Francesco Mario Agnoii
A proposito dei mandati europei (arresto e ricerca delle prove)
gennaio 2004
 
 

Nessuno dubita che meriti di essere raggiunto l’obiettivo fissatosi dall’Unione Europea di conservare e sviluppare in tutto il suo ambito territoriale uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Il dissenso è sui modi e sui mezzi

La proposta di decisione quadro del Consiglio dell’Unione Europeo sul mandato europeo per la ricerca delle prove induce a riprendere e approfondire le osservazioni suscitate dal mandato di arresto europeo, che avrebbe dovuto entrare in vigore in tutti i paesi dell’Unione a far data dal 1° gennaio in sostituzione dell’estradizione, ma finora (inizi gennaio 2004) è stato recepito solo otto Stati (Belgio, Danimarca, Irlanda, Finlandia, Spagna, Svezia, Portogallo e Reno Unito) e ha avuto una prima applicazione nei rapporti fra Spagna e Svezia.
Nessuno dubita che meriti di essere raggiunto l’obiettivo fissatosi dall’Unione Europea di conservare e sviluppare in tutto il suo ambito territoriale uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Il dissenso è sui modi e sui mezzi e, soprattutto, sul fatto che con particolare riguardo proprio al settore per certi aspetti più delicati, come ho avuto altra volta occasione di osservare, si sia messo il carro davanti ai buoi con la pretesa di incidere su determinate procedure, che oltre tutto toccano direttamente la sfera personale e addirittura la libertà individuale senza averne prima realizzato gli indispensabili presupposti: 1) una sostanziale identità delle norme incriminatrici e comunque una effettiva comunanza degli istituti di dritto penale sostanziale; 2) una identità di posizione istituzionali dei soggetti competenti a prendere quei provvedimenti.
Una fretta ed un conseguente ribaltamento dell’ordine logico degli interventi che hanno per inevitabile conseguenza, oltre che ulteriori complicazioni e prolungamenti dei tempi di procedure che si volevano invece semplificare ed abbreviare, gravi violazioni, attraverso una diminuzione delle garanzie, dei diritti della persona e una evidente restrizione degli spazi di libertà.
E’, difatti, evidente che nessuna delle due condizioni indicate è stata finora realizzata né fra tutti gli attuali membri dell’Ue, né, tanto meno, con quelli di prossimo ingresso o, peggio, in lista di attesa, che, oltre tutto, hanno in gran parte alle spalle un diverso back-ground istituzionale e giuridico.
Sul primo punto la miglior prova che il ravvicinamento delle legislazioni penali è ancora assai lontano lo forniscono proprio la decisione-quadro sul mandato di arresto europeo (me ne sono di recente occupato) e la nuova proposta di decisione-quadro del Consiglio sull’introduzione del mandato europeo per la ricerca delle prove, dalla quale si sono prese le mosse. Difatti, se così non fosse, non vi sarebbe stata alcuna necessità di escludere, oltre tutto con tanta accanita insistenza, in entrambi i casi il principio, della doppia imputabilità, fino ad oggi ritenuto essenziale in tutti i rapporti di collaborazione fra Stati in tema di giustizia criminale, tanto più che entrambi i mandati trovano applicazione non in ogni ipotesi di reato, ma, almeno nelle intenzioni, soltanto con riferimento a fattispecie di una certa gravità. Se perfino in questi casi l’applicazione di tale principio ostacolerebbe l’effettivo raggiungimento dei fini cui si mira con l’introduzione dei mandati è evidente quanto lungo sia ancora il cammino da percorrere per una reale unificazione (o anche solo un sostanziale avvicinamento) nell’ambito comunitario delle fattispecie penali.
In ordine al secondo punto è del tutto evidente come non sia per i cittadini indifferente che il soggetto competente a emettere un mandato nei suoi confronti goda di una effettiva indipendenza o dipenda invece dal potere esecutivo e abbia, quindi, in ultima istanza, natura (o dipendenza) politica. Ora se quanto meno nei paesi della vecchia Europa occidentale può ritenersi che questa indipendenza sussista dovunque, in forme sostanzialmente equivalenti, per la magistratura giudicante, ciò non è affatto vero per la magistratura inquirente, per i magistrati cioè della pubblica accusa, oltre tutto quelli più direttamente e immediatamente interessati all’utilizzo e alla emissione dei mandati.
In Italia la Costituzione assicura l’assoluta indipendenza di tutti i magistrati dal potere esecutivo e da ogni altro potere. Ciò nonostante sono in corso violente polemiche che coinvolgono, su fronti opposti, le diverse forze politiche, proprio per il timore (o, se si preferisce, il sospetto) che alcuni pubblici ministeri siano stati o possano essere influenzati in futuro nell’esercizio della loro attività da comunanze ideologiche o da vicinanze partitiche. Cosa direbbero cittadini di tanta (giusta) sensibilità se avessero non il timore, ma la certezza, che, come avviene nella maggior parte dei paesi europei, il soggetto che li persegue, magari privandoli della libertà personale o sottraendogli, a fini probatori, loro beni, ha natura politica o è comunque un funzionario gerarchicamente dipendente dal suo governo?
Queste osservazioni valgono tanto per il mandato di arresto europeo quanto per il mandato europeo di acquisizione delle prove nonché per i molti altri mandati, che, a quanto si rileva dalla relazione alla nuova proposta di decisione, sono allo studio del Consiglio. Di qui l’opportunità di riprendere e approfondire quanto già detto, con particolare riguardo, per il suo valore generale, alla questione della doppia imputabilità (o incriminabilità per usare il linguaggio della proposta), rinviando ad altra eventuale occasione l’esame dei particolari tecnici.
