(tratto da "L'arte della Sicilia punica" di Sabatino Moscati, ed. Jaca Book 1987)

Grande rilevanza artistica ha senza dubbio un'altra statua scoperta nel 1979, quella del cosiddetto «giovane di Mozia», che presenta una figura virile di giovane stante con lunga tunica. Ma questa statua pone un problema preliminare: essendo indubbiamente e basilarmente greca, può trovare uno spazio nella nostra trattazione? Pur con la riserva che viene dalla coscienza del problema, la risposta è tutto sommato positiva. Infatti, e preliminarmente, l'autore della scoperta Vincenzo Tusa ha ripetutamente suggerito che un'influenza fenicia sia visibile nella veste del personaggio: sull'opinione si potrà discutere, ma già per la sua esistenza essa mantiene l'oggetto della discussione nell'ambito della tematica che ci interessa.

V'è di più: trovata come vedremo nell'isola, e posta presso un edificio sacro in verosimile rapporto con esso, la statua rientra ancor più certamente di quella dello Stagnone tra le sculture che i Moziesi, se non produssero, commissionarono o comunque utilizzarono. Quand'anche, perciò, i suoi caratteri siano essenzialmente greci, ciò appartiene a quel fenomeno di «incomunicabilità» e di giustapposizione, piuttosto che di compenetrazione, tra le due culture che abbiamo preliminarmente segnalato. In altri termini, questa è certamente una testimonianza artistica della Sicilia punica, se non specificamente dell'arte punica in Sicilia: sicché, nel presente come in altri casi, una scissione sarebbe arbitraria.

Alla statua del «giovane di Mozia» è stato dedicato nel giugno 1986 un apposito convegno a Marsala, che ha consentito di approfondire le conoscenze. Ciò a partire dai dati tecnici, che il Falsone ha raccolto e presentato nell'incontro a premessa del dibattito. Sappiamo, dunque, che il materiale della statua è un marmo bianco a grana grossa cristallina, di presumibile origine greca insulare. Il marmo reca in più punti abrasioni, dovute al fatto che la statua, come vedremo, fu trasportata in un luogo diverso da quello originario e abbandonata in mezzo al pietrame dopo la distruzione di Dionisio di Siracusa. L'altezza conservata è di m. 1,81: mancano tuttavia i piedi, e dunque la statua doveva essere un po' più alta della media normale.

La statua rappresenta un giovane atletico stante, vestito di lunga tunica. La testa, di cui appare evidente l'aspetto vigoroso ed espressivo anche se è danneggiata specie tra il naso e il mento, reca sulla fronte una serie triplice di riccioli, che si interrompono all'altezza dell'orecchio e riprendono nella parte posteriore in serie duplice. La calotta cranica è grezza e vi si nota una serie di fori, evidentemente al fine di fissarvi un copricapo di bronzo (come nel caso della statua A di Riace), che non si è conservato.

Mentre la testa è volta a sinistra, il corpo ha un andamento sinuoso, sapientemente contrappesato, con la gamba sinistra portante e la destra avanzata in riposo. Mancano entrambe le braccia, ma vi sono elementi che ne suggeriscono la posizione: il braccio destro, come indicano l'attacco al corpo e la stessa inclinazione delle spalle, doveva essere alzato a sostenere un attributo, verosimilmente di bronzo, anch'esso perduto; quanto al braccio sinistro, ne possiamo ricostruire la posizione perché è rimasta la mano sul fianco, quasi affondata nella carne.

Sul corpo notevolmente mosso, che si delinea specialmente nei muscoli pettorali, nel ginocchio della gamba destra e nei glutei per il gusto del volume e del modellato, è posta una lunga veste leggera a sottilissime pieghe verticali, che sinuosamente seguono e volutamente accentuano la sagoma del corpo. Le braccia restano scoperte, mentre sul petto è indicata una stretta fascia, che avvolge il torace in duplice giro: due fori sul davanti, al centro, suggeriscono l'applicazione di un anello o nodo metallico. Particolare attenzione risulta posta alla parte della veste che rimane sopra la fascia: le pieghe si accentuano sul lato sinistro, per l'orientamento dei braccio verso il basso, mentre formano un ampio panneggio sul girocollo dalla parte opposta.

