In uno speciale,Informatica World vi descrive tutta la storia dell'Informatica ITALIANA ,dal 1950 al 2000
Elea 9003, il calcolatore italiano Presentato nel 1959 alla Fiera
Campionaria di Milano, è stato il primo calcolatore completamente a
transistor costruito in Europa. L'Elea, acronimo di elaboratore
elettronico automatico, era all'avanguardia non solo per le soluzioni
tecnologiche adottate, ma anche per la concezione sistemistica. Era
infatti in grado di operare in multiprogrammazione (gestiva fino a tre
processi in parallelo) e aveva capacità di interrupt, in un'epoca in
cui questo termine non era ancora stato coniato. Anche il design del
sistema era innovativo. Se ne occupò l'architetto Ettore Sottsass,
progettando una serie di cabinet di media altezza e una consolle per
l'operatore concepita per essere flessibile nella composizione dei
tasti e nelle segnalazioni. |
Quali furono le ricadute sull'informatica italiana?
Ci fu una ricaduta industriale e culturale.
L'impresa informatica generò un indotto importante non solo nelle attività
collegate ai calcolatori, ma anche nello sviluppo della componentistica
elettronica. Ad Agrate si sviluppò SGS, che produceva semiconduttori; a Caluso
nacque Zincocelere, che faceva i circuiti stampati e che divenne la più grande
azienda del settore.
Quando ci fu il definitivo passaggio di consegne da Olivetti a General Electric,
una parte delle persone che lavoravano nei laboratori lasciarono le aziende,
propagando il know how in altri settori.
Quali fattori hanno fatto perdere negli anni seguenti all'Italia e all'Europa la leadership informatica?
In Italia e più in generale in Europa c'è
meno iniziativa. La Silicon Valley esiste perché c'è il capitale di rischio,
che qui è mancato a causa, anche, dell'arretratezza del nostro sistema
bancario. Un altro fattore riguarda le barriere linguistiche. Fare un programma
in Italia e venderlo anche solo in tutta Europa è difficile anche per problemi
culturali e legislativi. Negli USA il produttore può contare su un mercato più
vasto che comprende anche l'Australia, il Canada e il Regno Unito.
C'è stato inoltre il problema del distacco tra la ricerca e la realtà
industriale. È così che, dagli Anni 70 in poi, il ritmo dell'innovazione è
stato dettato dagli USA. Ritengo che un Paese come il nostro possa in futuro
contare non tanto sull'hardware quanto sul software.
Programma 101, antesignana del pc Qualcosa di simile a un oggetto oggi
abituale e comune come il pc desktop apparve nel lontano 1965 per
iniziativa di Olivetti, a opera di un gruppo di progetto che faceva
capo all'ingegnere Piergiorgio Perotto (nucleo superstite della
Divisione Elettronica ceduta in quegli anni da Olivetti a General
Electric). |
Il primo computer italiano? Nasce nel 1954 presso l'Università di Pisa
Fu Enrico Fermi a suggerire il progetto per realizzare un calcolatore italiano. Così nacque la CEP.
Nel 1954 le Province e i Comuni di Pisa,
Livorno e Lucca misero a disposizione dell'Università di Pisa un contributo di
150 milioni di lire per la realizzazione di un elettrosincrotrone. Enrico Fermi,
consultato a Varenna nell'estate del 1954 da Marcello Conversi (allora direttore
dell'Istituto di Fisica dell'Università di Pisa) e da Giorgio Salvini sul modo
migliore per impiegare la somma, diede un parere diverso, suggerendo come scelta
migliore quella di costruire a Pisa una macchina calcolatrice elettronica.
L'argomento portato dal celebre fisico a sostegno del proprio parere era il
fatto che la calcolatrice, a differenza del sincrotrone, avrebbe potuto essere
d'utilità e supporto non solo per la fisica ma anche per altre scienze e tutti
gli indirizzi di ricerca.
Enrico Avanzi, rettore dell'Università, fissò nell'ottobre dello stesso anno
una riunione con i responsabili degli enti finanziatori per decidere la
destinazione delle somme, riunione a cui parteciparono anche il preside della
Facoltà di Scienze e i professori Conversi, Salvini e Ezio Tongiorgi. Avanzi
aveva avuto nei giorni precedenti un colloquio con Gilberto Bernardini,
presidente dell'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, il quale lo aveva
informato che presso l'Università La Sapienza di Roma si era deciso di
acquistare un grande calcolatore, ma poiché la spesa risultava superiore alle
possibilità, si sarebbe ripiegato su un sistema con capacità limitata. Ciò
significava che la disponibilità di un calcolatore con capacità avanzate
rimaneva ancora un problema nazionale, senza soluzione.
Bernardini aveva fatto presente ad Avanzi che se la macchina fosse stata
costruita in Italia, la spesa si sarebbe aggirata intorno ai 120-140 milioni di
lire, mentre per l'acquisto sarebbe stato necessario disporre di una somma pari
al quadruplo.
Avanzi propose quindi di procedere alla realizzazione della macchina
calcolatrice in Italia, gestendone tutte le fasi: dalla progettazione alla
costruzione. A questo lavoro avrebbe fornito un aiuto lo stesso Bernardini,
fornendo un contributo annuale di 25-30 milioni per il funzionamento della
macchina.
Nel corso della storica riunione, Conversi ricordò l'opinione allora diffusa
nel mondo scientifico secondo la quale le possibilità di sviluppo di una
Nazione sarebbero dipese dal numero di macchine elettroniche disponibili.
Aggiunse anche che la calcolatrice sarebbe stata di utilità per tutti gli
Atenei italiani, non solo per la fisica teorica e sperimentale, ma anche per la
chimica, l'ingegneria, la biologia, l'economia, la statistica, il commercio.
Il progetto per una macchina calcolatrice elettronica, al posto del previsto
sincrotrone (in seguito venne realizzato a Frascati), non sarebbe stato quindi
un ripiego. La calcolatrice avrebbe dato ai ricercatori di fisica un maggiore
aiuto, oltre a poter risultare importante per molteplici utilizzazioni da parte
di varie branche scientifiche.
Con queste argomentazioni il progetto guadagnò l'appoggio degli Enti
finanziatori e del presidente della Provincia di Pisa Maccarrone e dal 16
ottobre dello stesso anno, Conversi poteva disporre della somma di un milione di
lire, per avviare il progetto.
Per la costruenda macchina fu costituito un comitato presieduto dallo stesso
Conversi, di cui facevano parte anche Alessandro Faedo, responsabile per la
matematica e Ugo Tiberio per l'elettronica.
Nel 1955 venne creato il Centro Studi Calcolatrici Elettroniche (CSCE), con
l'appoggio del CNR. Nello stesso anno fu sottoscritta con l'Olivetti una
convenzione di collaborazione da cui nacque, contemporaneamente alla CEP
(acronimo della costruenda Calcolatrice Elettronica Pisana), il calcolatore
commerciale ELEA. CEP cominciò a funzionare come un prototipo ridotto; la
macchina vera e propria fu pronta solo alla fine del 1960, e venne inaugurata
dal Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi nel novembre dell'anno
successivo.
