In uno speciale,Informatica World vi descrive tutta la storia dell'Informatica ITALIANA ,dal 1950 al 2000


Dall'Elea al primo 'personal computer', gli anni d'oro della tecnologia italiana

Il primo computer italiano? Nasce nel 1954 presso l'Università di Pisa

L'occasione perduta: la breve storia della Divisione Elettronica Olivetti

Elserino Piol: "Il silenzio dei governi e la solitudine del settore informatico nazionale" Piol racconta quarant'anni di storia dell'ICT 'made in Italy'. Dall'Elea a Tiscali, un solo filo conduttore: l'assenza del sistema Paese 


Lo sapevate che…

...il vero padre del Macintosh è Jeff Raskin e non, come comunemente si crede, Steve Jobs?
...l'informatica italiana è nata da una lettera del Nobel per la fisica Enrico Fermi?
...il colosso mondiale dei servizi EDS è nato grazie a un prestito di 1.000 dollari che il suo fondatore Ross Perot, dopo il rifiuto di IBM, ottenne dalla moglie?
...la prima intranet fu sviluppata nel 1975?
Queste e altre storie sono al centro di questo numero Speciale di Computerworld Italia.
Realizzando questo Speciale ci siamo convinti che anche la storia dell'Information Technology sia fatta di tante 'microstorie' (eventi quotidiani e scelte compiute da singoli o da gruppi di individui) che si innestano sui grandi trend tecnologici ed economici, spesso orientandone, almeno nel breve periodo, l'andamento. È stato questo il filo conduttore che ha guidato la prima parte della nostra ricerca e che speriamo possa rendere più fruibili e comprensibili al lettore anche non specializzato i grandi eventi degli ultimi 50 anni di storia dell'informatica.
Prima di cominciare a lavorare a questo Speciale eravamo anche convinti che il contributo dato dal nostro Paese a questa storia spesso appassionante sia stato e tanto più oggi sia, povera cosa. Strada facendo ci siamo accorti che non è stato proprio così, e che la tecnologia italiana, almeno nel periodo tra la fine degli Anni 50 e i primi Anni 60 ha toccato livelli di assoluta eccellenza. Abbiamo allora cercato di ricostruire con l'aiuto di alcuni protagonisti dell'epoca, la storia e l'atmosfera di quel periodo e di delineare le ragioni del declino successivo, declino che oggi si spera possa essere cancellato dall'onda montante di Internet e dall'avvento di quella net-economy che secondo molti osservatori così ben si adatterebbe ad alcune caratteristiche storiche e strutturali della nostra economia.
Buona lettura!

Paolo Lombardi e Marco Tennyson


Dall'Elea al primo 'personal computer', gli anni d'oro della tecnologia italiana

Come nasce e si sviluppa l'industria informatica italiana, nel racconto di un protagonista: Franco Filippazzi

Nella storia dell'informatica c'è stato un momento nel quale l'iniziativa e la capacità di poche persone hanno consentito di conseguire risultati importanti sul piano della ricerca, delle tecnologie e dell'industria. Si è trattato di un periodo durato all'incirca un decennio, a cavallo tra gli Anni Cinquanta e Sessanta, nel quale nacque e si sviluppò, anche con notevoli successi, l'industria informatica italiana dando cospicui contributi allo sviluppo della nuova scienza e alla diffusione della medesima presso università e aziende.
Tutto ebbe inizio intorno alla metà degli Anni Cinquanta quando, per iniziativa dell'imprenditore Adriano Olivetti, un piccolo gruppo di ingeneri, fisici e matematici si trovò a lavorare insieme a Barbaricina, nei pressi di Pisa, nel Laboratorio Ricerche Elettroniche di Olivetti. Il Laboratorio nasceva nell'ambito di una collaborazione che l'azienda d'Ivrea aveva stretto con l'Università di Pisa allo scopo di realizzare una calcolatrice elettronica. Dal progetto avrebbe preso vita l'Elea, il primo calcolatore commerciale prodotto in serie in Italia, primo in Europa a utilizzare come elementi attivi i transistor.
Al gruppo di pionieri che parteciparono a questa avventura appartiene Franco Filippazzi, classe 1926, laurea in Fisica a Pavia, oggi impegnato, dopo una esperienza di docente, come consulente AICA e come coordinatore nazionale del progetto ECDL per la patente informatica europea (www.ecdl.com). In Olivetti dal '55, Filippazzi lavorò nei laboratori di Barbaricina e Pregnana Milanese, prima con Olivetti, poi con le aziende americane che in seguito subentrarono: General Electric e in seguito Honeywell.

