La prima notte sull’isola sognò... di abitare il Paradiso.

In un silenzio vibrante come la musica, luogo di gioiosa serenità assoluta e nuova, egli sperimentò un’inebriante sensazione visiva: un guizzo di luce purissima e densa. Dallo sfondo incolore dello spazio siderale si espandono nubi di energia e stelle per ogni direzione nell'universo. In sequenza tumultuosa, una galassia in particolare si apre allo sguardo, e poi un gruppo di astri, e poi un corteggio di pianeti intorno ad un sole. Un globo azzurro, tagliato a falce dal confine della notte, si fa via via più nitido: cominciano a disegnarsi le forme delle terre e delle acque; attraverso le nubi si distinguono i deserti e le fertili pianure di due continenti. Una catena di monti è una minima ruga sulla fronte settentrionale, ma dopo qualche istante già si erge a baluardo, nascondendo alla vista tutto ciò che rimane oltre. Un piccolo mare circoscritto, in una cornice di montagne più docili, si offre in primo piano: una macchia azzurra che conquista progressivamente tutto il campo visivo. Lo sguardo precipita in verticale su una geografia ancora sconosciuta: da nord a sud, in una panoramica sempre più stretta – una regione della penisola, una provincia, un'isola tra due rive continentali. Dell'isola, si distinguono le scogliere, le spiagge, le pendici delle colline asciutte nella tiepida sera; e poi i mattoni e le tegole rossastre e le pietre del paese e del castello; e, ancora più giù, sfiorando le cime dei pini, una piazzetta lastricata alla confluenza di vicoli antichi, il fumo di un comignolo, una stanza in penombra, due corpi danzanti nell’atto dell’amore.

Subito dopo, improvvisa e concreta, la certezza di essere l’oggetto di un amore smisurato, perfetto, inesauribile. Poi, un intimo moto di simpatia universale, caldo come l’eruzione di un vulcano, e la coscienza del sognatore comprende in un istante tutti i pensieri, tutti i ricordi, tutte le emozioni; e tutte le cose diventano sempre più simili ad una sola cosa: un sentimento d’amore, che si agita e si percepisce attraverso un concerto di sensi sovreccitati. Infine passato, presente e futuro si sovrappongono, si compenetrano, come trasfusi da quest’incontrollabile potenza vitale. Lentamente, da questo magma emozionale emergono i lineamenti (o forse soltanto l’idea?) di un uomo al capolinea della vita; e pare che quest’uomo abbia una storia importante da narrare. E che la storia cominci così.

 

In un tempo futuro, né remoto né imminente, giunse all'isola un signore di sessantacinque anni con un nome decisamente insolito. Infatti, si faceva chiamare: l’Errante.

A proposito di questo, una volta il Custode degli Atti e delle Lettere gli chiese se si dovesse intendere come "Colui che viaggia senza una meta" oppure come "Colui che cade nell’errore". L’uomo rispose:

– Entrambi i significati. Il nome che mi sono scelto dice molto di come ho trascorso la vita; e lo fa meglio di qualunque altro che mi sia mai stato dato.

Pochi giorni dopo il suo arrivo all’isola, il Custode delle Arti e dei Mestieri volle indagare sulle capacità professionali che, malgrado l’età, egli avrebbe potuto mettere al servizio della comunità.

– Ben poca cosa è l’esperienza di un Errante, – rispose, – a meno che non vi sia tra voi qualcuno che voglia rinunciare al proprio diritto di errare. In tal caso sarei felice di discorrere con lui, diciamo in veste di... come una specie di... – esitò un momento, e poi: – ...prete laico. Non vi sono sacerdoti sull’Isola, vero?

– No, – rispose il Custode delle Arti e dei Mestieri. – Ne avevamo uno... Anzi, a dir la verità non era ancora stato ordinato sacerdote, era solo un diacono... Ma lo abbiamo perso con l’ultima Epidemia, quattro anni fa.

Dopo questo dialogo, nella piccola comunità dell’isola si sparse le voce che il "forestiero" fosse stato un religioso, e già qualcuno cominciava ad ossequiarlo pubblicamente come tale, allorché un giovane pastore diffuse altri dettagli. Questi aveva l’abitudine di passare ogni mattina con le sue bestie proprio davanti all’abitazione dell’Errante, e poiché il forestiero amava levarsi all’alba per compiere lunghe passeggiate, capitava spesso che i due percorressero insieme un tratto di strada.

