Critica
Alfonso
Gatto è sempre stato uno dei poeti che ho letto con trepidazione.
Conosco l’uomo, tenero, sognante e averlo conosciuto non ha fatto
perdere nulla ai suoi versi, anzi li ha forse illuminati un po’,
riflettendovi quel suo sguardo chiaro, di mare in inverno. È uscito
in questi giorni un Oscar Mondadori con una scelta di poesie dal 1929
al 1969, quarant’anni di attività, cruciali per la letteratura
italiana che si è trovata a più riprese a un bivio e ne è uscita
sempre indenne da contaminazioni tendenziose. Gatto
ha proseguito il suo cammino quasi indifferente alle sirene della
moda. Un poeta non può distogliere la sua attenzione dal proprio
mondo per aderire alle esteriorità. Lo ripete spesso e la prova è
questo volume di cui Luigi Baldacci ha scritto una importante
introduzione critica. Ma a me, rileggendo Gatto, è venuto in mente ciò
che nel 1955 ha scritto Giuseppe Ungaretti: «Nessuna poesia è, più
della sua, dorata, succulenta, e fragrante e naturale; nessuna è più
della sua nutrita di sole». Eppure ogni suo verso è come se
attraversasse la malinconia in estensione e profondità; anche le
pause hanno qualcosa di triste e di lieto e sono elementi del canto in
piena regola. Si è molto insistito su Gatto poeta-pittore, un po’
condizionati dall’attività di acquerellista e di critico d’arte
del poeta e un po’ perché in effetti l’aggettivazione dei suoi
versi si muove come un pennello magico. Si badi però che spesso i
colori che accompagnano la descrizione di un paesaggio non sono quelli
canonici e che spesso le attribuzioni sono dati di una condizione
spirituale. Per esempio l’azzurro per Gatto non è sempre la
striscia di mare o di cielo della sua Salerno, qualche volta è
serenità, immersione nella felicità del vivere. Questo appare molto
evidente nelle “Poesie d’amore”, tra le più intense e belle del
nostro secolo, tra le più sottili e penetranti. Nelle poesie
d’amore la sua natura
si apre a ventaglio, la sua solarità si spiega senza riserve e di
conseguenza i suoi versi acquistano freschezza e agilità, una musica
densa e invitante. Sarà anche per questo che Gatto è stato definito
romantico (passionalità persino esibita, mistero, impeto espressivo),
ma è stato definito anche uno degli ultimi crepuscolari per come ha
saputo descrivere certi scorci della sua città, per come ha
saputo ricostruire momenti suggestivi del suo passato attraverso
ricordi nitidi e precisi. La verità è che Gatto non è definibile
(tranne le sue prime esperienze legate per certi aspetti
all’ermetismo) perché ha annodato il suo essere direttamente alla
grande tradizione lirica italiana (Petrarca, Tasso, Metastasio,
Pascoli, Di Giacomo) ed ha cercato esiti personalissimi che però
restassero in qualche maniera nell’alveo antico. È per questo,
forse, che molti non lo amano, specialmente coloro i quali guardano
alla poesia come a un semplice esperimento linguistico fatto in
laboratorio. Non si fraintenda però, la semplicità di Gatto non è
soltanto frutto del suo dono, egli lavora sui versi come un dannato,
scrivendo e riscrivendo, modificando, trasformando. Non è mai contento
dei suoi versi, avverte che potrebbero avere scatti in più, maggiori
risonanze. Questo delle risonanze è un pensiero che segue Gatto da
sempre, direi. Ma non si tratta di risonanze scaturenti dalla memoria
poetica, egli parla di risonanze che devono arrivare dai sentimenti,
dagli eventi, dai rapporti umani. Soltanto in questo senso il canto ne
può guadagnare in autenticità, in scatti lirici pregni di energia
vitale, di sole, d’aria, di luce.
Questo Oscar Mondadori ci dà un’idea abbastanza completa
dell’opera di Gatto, che andrebbe letto ormai senza i pregiudizi
della «povertà» milanese o del «grigiore» come qualità
essenziali per essere poeti. Gatto è mediterraneo in pienezza di
vocali e di sillabe; i colori fanno festa alle sue parole, la frenesia
sta dentro i suoi settenari, i suoi endecasillabi, gli ottonari, e
quando il suo dettato scivola inavvertitamente in quel vago e
suggestivo surrealismo, ancora una volta
tutto mediterraneo, ci si può rendere conto che egli non è
mai disgiunto dai versi, ma corpo e anima sono lì, ostia consacrata
per comunicare con l’universo: «Le mamme pesanti e buone d’un
tempo / una sera rimasero sedute / sul muretto del campo. / E
divennero mute, di un’altra età, / pingui e rosee come il mare».
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Ritratto di Alfonso Gatto di Serena Maffia
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