Come arrivò in Olivetti e chi erano gli uomini che lavoravano con lei a Barbaricina?

Arrivai in Olivetti nel '55 rispondendo a un annuncio sul giornale, nel quale Olivetti cercava una terna di fisici, matematici e ingegneri. Fui intervistato da Mario Tchou che era il coordinatore del gruppo.
A Barbaricina eravamo tutti giovani tra i 25 e i 32 anni, alcuni neo-laureati e con limitate esperienze di lavoro. Io avevo svolto una tesi teorica di fisica nucleare e dopo un anno come assistente mi ero interessato all'elettronica, campo nel quale avevo acquisito esperienza nella progettazione di strumenti di misura. Nel gruppo c'era Galletti, che veniva dalle televisioni, ma nessuno di noi sapeva cosa fosse un calcolatore. L'unico era Sacerdoti, l'architetto del sistema Elea, che aveva fatto esperienza su un calcolatore Mark I di Ferranti.
Io facevo parte del gruppo di elettronica di base che costruiva i blocchi logici elementari e la memoria che gli altri utilizzavano. Tra noi non c'era competizione, ci univa la passione e lavoravamo senza orari, in un clima tipico degli ambienti nei quali si fa ricerca.
C'era collaborazione e senso di avventura. Per noi il calcolatore era un oggetto misterioso, una sfida intellettuale, prima ancora che un prodotto industriale. Non avevamo idee sul futuro ma intuivamo che la nuova tecnologia aveva un potenziale rivoluzionario.

Come nacque l'Elea e quale fu il suo personale contributo al progetto?

Ci fu subito una chiara distinzione tra il progetto per il calcolatore dell'Università di Pisa e quello per la versione commerciale voluta da Olivetti, che poi fu l'Elea (da Elaboratore Elettronico Automatico). Non c'erano grandi differenze tra le due macchine se non per il fatto che la prima, destinata all'impiego scientifico, aveva parole logiche più lunghe. In seguito la macchina dell'Università fu realizzata con i tubi (valvole, ndr), mentre il sistema Olivetti, per essere competitivo, fu riprogettato a transistor.
Io mi occupai in particolare della memoria a nuclei magnetici, introdotta in quegli anni da Forrester, progettista presso il MIT di Boston. Il primo brevetto che registrammo a Pisa riguardò la selezione dei nuclei per anticoincidenza, un metodo che ci consentiva di ridurre la circuiteria di controllo.

Quali erano i punti di riferimento per chi in quegli anni lavorava nella progettazione dei computer? Si guardava come oggi ai concorrenti, come per esempio a IBM?

In Italia non c'era nulla. I nostri punti di riferimento erano i centri universitari inglesi e americani che potevano darci aiuto dal punto di vista teorico. C'era aperta collaborazione con le università, soprattutto inglesi. L'Inghilterra era la patria di Alan Turing e ci lavorava Wilkes, a cui si deve il concetto di microprogrammazione. Molte delle idee di base dell'elaborazione elettronica sono nate in Europa, la capacità industriale è arrivata in seguito dall'America.
Olivetti non lesinava nei viaggi di lavoro che erano quasi sempre presso centri accademici e fornitori di componentistica elettronica. Si andava al MIT di Boston, all'Università di Manchester (dove lavorava Wilkes), oppure in California dove c'era Fairchild. Nel mio primo viaggio negli USA conobbi Noyce.
Parlando con gli altri ricercatori, spesso non ci si capiva per mancanza di una terminologia codificata; in altri casi si finiva col reinventare le stesse cose, mancando i mezzi di comunicazione e ricerca immediati di oggi.
IBM non costituiva allora un modello. Per tutti gli anni sessanta ha continuato a lavorare con i tubi, faceva ricerca ma non spingeva l'introduzione delle nuove tecnologie sul mercato.