Nel complesso la CEP impiegava circa 3.500 valvole, 2.000 transistor e 12.000
diodi. Aveva una memoria a nuclei magnetici di 8.192 celle da 36 bit (molto
grande per l'epoca), una memoria ausiliaria a tamburo magnetico da 16.384 celle
di 36 bit e poteva collegare fino a otto unità di I/O a nastro magnetico.
Per molto tempo l'Università di Pisa restò portabandiera dell'informatica
italiana. Al primo nucleo del CSCE conferito nel CNR, successe l'Istituto di
Elaborazione dell'Informazione IEI a cui si aggiunse l'istituto CNUCE, nato nel
1964 nell'ambito di una convenzione tra l'Università di Pisa e l'IBM Italia.
Negli anni successivi furono sviluppati nell'ambito del CNR altri Organi a
indirizzo non tipicamente informatico che attraverso un confronto di conoscenze
in campi culturalmente diversi, hanno sviluppato nuove ricerche
interdisciplinari.
Nel 1969 venne istituito a Pisa il primo corso di laurea in Scienza
dell'Informazione. La prima lezione fu tenuta il 17 novembre del 1969 dal
professore Alessandro Faedo, rettore dell'Università e in seguito presidente
del CNR. L'esempio dell'ateneo toscano sarà seguito negli anni successivi dalle
Università di Bari, Milano e Torino.
Il calcolatore del Politecnico di Milano
Il Politecnico di Milano, assieme all'Università
La Sapienza di Roma sono stati i primi centri accademici italiani a disporre di
un calcolatore. La necessità di disporre di calcolatore elettronico a supporto
delle attività scientifiche era molto sentita già nella prima metà degli anni
cinquanta, ma solo nel 1954 vi furono i fondi necessari per procedere
all'acquisto. Tra i prodotti dei pochi costruttori allora sul mercato, Burroughs,
CRC, IBM, Univac e dell'inglese Ferranti, il Politecnico di Milano scelse il
calcolatore CRC 102A di Computer Research Co. (CRC) di Los Angeles: una macchina
capace di funzionare alla velocità di 70 operazioni al secondo, oggi risibile,
ma significativa all'epoca.
Il calcolatore a tubi CRC 102A era costituito da un grande armadio di tre metri
per due e uno di profondità, realizzato con una logica elettronica basata su
600 valvole e 6000 diodi al germanio.
A occuparsi delle complesse operazioni necessarie per portare in Italia il
calcolatore per conto del Politecnico di Milano, fu Luigi Dadda, professore e in
seguito rettore dello stesso ateneo. Andò egli stesso in California a prendere
in consegna il calcolatore che - come si faceva allora - doveva essere costruito
su misura delle specifiche esigenze del cliente.
Dadda curò che il grande calcolatore, smontato e accuratamente imballato,
venisse messo con la miglior cura possibile sulla nave che l'avrebbe portato in
Italia. Il compito più difficile della complessa fase di trasporto
venne curiosamente dall'espletamento delle norme doganali presso il porto di
Genova. Quando il calcolatore vi giunse dopo giorni di viaggio, si scoprì che
su ciascuno dei tubi elettronici (valvole), che componevano l'elaboratore doveva
essere apposta una etichetta comprovante la regolare importazione. La 'tassa
radio' allora in vigore, facilmente applicabile sui comuni ricevitori
dell'epoca, costruiti con 4-6 valvole, non era infatti adatta a un apparato
delicato e complesso come un calcolatore, costruito con centinaia di valvole. Il
problema fu comunque superato e il computer poté infine arrivare a Milano ed
essere messo in funzione presso il Politecnico di Milano (dove è tuttora
conservato). L'anno seguente il rettore Gino Cassinis e Ercole Bottani, già
commissario per l'energia elettrica, fondarono il Centro di calcoli numerici. È
stato questo il primo centro di calcolo elettronico in Europa, aperto anche
all'industria.
L'occasione perduta: la breve storia della Divisione Elettronica Olivetti
Nascita e declino del 'progetto elettronica' di Olivetti. Un modello di sviluppo contrastato e sconfitto
Chi segue da qualche tempo le vicende
dell'industria dell'IT ha avuto e ha quotidianamente innumerevoli occasioni di
riflettere sul divario che separa l'Italia dagli altri principali Paesi
industrializzati. Sono arcinoti i dati che ci caratterizzano in negativo per
tasso di diffusione dei personal computer, scarsa scolarizzazione informatica,
pratiche clientelari che regolano ancora parte del mercato, estrema
frammentarietà del comparto nazionale del software e servizi, e così via.
Ultime in ordine di tempo sono le preoccupazioni per quanto potrebbe accadere in
occasione del passaggio all'Anno 2000 e le difficoltà che il Governo nazionale
incontra per inserire, nell'ambito dei collegati alla Finanziaria, le prime
timide misure per l'informatizzazione scolastica e l'incentivazione delle
pratiche di commercio elettronico nelle nostre aziende. Indifferenza, scarsa
sensibilità dei politici nostrani, arretratezza strutturale e culturale del
nostro 'sistema-Paese'? Quel che è certo è che si tratta di fenomeni e
atteggiamenti non nuovi, nella nostra storia, e che hanno costantemente
caratterizzato il rapporto tra establishment politico-istituzionale e i settori
più innovativi dell'industria e dei servizi.
È istruttivo ritornare con la memoria a 40 anni fa, quando l'Italia perse il
treno che le avrebbe dato la possibilità di giocare un ruolo significativo
sullo scenario internazionale dell'elettronica e dell'allora giovane industria
dell'Information Technology.
Compagno ideale in questo viaggio a ritroso è un volume (oggi purtroppo
introvabile) uscito nel 1979 presso l'editore Einaudi. "Informatica:
un'occasione perduta": così Lorenzo Soria ha titolato questo suo saggio
che ripercorre la vicenda della 'Divisione Elettronica' Olivetti.
Nata 'di fatto' nel 1955 (formalmente sarà costituita solo nel '62) in un clima
di grande fermento di ricerca e spirito imprenditoriale e ideale sotto l'egida
carismatica di Adriano Olivetti, la Divisione Elettronica di Olivetti verrà
ceduta ("anzi regalata" sottolinea Soria) all'americana General
Electric nel 1964, nella totale indifferenza dei governanti di allora e nella
miopia del mondo politico e industriale. Unici a mostrarsi sensibili alle
conseguenze di questa operazione furono un gruppo di 'colletti bianchi'
sindacalizzati.
