Luigi Copertino
Sussidiarietà o federalismo: inconciliabilita' di una apparente identita' di concetti giuridici.
 
28 febbraio 2000

Nel vivo delle polemiche tra partiti, cui assistiamo quotidianamente, pochi si accorgono delle differenze sottostanti a termini come "sussidiarietà" e "federalismo" usati indifferentemente quando invece essi rimandano a dottrine politiche e giuridiche culturalmente e storicamente in antitesi.

Infatti il principio di sussidiarietà nasce e si sviluppa nell'ambito della dottrina politico-sociale espressa storicamente dal Cattolicesimo laddove il federalismo ha radici illuministe e positiviste e si sviluppa secondo le linee culturali dell'ideologia umanitaria, laicista e massonica.

La sussidiarietà rimanda ad un orizzonte sociologico "organicista", il quale a sua volta presuppone una teologia dell'Essere trascendente e creatore, mentre il federalismo è intimamente connesso con una visione "contrattualista" delle relazioni sociali la quale si fonda su una ontologia panteista che nega l'Essere creatore ed attribuisce al creato i caratteri propri di Dio quali l'eternità, l'infinità, l'ubiquità, l'onnicomprensività.

Il federalismo si richiama al gius-razionalismo immanentista della cultura protestante ed illuminista, la sussidiarietà invece al gius-naturalismo teologico, prima patristico-agostiniano e poi scolastico-tomista, della Tradizione cattolica.

E' necessario perciò chiarire bene le differenze sottostanti alle due dottrine prese in esame e, soprattutto, dal punto di vista cattolico, che è quello che facciamo nostro, chiarire le trappole dottrinarie insite nel moderno federalismo.

FEDERALISMO E CONTRAFFAZIONE DELLA SUSSIDIARIETA'.
Prendiamo spunto da una osservazione di Francesco Mario Agnoli: "Fin dal primo momento- scrive Agnoli- la Rivoluzione si propose di realizzare il programma di Voltaire con la distruzione…dell'infame, cioè della Chiesa Cattolica, e di semplificare la ricca variegatezza della società tradizionale, consentendo, con l'eliminazione di tutti i corpi intermedi, la sopravvivenza di un solo rapporto, quello fra il cittadino-individuo da una parte e lo Stato dall'altra.(…).

I successivi sviluppi hanno poi dimostrato che l'azione semplificatrice della Rivoluzione era ed è destinata ad operare su entrambi i termini del rapporto. In conseguenza la prossima meta sarà la reductio ad unum degli Stati attraverso la costituzione di un governo mondialista, che dovrà avere di fronte a sé non popoli organizzati e comunità organicamente strutturate, ma solo un immenso gregge…di individui…".

Nell'ambito di questa dinamica storica si inserisce, appunto, il federalismo quale espressione del contrattualismo sociale e quale contraffazione del principio cattolico di sussidiarietà. Quando la modernità, invece di svilupparsi in continuità con le proprie basi medioevali e cristiane, imboccò decisamente, nel secolo XVI, la via della secolarizzazione e della polemica antireligiosa, la Chiesa Cattolica difese strenuamente, in nome della sussidiarietà, l'organicità comunitaria cristiana di fronte alle aggressioni del moderno e nascente Stato Leviatano.

Oggi, invece, di fronte all'emergere delle pulsioni antipolitiche e tecnocratiche del federalismo, diventa assolutamente importante, per i cattolici, non cadere nella trappola dell'utilizzazione in funzione trans-nazionale, e perciò libero-scambista, della sussidiarietà confondendo l'organicismo comunitario con il contrattualismo sociale.

La Cristianità di un tempo sorse lentamente sviluppando nel concreto, e senza bisogno di teorizzazioni pianificatrici, la sussidiarietà comunitaria dei corpi intermedi.

Il modello archetipico, ma ad un tempo eterno e temporale, era la stessa Chiesa intesa come Corpo Mistico di Cristo.

Tale modello costituì l'identità essenziale dell'Europa almeno fino allo sconquasso della Riforma protestante e della Rivoluzione Francese.

A tale sconquasso la Chiesa oppose la Riforma Cattolica Tridentina riuscendo perlomeno a rallentare il processo di secolarizzazione anticristiana sino ad oggi quando, per ammissione stessa di un Papa, Paolo VI, anche la Chiesa, forse sfiancata da secoli di resistenza al male, sembra essersi arresa per mano di alcuni suoi elementi interni, ingannati dal facile ed ingenuo quando non utopico entusiasmo aperturista ed ottimista, permettendo al fumo luciferino di penetrare nel Tempio di Dio.

Sappiamo che nella sua bimillenaria storia, la Chiesa ha saputo provvidenzialmente superare crisi altrettanto gravi e perciò dobbiamo avere la certezza che Essa saprà superare anche quella attuale.

Ma, per tornare al nostro problema, la questione fondamentale è proprio questa: la sussidiarietà autentica non può essere concretamente attuata al di fuori di un contesto sociale e spirituale aperto verso l'Alto ossia fondato su un'ontologia trascendente.

Laddove, invece, come è accaduto con la modernità, la scelta è fatta in favore del razionalismo giuridico e del contrattualismo sociale, che presuppongono la chiusura nell'immanenza ed un'ontologia panteista, la sussidiarietà prima viene combattuta in nome dello Stato burocratico superiorem non recognoscens, allo scopo di scardinare l'antica organicità sociale cristiana, e poi viene contraffatta quando, giunto il processo di secolarizzazione nella sua fase postmoderna, si tratta di destrutturate anche il moderno

Stato nazionale diventato quest'ultimo, ormai, uno strumento eversivo di superata utilità ed addirittura ora di intralcio per l'ulteriore cammino del mysterium iniquitatis. In tale fase la corazza meccanicista dello Stato moderno viene fessurata ma non verso l'Alto, per un ritorno allo Stato di corpi intermedi già conosciuto dall'Europa Cristiana, bensì verso il basso onde favorire la globalizzazione dell'internazionalismo liberoscambista.




IL RUOLO STORICO DELLO STATO. FEDERALISMO, DIRIGISMO LIBERISTA E GLOBALIZZAZIONE ECONOMICA.
Lo Stato moderno, infatti, appare nella fase iniziale del processo di secolarizzazione ossia in quella nella quale le pulsioni nichiliste della gnosi anticristiana hanno per obiettivo primario ed immediato la chiusura all'uomo delle vie verso l'Essere trascendente e creatore.

Non a caso all'apparizione del razionalismo e del panteismo in filosofia corrisponde storicamente l'apparire, sul piano politico-giuridico, dello Stato Leviatano sulla scia del pensiero di Macchiavelli, Bodin, Hobbes e Rousseau. Chiuse la vie della Trascendenza, l'Antitradizione spalanca ora all'uomo moderno gli abissi postmoderni del sub-razionale, dell'inconscio, del magismo neospiritualista, del nichilismo tecnocratico e suicidario.

E' in questa ulteriore fase del processo di scristianizzazione che sembra essere riscoperta la "sussidiarietà". Tuttavia, mediante tale riscoperta, non si ha per dichiarato obiettivo quello dell'abbandono del processo di secolarizzazione per una contemporanea riscoperta dell'ontologia trascendente capace di rifondare un autentico organicismo comunitario. Quindi, con tutta evidenza, siamo di fronte ad un uso illegittimo, che poi diventa un abuso, della parola "sussidiarietà" (e si sa, Attilio Mordini ben lo ha spiegato, quale sia l'importanza anche simbolica delle parole: il che poi spiega molto bene il mimetismo verbale dell'Antitradizione allo scopo di accreditarsi sotto finte spoglie angeliche). Dietro questa nuova sussidiarietà federalista si celano le politiche liberiste di destrutturazione trans-frontaliera dello Stato moderno.

Come quest'ultimo è stato a suo tempo utilizzato per ergere la nazione contro la Cristianità, laddove prima essa nazione era organicamente integrata, quale gradino intermedio tra l'universale ed il particolare, nella Cristianità, adesso la sussidiarietà è illegittimamente utilizzata, dal federalismo contrattualista, per opporre l'identità locale a quella nazionale con lo scopo ultimo di sciogliere le nazioni in micro-unità territoriali a sfondo aziendale e funzionali all'omologazione mondialista nel mercato planetario.