Come si vendevano i primi computer?

I primi computer erano proposti per la modernizzazione dei processi amministrativi. I venditori non erano preparati, ma potevano contare sull'ignoranza dei clienti. Un ruolo importante lo hanno avuto le banche, le prime a capire le potenzialità dei calcolatori. Il primo istituto che divenne nostro cliente fu il Credito Italiano. Fu un punto di forza e generò un forte scambio di esperienze e di persone che permise a molti di farsi le ossa.
In campo industriale il calcolatore serviva per tenere la contabilità e la fatturazione, ma non ebbe agli inizi molta visibilità. Anche lo Stato divenne cliente.

Che problemi avevano i primi utenti?

Le problematiche riguardavano principalmente il software. Grazie alla scelta di usare fin dall'inizio i transistor, l'hardware dell'Elea era molto più affidabile rispetto ai sistemi a tubi: ricordo che nei computer Ferranti, costruiti con migliaia di valvole, l'MTBF (il tempo medio di funzionamento senza guasti, ndr) era di circa 1-2 ore. Con i transistor era un'altra cosa. I problemi principali nell'uso delle nostre macchine derivavano dalla programmazione e dai bug. La programmazione veniva fatta in assembler anche se si cominciava a utilizzare il Cobol. Il Credito Italiano trovò un bug residuo in un programma dopo ben 6 anni d'uso. Molti problemi nascevano dal fatto che le macchine erano vendute senza programmi, e non c'erano programmatori.

Quando si cominciò a parlare seriamente di software? Ci furono anche qui innovazioni significative?

Si cominciò a capire molto tardi che l'hardware senza il software non era nulla; e anche noi, per lungo tempo, continuammo a consegnare macchine prive di programmi. In seguito abbiamo attinto all'estero. Sul software ci si studiava, ma senza poi ottenere significativi riscontri.
Solo con l'arrivo di Honeywell, fu creato a Pregnana un gruppo per lo sviluppo del software.
In un'epoca di pionieri non mancò qualche ingenuo tentativo di creare qualcosa di importante, come un linguaggio di programmazione. Mauro Pacelli, oggi trasferitosi in America, è stato uno dei programmatori del gruppo matematico. Fiorentino vivacissimo, inventò il PAlgol (Pacelli-Algol), un linguaggio che funzionava davvero. Mancava allora la consapevolezza che occorresse molta forza per poter imporre qualcosa sul mercato; se non la si possiede, ogni innovazione risulta priva di senso.

Perché a un certo punto Olivetti decise di cedere la Divisione Elettronica, punta di diamante della propria tecnologia?

Ci fu una crisi economica all'inizio degli anni '60. In quel periodo Olivetti pagava l'errore di aver investito nell'americana Underwood, un grande nome nel campo delle macchine da ufficio, che però versava in grave crisi. Olivetti l'aveva comprata per farne un punto di appoggio per l'espansione negli USA: una scelta fatta nel momento sbagliato.
La grave decisione di cedere la Divisione Elettronica, presa da Bruno Visentini, si basò più su ragionamenti contabili che non strategici.
Quando la Divisione fu ceduta, un piccolo gruppo di persone, guidato dall'ingegnere Piergiorgio Perotto, si trasferì a Ivrea e portò avanti i progetti nell'elettronica. Non fu facile, perché c'erano in quegli anni forti contrasti con lo staff del settore meccanico. Erano le attività nella meccanica di precisione che avevano fatto la ricchezza di Olivetti e con questa tecnologia si continuavano ancora a costruire calcolatrici sempre più complicate. Chi difendeva le attività nell'elettronica era Roberto Olivetti, figlio di Adriano, ma non era facile far capire in tutta l'azienda quanto fosse importante andare avanti nella nuova direzione.