Durante uno di questi momenti, il discorso cadde sulla solitudine. Diceva il giovane:

– Non mi sento mai solo, quando sono nei campi: ho il mio cane, le mie pecore, le mie nuvole... Talvolta parlo con loro, e loro mi rispondono. Oppure parlo con me stesso, e mi rispondo. Poi dormo, e sogno di stare con i miei amici del paese. Ma sogno anche quando sono sveglio: immagino che nei fossi ci siano minuscole città, e lungo i torrenti, e all’interno delle anse sabbiose sulle spiagge... E poi strade e ferrovie che le collegano, e ponti, e porti dai lunghi moli... Certi giorni tutte queste cose le immagino così forte che mi sembra di poterle toccare allungando la mano, dall’alto, come un gigante. E tu, ti senti solo? Tu sì che sei solo!

Allora l’Errante spiegò:

– Anch’io ho le mie pecore: sono alcuni bellissimi libri che leggo con amore da tutta una vita. Sono pochi, ma oserei dire insostituibili. Sono il meglio del meglio di tutti quei volumi che ho sfogliato per curiosità e professione. Vedi, io sono stato un insegnante.

– Un insegnante di religione!

– No, non proprio. Ho iniziato cercando di capire le lingue di popoli lontani; alla fine divenni maestro d’Amore... Sapevi che l’Amore, occorre impararlo con pazienza e fatica? Nessuno nasce sapiente in questo campo!

L’Errante si era stabilito in una piccola e antica costruzione all’ombra di una famiglia di pini marittimi, a circa un’ora di cammino dal Paese, a mezza costa sul versante di Maestrale. Essa aveva servito per decenni come magazzino per il frumento e per gli attrezzi agricoli. La chiamavano: il Capannello delle Vaccarecce. Poi, durante l'Età dell'oro, era stata trasformata in una graziosa villetta con i muri bianchi, per i turisti del Continente. Per due generazioni era stato un incantevole luogo di vacanze. Durante la terza generazione cominciò e si compì il rapido declino della moda turistica. Negli ultimi tempi era capitato che passassero anche due o tre anni senza che nessuno vi abitasse. Infine fu abbandonata del tutto: i proprietari si trasferirono sul continente e nessuno sull'isola si occupò più del Capannello delle Vaccarecce. Non vi furono obiezioni quando il forestiero ne fece la sua dimora e, con un piccolo aiuto d'un carpentiere, lo ristrutturò secondo le proprie esigenze.

Col tempo, si diffuse in paese la voce che il nuovo arrivato sembrava conoscere molto bene ogni angolo della campagna e del Paese; talvolta, parlando con gli isolani, aveva perfino menzionato fatti e persone di antica memoria.

L’Errante era sbarcato sull'isola alla fine di agosto. La nave che lo aveva portato aveva barattato legname contro vino ed ortaggi ed era ripartita il giorno successivo. Egli era poi salito al paese con uno zaino molto ampio e pesante sulle spalle. Aveva subito incontrato i notabili della comunità, sulla piazza polverosa, davanti ad alcuni edifici pericolanti che un tempo erano stati bar e ristoranti. Erano passati sei mesi dal soggiorno, brevissimo, dell'ultimo forestiero sull'Isola.

– Parla, – esortò il Custode degli Olii e dei Grani, – che notizie ci porti dal Continente?

Il nuovo arrivato sorrise tristemente e rispose guardandosi attorno.

– La rovina si allarga, si complica.

Osservò i cespugli di rovo cresciuti sull'asfalto a placche, poi l'obelisco di granito al centro della piazza, soffocato da piante rampicanti. Su un lato del castello, un alto cumulo di macerie testimoniava dell'esistenza, in tempi migliori, di una torre d'avvistamento medievale. Le mura erano state saccheggiate per ottenere materiale da costruzione e poi, recentemente, rattoppate con lamiere di automobili e carcasse di elettrodomestici: sussisteva il timore di dover ancora combattere, presto o tardi, per difendere i pochi beni che erano rimasti. Fuori dalla cerchia muraria non c'erano più costruzioni abitabili. Antichi locali pubblici, villette, autorimesse e condominii erano stati ceduti ai topi e alla gramigna. Del resto, la popolazione dell'isola si era ridotta drasticamente: ormai tutti gli isolani superstiti abitavano dentro le mura del castello. Le coltivazioni, invece, dopo un lungo periodo di abbandono erano state riavviate con successo e tutta l'isola adesso ne era ricoperta: frumento, ortaggi, uva, frutta e olive davano ormai da anni raccolti modesti ma sicuri.