Ripercorriamo sinteticamente questa vicenda. L'attività di ricerca e produzione
nel campo dell'elettronica nasce in Olivetti nel '55, come costola di un'azienda
fino ad allora focalizzata sulla produzione e commercializzazione di macchine
per scrivere e sistemi contabili in tecnologia meccanica. Nasce con la decisione
di Adriano Olivetti di richiamare dagli Stati Uniti Mario Tchou, brillante
ricercatore, che comincia a lavorare alla progettazione del primo computer
italiano. Proprio per assicurare a questo computer il massimo livello di
competitività sul piano tecnologico il progetto viene sviluppato non a Ivrea ma
a Pisa (presso i laboratori di Barbaricina) proprio perché l'Università di
Pisa è in quel momento all'avanguardia nella ricerca. I risultati di questi
primi anni di attività sono, dal punto di vista della qualità tecnologica,
eccellenti e così descritti nel libro di Soria: "Alla Fiera di Milano del
1959 venne presentato ufficialmente l'Elea 9003, un calcolatore transistorizzato
che metteva l'Olivetti all'avanguardia rispetto agli altri produttori del mondo,
IBM compresa". Segue, nel '61, il 6001, una macchina orientata alla
soluzione di problemi scientifici, mentre nel '64 (quando si consuma la crisi
della D.E. e matura la decisione di vendere alla General Electric) sono in fase
avanzata di progettazione i calcolatori della linea 4000, oltre a numerosi tipi
di unità accessorie e periferiche (stampanti, unità a nastro magnetico ecc.).
Un'attività, come si vede, che marcia a pieno regime e che a fine '64 dà
lavoro a tremila dipendenti, cinquecento addetti alle attività di ricerca,
mille alla produzione e il resto nel settore commerciale. È un'attività che,
secondo Soria, è cresciuta anche con uno stile del tutto particolare, cioè
"senza alcun ricorso alla tecnica allora già collaudata dalla quasi
totalità delle aziende italiane, di ottenere contributi, diretti o indiretti
dallo Stato. Per restare nel settore elettronico - continua Soria - era anzi
accaduto che in varie occasioni i grandi enti, le società delle partecipazioni
statali avevano preferito ordinare calcolatori IBM". Questo proprio mentre
gli organismi federali americani rifiutavano di acquistare prodotti della
consociata americana dell'Olivetti negli USA... "perché straniera".
La 'scelta elettronica' di Olivetti era il frutto di una valutazione che
individuava in tale attività un fattore vitale per la stessa sopravvivenza
della società, anche perché questa era la direzione imboccata da tutti i
concorrenti dell'Olivetti. Ma nell'Italia di quegli anni - l'Italia del boom
economico, fondato su un'industria a tecnologia matura, bassi salari e
sovvenzioni assistenzialistiche da parte dello Stato - il progetto di Olivetti,
che vede nell'elettronica e nei primi germi dell'informatica un settore
trainante per ogni futuro sviluppo industriale, è visto come una sorta di
bizzarra eresia, inevitabilmente destinata a tradursi in un disastro.
A qualche anno dalla costituzione della Divisione e di fronte alla sua
situazione di difficoltà finanziaria, ecco come la pensava l'allora presidente
della Fiat Vittorio Valletta: "Sul futuro della società pende una
minaccia, un neo da estirpare: l'essersi inserita nel settore elettronico, per
il quale occorrono investimenti che nessuna azienda italiana può
affrontare". Insomma per Valletta la Divisione Elettronica è un ramo
secco, e di quelli da recidere subito.
Secondo Lorenzo Soria l'atteggiamento del massimo rappresentante della Fiat è
comprensibile: la casa automobilistica era infatti simbolo "di un certo
tipo di crescita economica, imperniata sulla produzione di beni tradizionali e
competitivi sui mercati internazionali. Così come era un simbolo, in questo
caso dei settori a tecnologia avanzata, la Divisione Elettronica dell'Olivetti".
Se questo è il 'supporto' che l'establishment economico-industriale dell'epoca
offre al 'modello di sviluppo' proposto dalla società di Ivrea, che dire
dell'atteggiamento della classe politica? Che dire della sua assoluta
incomprensione del carattere strategico che per lo sviluppo futuro può avere la
creazione e il consolidamento di un centro autonomo di ricerca e produzione in
un settore a tecnologia avanzata? Questo atteggiamento apparirà in tutta la sua
evidenza con la crisi della Divisione Elettronica e il suo passaggio a General
Electric.
La crisi
Non è certo facile individuare una motivazione
precisa alla base della crisi in cui cade la società. Sono infatti molteplici i
fattori che concorrono a determinare questa situazione. Anzitutto il grosso
problema di un 'sistema Paese' fortemente arretrato e inadeguato a ospitare
l'attività di una società impegnata a competere sui fronti più avanzati
dell'industria. Ecco come la direzione della società descriveva questa
situazione: "La Olivetti ha dovuto supplire con i propri mezzi
all'inadeguatezza dell'Università e degli Istituti tecnici e creare nuove
qualificazioni e nuove specializzazioni (…) con ripercussioni sia sui tempi di
attuazione sia sui costi dell'intera operazione elettronica. Non vi è dubbio
che i costi e il successo della Elettronica Olivetti sarebbero stati diversi se
la Olivetti si fosse trovata ad operare in un contesto sociale culturalmente più
preparato e sensibile".
Di fronte al crescere delle difficoltà, gli uomini della Divisione Elettronica
si trovarono isolati dalla direzione centrale a Ivrea, ai cui occhi, scrive
Soria, apparivano sempre più come "personaggi fantasiosi che, invece di
lavorare, facevano esperimenti e sprecavano gli utili che venivano realizzati
con le produzioni tradizionali meccaniche". In più il management stesso
della 'Elettronica' era diviso al proprio interno sulle strategie da seguire
(spingere sulla produzione e sullo sviluppo commerciale oppure sviluppare i
programmi di ricerca come premessa di futuri profitti?) con l'effetto di
precipitare la Divisione stessa nel caos: "Mancavano direttive, i
dipendenti, gli impianti e i laboratori erano inutilizzati, la ricerca cadeva
progressivamente in abbandono; i tecnici venivano dequalificati e molti
sentivano in pericolo lo stesso posto di lavoro". Non è più tempo,
insomma, per le utopie di Adriano Olivetti, che sognava l'azienda come una
comunità "dominata dal progresso, guidata dalla giustizia e ispirata dalla
bellezza"…
La crisi di Olivetti diventa così profonda crisi finanziaria, che attecchisce
facilmente sul tessuto ormai fragile della società. "All'inizio dei primi
Anni 60 - scrive Soria - Olivetti aveva una dimensione multinazionale, ritmi di
espansione 'asiatici' (ed era) l'unica azienda italiana presente nel settore
dell'informatica". C'era però una profonda contraddizione tra uno status
di azienda di dimensioni multinazionali e una struttura proprietaria e
manageriale 'ottocentesca' (all'inizio del '64 il 70% delle azioni ordinarie con
diritto di voto era nelle mani dei sei rami dei discendenti Olivetti, per di più
assai divisi tra loro). La fragilità delle basi finanziarie si manifesta fino
in fondo tra il '63 e il '64, quando il brusco rallentamento della domanda (è
il tempo della famosa 'congiuntura'…) comincia a incidere sui risultati
economici della società; il titolo in Borsa prende a scendere e le banche
creditrici cominciano a manifestare il proprio nervosismo. Ad aggravare la
situazione si aggiunge poi il fabbisogno di capitali per gli investimenti
necessari per la ricerca e gli sviluppi produttivi previsti per gli anni
successivi. Proprio le difficoltà a ottenere questi investimenti sono alla base
della perdita di terreno che la società accusa anche sul piano tecnologico.
