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- La
storia della poetessa Isabella di Morra e la sua tragica fine hanno
ricevuto fama grazie agli scritti di due uomini di cultura. Il
primo, il regio consigliere Marcantonio Morra, fu nipote della
poetessa, figlio del di lei fratello Camillo, e pubblicò in Napoli,
nel 1629, un’opera dal titolo “Famigliae nobilissimae de Morra
Historia”; successivamente il filosofo benedetto Croce si interessò
in due scritti, uno del 1927 l’altro del 1947, dei casi e delle
liriche della sfortunata giovane. I sonetti e le canzoni di
Isabella, all’epoca della storia scritta da Marcantonio, erano già
stati pubblicati in diverse edizioni.
- I
versi, pubblicati nelle raccolte di rime di poetesse del
Cinquecento, non erano stati accompagnati, in nessuna delle
edizioni, da notizie sulla vita e sui casi dell’autrice; essi
ebbero fama ed attirarono l’attenzione dei lettori per il modo
personale di sentire le vicende della vita e per la loro spontanea
naturalezza, espressione evidente di un animo colto, delicato e
sensibile. Dalle composizioni traspare la ricca vita interiore della
fanciulla, relegata in un luogo chiuso di provincia, ansiosa di
vivere, di respirare nuovi orizzonti e, nello stesso tempo, legata
alla sua terra, al fiume Siri, ai boschi selvaggi, ai luoghi
dell’infanzia che canta con ardente passione. La terra di
Isabella, situata tra il basso Sinni e la riva del mare Ionio, si
chiamava Favale ed ivi era nata, nel castello omonimo, centro del
feudo paterno, nel
1520, ora Valsinni; si tratta di un paesino di meno di tremila
abitanti, in provincia di Potenza. Vicino a Valsinni sorge
l’abitato di Nova Siri, detto un tempo “La Bollita”, feudo di
Sandoval De Castro e della moglie di lui Anna Caracciolo. Qui si recò
il critico Benedetto Croce a verificare di persona “per un suo
intimo gusto, con un raccoglimento dell’animo e della mente, con
un volo dell’immaginazione” le indagini che egli giudica
“modeste” sulla vita della sfortunata Isabella. Lo studio del
filosofo di Pescasseroli, intitolato “Isabella di Morra e Diego
Sandoval De Castro”, edito da Sellerio nel 1983, è una
ricostruzione fedele, puntuale e ricca di precisazioni
archivistiche, storico-geografiche e critiche sulla tragica vicende
della morte di Isabella, del suo presunto amante Diego e del
pedagogo che fece da messaggero tra i due. Ancora oggi uno stretto
sentiero congiunge i due castelli di Favale e di Bollita, un
sentiero non carrozzabile. I due poeti, Diego e Isabella,
scambiavano versi e missive e pare che Diego li inviasse all’amata
sotto il nome della moglie di lui, Anna Caracciolo, che aveva
stabile residenza nel feudo di Bollita. I tre fratelli di Isabella,
«feroci» di natura loro e per il luogo selvaggio in cui erano
cresciuti, avute in mano le lettere, vollero vendicare l’offesa
presunta all’onore familiare, comportandosi alla stregua dei
fratelli di Lisabetta da Messina, della omonima novella boccaccesca;
anzi fecero di più perché coinvolsero nell’atroce eccidio la
sorella, pugnalata in casa, ed il pedagogo, testimone del fatto. Il
Sandoval De Castro, pur avendo preso numerose precauzioni, non riuscì
a sfuggire alla morte, che giunse dopo diversi tentativi di
appostamenti da parte dei tre fratelli proprio sulla strada che
congiunge Favale a Bollita. Leggendo i versi di Isabella non sembra
quasi possibile credere al fatto che ella abbia avuto l’opportunità
e le occasioni di intrattenere una relazione amorosa con il De
Castro. Potrebbe essere stata completamente innocente di questa
colpa ed aver accettato i versi galanti del poeta, vicino di casa,
come nell’uso di un gioco “cortese” che rendeva la vita
diversa dalla monotona e squallida routine di provincia: un soffio
di intellettualità vitale che non venne assolutamente percepito dai
rozzi fratelli. A meno che essi non abbiano preso il pretesto della
vicenda per eliminare con la persona della sorella una diminuzione
del patrimonio feudale, dovendole assegnare la dote matrimoniale. Il
padre di Isabella si trovava in quel momento in Francia, costretto
all’esilio per questioni di interessi territoriali con il principe
di S. Severino. Per questo motivo non poté tornare e fu processato
in contumacia; la questione fu risolta con il pagamento di una
grossa ammenda da parte del principe Marcantonio Morra. Quando
Giovanmichele di Morra poteva essere libero di tornare in patria,
avvennero altre complicazioni politiche che glielo impedirono e,
successivamente, anche la morte. Purtroppo nessun documento allo
stato attuale ci permette di aggiungere qualche nuova notizia a
quelle esposte con stile vivace, interessante e con strutturazione
semplice e chiara dai vari capitoli del nostro scrittore filosofo.
- Non
ci resta altro che sperare che la figura della dolce Isabella,
vissuta così brevemente (Favale 1520-1546), quasi simbolo
emblematico di una categoria umana, quella femminile, spesso
sottoposta a violenze, soprusi e abrasioni dalla memoria storica,
possa essere oggetto di una nuova ricerca che possa riportare alla
luce più ricche documentazioni, tali da completare a tutto tondo il
ricordo della poetessa del Cinquecento.
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