– ... Ma forse il peggio è passato.

– Nessun segno dell'epidemia? – insistette il Custode delle Bevande.

– Nessuno, – rispose il forestiero, – da tre anni ormai, nella penisola.

– Come volete che vi chiamiamo? – chiese infine il Custode degli Atti e delle Lettere.

Il forestiero non esitò:

– L'Errante, – rispose lentamente, quasi sillabando; – Consideratemi solo un Errante.

Mentre rientrava nel castello, il Custode delle Arti e dei Mestieri ebbe la sensazione d'avere già incontrato quell'uomo, chissà dove, chissà quando. Tuttavia, tenne per sé quest'idea.

L’Errante si adattò al ritmo dei giorni e delle stagioni, senza tuttavia modificare troppo delle piccole abitudini divenute da tempo ben radicate. L’alba ed il tramonto erano per lui momenti di profonda emozione ai quali non poteva rinunciare: generalmente segnavano l’inizio e la fine delle sue giornate. Qualche volta, sul finire dell’estate, dopo il pasto serale scendeva sulla spiaggia del Golfo e vi rimaneva fino a notte fonda, seduto sulla sabbia granulosa, con le spalle appoggiate ad un relitto, una grossa trave corteggiata dalle maree. Osservava l’impercettibile evoluzione delle stelle e dei pianeti. Oppure, prima dell’aurora, partiva su un minuscolo scafo di plastica, leggero ma stabile e asciutto, per una pesca di solito breve e fruttuosa a poche centinaia di metri dalla riva. Il mare era tornato ad essere ricco di vita: niente, da molte stagioni, aveva più disturbato le creature dei fondali e della costa; persino le grandi rotte internazionali erano state disertate in seguito alla terza guerra di "contenimento". I danni ecologici provocati nell’epoca precedente erano stati riparati dalla natura con sorprendente rapidità: la salsedine delle brezze e lo strofinìo incessante delle correnti avevano sciolto i blocchi di catrame che deturpavano la linea di costa, annate siccitose avevano polverizzato le plastiche abbandonate, piogge e venti avevano inumato i rottami metallici, aggressive generazioni di muffe e di vegetazione avevano corrotto e digerito le vestigia della civiltà dei consumi.

L’Errante si levava appena prima del sole e si coricava subito dopo il tramonto. Nella prima prima parte del giorno lo si poteva incontrare in qualsiasi punto dell’isola: amava fare lunghe passeggiate, dedicandosi, col bel tempo, alla manutenzione dei sentieri. Con ingegno e pazienza, li liberava dalla vegetazione troppo invadente, li rinforzava con assi e pietre contro gli smottamenti. Talvolta li rendeva più sicuri ed agevoli, scavando gradini nella terra argillosa oppure disponendo tronchi sradicati come brevi ponticelli su ruscelli ed insidiose fratture del terreno. Ma la sua più grande soddisfazione gli era data dal ricavare sentieri a tornanti sulle aride scarpate della costa occidentale, quasi verticali su spiaggette altrimenti raggiungibili solo via mare. Con l’entusiasmo del pioniere e la determinazione di un colono, dopo un’intera stagione di duro lavoro – sebbene ben distribuito nelle ore più fresche della mattina – era infine riuscito ad addomesticare lo stapiombo più alto e infido dell’isola, sovrastante uno degli approdi più remoti e suggestivi: sabbia finissima, scogli bianchi e levigati, fondali ricchi di meravigliose prospettive in tutte le tonalità dallo smeraldo al petrolio. Inoltre, poco sopra il limite della scogliera, una sorgente d’acqua purissima vivifica con uno zampillo perenne una stretta valletta stipata di fiori e macchia mediterranei, una vera oasi di ombra e frescura in quel paesaggio particolarmente arido, salmastro e sterile.

– Questo è un luogo santo, – si era detto l’Errante arrivandoci. – Un luogo dove può essere bello perfino morire.