Il federalismo infatti tende a facilitare il passaggio dal dirigismo statuale, su basi nazionali, al neo-dirigismo liberoscambista su scala mondiale. Questo passaggio corrisponde, storicamente, al trapasso della modernità nella post-modernità che della prima non è l'antitesi ma il compimento ultimo. Un convinto liberista quale fu Guido Carli, ex governatore della Banca d'Italia, ha onestamente riconosciuto che non vi è economia più pianificata e programmata di quella di mercato. Carli, in un libro intervista rispondendo ad una domanda di Eugenio Scalari, ebbe a dire: "Sono profondamente convinto che l'economia di mercato sia un ordinamento non conforme a natura, che può esistere soltanto se è instaurato, inforzato e imposto in ogni momento da leggi severe e interventi conformi della pubblica autorità. Che sciocchezza contrapporre l'economia di mercato all'economia pianificata! Non esiste un sistema così interamente pianificato quanto l'economia di mercato.". Recentemente anche Natalino Irti ha dimostrato che non può esistere mercato senza il dirigismo razionalista ed autoritario di una qualche sovranità pubblica che imponga a tutti regole astratte ed uniformi di comportamento capaci di dissolvere i legami organici e naturali o i vincoli preferenziali.

Il mercato, essendo il luogo nel quale devono incontrarsi l'irrelata domanda con l'altrettanto libera offerta, unici paradigmi ammessi come razionali nel comportamento umano secondo i liberisti, e dunque essendo un luogo utopico nel senso di astratto e privo di ogni concreto radicamento comunitario, poteva essere storicamente attuato dallo Stato moderno solo mediante l'imposizione normativa: la qual cosa testimonia a favore della sua non naturalità, come appunto sottolineava Guido Carli. Il mercato è inseparabile dal normativismo liberale che, come ha ampiamente dimostrato Carl Schmitt, è a sua volta essenzialmente connesso con il decisionismo volontaristico da cui nasce il moderno Leviatano.

Entrambi, mercato e Stato nazionale, sono il frutto del gius-razionalismo e del contrattualismo sociale e quindi dell'ontologia panteista. Nulla di più falso dunque della convinzione liberale della naturalità e spontaneità del mercato e delle sue leggi "razionali". La naturalità del mercato può essere affermata soltanto giocando con le parole e confondendo concettualmente "naturalità" e "razionalità" come appunto fa tutta la cultura moderna protestante ed illuminista.

Non a caso, infatti, sia Adam Smith che Von Hayek hanno sempre insistito sul ruolo normativo della morale umanitaria e della legge impersonale - rule of law- per l'esistenza effettiva del mercato ed hanno sempre inteso la presunta naturalità del medesimo nel senso della sua necessaria razionalità immanente del tutto scevra da implicazioni di un'etica eterofondata sul presupposto dell'ontologia trascendente. L'indagine storica e socio-economica dimostra che le relazioni sociali ed economiche tendono piuttosto, in assenza di imperativi normativistici, ad organizzarsi secondo modelli organici, comunitari e protezionisti che non corrispondono sempre a situazioni di dominio o di egemonia, come accusano i liberisti, ma spesso, al contrario, costituiscono la base di concrete solidarietà sociali e di concrete identità culturali.

Del resto, la stessa parola "economia" nel suo originario significato rimanda alla norma della buona amministrazione domestica con evidente riferimento a quella forma di vita per definizione essenzialmente comunitaria che è la famiglia. Il mercato, dunque, si è storicamente realizzato mediante l'intervento decisionista e normativista della legge statale impersonale che sopprimendo i corpi intermedi e le articolazioni comunitarie dell'antica società organica ha imposto il contrattualismo sociale ed ha ridotto razionalisticamente ogni relazione umana ad un do ut des in nome del primato dell'economia sul politico e sul sacro, questi ultimi marxianamente disprezzati come "sovrastrutture".

La legge astratta ed impersonale del moderno Stato-macchina, partorito dalla rivoluzione protestante e razionalista, ha distrutto tutti gli antichi corpi sociali, gli inveterati usi consuetudinari, i radicamenti comunitari, i quali dalla Chiesa non erano stati negati ma coordinati verso l'apertura all'Essere trascendente ossia al fondamento ontologico della persona umana organicamente inserita, sul piano naturale, in una pluralità di comunità intermedie che dalla famiglia ascendevano fino allo Stato. Lo Stato nazionale delle monarchie assolute, prima, e delle repubbliche giacobine e liberali, poi, è stato il vero artefice dei singoli mercati nazionali.

Ma, essendo esso, come giustamente sottolineava Carl Schmitt, soltanto il primo agente della secolarizzazione, lo Stato moderno non avrebbe mai potuto, con tutta evidenza, fermare quel medesimo processo che aveva contribuito a scatenare. E' perciò una illusione ritenere che lo Stato e il Politico possano di per sé offrire l'istanza trattenitrice, il Katéchon, da opporre alle forze dissolutici e nichiliste della secolarizzazione. Ciò perché l'uomo ha rifiutato sin dal XVI secolo l'ancoraggio fondamentale all'Essere trascendente che è l'Autore della sua natura creaturale e sociale sulla quale è fondata l'esistenza storica e la legittimità stessa di ogni forma del politico apparsa nella storia, anche quella statuale.

Franco Cardini ha messo più volte in rilievo come attualmente allo Stato nazionale moderno stia accadendo, per contrappasso storico, esattamente quel che a suo tempo e per causa sua accadde ai corpi intermedi intra-statuali: lo Stato è diventato anch'esso un corpo intermedio in procinto di essere stritolato da un più grande Leviatano che oggi assume il volto dei molteplici organismi trans-nazionali ad iniziare dal principale che è l'O.N.U.. Questi organismi trans-nazionali, ed in particolare la Banca Mondiale ed il Fondo Monetario Internazionale, applicano infatti, con una spietatezza impressionante, su scala continentale o planetaria gli stessi sistemi dirigistici, che a suo tempo furono propri degli Stati nazionali moderni, allo scopo di pianificare sempre più ampi spazi economici liberi da dazi, protezionismi, vincoli preferenziali, legami storici politici e culturali tra popoli e Stati. E' questa una ulteriore riprova dell'essenza dirigista dell'economia liberista. L'obiettivo ultimo degli organismi mondialisti è infatti evidentemente quello di imporre giuridicamente un unico spazio mondiale di relazioni economiche tra singoli o gruppi interagenti in via mediatica attraverso la modernissima tecnologia cibernetica. Al momento, non essendosi ancora alla fase nella quale dovrebbe avvenire l'unificazione statuale e totalitaria dell'intera umanità sotto un unico ed inquietante Governo Mondiale, gli organismi trans-nazionali agiscono ancora come istituzioni, in astratto paritetiche, nate per contratto internazionale tra Stati sovrani. E' però evidente che coloro che muovono le strategie planetarie mirano al passaggio alla fase definitiva dello Stato-mercato mondiale. Ciò coerentemente,del resto,con gli schemi delle teorie sociali contrattualiste che a suo tempo fondarono anche gli stati nazionali e per le quali le pubbliche autorità statuali, garanti del mercato, nascono dal "contratto sociale", nel nostro caso quello stipulato tra gli Stati all'atto della fondazione degli organismi trans-nazionali.




ESEMPI E CONSEGUENZE DEL DIRIGISMO LIBERISTA PLANETARIO. L'INGANNO DEL FEDERALISMO "SUSSIDIARIO" POSTMODERNO.
Possiamo portare come esempio concreto del modo di operare del dirigismo liberista trans-nazionale quello delle direttive dell'Unione Europea in materia di appalti pubblici. Le direttive sono norme europee che, in base ai trattati di fondazione della CEE, prima, e dell'U.E., poi, gli Stati aderenti hanno l'obbligo di recepire in leggi nazionali, entro il termine massimo di un anno dalla loro emanazione. Tuttavia tali direttive, sebbene non recepite nel termine previsto, devono essere comunque osservate dai cittadini dei singoli Stati perché, trascorso un anno, diventano immediatamente operative nell'ordinamento giuridico nazionale.