In questo contesto per più versi drammatico è estremamente eloquente
l'assoluto lassismo del potere politico di allora (si veda invece più oltre
quello che accade negli altri principali Paesi occidentali) che si traduce
inizialmente nel lasciar maturare la crisi, e intervenire successivamente
favorendo, attraverso Mediobanca e l'Imi, controllate dall'IRI, l'ingresso nel
sindacato di controllo di Olivetti del 'salotto buono' dell'imprenditoria
dell'epoca (Fiat e Pirelli) con un ruolo dominante e con l'obiettivo dichiarato
di 'salvare la società'.
Abbiamo già visto, con la dichiarazione di Vittorio Valletta, quale fosse in
realtà il giudizio che i massimi vertici dell'industria nazionale davano del
'progetto elettronico Olivetti'. Non è quindi sorprendente che, pochi mesi dopo
l'ingresso dei nuovi gruppi, e malgrado una repentina ripresa della società,
sia stata presa la decisione di cedere la Divisione Elettronica. Con il
significativo commento della prestigiosa rivista americana 'Fortune': "Mai
salvatori hanno ottenuto tanto rischiando così poco" e il commento dello
stesso Soria: "Emerse subito, a trattative appena iniziate, che per il
gruppo di controllo, e soprattutto per chi lo guidava, Mediobanca e Fiat, la
cessione della Divisione Elettronica sarebbe stata una delle condizioni per
associarsi al capitale della società".
La fine della Divisione Elettronica
Sotto la nuova direzione imposta dal 'sindacato
di controllo' Olivetti inizia a trattare con General Electric con cui,
nell'agosto '64, viene raggiunto un accordo che, attraverso la cessione della
Divisione Elettronica, sancisce la formazione della joint venture
Olivetti-General Electric, in cui Olivetti detiene una quota pari al 25% del
capitale.
General Electric era già allora un colosso finanziario e industriale che
nell'informatica stentava però ad imporsi. Per crescere nel settore la società
americana puntava su una strategia di acquisizione di società concorrenti per
occupare fette di mercato, cominciando in particolare dall'Europa, e più
precisamente dalla francese Bull e dalla Divisione Elettronica di Olivetti.
Assai differente, come annota Soria, fu però il clima politico incontrato dal
colosso americano nei due Paesi. In Francia il suo arrivo sollevò
preoccupazioni e polemiche non solo tra l'opposizione e i sindacati, ma anche da
parte del governo e dello stesso presidente della Repubblica. In Italia invece
la multinazionale trovò le condizioni più adatte, e in particolare sottolinea
Soria, "il silenzio e l'indifferenza del governo". A ciò va anche
aggiunto che pressoché tutti, anche i partiti e i sindacati che avevano visto,
o semplicemente sospettato, il pericolo che correvano l'industria e la ricerca
nazionali, dopo la firma dell'accordo per la cessione della Divisione
Elettronica cambiarono opinione; tra le motivazioni accampate a difesa di questo
mutato atteggiamento la certezza che, all'ombra di un colosso finanziario e
industriale come General Electric, sarebbe stato più facile contendere il
mercato a IBM, a tutto vantaggio del posto di lavoro dei dipendenti.
Non ci volle molto per verificare la scarsa fondatezza di queste speranze. Nel
'65 la quota di mercato di General Electric era risibile (2,21% contro il 73,6%
di IBM); un anno dopo le perdite del suo settore elettronico ammontavano a 100
milioni di dollari, "perdite talmente pesanti - commentava Fortune - da
mettere in difficoltà l'intero gruppo". Da qui presero il via pesanti
riduzioni di organico, mancati turnover, dimissioni volontarie.
Un anno dopo Olivetti decideva di cedere la sua quota di minoranza alla General
Electric, che nel '70 vendeva alla Honeywell la sua Information System,
comprendente la ex Divisione Elettronica Olivetti. Al momento di formalizzare
questo passaggio la società americana, con estrema correttezza, informò il
Governo italiano di quanto stava accadendo e chiese il suo benestare. L'allora
Presidente del Consiglio, ricorda Soria, "occupato a seguire le vicende del
trasferimento di un gruppo di insegnanti raccomandati" rispose che non
c'era bisogno di alcun permesso, dichiarando quanto segue: "Si tratta di
una società privata: può fare quello che vuole".
Intanto, negli altri Paesi…
Mentre il Governo italiano assisteva con
indifferenza alla cessione della Divisione Elettronica di Olivetti e alle
successive vicende, nei principali Paesi industrializzati si dava il via a
politiche di sostegno delle rispettive industrie operanti nel settore
elettronico e soprattutto informatico. L'obiettivo era quello di porre le
industrie nazionali nella condizione di acquisire le tecniche di progettazione
più avanzate per poter competere con i maggiori gruppi multinazionali in un
settore che tutti (tranne, come si è visto, i vertici politici e industriali
del nostro Paese…) giudicavano di importanza fondamentale. Di qui una serie di
misure di grande impatto: commesse assegnate per ricerche particolari in ambito
militare e sociale, iniziative per la formazione professionale e tecnica,
sovvenzioni a fondo perduto come contributo per la ricerca e lo sviluppo,
prestiti a tasso agevolato e così via.
Certo, ragionando a posteriori sulle vicende vissute da alcune delle società 'beneficiate',
per esempio Bull in Francia e ICL in Gran Bretagna, si può notare come tutte
queste iniziative non siano riuscite a evitare il progressivo declino di queste
società. E tuttavia, osserva Soria, "la semplice valutazione del conto
economico delle singole imprese, il computo dei costi e dei ricavi, sono un modo
riduttivo e limitante per valutare i risultati ottenuti in un'industria, quella
informatica, così complessa e difficile". Sembra più opportuno invece
valutare gli effetti indotti da queste misure sull'intero tessuto sociale e
industriale di questi Paesi. Il fatto per esempio che in alcuni Paesi europei,
già nei primi Anni 70 si sia cominciato a introdurre l'informatica
nell'educazione di base di ogni cittadino (vedi in Germania il 'Programma
Informatica '71-'74', con sovvenzioni per l'industria nazionale del settore e la
costituzione di centri di calcolo nelle scuole e nelle università e programmi
di 'decentralizzazione amministrativa automatizzata'); oppure la costituzione in
Francia di un istituto come l'Inria (Institut de recherche en informatique et en
automatisme) che diventerà negli Anni 80 e 90 una vera e propria fucina di
talenti e di iniziative imprenditoriali nel campo del software, tali da dotare
la Francia di un sistema di società di servizi ancora oggi di assoluto rilievo
internazionale; oppure ancora l'istituzione di organismi e meccanismi
amministrativi nati con il compito di definire una politica coerente di
equipaggiamento dell'amministrazione pubblica e di favorire i prodotti
nazionali. Per non parlare di iniziative, come quella del dicembre '66, con cui
il governo francese decise di creare una vera e propria società di bandiera, la
CII, sovvenzionata da un apposito piano quinquennale con finanziamenti per
contratti di studio e ricerche del valore di 400 milioni di franchi e prestiti
agevolati per altri 125.
