Arte, natura e vita all'isola del Giglio

Si dice quando parliamo dell'Isola del Giglio che non c'è troppo bisogno di promozione per attirare in un posto bello come questo, a 190 km da Roma, 200 da Firenze e 11 miglia dall'Argentario, un turismo che assume ormai dimensioni di massa sugli appena 12 km. circa di strade rotabili.

Pur trovandosi di fronte a questo fenomeno che sconcerta bisogna rilevare che l'isolano, assai meno irragionevolmente di tanti altri, è stato capace di gestire questa fonte di ricchezza. Una ricchezza costituita da un patrimonio naturalistico, storico/artistico che l'isola, da qualche anno, per farsi conoscere, ha legato alla propria immagine, alla cultura locale e alle tradizioni, rifiutando una pubblicità corsara.

Sono questi aspetti che consentono di inoltrarsi, attraverso progetti, dove la natura, storia, arte e devozione vivificata silenziosamente parlano per essere motivo di una vacanza significativa e soprattutto per essere restituite alla mente degli isolani.

Proprio come parlarono, nel 1927, alla scrittrice Gabriella Neri che visitando il Giglio si lasciò sedurre dai racconti delle sue storie e leggende di Santi, pirati e tiranni; dal gioco degli sguardi moreschi delle donne; dalle contemplative e silenziose aurore e dai tramonti miracolosi; dalle sue uve, vini e aragoste; dal senso dell'irreale e del fantastico quando penetri nel paese e ti accosti all'anima della gente; dalla fede così tanto materiata visibile ovunque.

Ogni volta l'Isola è sempre più Isola.

Sempre più scopri che sa conservare, in modo intelligente, un patrimonio di piante, erbe, fiori, animali. Un patrimonio che ha bisogno di mantenere il fascino della solitudine e quel dono che è il silenzio, essenziale per nuovi pensieri, all'ombra di lecci, lentischi,  pini, mortoli e corbezzoli, abbarbicati lungo "stradelli" o su massi di granito al sole, quarzosi, bianchi, dorati, lisci e caldi interposti tra il riposante verde delle vigne e il contemplativo blu del mare. E quando l'afa e la calura intorbidiscono i pensieri e costringono al riparo entro grotte naturali, un fresco tuffo nell'acqua smeralda ridonerà lucidità alla mente, voglia di un confronto, cercando all'orizzonte il continente e scoprirsi un autentico isolano.

Sono momenti e circostanze in cui l'immaginazione corre oltre ogni limite, la creatività è messa alla prova e i pensieri accavallandosi e mescolandosi, come onde imprendibili di cui non afferri né l'origine né la fine, corrono avanti e indietro sino a quando chiara è l'avventura che si prospetta.

Nasce così il desiderio di una vacanza che "fa la differenza", come informava un manifesto pubblicitario qualche anno fa, individuando nuovi percorsi che permettono di praticare con soddisfazione quello "sport" che consiste nella ricognizione di un territorio, seguendone non solo i programmi, ma anche il fascino della sorpresa dell'incontro. Uno sport aperto ai turisti perché possano comprendere, nella memoria storica, la personalità spigolosa di chi vive in quel mondo che da anni passa drasticamente dalla quotidianità invernale, a volte desolata, allo scintillio di colori e suoni e al formicolare di gente che vede nell'isola estiva solamente il sole, lo scoglio, il mare e il sale.

Ma soprattutto offerto a coloro che vogliono riconoscersi nella comunità in cui sono nati, cercando nelle case, nei vicoli, nelle mura, torri e palmenti, nelle vetrate delle chiese, nei reliquiari e Pale d'altare, nel mare e nella sua vita le proprie origini, la propria identità per sentirsi orgogliosi di affermarsi isolani.

Lasciarsi poi aggredire dalla curiosità e dall'interesse, aspetti di una personalità che il continentale sa cogliere, di fronte a quadri, oggetti di argenteria sacra, paramenti liturgici, sculture, scogli che il mare ha modellato di cui è ricca la toponomastica gigliese, vivai per morene ed aragoste, galeoni, anfore ed ancore poggiati su fondali, dove il rosso del corallo è sostituito dal ceruleo colore delle vecchie e nuove alghe e la margherita, oggi conosciuta, è solo quella gialla selvatica della macchia mediterranea.