L’Errante trascorreva le ore più calde del pomeriggio al fresco della veranda o sotto i pini dietro al Capannello: rileggeva brani di qualcuno dei suoi pochi libri; poi scriveva sempre qualcosa – non più di due o tre paragrafi – sulle pagine di un enorme volume senza titolo. Prima di cena si recava nell’orto per dissetare le piante e curare i brevi solchi, la qual cosa gli procurava, se non altro, la soddisfazione di nutrirsi del frutto del proprio sudore: prodotti essenziali e semplici, come patate, carciofi, cavoli e pomodori.

Tra questi due momenti, soprattutto in inverno, accoglieva i giovani del Paese che si avventuravano fino al suo Capannello per amicizia e curiosità, nei confronti del "forestiero" e del mondo che non avevano mai conosciuto. Si raccoglievano attorno al fuoco, bevevano del vino, ascoltavano i racconti dell’uomo, talvolta lo provocavano con domande o cinici sillogismi. Sin dalle prime settimane dal suo arrivo sull’isola, questi momenti erano divenuti, per l’Errante e la sua cerchia, una consuetudine piacevole e proficua: l’alternarsi di fantasie e memorie, le vivaci discussioni sulle piccole grandi cose della vita, anche solo il semplice atto di condivisione del cibo e delle bevande, tutto aveva la magica proprietà di evocare, dal pozzo dell’esperienza, prezioso materiale esistenziale e spirituale. Successivamente, l’Errante vi poteva meditare a lungo, per distillarne infine l’essenza; ogni goccia di tale sapienza veniva diligentemente depositata nel volume senza titolo. Non vi erano accordi formali, tra l’Errante e i suoi ospiti; semplicemente, tranne rare eccezioni, ogni pomeriggio per qualche ora una scheggia d’umanità si radunava al Capannello delle Vaccarecce: giovani e fanciulli, per conoscere e conoscersi.

Quarantadue gradi e trenta primi nord; dieci gradi e cinquantacinque primi est. Tredici chilometri a ovest della penisola italiana. Un ellissoide, con asse nord-nord-ovest sud-sud-est. Quasi nove chilometri di lunghezza, circa quattro di larghezza; un perimetro di ventotto chilometri. Ventuno chilometri quadrati di superficie; altitudine massima cinquecento metri: la seconda isola, per grandezza, dell’arcipelago. L’Isola del Giglio. In questo luogo era cresciuto.

Bambino, la sua immaginazione si esercitava su mucchi di terra bruna, umidi d’orina di cane, scaricate agli angoli della piazza: aréna da cantiere edile, che plasmava pazientemente creando un mondo privato: strade, castelli, ponti, gallerie... La timorosa vigilanza nei confronti dei suoi coetanei monelli raramente ne evitava la distruzione. Una volta – tornavano da scuola – uno spintone più cattivo, più "adulto", lo rovesciò sulla montagnola e la bocca gli si riempì di sporcizia. Seguirono lacrime isteriche e impotenti, che lavarono guancie pallide ed escoriate, diverse, cittadine; e tuttavia non sciolsero quel primo germe di diffidenza verso il genere umano, anzi lo resero fertile. Non si parlarono per giorni; poi finsero di essere soltanto dei bambini, e "pace" fu fatta. Si ritrovarono: l’altro, forse, più libero; lui un poco meno puro, per via d’una sentenza inappellabile (Qualcuno già gli stava insegnando che "la gente è cattiva").

Le piste per le biglie nei giardinetti pubblici avevano sempre i cigli ambigui, tra i ciuffi di gramigna e il granito affiorante: ogni tiro sollevava dispute ed infettava ferite. Chi si faceva meno rispettare doveva spesso saltare un turno, e rimaneva là, imbronciato, ad osservare la propria sfera multicolore incollata al suolo, la più rara ed ambita. In simili momenti, per sopravvivere alla frustazione, si gratificava indulgendo in una ben pasciuta, esagerata considerazione di se stesso; e la "gente cattiva" si identificava sempre di più con "gli altri", si allontanava dal suo affetto, gli sembrava più ostile. Ma che importava! Tanto, la cartella nuova gliela portava sua zia – la sua madre bruna – da scuola fino a casa, tutti i giorni, per risparmiargli la fatica; e alla sera il nonno portava a passeggio un batuffolo nero a quattro zampe proprio sul campo delle sue sofferte competizioni. Quando il contadino ex minatore fu accolto nel grembo eterno del cielo, mani marinare – lo zio della marina – scavarono con le sue per dissotterrare patate; e i calli della zappa furono una stupenda eredità, come medaglie all’ingegno, un caposaldo di moralità. Questo gli bastò per sentirsi migliore.