Altro clamoroso esempio è quello del Giappone: "Nel 1960 di industrie
giapponesi in grado di costruire un elaboratore non ce n'era neanche una",
nota Soria, che si chiede anche: "come è stato possibile allora, in
neppure un decennio, arrivare a controllare il 70% del mercato nazionale e
mettere in guardia perfino l'IBM?". Grazie all'iniziativa del governo
nipponico che operando attraverso il Miti (il potentissimo Ministero per
l'industria e il commercio con l'estero) attivò, oltre a una serie di misure
assai discutibili di tipo protezionistico, un imponente pacchetto di programmi
nazionali per la ricerca e sviluppo, favorendo le iniziative di concentrazione
degli operatori nazionali del settore e istituendo un complesso di enti e
organismi incaricati di formulare progetti e piani di ricerca con l'obiettivo di
alimentare il mercato a favore dei fornitori nazionali.
Il 'Programma finalizzato per l'elettronica'
Devono passare ben dieci anni prima che si veda
finalmente anche da noi, è l'inizio degli Anni 80, un'iniziativa di respiro
indirizzata all'elettronica e all'informatica. È il 'Programma finalizzato per
l'elettronica' che assegna all'informatica 225 miliardi di sovvenzioni,
contributi e crediti agevolati alla ricerca e lancia una serie di iniziative nel
campo della formazione e della ricerca pubblica. "Siamo però ben lontani
da un programma che mira a recuperare quel ritardo tecnologico che separa
l'Italia dagli altri Paesi industrializzati" commenta Soria. Manca
qualsiasi integrazione tra il Programma e la ricerca universitaria e manca
qualsiasi indicazione sul software e i programmi applicativi (con effetti
evidenti sull'assetto del comparto software e servizi del nostro Paese).
Nel frattempo Olivetti ha cambiato pelle: dell'antica famiglia Olivetti resta
solo il nome. Nel '78 arriva infatti ai vertici della società Carlo De
Benedetti, che porta il capitale sociale da 60 a 200 miliardi di lire. I
prodotti a tecnologia elettronica, agli inizi degli anni '80, contribuiscono al
fatturato della società per quasi il 60 per cento. Il fatturato cresce e nel
'78 raggiunge i 1.555 miliardi con oltre 60 mila dipendenti. Restano però i
problemi, soprattutto finanziari: ogni 100 lire fatturate, quasi 10 se ne vanno
per pagare gli oneri finanziari. E poi i problemi commerciali, con una forza
vendita da riciclare in tutta fretta: 'piazzare' una macchina per scrivere è
ben diverso dal vendere un sistema informatico. E infine i problemi produttivi e
di strategia, con gli enormi investimenti necessari per la ricerca e
l'avviamento di nuovi prodotti.
E tutto senza alcun supporto pubblico, come ripetutamente sottolinea De
Benedetti: "Non si comprende perché il denaro pubblico si rivolga così di
frequente verso investimenti senza ritorno ed escluda invece da ogni
considerazione un settore che in tutto il mondo è considerato in primario e
accelerato sviluppo (…). Non chiediamo favoritismi o forme nascoste di
protezionismo. Chiediamo unicamente condizioni ambientali analoghe a quelle
nelle quali operano i nostri concorrenti".
E qui si ferma il libro di Soria, che potremmo idealmente continuare fino ai
giorni nostri. Dovremmo così descrivere un'Olivetti progressivamente svuotata
della sua missione originaria (malgrado gli sforzi di Vittorio Cassoni e di
Elserino Piol per cavalcare l'ondata degli open system nei primi Anni 90) e
infine, proseguendo nella sua traiettoria discendente, persino accusata di aver
fornito apparecchiature obsolete a un ente pubblico.
Quale lezione trarre da questa affrettata cavalcata su vent'anni di storia dell'Olivetti
e sui rapporti tra 'sistema Paese' e un settore industriale a forte innovazione
tecnologica? Il lettore tragga la sua morale. Col senno di poi, qualcuno
potrebbe anche arrivare a scambiare per opportuno 'non interventismo' il totale
assenteismo dei nostri governanti, attribuendo così loro un'anima 'liberale',
anima che, come ognuno sa, gli stessi dimenticarono però di avere in
innumerevoli altri casi e soprattutto nel loro rapporto con i settori più
potenti, tradizionali e arretrati dell'economia nazionale. Abbiamo visto come
siano molteplici le componenti che hanno concorso alla crisi di quello che forse
resta il più ambizioso tentativo di inserire il nostro Paese ai vertici
dell'industria high-tech. È difficile ricondurre queste componenti a un
discorso unitario che possa spiegare come questa vicenda abbia poi pesato su
tutta la storia della nostra industria IT fino ai giorni nostri. Ci ha provato
Soria, che scrive: "Sono convinto che il nodo da sciogliere sia un nodo
politico. E che sia questo il motivo per cui il progetto di Adriano Olivetti ha
fatto la fine che ha fatto: nessuno ha saputo dire no al ruolo subalterno in cui
la divisione internazionale del lavoro ha relegato il Paese. L'informatica è
solo uno dei tanti episodi che confermano questa emarginazione".