Già in questa immediata operatività interna di norme internazionali si manifesta la destrutturazione trans-nazionale degli Stati europei firmatari dei trattati di fondazione dell'Unione Europea. Nel settore degli appalti pubblici, dicevamo, esiste una serie di direttive europee, alcune recepite altre non ancora ma già immediatamente operative nei singoli ordinamenti giuridici nazionali, le quali vietano agli enti pubblici appaltanti di tutti gli Stati membri di inserire nei bandi di gara per gli appalti, sia di fornitura di beni o servizi che di lavori pubblici, le cosiddette specifiche tecniche nazionali ossia quei requisiti tecnici del prodotto o del servizio o dell'opera da appaltare frutto di sistemi di produzione o di brevetti esclusivi della nazione cui appartiene l'ente appaltante.

Nel caso poi che l'indicazione di tali specifiche tecniche nazionali sia assolutamente necessaria all'individuazione dell'oggetto del contratto da aggiudicare le medesime direttive ne permettono l'indicazione solo alla condizione che sia inserita nel bando di gara la dicitura "o equivalenti" in modo da consentire la partecipazione alla gara anche di quelle imprese straniere che, pur non possedendo prodotti o sistemi di realizzazione del servizio o dell'opera conformi al brevetto nazionale, possiedano però prodotti o sistemi di realizzazione analoghi secondo il brevetto del proprio Stato. In tal modo si ottiene l'internazionalizzazione della concorrenza e lo sradicamento del capitale e del lavoro dalle proprie radici nazionali. Di recente, dopo la firma degli accordi tra l'U.E. e l'Organizzazione del Commercio Mondiale (WTO) per la liberalizzazione degli scambi tra Europa e resto del mondo, le predette direttive sono state modificate, o sono in procinto di essere modificate, per applicare il divieto di utilizzazione delle "specifiche tecniche nazionali" anche nei confronti delle imprese extra-europee. La finalità di tali direttive è evidente ed è quella di liberalizzare dirigisticamente gli scambi anche nel settore degli appalti pubblici vietando normativamente, e con pesanti sanzioni a carico dei trasgressori, ogni possibile protezionismo o vincolo preferenziale a favore delle imprese nazionali: vincoli ai quali, invece, per legge naturale tenderebbero "istintivamente" gli enti pubblici appaltanti. L'imposizione normativa della legge anche in tal caso mira alla creazione artificiale di uno spazio economico unificato ma innaturale perché riduttivo delle specificità nazionali e locali ( il protezionismo e le clausole preferenziali, infatti, potrebbero operare nelle gare di minore importo anche a livello regionale o sub-regionale).

Si tenga conto poi del fatto che le direttive non sono deliberate dal parlamento europeo, che ha solo funzioni consultive, ma dalla commissione, organo eminentemente tecnocratico: tale rilievo è utile per comprendere il grado di autoritarismo decisionistico-liberista, svincolato da ogni autentica legittimità, al quale sono sottoposti i popoli europei a causa dell'eterogenesi dei fini che ha rovesciato le iniziali prospettive della "sovranità popolare". Ciò dimostra l'uso storicamente strumentale che della sovranità popolare la cultura liberal-democratica ha fatto nell'intento di secolarizzare il politico per poi svuotare la democrazia di ogni effettivo contenuto concreto riducendola davvero ai "ludi cartacei" di mussoliniana memoria ed al nichilismo formale delle procedure costituzionali, come se la legalità formale potesse reggersi senza una autentica fondazione di legittimità sostanziale radicata nell'identità culturale di un popolo forgiata dalla sua secolare storia. Il processo di dirigistica liberalizzazione planetaria contempla ancora, a titolo transitorio nell'attuale fase in sviluppo verso il governo unico mondiale, Stati, popoli, nazioni ed aggregati comunitari infra-nazionali ma essi sono ormai concepiti alla stregua di unità aziendali in concorrenza sul mercato mondiale.

Stati-aziende, Regioni-aziende o Comuni-aziende che, in nome dell'efficienza economica e della riduzione dei costi di produzione del sistema (leggi "spesa sociale"), non esitano a "licenziare" i propri cittadini ossia, in altri termini, a tollerare sacche sempre più vaste di disoccupazione e di povertà. In realtà, però, al di là di qualsiasi riferimento anche "aziendalistico" ad aggregati territoriali, nella prospettiva finale del processo di globalizzazione il punto (utopico) di arrivo è quello di un unificato mercato di libere contrattazioni tra individui apolidi, sradicati da ogni appartenenza.Questo mercato planetario, a dire dei liberisti, sarà in grado, per mezzo della concorrenza, in astratto egalitaria, prodotta dalla "mano invisibile" capace di tutto aggiustare allocando razionalmente le risorse, di assicurare pace, benessere, prosperità ed eguaglianza all'intero collettivo mondiale apolide nel quale l'umanità sarà trasformata dopo la cura liberista. Tale collettivo mondiale sarà il frutto della riduzione dei popoli alla somma reticolare dei singoli individui anonimi fra loro legati soltanto dall'artificiale sinallagma contrattuale, revocabile ad ogni istante come affermano i libertarians o anarco-liberisti che sono la punta più estrema e l'espressione più recente della patologia liberale. La nuova sussidiarietà federalista, che è una parodia della sussidiarietà secondo la dottrina politico-sociale del Cattolicesimo, compare storicamente nel panorama liberista sopra delineato sicchè è lecito dubitare che l'abuso terminologico in esame ha per scopo quello di far accettare ai cattolici, sotto la parvenza di un richiamo ad un principio fondamentale della loro dottrina, la reticolarizzazione trans-nazionale di un'organizzazione sociale fondata sui principi tecnocratici del management aziendale spacciata, si pensi solo per fare un esempio alle farneticazioni moralistico-pelagiano-puritane dei cosiddetti "teo-capitalisti" alla Michael Novak, per la realizzazione in terra del Regno di Dio.

La reticolarizzazione sociale ha oggi raggiunto i suoi attuali sofisticati livelli per merito della tecnologia informatica che ha reso possibile la destrutturazione delle mastodontiche e titaniche organizzazioni macro-aziendali dell'epoca "fordiana" o "taylorista", corrispondenti storici sul piano dell'organizzazione industriale degli Stati burocratici moderni, nelle flessibili forme della micro-aziendalità dotata tuttavia di capacità operativa globale e planetaria. Come meglio vedremo, la piccola e media impresa di oggi, lungi dal costituire un ritorno in forme aggiornate all'organicità sociale delle corporazioni e delle botteghe artigiane e familiari, rappresenta il maturo punto di arrivo post-razionalista dell'essenza tecnocratica dell'organizzazione industriale che era ancora allo stato embrionale nell'epoca titanica della grande industria. Il titanismo organizzativo della modernità va oggi conoscendo il compimento del suo esito predestinato. Tale destino si manifesta nell'estensione soft, globale, immateriale e flessibile dell'organizzazione reticolare del mercato, ormai planetario, realizzata all'unisono dal decisionismo dirigista degli organismi trans-nazionali, dei quali abbiamo accennato ed ai quali gli Stati nazionali, abdicando, hanno delegato quote sempre più ampie di sovranità, nonché dalla tecnologia virtuale, che non a caso appare nella medesima epoca del dilagare fra le masse popolari del neospiritualismo settario e gnostico del new age. Anche il riemergere di movimenti a sfondo etnico o di autonomie territoriali che sembravano dimenticate non è affatto un ritorno in forme attuali dell'antica articolazione comunitaria della Cristianità europea.

