercito ritornò verso Siracusa, poiché l'estate giungeva alla fine.

Il suo scopo, ovvero la parte principale, era stato raggiunto. Era stato conseguito un grande successo militare, il più grande che i Greci abbiano mai fino a quel momento riportato contro i Fenici. Mozia era caduta!

Così finì quella campagna militare che doveva privare la potenza cartaginese della sua roccaforte un tempo famosa e avamposto occidentale in Sicilia e che avrebbe portato alla scomparsa dalla storia di una città destinata non solo a non risorgere più, ma anche a vedere cadere nell'oblio il suo nome e la sua esistenza fino a sparire dalla conoscenza degli uomini.

Sebbene Mozia fosse caduta, per non risorgere mai, il possesso vero e proprio dell'isola era andato nelle mani dei Greci, ma solo per breve tempo, perché sarebbe tornata dopo poco tempo nelle mani dei precedenti dominatori.

Cartagine, apparentemente rinvigorita di nuovo, soffrendo senza dubbio per le recenti sconfitte, apprestò l'anno successivo un esercito ingente che, con una flotta altrettanto potente, partì alla volta della Sicilia, sotto il comando di Imilcone, ora scelto dai suoi concittadini come Shophet. Durante il viaggio alcune delle navi cartaginesi usate per il trasporto delle truppe furono attaccate e affondate dal vigile Leptines, ma il grosso delle forze di spedizione raggiunse le coste della Sicilia senza rischi e approdò a Panormus, dove al già grande esercito si aggiunse un ulteriore rinforzo di trentamila uomini. L'esercito, secondo la stima più bassa che è stata data, contava centomila uomini, mentre secondo un altro calcolo non era inferiore a trecentomila nella fanteria e quattromila nella cavalleria.

Da Panormus Imilcone marciò verso ovest, e, passando da Erice, si impossessò di quella città, secondo quanto si dice, per il tradimento probabilmente di alcuni suoi abitanti; dopo ciò, procedendo verso Mozia, riconquistò l'isola, ovvero ciò che ne rimaneva, di sorpresa, mentre Dionisio era occupato nell'assedio di Segesta. Solo questo si sa riguardo la riconquista di Mozia, ed è ben poco.

Non seguiremo il trionfante Imilcone attraverso il resto della campagna e fino a Siracusa, dove, sebbene in un primo tempo si sia trovato vicinissimo ad una completa vittoria, fu colto da una sconfitta estrema, e, disertando a tradimento il grosso dell'esercito, fuggì a Cartagine, dove, si dice, che si sia tolto la vita poco dopo lasciandosi morire per fame. Il nostro interesse per le lotte tra Greci e Cartaginesi per gli scopi di questo volume, cessa con la caduta di Mozia.

Note

(1) Nel 398 a.C. secondo Freeman (History of Sicily, IV, 127, nota 2).

(2) Diod., XIV.

(3) Pare strano che i Moziesi non abbiano trovato qualche mezzo atto a neutralizzare l'opera del nemico e non abbiano evitato almeno che si ricostruisse quella parte di strada più vicina all'isola, ammettendo persino che le navi greche padroneggiassero la situazione. Dall'assenza di riferimenti a navi moziesi, dobbiamo dedurre che riguardo alla protezione navale, l'isola dipendesse del tutto da Cartagine, e che le sue navi (perché certamente doveva possederne qualcuna) erano soltanto mercantifi o commerciali, forse neanche troppo grandi e di nessuna utilità come navi da guerra.

(4) Sebbene non si dica da nessuna parte a quale spiaggia qui si alluda, è chiaro per ciò che viene affermato in seguito, che si faccia riferimento a qualche zona vicina all'ingresso della baia e a sud di Mozia, o all'estremità della punta di terra, oggi Isola Lunga, o, come sembra più probabile, lungo la costa dell'opposta terraferma che è più riparata. Le navi da guerra, invece, furono evidentemente portate verso nord, passando tra Mozia e l'isola Lunga, sulle cui spiagge pare che siano state tutte, o solo in parte, allineate o tirate a riva.

(5) E' difficile capire perché Cartagine non abbia attaccato in forza la stessa Siracusa subito dopo tale successo, dal momento che in quel periodo la città era priva di difesa dal mare ed era probabilmente protetta soltanto da una guarnigione relativamente modesta. Si può solo concludere che quella città, devastata come era dalla recente pestilenza e indebolita nelle sue risorse, in questo periodo era più o meno pronta ad apprestare un grande esercito e non era in grado di intraprendere alcuna azione offensiva efficace e ciò Dionisio l'aveva ben capito quando aveva dichiarato guerra a Cartagine. Se non fosse stato così, potremmo a stento credere che Cartagine si sarebbe accontentata di concentrare i suoi sforzi per salvare Mozia soltanto nei due tentativi inefficaci, per non dire fiacchi, di cui abbiamo notizia.