Olivetti story 1955 Su incarico di Adriano Olivetti, Mario Tchou organizza il gruppo dei tecnici che lavorano nel laboratorio di Barbaricina. Nel 1958, per la successiva fase di industrializzazione, le attività sono trasferite nel milanese, a Borgolombardo. 1959 In produzione il primo elaboratore elettronico italiano costruito in serie e a transistor: l'Elea 9003. 1960 Muore Adriano Olivetti e l'anno seguente scompare in un incidente d'auto anche Mario Tchou. La crisi industriale dei primi anni sessanta e il forte impegno finanziario per risanare la società di macchine da scrivere americana Underwood porteranno Olivetti sull'orlo del tracollo. 1962 Entra in funzione il parco tecnologico di Pregnana, progettato dall'architetto Le Corbusier. Olivetti concentra le attività di produzione e ricerca nell'elettronica nei due siti di Pregnana e Caluso. Attorno a essi si sviluppa un forte indotto industriale. Le società più importanti sono SGS, che opera nella componentistica elettronica e Zincocelere prima azienda italiana nei circuiti stampati. 1962 Nasce l'Elea 6000, un elaboratore di medie dimensioni orientato al calcolo scientifico. 1964 Per uscire dalla crisi Olivetti cede le attività della Divisione Elettronica a General Electric (GE). Nei mesi seguenti nasce Olivetti-General Electric (OGE), società partecipata al 75% da General Electric e al 25% da Olivetti di cui è presidente Attilio Cattaneo e direttore generale Ottorino Beltrami. Nel '68 con la cessione della residua quota Olivetti, OGE diviene General Electric Information Systems Italia; dal 1970, con l'uscita di GE dai computer, diventa Honeywell Information Systems Italia. 1965 Nasce la calcolatrice programmabile Olivetti Programma 101: un personal computer 'ante litteram' dotato di memoria a schede magnetiche. Abbandonati i grandi calcolatori, Olivetti torna a impegnarsi con successo nelle calcolatrici da ufficio, avviando una lenta ma progressiva conversione dalla tecnologia meccanica all'elettronica. 1978 Carlo De Benedetti assume la responsabilità operativa di Olivetti guidandone la ristrutturazione industriale e la riconversione nell'elettronica. 1982 Olivetti introduce l'M20, il primo personal computer italiano, basato sull'antesignano dei processori a sedici bit, Zilog Z8001, e dotato dei sistemi operativi PCOS e CP/M. 1983 Olivetti si allea con AT&T. La collaborazione porterà al lancio di nuovi computer in ogni fascia di mercato e all'avvio di nuove attività nel campo dei servizi informatici. 1984 Nasce l'M24, il primo personal IBM-compatibile di Olivetti basato sul sistema operativo MS-DOS. 1990 Il 19 giugno nasce Omnitel Sistemi Radiocellulari Italiani. Nel capitale ci sono: Olivetti, Bell Atlantic International, Cellular Communication International, Telia International e Lehman Brothers. 1995 Nasce Infostrada. 1997 Olivetti cede le attività nel campo dei personal computer a Piedmont International. 1998 Olivetti cede a Wang Global le attività nel campo dei servizi. 1999 Divenuta una holding di partecipazioni nel settore delle telecomunicazioni, Olivetti lancia in primavera, sotto la guida di Roberto Colaninno, la scalata a Telecom Italia. |
Elserino Piol: "Il silenzio dei governi e la solitudine del settore informatico nazionale"
Piol racconta quarant'anni di storia dell'ICT 'made in Italy'. Dall'Elea a Tiscali, un solo filo conduttore: l'assenza del sistema Paese
Erano i primi di maggio del '59 quando Elserino
Piol assunse il compito di rafforzare la presenza Olivetti sul mercato USA.
Forse fu proprio il contatto con il Paese dell'high-tech per antonomasia a
dargli quella particolare sensibilità per le idee innovative di cui, nella sua
quarantennale carriera nel settore, Piol ha dato a più riprese dimostrazione.
Per esempio a metà degli Anni 70, quando scrisse a Marisa Bellisario
sollecitando una maggior attenzione dell'Olivetti al fenomeno allora emergente
del personal computer (per la cronaca gli fu risposto che "Olivetti non era
interessata al business degli hobby computer"); oppure come quando lanciò
nel '93 Italia On Line, la prima significativa iniziativa Internet nel nostro
Paese; o infine, è cronaca dei giorni nostri, con il contributo determinante da
lui dato al lancio e all'affermazione del 'fenomeno Tiscali'.
Quale miglior testimone e 'ponte ideale' di collegamento tra gli anni della nascita dell'informatica italiana e i giorni nostri?
Ho incontrato Piol per un paio di ore di un
sabato pomeriggio, in una stanza dello studio milanese di Pino Venture Partners,
società di venture capital che costituisce una delle attività in cui Piol è
oggi maggiormente impegnato: sono 34 le nuove società che in un solo anno Piol
ha contribuito a lanciare sul mercato di Internet e delle tlc. Sulla scrivania
di Piol innumerevoli ritagli di giornali finanziari, report sul mercato delle
telecomunicazioni, e soprattutto molta posta ancora inevasa: "Tra quelle
lettere - dice Piol - so per certo che ci saranno almeno 10, 15 richieste di
finanziamento per idee di business su Internet. Io rispondo a tutti - tiene a
precisare - anche se molte di queste proposte sono rudimentali". Da chi
arrivano queste lettere? "Per lo più da giovani che non hanno capito che
non basta l'idea se non si sa a che mercato ci si rivolge, quali professionalità
servono, quali sono i ricavi attesi. Solo se l'idea è davvero valida cerchiamo
di aiutarli".
Piol è reduce da Udine, dove è stato invitato a parlare a un convegno
sull'imprenditorialità giovanile organizzato dalla Fiera locale. Anche lì,
come spesso gli è accaduto in quarant'anni di 'militanza' nel settore, confessa
di essersi sentito un po' come la classica 'voce che predica nel deserto'.
Racconta di aver parlato di Internet e dei nuovi mercati nati dall'evoluzione
dell'industria dell'ICT e di averne parlato come della più seria prospettiva di
occupazione o di attività imprenditoriale per i giovani; con il solo effetto,
racconta, di aver suscitato la presa di distanze da parte degli altri relatori,
tutti molto cauti ("Internet? Una bolla speculativa che presto si esaurirà"
e così via) e impegnati solo a difendere l'importanza e la solidità delle
attività tradizionali (i mobili, il tessile e così via) in cui da decenni
padri e nonni di questi giovani sono impegnati.
La chiacchierata con Elserino Piol comincia dal passato, un passato che è
ancora vivo nella memoria del nostro interlocutore, al punto che ogni tanto,
ricordando qualche episodio, la sua voce sale di tono, e assume una forte verve
polemica. "Mi ha sempre stupito la scarsa presa di coscienza che in Italia
banche, governi, e istituzioni di ogni tipo hanno sempre mostrato nei confronti
dell'IT. La cosa è tanto più evidente di fronte alla grande attenzione che
invece circonda le telecomunicazioni di oggi, che come si sa, sono però figlie
proprio dell'IT. Certo oggi Internet sta cambiando qualcosa, ma se oggi si
chiedesse al governo, alle banche e ai sindacati: è più importante l'industria
dell'automobile o quella dell'ICT, cosa crede che risponderebbero"?
Ci può indicare allora qualche momento in cui questa assenza di Governo e istituzioni economiche è apparsa con particolare evidenza?
L'intera storia dell'Olivetti è ricca di episodi del genere. Possiamo partire addirittura dalla nascita del 'progetto elettronica', alla fine degli Anni 50, quando la società fu lasciata assolutamente sola, mentre i suoi concorrenti, in Europa e oltreoceano, godevano del più ampio sostegno. Possiamo poi andare al 1964, quando l'Olivetti si trovò in crisi finanziaria. Allora era un'azienda già lanciata nell'informatica, con prodotti validi e ricerca molto avanzata, anche se gestita in modo discutibile: scarsa attenzione ai conti economici, una certa supponenza e qualche spreco. Di fronte all'alternativa tra continuare a produrre macchine per scrivere o consolidare la scelta informatica, stimolando gli investimenti necessari, Governo, partiti, istituzioni finanziarie e industriali del Paese operarono attivamente per contrastare il 'progetto elettronico' Olivetti, senza capire che il futuro non solo di Olivetti ma dell'intero Paese poteva stare proprio da quella parte. Così la Divisione Elettronica fu ceduta.
Quelle furono le prime occasioni in cui Olivetti dovette fare da sola. Cosa è successo negli anni seguenti?