Il federalismo postmoderno, per quanto si avvalga di richiami antichi ed atavici,in effetti gioca la carta del contrattualismo sociale, territoriale ed aziendale svolgendo un ruolo oggettivamente favorevole al processo di globalizzazione. Il federalismo contribuisce, infatti, allo scardinamento trans-frontaliero e liberoscambista dello Stato nazionale nella finale prospettiva del compimento totale della reticolarizzazione su scala mondiale del mercato. Gianfranco Miglio, che è un convinto contrattualista sociale vicino ai "libertarians" per la sua tesi sulla perenne revocabilità delle forme politiche nascenti dal contratto sociale, ha ripetutamente negato la possibilità di conciliare la sussidiarietà con il federalismo. Anche noi, pur da diversi presupposti, riteniamo impossibile tale conciliazione. Miglio, da fine studioso di filosofia politica, sa bene che la sussidiarietà rimanda ad un contesto spirituale di trascendenza ontologica e ad un contesto sociale anticontrattualista di organicità comunitaria e di gerarchia giuridica tra comunità politiche di diverso livello laddove, invece, il federalismo presuppone necessariamente l'associazionismo contrattuale e, pertanto, non può non negare ogni legittimità ad un rapporto di sovra-ordinazione autonomistica tra comunità politiche di diverso livello.




LA POTENZIALITA' PLANETARIA DELLA NUOVA TECNOLOGIA E L'ESSENZA NICHILISTA DELLA NUOVA ECONOMIA.
Abbiamo visto come le forme di organizzazione sociale che differenziano la nostra epoca cibernetica dai vecchi modelli positivistici dell'industria fordiana non sono l'antitesi ma lo sviluppo coerente di quei vecchi modelli perché ne costituiscono l'estrinsecazione delle più ambigue potenzialità, le quali in passato non erano ancora in grado di manifestarsi pienamente, in quanto evidentemente "trattenute".Al vecchio modello della grande industria, tipica dell'età titanica della tecnologia, è subentrata la piccola e media industria che ne costituisce il coerente sviluppo logico, sociologico e tecnico.

La micro-azienda è organizzata con le tecniche più flessibili del management, tra le quali la precarizzazione dei rapporti di lavoro subordinato, che la rendono, a spese delle garanzie sociali, più concorrenziale sul mercato planetario, ed è dotata della più avanzata tecnologia mediatica, che ne fa un operatore globale di livello planetario. Non si pensi che la micro-azienda sia sempre e comunque espressione dei nuovi ceti urbani imprenditoriali di recente formazione: al contrario spesso essa nasce da un processo di decentramento e di flessibile riorganizzazione della stessa vecchia grande industria, mediante una ristrutturazione in più piccole unità produttive periferiche a basso impiego di operai e con minimo impiego di personale laureato altamente specializzato in quelle nuove tecnologie capaci di soppiantare l'ingente manodopera di un tempo. Con quali effetti sulla situazione occupazionale dei paesi industrializzati ben può immaginarsi. In tal modo tutto il sistema industriale mondiale va sempre più assumendo l'aspetto di una rete planetaria della quale le micro-unità aziendali, siano esse vere e proprie piccole imprese o invece il risultato del decentramento riorganizzativo della grande industria, costituiscono ciascuna uno snodo, autonomo ma integrato, di smistamento degli "input" e degli "output" (per usare il linguaggio anglosassone della tecnocrazia). Un tale sistema ha carattere trans-nazionale e corrisponde alla necessità del decentramento paritetico ed a-gerarchico dei centri di decisione, di spesa e di responsabilità secondo il modello "direzionale" con superamento di quello "burocratico".

La capacità di ciascuna unità aziendale, che opera nella rete planetaria attraverso i collegamenti informatici internazionali non controllabili dagli Stati nazionali, di comunicare decisioni e di spostare risorse e capitali in tempo reale da un capo all'altro del mondo è la caratteristica maggiore del sistema post-industriale. Alla luce di tale capacità si spiegano anche i fenomeni di "delocalizzazione" industriale. Tali fenomeni rappresentano per i cosiddetti paesi in via di sviluppo, checchè ne pensino certi esponenti della gerarchia cattolica come il "soporifero" e "televisivo" monsignor Ersilio Tonini, forme di sfruttamento neo-coloniale dal momento che vengono delocalizzate soltanto le industrie a bassa tecnologia ed ancora necessitanti di molta manodopera operaia, rinvenibile in quei paesi, in un'ottica liberoscambista di divisione internazionale del lavoro, a basso costo. E' evidente la coazione cui implicitamente i paesi poveri sono soggetti, ossia quella che li costringe a rimanere perennemente in via di sviluppo, con salari da fame ed infrastrutture primitive, se vogliono conservare in loco gli investimenti industriali frutto della delocalizzazione. D'altro canto la delocalizzazione comporta per i paesi occidentali un arretramento della struttura industriale ad alto tasso di manodopera contemporaneamente ad un avanzamento dell'industria "cibernetica" ed automatizzata, con aumenti inimmaginabili di disoccupazione e con l'universale precarizzazione dei rapporti di lavoro (contratti a tempo o part-time, lavoro interinale, lavori atipici ed autonomi). A tale prospettiva i liberisti chiedono che si faccia fronte mediante la specializzazione dei paesi industrializzati nelle sole produzioni ad alto grado di impiego tecnologico lasciando, in nome della divisione internazionale del lavoro, ai paesi poveri le decotte industrie ad elevato tasso di lavoro manuale.

Non vi è persona di buon senso che non si avveda come dietro questa soluzione vi sia un chiaro disegno tendente alla ripetizione su scala mondiale di quanto accadde in occidente con la prima rivoluzione industriale ossia alla istituzionalizzazione della frattura sociale tra ricchi e poveri che spinse, a suo tempo, un conservatore sociale ed anti-liberale come Disraeli, in Inghilterra, a denunciare l'esistenza di due nazioni tra loro irriducibilmente contrapposte, e ad introdurre contro i "dogmi" liberisti opportune protezioni statali in favore dei ceti poveri, nonché un altro conservatore sociale come Bismarck, a fondare, in Germania, lui protestante ed anticattolico, lo Stato sociale, all'epoca agli albori, sull'esempio dell'Austria-Ungheria dei cattolicissimi Asburgo. La svolta postmoderna dell'economia rivela, inoltre, la sua natura nichilista, e perciò luciferina, nella misura in cui essa tende senza alcuno scrupolo alla distruzione di posti di lavoro, alla deindustrializzazione, alla finanziarizzazione dell'economia: una vera e propria tensione alla distruzione, alla negazione della bontà del reale, alla negazione di tutto quanto è vita ed opera di civiltà quale espressione nella natura umana, nonostante la primordiale ferita, dell'immagine sovrannaturale del suo Creatore.

E' infatti ridicolo pensare, come fanno i liberisti, che tutti i cittadini dei paesi occidentali abbiano in concreto la possibilità, la capacità o anche solo la volontà di specializzarsi nell'alta tecnologia. E', questo, uno stupido schema astratto ed irrealisticamente egalitario. Scrittori ed intellettuali del calibro di T. S. Eliot, George Orwell e Carl Schmitt, nella prima metà del XX secolo, paventavano con viva preoccupazione l'accentramento burocratico e meccanicista dell'intero potere mondiale "umanitario" che la tecnologia titanica e monolitica dell'epoca, del tutto rozza rispetto alla nostra, consentiva. Oggi, al contrario, dobbiamo preoccuparci delle più sofisticate capacità di dominio mondiale che la tecnologia reticolare offre al potenziale faustiano e nichilista dell'ideologia umanitaria. Tale migliorata capacità di dominio si manifesta non più nell'accentramento titanico ma nel decentramento cibernetico attraverso la copertura dell'intero pianeta con un'unica fitta rete telematica mondiale sulla quale corrono gli immateriali flussi della speculazione finanziaria insieme, e non è un caso, alle libidiche pulsioni della pedofilia schiavista organizzata, mediante internet, su base planetaria.




IL SISTEMA MEDIOEVALE E QUELLO MODERNO DELLE FONTI DI PRODUZIONE GIURIDICA.
Il federalismo, pertanto, corrisponde perfettamente sul piano giuridico all'aziendalismo telematico a scala planetaria che, oggi, sembra sul punto di inverare l'auspicio sansimoniano in favore della riduzione di tutto il mondo "ad un'unica officina". L'apparenza di identità concettuale tra il principio di sussidiarietà ed il federalismo postmoderno è constatabile anche attraverso l'esame storico delle trasformazioni intervenute tra età medioevale ed età moderna nel sistema delle fonti di produzione giuridica.

