Riassunto de "La carriola"
Un avvocato ripeteva quotidianamente un rito, unico modo per
sentirsi vivo tra la piatta vita della sua professione e del suo ruolo sociale.
Era questo un rito particolare, che avrebbe compromesso la carriera del suddetto
se fosse stato scoperto. L'unico timore dell'avvocato - professore era che la
sua vittima potesse rivelare il segreto, pur nella sua impossibilità di
comunicare.
Tutto era iniziato in treno, di ritorno da Perugia. Il protagonista si era reso
conto, prima sul convoglio e quindi sulla soglia di casa, di non riconoscersi
nel suo corpo, nel suo aspetto, nel suo compito di ricercato professionista,
marito e padre di famiglia. La sua facciata era stata creata artificialmente,
senza alcun intervento dell'individuo che si vedeva usurpata la vita, vita che
forse non aveva nemmeno iniziato a vivere. Chi è impegnato ad esistere non ha
infatti tempo di sviluppare questo genere di riflessioni, perché conduce la sua
esistenza. Chi conosce e vede la propria vita, invece, ne esce fuori, e smette
di trascorrerla. Tuttavia gli obblighi familiari indussero l'avvocato ad aprire
per l'ennesima volta la porta di casa e recarsi nello studio. Aveva egli una
vecchia cagna che, con l'avanzare degli anni, aveva imparato ad apprezzare il
silenzio della stanza del professore. Questo, come ogni giorno, dopo essersi
assicurato di non essere visto da nessuno, prese le due zampine di dietro della
cagna e le fece fare la carriola. L'atto caricava il protagonista come un
cannone, se non fosse per lo sguardo che la bestia, sbigottita, rivolgeva al
padrone dopo il rito. All'avvocato non era concesso scherzare, e quel semplice
atto costituiva il suo svago maggiore. La scoperta di tale rito avrebbe
distrutto la sua esistenza.
Riassunto de "La patente"
Il giudice D'Andrea era una persona sulla quarantina, il cui
aspetto era caratterizzato da elementi di molteplici razze. La condotta morale
era però l'opposto della sua sbilenca facciata: chiunque lo avesse conosciuto
avrebbe potuto confermarlo.
Non aveva potuto nella sua vita vedere molte cose, ma pensava moltissimo,
soprattutto la notte, osservando le stelle dalla finestra e trastullandosi coi
suoi capelli da negro. Questo errare della mente terminava con la luce del
giorno, quando il giudice doveva andare ad amministrare la giustizia. Assolveva
al suo compito con la massima puntualità, rinunziando al pranzo pur di
concludere ogni pratica; tuttavia questa meticolosità gli accresceva la pena
del lavoro. Neppure i suoi pensieri notturni lo aiutavano, anzi, sembravano
essere avversi al mestiere di giudice istruttore.
Una sola pratica sfuggiva a questa precisione. D'Andrea, dopo aver provato
inutilmente ad occuparsene, domandava consigli ai colleghi, i quali al solo
sentir nominare Chiàrchiaro si prodigavano in scongiuri. Quella di Chiàrchiaro
era una causa persa: aveva egli infatti accusato due persone di aver fatto gli
scongiuri al suo passaggio, essendo convinzione comune che il suddetto fosse uno
jettatore. Il giudice non aveva idea di come adempiere al suo lavoro, perciò
mandò a chiamare l'interessato che, puntualmente, si presentò. L'aspetto di
Rosario Chiàrchiaro lo rendeva certamente una persona poco raccomandabile.
D'Andrea volle sapere il perché di quella causa, che considerava persa in
partenza. L'accusatore stesso aveva fornito prove dell'innocenza degli imputati,
e tutto ciò non faceva che aumentare i dubbi del giudice. Chiàrchiaro un tempo
lavorava ma, per la sua fama di jettatore, fu licenziato e lasciato sul
lastrico. Soltanto una certificazione del suo potere avrebbe potuto
risollevarlo, in modo da farsi pagare per non trovarsi vicino, e portar male, a
fabbriche o botteghe. Tutto ciò che voleva era una patente da jettatore.
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