Cosa rappresentò l'arrivo degli americani di General Electric?

La cessione portò due cose fondamentali. La prima fu quella di dare alle attività ex Olivetti una prospettiva sul mercato mondiale (l'acquisizione di GE partiva proprio da questa motivazione). Il secondo fu di darci un modello industriale nuovo: anche se Olivetti riteneva di essere 'il meglio' sulla piazza, fu General Electric a insegnarci come gestire il nuovo business.
C'era allora una totale ignoranza sul fatto che il business informatico non fosse gestibile a livello di piccoli mercati o di singola azienda. Lo avevano invece capito gli americani. General Electric, che aveva cominciato facendo i calcolatori per l'esercito, capì che non bastava poter operare sul solo mercato americano e per questo investì in Italia. General Electric e in seguito Honeywell, seppero anche gestire le aziende acquisite con molta intelligenza, sfruttando le energie e le competenze esistenti.
Spesso si combatteva per affermare il nostro lavoro su quello degli altri laboratori. Pregnana la spuntò su molte scelte. I sistemi G100, che uscirono da Pregnana nel 1965 furono un grande successo. Ne furono venduti oltre 4.000 e fummo secondi a IBM nella fascia di mercato.

Elea 9003, il calcolatore italiano

Presentato nel 1959 alla Fiera Campionaria di Milano, è stato il primo calcolatore completamente a transistor costruito in Europa. L'Elea, acronimo di elaboratore elettronico automatico, era all'avanguardia non solo per le soluzioni tecnologiche adottate, ma anche per la concezione sistemistica. Era infatti in grado di operare in multiprogrammazione (gestiva fino a tre processi in parallelo) e aveva capacità di interrupt, in un'epoca in cui questo termine non era ancora stato coniato. Anche il design del sistema era innovativo. Se ne occupò l'architetto Ettore Sottsass, progettando una serie di cabinet di media altezza e una consolle per l'operatore concepita per essere flessibile nella composizione dei tasti e nelle segnalazioni.
Elea 9003 aveva un ciclo di macchina di 10 microsecondi (100 kHz), parole logiche di lunghezza variabile, da 2 a 8 unità di memoria centrale a nuclei di ferrite per una capacità complessiva (calcolata con il metro d'oggi) compresa tra 17 e 68 KB.
L'elaboratore prevedeva tutta una serie di accessori come le unità a nastro, i lettori di schede, perforatrici, stampanti, e altre periferiche dedicate, prodotte dalla stessa Olivetti.
L'unità centrale dell'Elea 9003 fu progettata interamente a Barbaricina (PI) nel Laboratorio Ricerche Elettroniche di Olivetti, nell'ambito di una collaborazione con l'Università di Pisa. La progettazione, avviata nel '55, fu conclusa nell'estate '58, quando per la fase d'industrializzazione, Olivetti decise di trasferire il gruppo di progettisti a Borgolombardo nel milanese. Elea nacque con un prototipo a valvole; benché i transistor fossero all'epoca poco diffusi e di prestazioni molto limitate, si decise con notevole lungimiranza, di avviare la costruzione a transistor. Grazie a questa scelta tecnologica l'Elea 9003 poteva contare su una affidabilità di funzionamento molto superiore ai computer allora realizzati con tubi termoionici (valvole). Il calcolatore fu costruito in serie e venduto in 170 esemplari, benché il costo della macchina, all'inizio degli anni sessanta, fosse compreso tra i 300 e i 500 milioni di lire. La prima installazione fu realizzata alla fine del '59 presso lo stabilimento Marzotto di Valdagno.
Nei laboratori di Pregnana Milanese, diventati operativi dal '62, nacque anche una versione di medie dimensioni del calcolatore adatta al calcolo scientifico e denominata Elea 6000.
L'Elea 6000 introduceva importanti innovazioni. Si basava su una impostazione sistemistica proposta in quegli anni dall'inglese Maurice Wilkes. Si trattava della microprogrammazione, un'idea che estendeva la concezione di von Neumann del computer come macchina a programma memorizzato. Le istruzioni macchina erano ricondotte a un insieme di operazioni logiche elementari, le microistruzioni, realizzate in hardware. Il tutto fu realizzato con una memoria di sola lettura a nuclei magnetici chiamata 'matrice logica di sequenza' antesignana delle attuali ROM (Read Only Memory) a semiconduttori.