Da tale esame consegue la chiarificazione del diverso contenuto di significato che la parola autonomia ha assunto con la modernità. Il sistema giuridico romano-cristiano formatosi nei secoli medioevali era basato sull'affermazione di un organico rapporto tra jus commune e jus proprium. L'unità spirituale dell'Europa Cristiana dell'epoca si rifletteva sul piano giuridico nell'universale vigore del "jus commune" rappresentato dall'utraque lex ossia dal complesso giuridico del diritto canonico, elaborato proprio in quei secoli benché la sua radice risalisse già alla nascita della Chiesa, e del diritto civile che si identificava, quest'ultimo, con il diritto romano-giustinianeo come reinterpretato cristianamente dai glossatori e dai commentatori medioevali. La vigenza universale del "jus commune" nell'intero orbe della Cristianità era, naturalmente, un fatto fondato sul comune sentire religioso e culturale e non certamente su un mero atto formale come è oggi la pubblicazione delle leggi sulla Gazzetta Ufficiale. Nella sfera universale del "jus commune" vigevano in concomitante concorrenza con esso, ovvero con competenza normativa sulle medesime materie, tutta una serie di cosiddetti iura propria. Tali erano definiti i diritti particolari, nazionali, locali e personali la cui varia e diversificata gamma si estendeva dalla legge regale a quella feudale, dagli statuti comunali a quelli corporativi, dagli usi commerciali alle consuetudini locali, dalle leggi scritte e territoriali alle leggi etnico-personali.

Data la concorrenza tra i predetti livelli normativi, l'operatore giuridico, fosse esso giudice o arbitro o glossatore, era portato ad applicare il principio giuridico secondo cui lex specialis derogat generali o, altrimenti detto, lex inferior derogat superiori dimodoché la soluzione di ogni controversia era dapprima ricercata nella consuetudine locale e poi, nel caso in cui in essa non si fosse rinvenuta la norma adatta alla fattispecie concreta, si risaliva ai vari livelli giuridici superiori, da quello corporativo a quello comunale, da quello feudale a quello regale, da quello etnico-personale a quello territoriale, fino a giungere al livello universale dello "jus commune" nel quale, anche mediante le necessarie reinterpretazioni ed i necessari adattamenti alle mutate realtà storico-sociali dei secoli medioevali, la norma da applicare al concreto caso dibattuto era immancabilmente individuata, in quanto lo "jus commune" era ritenuto giuridicamente onnicomprensivo e quindi sicuramente capace di fornire la norma confacente al caso specifico discusso. Con la nascita dello Stato nazionale moderno il predetto sistema fu diametralmente rovesciato a favore della prevalenza imperativa ed accentratrice della legge statuale (voluntas regis) su ogni altra fonte giuridica sia essa superiore, ossia universale, sulla base del principio sancito dai legisti monarchici per cui rex in regno suo est imperator, sia essa inferiore ovvero di origine statutaria o consuetudinaria.

Ne derivò quella che gli studenti di giurisprudenza imparano oggi a chiamare gerarchia delle fonti giuridiche e che vede al suo vertice la Costituzione alla quale seguono gerarchicamente, in quanto a forza giuridica, la legge ordinaria, i regolamenti locali o settoriali ed infine la consuetudine "secundum legem" ossia non contraria alla legge dal momento che, in un tale rigido e meccanicistico sistema, la consuetudine "praeter o contra legem", quindi potenzialmente capace di derogare alla legge, non è riconosciuta né ammessa. Gerarchia delle fonti giuridiche significa che ciascuna norma di rango superiore prevale su quella di rango inferiore e quest'ultima non può contraddire quella superiore, dalla quale trae legittimità, potendo solo disporre la disciplina esecutiva e di dettaglio necessaria all'operatività della fonte giuridica primaria. Attualmente con l'imporsi della tendenza verso il decentramento giuridico ed amministrativo hanno ampio spazio i fenomeni detti di delegificazione e quelli di regolamentazione autorizzata o indipendente. Nel primo caso avviene che a livello legislativo, e quindi primario ed immediatamente sub-costituzionale, è deliberato il trasferimento di una certa materia alla totale competenza, sia nella disciplina essenziale che in quella di dettaglio, della normazione regolamentare ossia di quella di rango inferiore. Nel secondo caso, invece, accade che a livello legislativo vengano poste solo le norme quadro e di principio contestualmente autorizzando l'emanazione di successivi regolamenti dotati ex lege di forza giuridica pari a quella della legge ordinaria e perciò tali da innovare o abrogare non solo precedenti norme di eguale rango regolamentare, cosa che è caratteristica di tutti i regolamenti, ma anche precedenti norme di rango superiore ossia di rango legislativo (giammai di livello costituzionale).

Questa parificazione, in quanto a forza giuridica, del regolamento alla legge non è tuttavia un ritorno al sistema tradizionale delle fonti giuridiche, come espresso dal medioevo, perché si tratta essenzialmente dell'introduzione di un elemento di "flessibilizzazione" giuridica nel sistema moderno dell'ordinamento gerarchico delle fonti normative, nato originariamente con i caratteri "assolutisti" e "giacobini" della rigidità e dell'uniformità.

Nonostante tale tendenza a renderlo meno rigido, il sistema moderno della fonti di produzione normativa resta comunque imperniato sulla legge statuale come fonte principale e prevalente del diritto. Quindi non si ha alcuna riaffermazione del medioevale principio della lex specialis/inferior derogat generali/superiori ma semplicemente lo sviluppo ed, infine nel passaggio storico all'età postmoderna, l'inveramento ed il compimento definitivo del moderno principio di supremazia della legge statuale, indipendente verso qualsiasi istanza spirituale e sovra-giuridica proveniente dall'Alto e prevalente su ogni fonte giuridica inferiore. La supremazia della legge, infatti, non è ripudiata ma soltanto perfezionata perché sia la delegificazione che la regolamentazione autorizzata continuano a dipendere sempre e comunque dalla volontà della legge statuale. Con un evidente parallelo, può dirsi che anche in ambito giuridico dopo la preventiva chiusura razionalista della "soglia superiore" per impedire il vivificante e rigenerante contatto con la trascendenza, partecipata per analogia, dell'Essere per essenza, ossia di Dio, chiusura storicamente coincidente con il formarsi degli Stati nazionali nel secolo XVI, assistiamo oggi all'apertura della "soglia inferiore" per l'irruzione dal basso di forze nichiliste e destrutturanti. Sono attualmente allo studio delle competenti commissioni ministeriali riforme, della struttura dello Stato, di tipo federalista tendenti al massimo possibile di "flessibilizzazione giuridica" attraverso la più ampia delegificazione e la più estesa deregulation, termine anglosassone per indicare la regolamentazione autorizzata. Le cosiddette "leggi Bassanini" emanate tra il 1997 ed il 1999 sono, appunto, un primo embrionale esempio applicativo di tali progettate riforme. Mutuando schemi anglosassoni, i riformatori hanno per obiettivo un ordinamento giuridico costituito da pochissime leggi con le quali vengano stabilite non norme ma solo i principi giuridici fondamentali ed inderogabili, come ad esempio il principio di eguaglianza o quello di libera circolazione di capitali merci e forza lavoro.