Un patrimonio tanto caro da salvaguardare e conservare perché è testimonianza di un passato ricco e travagliato dal quale si possono captare messaggi, informazioni in modo da rendere possibile una ricostruzione della storia, individuandone la cultura dominante del momento, i centri politici ed ecclesiastici e via dicendo.

Mi sono trovato quest'estate a leggere un notevole patrimonio di oggetti e paramenti liturgici, catalogabili come "arte sacra", scrupolosamente custoditi da Don Vittorio parroco di Giglio Castello. La disponibilità, sensibilità e l'amore per l'arte e la storia di questo instancabile maestro di fede e di musica sacra, me l'hanno reso amico.

Insieme abbiamo iniziato a togliere dal torpore documenti ed oggetti di argenteria sacra riconducibili prevalentemente all'epoca barocca. Da anni assopiti nella fredda e buia sagrestia, come per magia si sono offerti ai miei occhi ed hanno parlato con il loro "effetto" totale e inconfondibile raccontando ad un gigliese la sua storia.

Non immaginavo di trovarmi di fronte a due corone appoggiate, una sull'altra, in un angolo di un armadio. Così, come si presentavano parevano senza storia; rimasi a lungo in silenzio come se mi avessero invitato a farlo, mentre venivo interpellato dal loro contenuto emozionale ed oggettivo. Si rivolgevano a me "solo" e orgoglioso ho colto l'attimo per farmi raccontare quanto più possibile, per soddisfare la mia curiosità, senza rispondere, perché avrei interrotto il loro parlare.

Le stelle che decorano i due diademi mi apparvero per un momento dorate. Quel colore ricordò l'oro di un'altra corona impreziosita da topazi, che Adriana vestita con abito lungo, bianco, in organdis ricamato, offriva al Delegato Apostolico (8 giugno 1958) perché potesse incoronare "Stella Maris".

Sino a poco tempo fa coronavano il capo della Madonna e del Bambino Gesù raffigurati nella Pala d'altare della cappella del Rosario. Un uso, quello di ornare con corone e diademi immagini e statue, che ebbe una grande diffusione nel periodo barocco quando il culto mariano venne dalla Chiesa insistentemente rilanciato.

Di argenteria napoletana, in lamina d'argento sbalzato e cesellato, sono decorate con motivi fitomorfi e volute tra i quali si alternano cinque stelle ad otto punte che dal basso convergono verso il fastigio dove un globo, il mondo, doveva essere sormontato da una piccola croce.

In entrambe il motivo ornamentale della base presenta una modanatura a cordolo che racchiude forme geometriche, alludenti a pietre preziose, in cui sono leggibili il punzone della città partenopea in quella della Madonna, mentre in quella più piccola del Bambino Gesù il marchio di garanzia detto "della strada degli orefici" con le lettere NA (Napoli) i numeri 72 (1672) e l'incuso dell'argentiere individuato nelle lettere AA.

Tre testine alate dai lineamenti delicati entro giochi simmetrici di volute trasmettevano una umana sensazione, e parevano suggerire la visita alla Cappella del Rosario. Dovevo pertanto conoscere meglio la Pala d'altare della Madonna per la quale, sull'onda di un nuovo fervore del culto mariano, generato dalla controriforma, le corone vennero di seguito commissionate e poste sul capo dei due personaggi.

Una buia tela, brunita dall'invecchiamento della vernice, depositi di polvere grassa e nerofumo, estese ridipinture coprenti gran parte delle campiture originali oltre che da una patina giallo-grigia che aveva alterato la leggibilità del dipinto, fu la sorpresa dell'incontro. Oggi, la Pala in questione è visibile all'interno della Chiesa di San Pietro Apostolo, al Castello, dopo un recentissimo intervento di restauro, in tutto il suo splendore originale.

