Per il Bicentenario di San Mamiliano de' Turchi
(19 novembre 1999)

A questa mia voce di straniero – direste, piuttosto, forestiero – voce disprezzata, voce spezzata, voce saracena; voce di chi ha molto emigrato, concupito, tracannato – nell’ebrezza a cercare l’oasi eterna, oppure un semplice risolutivo ritorno – non fuggite!

Come fuggisti tu, povero zappaterra terrificato, in quel giorno moresco! Cristiano, i tuoi spogli vitigni non ebbero braccia per difenderti; le tue botti piene, non abbastanza vino per accopparmi. Ma stramazzarmi sì, questo lo fecero egregiamente, lungamente, dalla fresca mattina un poco brumosa fino a tarda sera, tardi per la ritirata.

Il vostro, cristiano, 18 novembre 1799. Giorno moresco! Ma non per me. Nel succedersi delle ore, mentre la saracena marea montava all’ambìto poggio torrito, e poi se ne tornava, afflitta, ai suoi vascelli – mai si levò per me la mattutina foschia. Anzi, sotto i riccioli mori, arruffati per i tanti arrembaggi, ciascuno preda di sogni e nostalgie, un’altra nebbia si faceva più fitta ad ogni sughero violato. Vino, vino, vino del Giglio!

E in questa antica sempre nuova dimensione, meno bestemmie, meno lusinghe di mitraglia. Altre dolcezze cullavano la mia nostalgia: memorie, desideri. E l’arsura, sempre urgente, inestinguibile. Nei riflessi dorati del succo amico vanno e vengono facce. Soprattutto una: l’avida smorfia del capitano quando ci urlò che l’Ariadeno era tornato, che non saremmo stati da meno, che le sue gesta avremme sorpassato… Siamo partiti, dunque, su sette bastimenti, duemila turchi – o tunisini (ma cosa importa se ci divide un mare, un’idea o un muro a secco? Si può essere isole su un’isola, ed un unico Essere in tutte le stelle dell’universo). Siamo partiti per arrostire l’arcipelago, ma io già desideravo il ritorno, la pace, le palme, il mio caro sporco tugurio, le mie splendide miserabili femmine. Siamo partiti, mercanti di schiavi, ma io già sentivo su di me catene più pesanti e avvolgenti, torture non visibili: orrore della violenza, ribrezzo per il sangue, terrore della morte mia e d’altri infelici. E poi l’Ariadeno! Il suo spirito selvaggio imprecava tra le sartie, ma già il cuore mi mancava al pensiero dell’assalto. Giungemmo infine all’Isola, dalla punta di Radice, come furie tramontane. Doppiato il Fenaio valutammo di lontano il temuto torrione del Campese. Arammo per un tempo breve i fondali di Sparavieri, giusto il tempo per accorgerci che le difese alla spiaggia erano ben inferiori alle nostre paure. Quindi con una decina di lance approdammo al riparo dei cannoni della guardia.

Giglio Castello, luglio 1999

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