Queste poche leggi, mediante la delegificazione e la regolamentazione autorizzata, trasferiranno a livello regolamentare, o anche sub-regolamentare, l'emanazione di tutta la normazione, nel limite dello stretto necessario, necessaria alla vita sociale. In un tale sistema, che sull'esempio dei paesi anglosassoni, i quali conoscono solo diritto civile o common law, dovrebbe contemplare anche la scomparsa o perlomeno l'assimilazione quasi completa del diritto pubblico al diritto privato, l'unico limite che la normazione regolamentare autorizzata o delegificata incontrerà sarà il mero rispetto di quei pochi principi fondamentali posti dalla legge statuale. Il processo di riforma che è già in atto comporta ormai il tendenziale superamento di ogni tipo di controllo preventivo di legittimità formale e l'introduzione, anche in tal caso sull'esempio della cultura tecnocratico-aziendalista di importazione anglosassone, dei controlli successivi di gestione finalizzati a verificare non il rispetto formale delle norme giuridiche ma il raggiungimento di obiettivi programmati e, attraverso parametri quali-qualitativi, il conseguimento di un ottimale rapporto costo/benefici. L'ente pubblico, in tale ottica, con vera violenza alla propria natura giuridica ed alla propria storia, deve trasformarsi in un'azienda. I cittadini saranno declassati, segno del progressivo svuotamento della sovranità popolare cui è legata storicamente il concetto di "cittadinanza", a meri utenti di pubblici servizi al modo della clientela dell'azienda privata Infine, i pubblici funzionari saranno chiamati a trasformarsi in managers abbandonando la cultura giuridica nella quale sono cresciuti che è poi quella di ascendenze romane filtrata dalla Chiesa nei secoli medioevali nella forma romano-cristiana.

Il federalismo giuridico postmoderno e la cosiddetta liberalizzazione amministrativa, che abbiamo testè illustrato nelle sue tendenze di fondo, rendono palese che l' "autonomia federale", invocata da tutti i federalisti, nulla ha a che fare con l'idea tradizionale e cattolica di autonomia come storicamente si è espressa nel sistema medioevale delle fonti di produzione normativa. Il federalismo è funzionale ad una concezione "aziendale" dell'autonomia, intesa, attraverso gli strumenti di delegificazione, come una deregulation che si accompagna al decentramento paritetico, su scala trans-nazionale, dei centri decisionali coordinati in rete. Secondo altra terminologia, può parlarsi di cooperativismo liberistico. Tutto ciò, però, non può non confermarci nella nostra convinzione secondo la quale la destrutturazione dello Stato nazionale costituisce il necessario, ed in qualche modo in parte umanamente ineluttabile, passaggio spirituale e storico all'ultima fase del processo di secolarizzazione: quella nella quale sarà vicino a compiersi lo scopo luciferino verso cui da secoli tale processo sembra tendere ossia l'organizzazione mondiale, unitaria e totalitaria su basi sincretistiche ed immanenti dell'umanità in attesa del momentaneo ed apparente trionfo del regno di iniquità di colui a cui sarà data "potestà sopra ogni stirpe, popolo, lingua e nazione" (Ap. 13,7).




LINEE ESSENZIALI PER UNA OPPOSIZIONE CATTOLICA AL FEDERALISMO IN NOME DELLA SUSSIDIARIETA'.
Il federalismo oggi affascina troppi cattolici. Purtroppo la capacità di discernere il grano dal loglio nel Cattolicesimo contemporaneo, dopo le devastazioni teologiche e liturgiche del modernismo post-conciliare, è incredibilmente scemata, riducendosi a ben poca cosa. La maggior parte dei cattolici si dimostra infatti sempre pronta ad inginocchiarsi, come lamentava perfino un Maritain nell'ultima sua opera, ad ogni tipo di aperturismo mondano. In tal modo, aggiungendo ingenuità ad ingenuità ed errore ad errore, i cattolici puntualmente arrivano ormai sempre con ritardo innamorandosi di tutto ciò che la cultura laicista produce e poi rigetta e generalmente prendendo lucciole per lanterne.

Non esiste "prenditore di granchi" e "bevitore di bufale" migliore del cattolico medio contemporaneo aggiornato, moderno, political correct e, naturalmente, "teologicamente adulto". Ma anche il cattolico "tradizionalista", il cui limite, eguale e contrario a quello del cattolico modernista, consiste nell'attaccamento dogmatico alle forme storico-sociali del passato come se esse fossero la Chiesa o la Tradizione, e non nel migliore dei casi espressione imperfetta di esse sempre da storicizzare sapendone ereditare i frutti migliori, oggi indulge troppo al federalismo ritenendolo un revival di forme sociali pre-moderne ispirate al principio di sussidiarietà. Questa situazione di ottundimento dei cattolici rende loro difficile accorgersi dei pericoli insiti nel federalismo. Ricordavamo come la Chiesa Cattolica, all'epoca del sorgere dello Stato Leviatano, ossia quando la capacità di discernere non era ancora drasticamente ridotta tra i suoi figli, si oppose ad esso avendovi giustamente individuato lo stritolatore dell'organicismo comunitario e l'apostata banditore della scristianizzazione. Tuttavia oggi invocare lo slogan ottocentesco più società meno Stato, senza le debite precisazioni storiche e dottrinarie, significa cadere nell'errore di considerare quello hobbesiano-roussoniano lo Stato per essenza. In tal modo si rinnega implicitamente tutta la migliore tradizione del pensiero classico-cristiano sullo Stato, ad iniziare dai Padri della Chiesa come l'Ipponate per giungere attraverso l'Aquinate e gli scolastici spagnoli del XVI secolo fino al Magistero di Pio IX, di Leone XIII, di Pio X, di Pio XI e di Pio XII. Un Magistero teologico sul "politico" ben saldo nella Tradizione Cristiana e che i cattolici liberali o i liberali cattolici hanno dimenticato in nome dello "Stato minimo". I cattolici di oggi, infatuati del liberismo come ieri lo erano del marxismo, confondono lo Stato moderno con la comunità politica tout court.

Lo Stato è solo una forma di comunità politica e quello moderno ed accentratore è forma che si discosta dalla naturalità del vivere associato. La dottrina teologica cattolica ha sempre riconosciuto la naturalità della comunità politica come conforme al volere del Creatore che dotando la creatura umana di una natura essenzialmente sociale ha posto le cause secondarie per la nascita delle diverse forme di convivenza politica . Il discostarsi della comunità politica nella propria organizzazione dalla legge di natura, per la quale al di sotto dello Stato societas perfecta esistono legittimamente i corpi intermedi societates imperfectae, ha tracciato inevitabilmente anche le vie mediante le quali si va compiendo la fine miserrima che sta travolgendo oggi lo Stato moderno. Rifiutare lo Stato accentratore non deve erroneamente condurre all'accettazione del primato dell'economia e della società civile sulla comunità politica. Miguel Ayuso Torres, filosofo spagnolo del diritto, ha ben dimostrato che affermare il primato della società civile, e quindi dell'economia, sullo Stato inteso come comunità politica significa alla fine cedere al soggettivismo individualista e perciò al nichilismo postmoderno. La via di uscita dalla crisi dello Stato moderno è per Ayuso quella della rifondazione dello Stato-comunità politica. Ed è in tale prospettiva che, perciò, diventa fondamentale chiarire il significato autentico del principio di sussidiarietà onde consentire il risorgere dei radicamenti comunitari in un contesto di vera rievangelizzazione del mondo.

L'autentica sussidiarietà è sempre eminentemente politica e mai economica. Opponendo la Dottrina Cattolica sullo Stato, quella dei Padri della Chiesa, di Agostino, di Tommaso d'Aquino, di Suaréz, di Vitoria, di Soto, di Molina, di Bellarmino, di De Tejada, di Heinrich Rommen, etc., alla filosofia laicista dello Stato, quella di Macchiavelli, di Bodin, di Hobbes, di Rousseau, bisogna salvare non solo il principio di sussidiarietà ma anche ed innanzitutto l'idea stessa della Comunità Politica dal prevalere di una apoliticità nichilista funzionale soltanto alla globalizzazione dei mercati ed al Governo Tecnico Mondiale.




UN MODELLO MODERNO DI AUTENTICA "SUSSIDIARIETA' ".
La trasformazione del sistema delle fonti di produzione giuridica sopra esaminata nelle sue connotazioni storiche, non deve essere necessariamente visto come un fatto sempre e comunque negativo. Così come negativa in assoluto non devono ritenersi la modernità ed i suoi frutti e tra essi, appunto, la nascita di quella forma di Comunità politica che noi siamo soliti denominare "Stato". Non bisogna mai dimenticare che la modernità, nei suoi aspetti migliori, ha indubbie radici cristiane. Si pensi, per esempio, al valore spirituale e giuridico attribuito alla persona umana oppure alla sana razionalità sulla quale è basato lo sviluppo scientifico o, ancora, alla distinzione tra Sovrannaturale e naturale che ha consentito il superamento della teocrazia politica pagana ed il superamento della sacralità immanente e degli idoli tribali.