La condizione della doppia imputabilità, fino ad oggi sempre posta come essenziale nei rapporti fra stati in materia penale, non è frutto di scelte di mera convenienza od opportunità e nemmeno attiene, al contrario di quanto sembra implicitamente ritenere il Consiglio, alla sovranità degli stati membri, che potrebbero, quindi, rinunciarvi, ma all’individuo, a suoi diritti fondamentali, dei quali nessuno può disporre. La doppia imputabilità non è, difatti, che una delle estrinsecazioni del principio nullum crimen, nulla poena sine previa lege, coessenziale ad ogni sistema giudiziario che voglia collocarsi in un ambito sia pur minimo di civiltà (significativamente in età contemporanea lo hanno trascurato solo il codice nazista e quello sovietico), un principio che evidentemente non viene rispettato nei confronti, ad esempio, di un cittadino italiano (tedesco, inglese ecc.) che venga perseguito, arrestato o comunque attinto da indagini dalla magistratura finlandese (o di qualunque altro paese europeo) per un fatto commesso in Italia (è l’ipotesi estrema e più grave, ma non l’unica) e non previsto come reato da una norma italiana (è ovvio che le stesse considerazioni valgono per il cittadino finlandese, o qualunque altro europeo, nei confronti dell’apparato giudiziario italiano).
Si potrebbe, è vero, obiettare che comunque la perseguibilità a livello europeo, nelle sue varie forme, è pur sempre condizionata dalla previa esistenza di una puntuale norma incriminatrice quanto meno nell’ordinamento giuridico del paese procedente. Ragionamento in realtà capzioso e che tuttavia potrebbe trovare un sia pur pallido riscontro nel principio ignorantia legis non excusat, tradotto in norma positiva dall’art. 5 del codice penale italiano se tale principio e tale disposizione non dovessero essere letti alla luce della sentenza della Corte costituzionale 24 marzo 1988 n. 364.
Tale decisione ha posto alcuni principi fondamentali che sono stati così massimati: “E’ illegittimo l’art. 5 c.p. nella parte in cui non esclude dall’ inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile, atteso che il combinato disposto del comma 1 e 3 dell’art. 27 cost., nel quadro delle fondamentali direttive del sistema costituzionale desunte soprattutto dagli art, 2, 3, 25 comma 2, 73 comma 3 cost., le quali pongono l’effettiva possibilità di conoscere la legge penale quale ulteriore requisito minimo d’imputazione, che viene ad integrare e completare quelli attinenti alle relazioni psichiche tra soggetto e fatto, consentendo la valutazione e, pertanto, la rimproverabilità del fatto complessivamente considerato “.
La Corte è poi tornata sull’argomento con la decisione 24 febbraio 1995 n. 61 per dichiarare, sulla base delle stresse considerazioni, l’illegittimità costituzionale dell’art. 39 c.p.m.p. “nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ ignoranza dei doveri inerentoi allo stato militare l’ignoranza inevitabile”.
Una volta accertato che per il nostro ordinamento costituzionale (ma, ripetesi, per ogni ordinamento che aspiri ad essere definito civile, trattandosi di principi di portata universale) requisiti minimi di imputazione sono la previa esistenza di una norma penale sanzionatrice di quella determinata condotta e l’effettiva possibilità di conoscerla, sarebbe assurdo (oltre che incostituzionale) sostenere che, per restare all’esempio fatto, un cittadino italiano che magari nemmeno si è mai recato in Finlandia possa avere effettiva conoscenza delle norme di quel paese e in particolare di norme che non abbiano un equivalente nell’ordinamento giuridico italiano.
Non per nulla in Italia, paese caratterizzato, nonostante tutt difetti che lo afgfliggono, da un’antica civiltà giuridica, che meriterebbe di essere orgogliosamente rivendicata in un momento nel quale l’Unione sembra purtroppo dimenticarne le basi fondanti, il principio della effettiva possibilità di conoscenza ha avuto applicazione soprattutto a favore di cittadini stranieri e, si badi, per fatti commessi in territorio italiano, quindi con una possibilità di conoscenza enormemente più elevata di quella, assolutamente inesistente, riscontrabile nella stragrande maggioranza dei casi nei quali si pretenderebbe di escludere come indispensabile presupposto di applicazione delle nuove normative europee il requisito della duplice imputabilità.
Prima di chiudere un’ultima osservazione per rilevare come avessero torto quei fautori del recepimento a scatola chiusa del mandato di arresto europeo, che prevedevano inaudite difficoltà per il nostro paese se avesse lasciato trascorrere inutilmente la data fatidica del 31 dicembre 2003. Non solo l’Italia si trova in buona compagnia, ma tutti i paesi europei si sono trovati d’accordo nel ritenere che la mancata attuazione della decisione quadro relativa al mandato di arresto europeo non determina alcun vuoto normativo sicché lo Stato che non vi abbia proivveduto continuerà molto semplicemente ad applicare le norme sull’estradizione sia in veste di Stato “richiedente” (cosiddette procedure attive) sia di Stato “richiesto” (procedure passive), con grande vantaggio –si può aggiungere- dei diritti dei suoi cittadini.




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