La grande stagione terrestre cominciava per lui, e l’origine di tutto già sbiadiva nella memoria, come la percezione della sagoma scura dell’isola, che sprofondava nella foschia alla fine della notte, dietro la scia del traghetto. Il pulsare regolare dei motori sembrava sorreggere la fredda volta stellata; il suo cuore, all’unisono con il canto dell’universo, si tuffava nella vita riscaldato dallo scialle di mamma.

Ritornò dopo una vita, letteralmente. Si seppe che, nel primo decennio del millennio, mentre nel mondo imperversavano crisi ecomiche e crolli finanziari senza precedenti (e all’isola i turisti diminuivano drammaticamente), l’Errante si era dato da fare, nel continente, ed aveva conquistato una buona posizione. Era diventato una persona influente, collaborava con il governo regionale. Poi c’era stata la prima guerra "di contenimento". L’avevano chiamata così. In effetti, si trattava, da parte dei paesi nord-occidentali del mondo, di "contenere" ondate sempre più intense e prolungate di disperati provenienti dall’Africa e dall’Asia. Contemporaneamente, in Europa, gli ultra quarantenni assistevano impotenti all’avanzata della sedicente "pedocrazia". La nuova generazione, ricca delle nuove conoscenze tecnologiche e di insondabili aspirazioni, aveva decisamente rinnegato il quarto comandamento. L’anno in cui all’isola vi fu l’enorme frana che trascinò in mare un intero villaggio turistico (e meno male che si era in inverno, e non ci abitava nessuno), un gruppo di giovanissimi tecnocrati affaristi s’impadronì delle istituzioni politiche e militari dell’Unione Europea. La carta costituzionale fu modificata quel poco da cancellare ogni diritto sociale e politico dei cittadini oltre il quarantesimo anno di età. Malgrado rappresentassero la grande maggioranza della popolazione, i nuovi emarginati non riuscirono a contrastare la bramosia dei loro stessi figli. Quando fu deciso che a 70 anni si "doveva" morire, l’Errante, con i suoi 51 anni fuori moda, decise di emigrare in Oceania. La seconda guerra di "contenimento" fu condotta, in Europa, dai giovani padroni degli Stati e fu ancora più terribile della prima. Durò due anni e costò, in vite umane, quanto tutte le precedenti guerre della storia. Alla fine i paesi ricchi trovarono un modo di porre fine ai combattimenti: crearono un potentissimo virus e lo scatenarono nel cuore del continente africano. Purtroppo, però, non riuscirono a controllare l’epidemia e, soprattutto, il panico che questa produsse sull’intero pianeta. E fu l’inizio dell’ultima, grande, inarginabile emigrazione verso nord-ovest. Questa volta i giovani dittatori non trovarono alcun esercito disposto a confrontarsi con le armi e la peste dei nuovi invasori. La terza guerra di "contenimento" durò il breve tempo necessario per constatare la fine del "sogno" occidentale. Il secondo decennio del millennio si concluse con il crollo di tutti i governi del continente e con le prime vittime europee del virus letale. Numerose comunità locali si isolarono dal resto del mondo e si organizzarono in modo autarchico, sotto la guida degli anziani sfuggiti alla persecuzione. Anche l’Isola del Giglio, spezzato ogni legame con il continente, sperimentò queste vicissitudini. Mentre il pianeta si svuotava a causa dell’epidemia, in queste "cellule" d’umanità la vita cadeva in una sorta di letargia, nel costante terrore di una contaminazione. Molte comunità furono spazzate via, altre sopravvissero grazie ad una penosa e prolungata quarantena. Al Giglio, gli isolani seppero respingere tutti i tentativi di sbarco per i primi tre cruciali anni del nuovo decennio. Poi, nell’arco di poche settimane, avvennero due fatti di inaudita importanza e di segno contrario: alcuni casi di contagio si manifestarono sull’isola proprio mentre in tutto il pianeta il virus si estingueva rapidamente. Nei mesi successivi le comunità superstiti cominciarono a stabilire i primi rapporti commerciali. L’Isola del Giglio prese contatti con l’isola di Ventotene, poi con una città libica e infine con un villaggio delle Cinque Terre. E fu proprio dalle Cinque Terre che il 26 agosto 2027, giunse l’Errante a bordo di un barcone adibito al trasporto di legname.