Si tratta di acquisizioni del patrimonio culturale dei popoli che compongono la variegata umanità dovute al Cristianesimo e non, come comunemente ed erroneamente si pensa, all'illuminismo o al razionalismo. Anzi, questi ultimi, ad una attenta e corretta indagine, si rivelano niente altro che delle mimetiche secolarizzazioni del Cristianesimo, e perciò svianti e luciferini specchi per allodole, i cui frutti sono sempre contrari alle aspettative ed i cui esiti storici sono inevitabilmente fallimentari. Purtroppo, proprio per l'emergere di tali parodie il processo di sviluppo di una possibile "modernità non secolarizzata" è stato interrotto o contrastato ferocemente. Ciò non toglie che tutto quanto l'uomo moderno conosce di buono, e che egli inconsapevolmente attribuisce al laicismo, ha invece radici nell'ottimismo realistico, dunque non ingenuo o utopico, con il quale il Cristianesimo gli ha insegnato a guardare al creato, opera gratuita del Creatore a lui affidata in custodia. Esiste un modello di autentica "sussidiarietà" moderna che può prendersi in considerazione per proporre adeguate soluzioni al legittimo bisogno di autonomia comunitaria senza cadere nel localismo degenere e senza correre il rischio di diventare gli utili idioti del mondialismo anticristiano. Questo modello è quello della Spagna odierna.

Esso è frutto della lunga e secolare tradizione religiosa e politica che ha forgiato l'identità statuale unitaria delle nazionalità spagnole. Un modello che proprio perché proviene, nonostante la secolarizzazione, dalla tradizione religiosa cattolica si è dimostrato in grado di risolvere nell'equilibrio tipico della concezione tradizionale la dicotomia tra universale e particolare. Lo Stato, quale forma moderna della Comunità politica, non deve essere rifiutato in assoluto. Quel che bisogna rifiutare è la degenerazione giacobina e totalitaria dell'idea di Stato. Lo Stato, infatti, nasce nell'alveo del pensiero teologico e giuridico cattolico grazie all'opera dell'Aquinate ripresa e completata, sotto il profilo politico-giuridico, dalla cd. "Scuola di Salamanca" nel XVI secolo e dai suoi maggiori esponenti (che poi sono anche i fondatori del moderno diritto internazionale o jus publicum europaeum): Francisco de Vitoria, Francisco Suaréz, Domingo de Soto e Luis de Molina.

Lo Stato di questi scolastici non era certo quello delle monarchie assolute "laiche" o "protestanti" ma corrispondeva alla realtà della monarchia cattolica spagnola, la quale se da un lato andava organizzando in senso certamente moderno l'identità nazionale spagnola (si pensi all'opera di regolamentazione e di limitazione del potere baronale e dell'anarchia feudale che erano state la causa prima delle degenerazioni feudali e particolaristiche da cui grandi sovrani ed imperatori del medioevo furono costantemente assillati), dall'altro lato modernizzava rispettando tuttavia le autonomie locali e le pluralità nazionali della Spagna, e delle Corone dell'impero ispanico, quando tali pluralità non ambivano a diventare degeneri particolarismi. Gli scolastici spagnoli, fondandosi sul pensiero teologico di San Tommaso d'Aquino e perciò su un pensiero aperto all'Essere trascendente, hanno anticipato di oltre mezzo secolo i teorici laici del moderno Stato assoluto, ossia Hobbes, Rousseau, Bodin, senza però cadere negli errori dottrinali di costoro. Quella cattolica ed ispanica, alla quale possono aggiungersi gli apporti italiani di un Bellarmino, costituisce storicamente una linea di pensiero alternativa alla concezione laicista dello Stato moderno successivamente sfociata, quest'ultima, nel totalitarismo, ieri statuale ed oggi di mercato. Tutta l'impalcatura dell'organica realtà statuale ispanica del "siglo de oro" e tutta l'impalcatura teologico-giuridica della Scuola di Salamanca dipendevano dal Cattolicesimo che ne assicurava il fondamento in Alto ed impediva così alla dottrina politica ed all'organizzazione statuale quella chiusura immanentista, riduzionista e totalizzante che ha poi trionfato con la progressiva sconfitta storica del mondo cattolico ispanico e con il trionfo del mondo protestante anglosassone e germanico.

Nel secolo XVI vi è stata per un attimo la possibilità di una "modernità tradizionale", ossia di una modernità che si sviluppasse in continuità con la Tradizione Cattolica e con le originarie radici medioevali. Tale possibilità fu incarnata teologicamente dalla grande Riforma Cattolica del Concilio di Trento e politicamente dalla potenza imperiale di Carlo V e più in generale della Casa d'Asburgo. Ha invece prevalso una modernità concepita, a causa prima della Riforma protestante e poi della Rivoluzione Francese, in radicale rottura con le sue radici cattoliche e medioevali. Un esempio della possibilità di una diversa modernità, non in opposizione con il retaggio cattolico dell'Europa, ci è dato proprio dallo sviluppo del pensiero teologico-politico a Salamanca. La teologia tomista, mediante la riscoperta già agostiniana della naturalità del Politico (dimenticata momentaneamente nello scontro con l'Impero, per comprensibili motivi di contingenti polemiche, dalla Chiesa medioevale in favore di equivoche, sotto un profilo teologico, tendenze teocratiche), permise agli scolastici ispanici di affermare l'autonomia e la naturalità dello Stato ma impedì loro di proclamare, come invece avrebbero fatto i teorici laicisti dello Stato Leviatano moderno, un assoluto "superiorem non recognoscens".

Nella realtà spagnola, profondamente cattolica, che gli scolastici spagnoli del XVI secolo avevano per modello concreto, risultava a tutti evidente che se lo Stato è autonomo, sempre tuttavia nel rispetto del diritto naturale, nelle materie sue proprie, laddove invece il "trono" tocca l'altare, ovvero nelle materie cosiddette permixtae, il dettato morale della Chiesa non può non essere tenuto in debita considerazione. Rilievo che non è meno vero anche oggi nell'interesse di tutti e quindi anche di coloro che non professano alcuna fede o professano una fede diversa, dal momento che esiste una legge di natura universale la cui comprensione è più facile alla luce della Grazia. Questa posizione teologica impedì inoltre ai maestri di Salamanca di teorizzare una subordinazione di tipo clericale o teocratica dello Stato come dimostrò l'atteggiamento sia dei Re Cattolici e di un Carlo V sia quello degli stessi scolastici spagnoli i quali, pur obbedienti al Papa ed alla Chiesa, furono intransigenti quando si trattò di difendere la giusta e legittima autonomia della Corona laddove essa correva il pericolo di essere tendenzialmente prevaricata al di fuori del riconosciuto primato morale ecclesiale. Per quanto possa sembrare strano, vista l'anticattolicità della Repubblica spagnola pre-franchista, è proprio su tali antecedenti teologici, politici e giuridici che, per la parte relativa al problema delle autonomie locali, si fondò la Costituzione ispanica del 1931, poi ripresa in merito da quella del 1978, e che a sua volta si ispirò alle Costituzioni tedesca ed austriaca dell'epoca, anch'esse innegabilmente frutto, in ordine all'ordinamento dei rapporti tra autonomie locali e Stato, della secolare tradizione comunitaria dell'Europa cattolico-imperiale. Nell'ordinamento spagnolo precedente la guerra civil il problema delle fonti giuridiche sembrò trovare un equilibrio tra l'esigenza dell'unità statuale nazionale ed il rispetto sussidiario delle pluralità regionali, che poi nel caso ispanico sono vere e proprie "nazionalità".