Tale è, dunque, l'opera d'arte che fu scoperta nel 1979 dalla missione dell'Università di Palermo diretta da Vincenzo Tusa in una zona dove il contesto archeologico indica l'età immediatamente successiva alla distruzione del 397. Evidentemente, non era quello il luogo originario della statua, che doveva essere situata nelle vicinanze e dovette essere portata dove è stata scoperta subito dopo il 397. A quel momento aveva ancora la testa, che si distaccò ma è stata recuperata nelle vicinanze. Dovevano invece già mancare le braccia e i piedi, che non sono stati trovati, e le parti metalliche, pure scomparse. Un problema di vivo interesse sta nel fatto che tracce di colore blu cobalto si trovavano sul terreno presso la testa e altre tracce di colore rosso porpora sotto la schiena: evidentemente la statua era in origine dipinta, e con toni vivaci.

Prima di analizzare il problema di dove e quando operasse l'autore e di chi volesse rappresentare, occorre rilevare che egli fu un «maestro» di primario livello. Non un elemento, non un particolare risulta banale, generico, lasciato al caso. Il «maestro» opera con sicura e compiaciuta conoscenza dei corpo umano, delle leggi della statica e di quelle del movimento. Crea intenzionalmente, su tali basi, una posizione difficile e «virtuosa», dando al corpo una torsione leggera ma evidente, contrastando le masse per determinarne l'equilibrio, utilizzando la veste non per nascondere ma per evidenziare gli elementi anatomici, con gusto vivo della plasticità e compiacimento quasi sensuale.

Ciò posto, il trattamento della testa deve essere il punto di partenza per una datazione della statua; e non v'è dubbio che essa suggerisce lo stile severo per la struttura, la resa, i capelli. Quanto al corpo, si è fatto presente che l'andamento sinuoso e la stessa presenza della veste suggerirebbero un'epoca più tarda, addirittura ellenistica; ma in età ellenistica una testa del genere sarebbe difficilmente comprensibile, mentre la sinuosità del corpo non è priva di possibili confronti anteriori. Quanto alla presenza della veste, è vero che essa compare piuttosto nelle figure femminili che in quelle maschili, ma non è ignota in quest'ultime.

Certo, questo è un punto chiave del discorso. Vincenzo Tusa ha sostenuto con vigore che il trattamento della veste è dovuto alla «commissione» punica della statua. Essa, in altri termini, sarebbe stata affidata da un moziese a un artista greco, che l'avrebbe realizzata a suo modo ma rispettando il canone punico della veste. La data, dunque, potrebbe rimanere nell'ambito dello stile severo, intorno al 460 a.C. Quanto al luogo della lavorazione, esso potrebbe essere la stessa Mozia, con marmo importato, o un altro: la questione, se le cose stanno così, non è più determinante.

Chi si volle rappresentare? Il Tusa, considerando la posizione del corpo e delle braccia, propone che si tratti della figura idealizzata del committente (o del figlio) che accompagna l'auriga sul carro e che, dopo aver vinto la gara, fa il giro d'onore nella pista, levando con la mano destra la corona d'alloro o un altro simile trofeo. In tal caso, la funzione della statua sarebbe stata quella di onorare un atleta di Mozia; e di onorarlo nell'isola, in un luogo pubblico e presso un santuario.

Il menzionato convegno di Marsala ha offerto l'occasione per formulare altre valutazioni. E' probabile, si è sottolineato, che la statua abbia di punico solo la destinazione finale: opera greca della Sicilia, e probabilmente di Selinunte, sarebbe stata tagliata in marmo di Efeso nella seconda metà del V secolo, forse meglio che nella prima, e avrebbe raggiunto Mozia come bottino di guerra. Si è proposto anche che rappresenti la mitica figura di Dedalo; e tanto basti a mostrare l'ampiezza delle possibili interpretazioni.