All'Olivetti è sempre mancato un supporto strategico, ripeto sempre; come altre aziende di altri settori Olivetti ha goduto certo in qualche occasione di sovvenzioni, ma non è mai stata vista come un'azienda strategica, un patrimonio nazionale con un ruolo importante sullo scenario internazionale e intorno alla quale occorreva quindi creare un'atmosfera e delle condizioni tali da permetterle di operare al meglio. Certo in questo può aver giocato il fatto che a volte alla guida della società si sono trovate forti personalità, spesso poco in sintonia con i governi e l'establishment dell'epoca. Quel che è certo è che se si vanno a vedere le percentuali di forniture che governi e amministrazioni pubbliche di tutta Europa garantivano alle rispettive industrie IT nazionali e le si confronta con quel che accadeva in Italia nei confronti di Olivetti si vede la differenza...
C'è qualche episodio che ci può ricordare come indicativo di questa situazione?
Ci sono due episodi che rivelano non soltanto il distacco della politica governativa dall'Olivetti e dalla sua strategia, ma addirittura quasi un atteggiamento di ostilità nei confronti della società. A fine degli anni '80, con l'intento di costituire un polo nazionale dell'IT, Olivetti avanzò la proposta di una sua fusione con Finsiel, allora controllata dall'IRI. Come rispose il Governo? Portando Finsiel al sicuro sotto l'ombrello della finanziaria Stet, che con l'IT non c'entrava proprio nulla. Un altro episodio avvenne intorno all'83, con l'accordo tra Olivetti e AT&T; a distanza di qualche mese l'allora presidente dell'IRI Romano Prodi annunciò un accordo tra Stet e IBM. Dietro questo accordo non c'era alcuna strategia e alcun obiettivo: era soltanto una reazione all'iniziativa di Olivetti, come se questa avesse disturbato qualche assetto particolare e andasse quindi contrastata.
In generale il nostro Paese ha sempre avuto, e tanto più oggi ha, un peso marginale nello scenario internazionale dell'industria IT. Lei ricorda dei momenti in cui invece la tecnologia e l'industria italiana hanno avuto un ruolo di punta in questo scenario?
Nel 1965 dall'Olivetti è uscito il P101 (Programma 101) che potremmo definire il primo pc nella storia dell'IT, ma la cosa non ebbe assolutamente il rilievo che avrebbe meritato, sia per un'inadeguata spinta da parte della stessa Olivetti sia soprattutto, tanto per cambiare, per l'assenza di qualsiasi sostegno nel Paese. Il P101, quasi ignorato in Italia, ha avuto invece grandi riconoscimenti negli USA: il primo importante ordine di P101 l'Olivetti lo ebbe proprio dagli Stati Uniti, dall'HP, che due anni dopo realizzò un sistema di calcolo, il 9100, che era sostanzialmente un P101 ottimizzato. Ricordo che HP pagava delle royalty a Olivetti per poter utilizzare nel suo sistema la scheda magnetica del P101.
E dopo il Programma 101, c'è stato qualche altro momento di 'picco' dell'IT nazionale?
Certamente. Nel 1984, con l'Olivetti M24. Era un personal computer superiore per molti aspetti al pc IBM e ai compatibili IBM che utilizzava sì un processore Intel ma di maggior potenza; la Compaq fece una macchina simile all'M24 più di un anno dopo. Ma qual è stato il giudizio dato in Italia dell'M24 e del suo carattere innovativo? Ricordo, tra l'altro, che gli stessi giornali specializzati italiani di allora, più che mettere in risalto le caratteristiche innovative dell'M24 sottolinearono il rischio che proprio queste caratteristiche potessero mettere il pc di Olivetti fuori mercato; videro insomma un limite nel fatto che l'M24 non fosse fino in fondo un perfetto 'clone' del pc IBM.
Insomma si può dire che una costante di tutta la storia dell'Olivetti è la sua, diciamo così, 'solitudine', la mancanza di una cultura e di un assetto adeguato del sistema Paese alle spalle...
Sì, ma vorrei anche sottolineare che l'assenza di sensibilità verso l'Olivetti ha inciso negativamente sulla crescita dell'intero settore IT nel nostro Paese. Ha inciso per esempio sullo scarso sviluppo di un comparto vitale come quello del software e dei servizi, mentre nell'indifferenza generale la domanda pubblica di IT veniva monopolizzata da Finsiel. L'Olivetti ha saputo in parte compensare questa situazione con una quota rilevante di esportazioni, largamente superiore a quella dei suoi principali concorrenti europei. E comunque questa scarsissima coscienza dell'importanza dell'industria ICT è una costante che in Italia continua ancora oggi.
Amarcord... Abbiamo chiesto a Elserino Piol di ricordare gli uomini che hanno dato lustro, dal punto di vista imprenditoriale e manageriale, all'industria ICT nazionale. Ecco le sue risposte: ROBERTO OLIVETTI CARLO DE BENEDETTI VIRGILIO FLORIANI PIERGIORGIO PEROTTO |
Eppure di Internet oggi si parla in TV e persino negli editoriali dei maggiori quotidiani nazionali. E poi non le pare di vedere nell'interesse verso le telecomunicazioni e nella liberalizzazione di questo settore una nuova tendenza? Nella Finanziaria, poi, si parla per la prima volta di incentivi per l'e-commerce e la scolarizzazione informatica...
Certo si può notare una nuova, generica attenzione per le tlc e per Internet, ma non al punto da convincermi che sia maturata la coscienza del fatto che l'industria ICT oggi è l'industria più importante nel mondo, che cresce facendo nascere nuove aziende e nuove iniziative e creando un gran numero di posti di lavoro. Le tlc cominciano a trovare attenzione da noi perchè si tratta di tecnologie pervasive, ma anche perchè in questo settore opera Telecom Italia e questo ha un forte impatto sulla politica del nostro Paese e sul Governo. Ma, attenzione, quando si parla di Internet bisogna ricordare che ha fatto molto di più per Internet il signor Soru con Tiscali che non i governi e l'intera politica italiana.
Il nostro Paese, lo si dice da tutte le parti, è ricco di capitali in cerca di idee nuove e di nuovi imprenditori da finanziare. Ma queste idee ci sono davvero in giro? C'è davvero un nuovo spirito imprenditoriale? Nella sua attività di venture capitalist lei ne vedrà di certo...
La risposta è complessa: sinteticamente però direi no, o meglio non ancora. Vedo pochi nuovi imprenditori e poche iniziative nel settore, al punto che molti nostri investimenti li abbiamo fatti creando di fatto noi le aziende. Già nell'ultimo anno però in Italia molto è cambiato. Tiscali è un fenomeno da vedersi non come un successo fine a se stesso ma come indicazione che la strada dell'innovazione è possibile e paga finalmente anche da noi. Soru è partito con l'idea, ha costruito un'azienda, è diventato multimiliardario. L'Italia ha bisogno di esempi forti come questo per darsi una scossa.
Si dice anche che Internet sia un grande 'equalizzatore', un momento di 'rimescolamento delle carte' e di ridefinizione della presenza delle diverse industrie IT nazionali e degli equilibri del settore. Insomma, detto in termini forse un po' banali: anche in Italia potrebbe nascere qualche Silicon Valley?