La Costituzione spagnola del 1931 nacque senza dubbio in un tragico ed utopico clima laicista, massonico e nichilista ( il massone Manuel Azana, primo presidente della repubblica spagnola all'epoca, proclamò senza alcun realismo e con ideologico fanatismo che: "la Spagna ha cessato di essere cattolica") e tuttavia nella parte relativa alle autonomie locali essa si dimostrò in sintonia con la identità storica e con la tradizione comunitaria ispanica. Il feroce atteggiamento anticattolico della repubblica è stata la causa principale, lo si voglia o meno, della sua sostanziale debolezza e della sua rovina. Non si può, però, non ricordare che il franchismo, il quale è stato tutt'altra cosa sia rispetto al carlismo tradizionalista sia rispetto al falangismo "fascista", ha finito per erigere una "Dittatura di Ragione" secondo il modello statuale, accentratore e giacobino, di imitazione francese e perciò, ad un tempo, contrario sia alla Tradizione cattolica sia all'identità storica dell'Hispanidad. Carlisti e falangisti, infatti, forzatamente riuniti per decreto del caudillo nel cosiddetto Movimento Nacional insieme tra l'altro a forze, poi divenute egemoni nel regime, di tipo liberal-tecnocratiche o addirittura (non meravigli la cosa) "catto-massoniche", ebbero i loro problemi con il regime franchista.

Tra i motivi di contrasto, in verità sul punto in questione più da parte dei carlisti che dei falangisti i quali ultimi lamentavano più le inattuate riforme nazional-sindacaliste che non la soppressione delle autonomie, vi era proprio il regionalismo autonomistico assolutamente negato dal regime di Franco. Nel sistema costituzionale ispanico del 1931 lo Stato attribuiva a sé medesimo la competenza soltanto in alcune materie di carattere nazionale (difesa, moneta, politica estera, rapporti con le nazionalità interne, perequazione e redistribuzione fiscale della spesa, infrastrutture nazionali, etc.) e, a differenza di quanto avviene per esempio nella nostra Costituzione dove (articoli 117 e 118) è lo Stato medesimo, mediante l'esercizio appunto della propria funzione costituzionale, ha stabilire per le regioni quali sono le materie ad esse riservate sicché le regioni nonostante la concessa autonomia non potrebbero legittimamente legiferare in materie diverse da quelle prestabilite costituzionalmente, lo Stato spagnolo non interveniva nella definizione delle competenze delle autonomie locali. Queste ultime pertanto erano del tutto libere, salvo il limite delle materie attribuite allo Stato, di dotarsi di statuti di autonomia decidendo esse medesime quali materie attribuirsi. Le nazionalità erano così libere di stabilire anche quale grado di autonomia attribuirsi sicché le regioni economicamente più forti avrebbero potuto tendere al maggior grado possibile di autonomia e quelle meno forti avrebbero potuto optare per un grado inferiore di autonomia fino a che non avessero raggiunto maggiori capacità di autonomia (cosiddetto autonomismo asimmetrico).

Questo voleva significare, appunto, che lo Stato sarebbe intervenuto soltanto in funzione sussidiaria se ed in quanto autonomamente richiesto dalle stesse nazionalità bisognose del suo intervento. Ogni nazionalità avrebbe approvato il proprio statuto di autonomia (di fatto poi gli eventi bellici impedirono che fossero approvati gli statuti, solo quello catalano e basco arrivano all'esame di legittimità costituzionale ma furono rinviati agli organi locali perché oltrepassavano il limite della competenza esclusiva riservata allo Stato) e lo avrebbe presentato al parlamento ispanico, le "Cortes", affinché ricevesse la sua sanzione da parte della Repubblica esclusivamente per quel che riguardava il rispetto del limite delle materie di attribuzione statuale. Lo Stato, perciò, nel controllo sugli statuti non avrebbe agito come attualmente in Italia dove le regioni sono controllate nella loro attività legislativa dal commissario di governo (ed i comuni, anche se oggi molto meno che in passato, dal comitato regionale di controllo) ma, verificato il mero rispetto del limite delle materie di carattere nazionale, non sarebbe entrato assolutamente nel merito delle decisioni statutarie autonomamente adottate dalle singole nazionalità ispaniche. E'evidente che un tale sistema trovava la sua, inconfessata, ispirazione nell'antico ordinamento tradizionale dei fueros.

Questi erano statuti locali, elaborati dalla consuetudine e dalla giurisprudenza pratica, codificati nelle carte cittadine e presentati al Re per riceverne la promulgazione che conferiva ad essi la forza giuridica di norma della Corona e quindi la sanzione del rispetto da parte di chiunque in tutta la nazione: si trattava di un sistema di emanazione di leggi statuali il cui contenuto era però costituito dall'integrale recezione degli statuti e delle consuetudini locali (anche in passato il Re, salvi i diritti della Corona, non entrava nel merito degli statuti medesimi). La successiva Costituzione spagnola del 1978 ha sostanzialmente ripreso l'impostazione di quella del 1931 con, però, la differenza, che la avvicina di più al modello italiano, per cui agli articoli 147 e 148 è la stessa Costituzione a delineare il quadro delle competenze delle Comunidades Autònomas. E tuttavia, anche in tal caso, tali competenze non sono imposte ma lasciate alla autonoma e libera scelta di auto-attribuzione statutaria da parte delle stesse comunità locali (all'articolo 148 della Costituzione ispanica del 1978 è, infatti, detto espressamente "potranno assumere competenze nelle seguenti materie" laddove l'articolo 117 dell'attuale Costituzione italiana afferma perentoriamente che la regione "emana per le seguenti materie norme legislative"). Ciò significa che anche oggi, in Spagna, ciascuna comunità regionale o ciascuna nazionalità può appunto autonomamente decidere quale grado di autonomia esercitare e quale grado di intervento sussidiario da parte dello Stato invocare.

Questo sistema così equilibrato tra la necessità moderna di assicurare l'unità politica nazionale e l'esigenza delle autonomie locali di vedere salvaguardata la propria identità e libertà concreta è l'evidente erede di quel retaggio storico religioso-nazionale, del quale abbiamo parlato, che nonostante la secolarizzazione continua a dare i suoi frutti. Vi è un solo inconveniente che bisogna sottolineare a proposito del sistema ispanico delle autonomie, ma si tratta di un elemento spurio introdotto dagli effetti della globalizzazione economica, ed è quello dell'eccessiva tendenza di alcune regioni, come la Catalogna, ad assumere ruoli transfrontalieri e tali da configurare veri e propri poteri di sovranità statuale internazionale, che invece per diritto naturale sono e devono rimanere dello Stato nazionale. Alla Catalogna è infatti oggi riconosciuto il potere di intrattenere relazioni politiche e commerciali con l'estero "baipassando" lo Stato.

Questa, dal punto di vista del principio di sussidiarietà, è da ritenere una pericolosa distorsione capace di sfociare in aperto ed egoistico particolarismo, funzionale soltanto alla mondializzazione. Il diritto di decidere se una merce, un servizio, un lavoratore, il capitale tecnologico e finanziario, possono uscire o entrare nel territorio nazionale deve rimanere un diritto-dovere dello Stato nazionale perché in tali casi sono in gioco i destini politici, sociali ed economici dell'intero corpo nazionale nel complesso organico delle sue pluralità e non solo quelli di una singola regione. All'obiezione secondo la quale lo Stato non dovrebbe impedire alle regioni frontaliere di decidere autonomamente il proprio destino economico rendendo flebile la frontiera con le regioni contigue dello stato confinante (che poi spesso si tratta di un'unica regione storica suddivisa tra due Stati) si deve rispondere che il problema è ragionevolmente risolvibile attraverso un accordo pattizio tra lo Stato e la regione frontaliera in base al quale lo Stato, nella propria politica estera e commerciale, non può prescindere, con il solo limite del bene comune nazionale, dalle autonome valutazioni avanzate dalla regione frontaliera in ordine ai propri interessi economici. Ciò perché, comunque, proprio in base al principio di sussidiarietà, nella sua accezione cattolica e tradizionale, la nazione è il gradino intermedio tra l'Universalità spirituale della Chiesa (che non è da confondere con l'unificazione immanente ed apolide propugnata dal mondialismo) ed il legittimo particolarismo dei corpi intermedi infrastatuali che costituiscono la nazione stessa.

28/02/2000
LUIGI COPERTINO.



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LUIGI COPERTINO

 




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