Un pomeriggio di aprile alcuni isolani si accorsero che l'Errante non saliva al paese già da diversi giorni. Sebbene si fossero da tempo abituati alle stranezze dell'uomo, qualcuno pensò che potesse essersi ammalato o che fosse addirittura morto. Allora decisero di percorrere il sentiero fino al Capannello per accertarsi della situazione. Non trovarono l'Errante; trovarono invece il librone, posto con cura sul tavolo, ben visibile. Esitarono alquanto. Infine aprirono il volume senza titolo, e sulla prima pagina lessero:

 

Benvenuto, chiunque tu sia, a questa mia poca arte.

Ho rischiato di essere scrittore del passato, nostalgico e introspettivo, prigioniero della tradizione. Ho rischiato pure di essere scrittore del futuro, ieratico e apocalittico, ad ogni costo innovativo, fino al limite della non-comunicazione. In entrambi i casi, sarei stato scrittore "per gli altri", lettori più o meno distratti, più o meno disponibili. Invece, grazie ad una "illuminazione" estiva, in un mattino a piedi nudi sulle sabbie della mia adolescenza, l’Anima del Mondo mi ha eletto scrittore del presente, voce dei luoghi dell’eterno "adesso".

Caro amico, che "adesso" stai attingendo alla mia pagina, ti prego di ricordare che questi frammenti di saggezza io li ho scritti per me stesso, giorno dopo giorno. Ti chiedo pertanto rispetto e sensibilità, solidarietà e pazienza, simpatia ed indulgenza. A queste condizioni, sono felice di farti da guida e di ritornare con te, ancora una volta, "adesso" e per sempre, nei nostri luoghi dell’irrinunciabile presente.

 

E poi continuarono, e rilessero il libro per mesi e mesi. Ne fecero innumerevoli copie. Divenne una preziosa eredità spirituale per generazioni e generazioni, mentre nasceva una nuova, migliore civiltà. Tutti conobbero la vita e i pensieri di quell’uomo e ciascuno si convinse che veramente egli aveva una storia importante da narrare. Lo fece e ci è stata tramandata.

Il sogno finisce qui.

Alla prima alba sull’Isola, immaginò il momento della partenza, con gli occhi dell'Errante. Vide una sabbia finissima, scogli bianchi e levigati, fondali ricchi di meravigliose prospettive, una sorgente d’acqua purissima dal getto perenne, una stretta valletta stipata di fiori e macchia mediterranei... Poi lo sguardo si alza rapidamente, in verticale, e quell’oasi si allontana; l’orizzonte si amplia, fino a comprendere buona parte dell’Isola: si scorgono i tetti curvi dei capannelli, le cime dei pini immobili, il verde largo e scuro delle foglie di vite; e poi i mattoni e le tegole rossastre e le pietre del Paese e del castello, le pendici delle colline rugiadose, le spiagge e le scogliere tutto intorno. Poi vide il blu quasi nero del mare assediare ma non vincere l'Isola del Giglio; terre ed acque mescolarsi in uno spicchio del globo terrestre, ancora per poco addormentato; e infine l’emisfero oscuro squarciarsi per l'inarrestabile rinascita del sole. Ben presto, sempre più velocemente, si accendono le rive spumeggianti dei due continenti, a levante e a ponente; da tutti i quadranti si scoprono i contorni di una geografia conosciuta, i limiti fisici della provincia, della regione. Gli Appennini e le Alpi sono ormai minime rughe sulla fronte del pianeta, e lo sguardo già spazia oltre le fertili pianure occidentali e le vaste solitudini degli oceani, fino a comprendere l'intera sfera del mondo, tagliata a falce dal confine del mattino. Infine, in un'accelerazione sempre più tumultuosa, Luna, Sole e Via Lattea perdono del tutto la loro nitidezza, e si stemperano nello sfondo incolore dello spazio siderale.

Non rimane che un silenzio vibrante, luogo di gioiosa serenità assoluta e nuova.

PDG
22 dicembre 2000

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