(6) Se ignoriamo che le navi da guerra di Dionisio siano state tirate sulla spiaggia o no, senza dubbio Imilcone le riteneva in una posizione a loro sfavorevole quando comandò l'avanzata verso la baia; perché, imbottigliate come erano le navi greche nelle acque basse della parte più interna del porticciolo, con niente altro forse che un unico stretto canale di acque profonde adatte alla navigazione, non era possibile per loro nessuna operazione di uscita in ordine serrato. Comunque allo stesso tempo e per lo stesso motivo doveva essere fuori discussione anche ogni ulteriore avanzata da parte della flotta cartaginese. L'azione di Dionisio di tirare a riva le navi in questa occasione è stata aspramente criticata, ma si deve considerare il fatto che il varo di imbarcazioni quali le triremi o anche le quadriremi, o penteconters, di quei tempi, non era un'operazione che avrebbe richiesto molto tempo, soprattutto avendo una schiera di uomini a disposizione per eseguire il lavoro, ed inoltre il Tiranno contava probabilmente sulla possibilità di ricevere ampia notizia su ogni mossa del nemico. Il vero errore di Dionisio fu senza dubbio di portare le navi da guerra nella parte più interna poco profonda del porticciolo invece di lasciarle vicino all'ingresso della baia, dove avrebbero affrontato la flotta cartaginese in condizioni non solo uguali, ma più vantaggiose, grazie al numero superiore. L'ingresso della baia, o lo Stagnone, come viene di solito chiamato, è di notevole ampiezza e la profondità dell'acqua nelle sue vicinanze è tale da consentire le manovre richieste da qualunque scontro navale di quell'epoca. Come avevo affermato prima, comunque, pare che Dionisio fosse tanto convinto della impossibilità da parte dei Cartaginesi di qualche intervento pericoloso per i suoi movimenti, che, in quei momenti, forse divenne imprudente e, visto che aveva bisogno degli uomini delle navi per la ricostruzione del molo nel nord di Mozia, non esitò a portare la flotta proprio nella parte più interna del porticciolo, dove questi sarebbero stati a portata di mano e pronti per il lavoro.

(8) Cf. Holm (Ges. Sic., V, 5);

Freeman (Sicily, IV, 75) Scbúbring (Mot. u. Lil., 55 seqq.).

(9) Vide antea, cap. IV.

(10) L'autore stesso (di quest'opera) è stato costretto a fare tirare o spingere la sua imbarcazione di peso sui bassifondi ad opera di un barcaiolo in piedi nell'acqua.

(11) Fu impiegato in occasione dell'attacco di Annibale contro Taranto, ed in seguito quando Costantinopoli fu assediata dal Sultano Mohammed.

(12) Sembra che le catapulte inventate da Dionisio, o da ingegneri militari ai suoi ordini, siano state di due tipi, una la per il lancio di pietre grandi, l'altro il per scagliare dardo (Diod., XX, 48). Entrambi saranno state armi molto efficaci, a giudicare dalla distruzione causata e la costernazione che diffusero tra le fila cartaginiesi.

Giuseppe afferma che, all'assedio di gerusalemme, furono lanciati dei massi del peso di 57 libbre e 3/4 ad opera di catapulte alla distanza di 400 iarde. Sembra proprio un rendimento perfetto.

(13) Diod., XIV.

(14) All'interno delle mura esterne gli arieti degli assedianti erano presumibilmente inutili, per mancanza di spazio di manovra, altrimenti non si può ben capire perché non siano stati usati contro le pareti delle case.

(15) Secondo Appiano (VII, 128) pare che un simile combattimento corpo a corpo dai tetti ed i piani superiori delle case abbia avuto luogo anche a Cartagine.

(16) Non si sa se i Moziesi abbiano sofferto la mancanza d'acqua, anche se presumibilmente la fornitura dell'acqua potabile dalla terraferma sarà stata interrotta, e i cittadini assediati avranno dipeso dalla fornitura delle loro cisterne.

Come in verità dice Freeman (Sicily, IV, 83): "Sorge subito a questo punto la questione: quali erano gli dei i cui luoghi sacri erano terreno comune per nemici così accaniti?". Considerando il numero di Greci che probabilmente risiedevano a Mozia, sembra possibile che vi abbiano avuto luoghi di culto, dedicati a dei greci che erano anche rispettati dai Fenici, ma, è pure possibile d'altro lato che questi Greci abbiano pregato in luoghi sacri fenici che essi consideravano pure sacri. Ad ogni modo, pare che siano esistiti luoghi di culto a Mozia che erano ugualmente sacri ai Greci ed ai Fenici.

(18) Questa non è la prima volta nella storia siciliana che i vittoriosi abbiano risparmiato la vita di coloro che si erano rifugiati in luoghi di culto. Un caso simile si era verificato pochi anni prima quando i Cartaginesi avevano preso Selinus, sebbene pare che in quella occasione lo scopo sia stato di evitare che i cittadini terrorizzati, che si trovavano già dentro i templi, dessero,fuoco agli edifici, distruggendo così un bottino molto prezioso. Si vede come in entrambi i casi lo scopo principale sia stato alquanto squallido.