L'effetto emozionale vissuto di fronte alle corone svaniva avvolto dalla provata tristezza e delusione per non aver potuto cogliere il modulare delle forme e il vibrare armonico dei colori... La crosta bruna e ruvida che ricopriva il dipinto e che percepivo insistentemente, evocava in me un gioco che chiamavo "mondo novo" quando, bambino, sulla spiaggia granulosa di granito, dopo aver steso sotto una calotta di vetro carte colorate e poi ricoperte con sabbia, lentamente scoprivo al miglior offerente la luce di quel micro universo cromatico.

L'intervento di restauro della Pala d'altare si era reso necessario ed oggi, grazie alla competenza artistica e alla abilità tecnica di Elisabetta Bianco, è possibile ammirare la rappresentazione cogliendone la lettura del disegno e le emozioni cromatiche esaltate dalla qualità pittorica nel contrasto fra toni bianchi, azzurri, neri, rossi e gialli.

Chiara è emersa l'iconografia mariana espressa figurativamente con patetica devozionalità, ma anche con particolare sensibilità per i valori luminosi utilizzati in senso simbolico: si veda il contrasto del dorato alone "solare" che individua il gruppo divino del Bambino Gesù e della Madonna con l'argentea luce "lunare" che avvolge S. Domenico e S. Caterina da Siena mentre ricevuto il rosario inginocchiati fuori dalla sfera celeste e separati da un arco di medaglioni contenenti i quindici misteri del rosario.

Per la comunità gigliese quella del Rosario è la Madonna dei "Turchi" che la gente conosce attraverso la storia. Una storia intrisa di fede e di amore per la propria terra, vissuta dagli isolani con trepidazione e smarrimento quando all'orizzonte vedevano spuntare sciabecchi turchi, approdare sull'arenile del Campese e con rapida incursione devastare l'isola. Forte è il ricordo di un nome, primo tra tutti, il corsaro Khair-ad-Din, conosciuto nelle fonti italiane, forse per il colore della barba, come Ariademo Barbarossa, quando all'approssimarsi dell'estate del 1544 ridiscese lungo il Tirreno sbarcando all'isola d'Elba, Porto Ercole e il Giglio portandosi via come schiavi gli abitanti.

E fu S. Pio V, fermo sostenitore di questo aspetto iconografico mariano, a consacrare nel 1569 la preghiera del rosario in uso fino ad oggi, e a emanare nel 1572 la bolla "Salvatoris Domini" con la quale dichiarava festa liturgica la prima domenica di ottobre, in ricordo della vittoria dei cristiani sui Turchi nella battaglia navale di Lepanto (1571), tanto da meritarsi l'appellativo di "primo papa del rosario".

Altri quadri, sculture di Santi Vescovi posti sulle porte che separano il presbiterio dal coro, amorini in marmo che ornano l'altare, nuove vetrate e tante altre testimonianze di un passato meraviglioso che è mio, desideravano forse essere partecipi a questa conversazione dipinta e silenziosa. Ma la mia memoria disegnava un ritorno in terra senese. Una mescolanza di immagini, parole e nomi di pittori affollavano la mia mente.

L'immagine prevalente dei volti dei tre cherubini, raffigurati sia nella Pala che nella corona, lusingavano la mia immaginazione e provavo piacere pensare che loro, angeli con le ali senza corpo, fossero stati delle due opere motivo di unione di momenti storici diversi.

Ma le parole del mio professore di Storia dell'Arte prevalsero su tutto. Erano parole poetiche che dicevano di isole come la sua città, Siena, neppure accarezzata né lambita dal mare, senza scogli né spiagge, l'isola del tempo dove i mistici sembrano invasati e i cattivi anche saggi.

La mia invece è un'isola vera violentata dal mare e da chi lo naviga, e come la sua è l'isola del tempo nel bene e nel male, dove nella natura si legge l'antico oro del cielo e dello scoglio. Un'isola piena di voci che si perdono e gli echi sono silenzio.

Bella e mutevole; uno specchio di un'anima, forse una città estiva, un porto di mare dalle bandiere colorate, barche costose e lussuose, motoscafi e golette d'epoca, fuochi d'artificio, macchine assordanti ecc...

Specchio, città: un'isola, la mia.

Giovanni Monti
(per gentile interessamento del dott. Armando Schiaffino)

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