Andiamoci piano. Anche qui infatti c'è un problema di cultura che separa l'Italia, forse tutta l'Europa, dalla Silicon Valley. Il primo punto di differenziazione riguarda quella che chiamo la 'tolleranza per il fallimento': in USA chi fa innovazione ma fallisce - perchè ha anticipato i tempi, perché è stato troppo aggressivo nella sua proposta ecc. - può sempre riprovarci, perché troverà chi gli darà e gli farà ancora credito. Chi ha delle idee innovative in Italia ha paura di rischiare e di bruciarsi per sempre. Il secondo punto riguarda il rapporto tra l'imprenditore e l'azienda stessa. Da noi chi ha l'idea di business che fa nascere una nuova azienda vuole anche 'fare il padrone'; negli USA le cose non stanno così: anche se sono io con una mia idea a far nascere un'azienda, a capo di questa azienda ci può stare un altro: c'è quindi una 'tolleranza per un certo caos o ricambio organizzativo'. E poi da noi c'è l'idea dell'azienda come investimento per garantire il futuro dei propri figli e dei nipoti, e non si capisce che le aziende non sono eterne, ma hanno un ciclo di vita, che deve anche prevedere la fine di questo ciclo.
Tenendo conto della storia, delle tradizioni e del DNA culturale dell'imprenditoria nazionale, in quali aree dell'ICT lei vede qualche particolare potenzialità per il nostro Paese?
Malgrado tutto l'Italia resta un Paese di imprenditori, a cui mancano solo alcuni esempi di riferimento, come Tiscali, che possano tracciare un trend e seminare nuove iniziative. Questo, secondo me, può succedere nell'area delle applicazioni aziendali, business to business, per il commercio elettronico su Internet. È un settore non ancora pienamente decollato, ma è questo il futuro a breve termine di Internet.
Perché lo ritiene un settore ancora non pienamente maturo?
Perché per decollare pienamente credo che debba ancora superare una fase di 'bagno aziendale'. Mi spiego: sta succedendo per Internet quello che accadde 20 anni fa al pc. Quando sono nati, i personal computer si chiamavano in realtà hobby computer; poi IBM annunciò il suo pc e questo cominciò a entrare nelle aziende, diventando così più robusto, affidabile e professionale, sia nella componente hardware sia in quella software. Il 'bagno aziendale' ha trasformato il pc da strumento hobbistico in uno strumento professionale, in un vero prodotto. Per Internet oggi accade qualcosa di analogo: le applicazioni per Internet stanno entrando nelle aziende e questo dà uno spessore nuovo al software. Così l'offerta si sta irrobustendo e molta più gente, anche all'interno delle aziende utenti sta lavorando su Internet. È così che la cultura su Internet si diffonde.
E tornando alle opportunità per le aziende italiane?
Se gioca bene le sue carte, il nostro Paese può recuperare posizioni. Non dimentichiamo la spinta che può venire dall'enorme numero di piccole e medie imprese, che grazie a Internet e all'e-commerce business to business potranno uscire dal loro localismo e guadagnare in visibilità sui mercati internazionali. È una grande occasione che se giocata bene ci potrà portare non dico al livello degli Stati Uniti ma almeno alla pari degli altri Paesi europei. Su questo sono ottimista. L'unico problema che vedo, e che potrebbe costituire un vincolo per il pieno decollo di Internet, sta nell'inadeguatezza delle infrastrutture che dovranno reggere gli investimenti delle aziende su Internet. Questo dipende in buona parte dalle politiche governative e istituzionali, e se penso a quello che è venuto fino ad oggi da quel fronte, faccio davvero fatica a essere ottimista.
Cosa ci riserva il futuro?
Bill Gates
Chairman e CEO di Microsoft
Fino a questo momento non abbiamo visto ancora nulla di quello che la tecnologia informatica può fare. Tra dieci anni il pc sarà un piccolo schermo che si potrà tranquillamente portare in giro oppure che si troverà incastonato nel piano di una scrivania e che servirà per visionare lettere e documenti. Il concetto di archivio, così come lo intendiamo oggi - pile di documenti di carta -, risulterà antiquato. Oggi anche quelli di noi che ricorrono alla tecnologia il più possibile continuano a mettere su carta molte cose: tra non molto i progressi nel campo dell'hardware e del software renderanno tutto ciò puramente digitale. Le innovazioni saranno comunque molte. Per esempio lavoreremo con computer che condivideranno i dati e saranno sempre collegati a Internet. Non sarà più necessario spostare i dati: semplicemente i nostri file compariranno. Credo che nel giro di dieci anni i libri, la musica e le fotografie saranno tutti in formato digitale. L'intero ciclo che parte dall'autore del libro e arriva fino al lettore sarà digitale. La gente si stupirà quando si troverà davanti a un modulo di carta. Sono disposto a giocare la mia reputazione, ma credo fermamente che nei prossimi dieci anni qualsiasi modulo di carta sparirà. Chi baserà il suo lavoro principalmente sui dati avrà a disposizione un computer, un dispositivo contenente un processore dalla potenza incredibile, in grado di fornire risposte immediate: si porterà questo dispositivo appresso, per esempio a una riunione, e tutte le informazioni saranno lì. Non ci sarà neppure bisogno di pensare a dove si troveranno effettivamente le informazioni; basterà sapere che quando si accenderà il computer, a casa o in ufficio, i propri file saranno lì. I computer saranno in grado di replicare le informazioni e, quando verranno lanciati degli aggiornamenti, i dati raggiungeranno tutti i computer e tutte le applicazioni. I sistemi operativi si occuperanno dell'autenticazione e del riconoscimento vocale. E a nessuno interesserà sapere dove risiederà il server.
Ray Kurzweil
Ha brevettato diverse
tecnologie hardware e software, fondato una decina di società d'informatica,
scritto tre libri e vinto diversi premi letterari e scientifici.
Da anni è impegnato nella progettazione di prodotti per i disabili
Entro il 2019 un computer da 1.000 dollari avrà la stessa potenza di calcolo del cervello umano: 20 milioni di miliardi di operazioni al secondo. Entro il 2029, 1.000 dollari di computer equivarranno a 1.000 cervelli. Questo riguarda le capacità dell'hardware. Il software impiegherà di più, ma nel 2029 saremo in grado di pareggiare la flessibilità e l'intelligenza del cervello umano. In parte questo avverrà effettuando il 'reverse engineering' del cervello. Una volta raggiunto un livello di intelligenza comparabile a quella umana, i computer la surclasseranno necessariamente perché in grado di condividere con estrema facilità le proprie conoscenze e le abilità che hanno appreso. Personalmente penso che il mondo dell'intelligenza umana e quello delle macchine cominceranno a crescere assieme. Piazzeremo impianti neurali intelligenti nei nostri cervelli per migliorare le nostre capacità sensoriali e le nostre percezioni, la memoria e le facoltà di ragionamento. In effetti lo stiamo già facendo, anche se in modo molto limitato. Saremo anche capaci di collegarci al Web direttamente con il cervello, senza bisogno di apparecchiature esterne, e la realtà virtuale sarà molto più convincente della versione molto rudimentale che ci è dato sperimentare oggi
In collaborazione con COMPUTER WORLD