“Di alcuni violetti in collina”

di Paola Gallo Jarre

(da “Colori e Vernici”, L’Autore Libri Firenze, 1998)

 

Sulla collina, davanti al sagrato della chiesetta di San Vito (dove, con una disordinata processione eravamo saliti in tanti, carichi di coperte, di borse con gioielli di famiglia e thermos pieni di caffè, per sfuggire al pericolo che poteva scendere ancora una volta dal cielo) io guardavo in basso la mia città, la mia cara città diventata così vul­nerabile.

E con la memoria andavo spontaneamente all’infanzia da poco abbandonata, andavo alle salite domenicali di primavera in quegli stessi luoghi, verso una pacifica trattoria dai tavoli di pietra sotto una pergola di glicine, le tovaglie di carta bianca presto sciupate dai cer­chi viola dei bicchieri e delle bottiglie di Nebbiolo.

Ricordavo. Il momento più bello veniva dopo il pranzo: mio padre chiedeva due seggiole e un secchio d’acqua, che la padrona portava nel prato con un sorriso ormai complice. Sulla sedia di fronte, con­tro lo schienale, lui appoggiava il blocco di cartoncini bianchi, sede­va sull’altra aprendo la scatola degli acquarelli, dove stavano ordi­nate le formine dei colori in tutte le loro sfumature e i morbidi pen­nelli biondi di tasso, che io avrei poi avuto il compito di lavare, asciugare e rimettere a posto.

I gentili quadretti si somigliavano di volta in volta nelle loro tinte fresche e fredde, perché sempre c’era l’erba, il grigio dei tavoli, il glicine, il profilo violaceo delle montagne lontane. Presto comincia­vano a cadere nel secchio le gocce di colore troppo denso e si for­mavano i primi mulinelli. Il papà esitava, lasciava asciugare, si chi­nava su quel cavalletto di fortuna a correggere con un gesto leggero, sfiorava con la punta del pennellino la superficie non più limpida nel grande secchio lì in terra. Mi domandava:

«Va bene?»

Le zie e la mamma stavano un po’ appartate, chi lavorava all’unci­netto, chi parlava a bassa voce di liaisons riprovevoli o della nuova principessa venuta dal Belgio con quella capigliatura che non stava mai a posto. Io, a tratti, m’inoltravo nel boschetto e li cercavo là, dove avevo versato l’acqua la volta precedente, e li scorgevo là, fedeli all’appuntamento, i miei fiori.

Si faceva sera, qualcuno in bretelle lasciava le carte con le picche e i cuori e veniva ad ammirare il modesto capolavoro, lì sulla sedia.

C’era, però, un segreto e nessuno se ne rendeva conto… Io sola sapevo che il papà di quadri non ne aveva fatto uno soltanto. Sì, il bel paesaggio con ogni cosa riconoscibile sul foglio rugoso, ma ancora un altro quadro, uscito dai resti di quei blu, di quei verdi, di quei grigi, di quei rosa nel secchio di zinco.

Lì vorticavano strisce violette, chiare e scure, che al minimo soffio formavano figure fiabesche e, dall’alto, il cielo lillà della sera dava il suo tocco.

Gettar via l’acqua era compito mio. Piegata da un lato andavo fino al limitare del boschetto di faggi. Adagio distribuivo le onde, le spi­rali, le nuvole, i veli, i sogni, le stelle filanti. E qua la prossima domenica avrei trovato le nuove violette.

Questa sera - e già la mamma chiamava - raccoglievo con le mie dita grassocce, in un ingenuo mazzetto, le viole dal breve e fragile stelo nate dal gioco di una settimana fa.

 

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08/01/01