Quali furono le ricadute sull'informatica italiana?

Ci fu una ricaduta industriale e culturale.
L'impresa informatica generò un indotto importante non solo nelle attività collegate ai calcolatori, ma anche nello sviluppo della componentistica elettronica. Ad Agrate si sviluppò SGS, che produceva semiconduttori; a Caluso nacque Zincocelere, che faceva i circuiti stampati e che divenne la più grande azienda del settore.
Quando ci fu il definitivo passaggio di consegne da Olivetti a General Electric, una parte delle persone che lavoravano nei laboratori lasciarono le aziende, propagando il know how in altri settori.

Quali fattori hanno fatto perdere negli anni seguenti all'Italia e all'Europa la leadership informatica?

In Italia e più in generale in Europa c'è meno iniziativa. La Silicon Valley esiste perché c'è il capitale di rischio, che qui è mancato a causa, anche, dell'arretratezza del nostro sistema bancario. Un altro fattore riguarda le barriere linguistiche. Fare un programma in Italia e venderlo anche solo in tutta Europa è difficile anche per problemi culturali e legislativi. Negli USA il produttore può contare su un mercato più vasto che comprende anche l'Australia, il Canada e il Regno Unito.
C'è stato inoltre il problema del distacco tra la ricerca e la realtà industriale. È così che, dagli Anni 70 in poi, il ritmo dell'innovazione è stato dettato dagli USA. Ritengo che un Paese come il nostro possa in futuro contare non tanto sull'hardware quanto sul software.

Programma 101, antesignana del pc

Qualcosa di simile a un oggetto oggi abituale e comune come il pc desktop apparve nel lontano 1965 per iniziativa di Olivetti, a opera di un gruppo di progetto che faceva capo all'ingegnere Piergiorgio Perotto (nucleo superstite della Divisione Elettronica ceduta in quegli anni da Olivetti a General Electric). 
Presentata in ottobre a New York, Programma 101 disponeva di una memoria di massa magnetica sulla quale poteva registrare in memoria sequenze di 120 istruzioni. Concatenando più schede era possibile gestire programmi di qualsiasi lunghezza.
Disegnata da Mario Bellini e costruita con logica elettronica a micromoduli (un surrogato dei circuiti integrati, non ancora disponibili su larga scala), la P101 aveva un linguaggio di programmazione facile da apprendere anche per i non addetti ai lavori. Operava in somma, sottrazione, moltiplicazione, divisione e radice quadrata su numeri fino a 22 cifre, gestendo segno algebrico e virgola mobile.
Il prezzo di vendita era pari a circa 2 milioni di lire, poco superiore al doppio delle comuni calcolatrici meccaniche da 3-4 operazioni dell'epoca. La P101 fu venduta in oltre 44 mila esemplari; i brevetti che Olivetti registrò per la realizzazione, fruttarono centinaia di milioni in royalties, quando Hewlett-Packard, alla fine degli anni sessanta, mise sul mercato l'HP9100.

 


Il primo computer italiano? Nasce nel 1954 presso l'Università di Pisa

Fu Enrico Fermi a suggerire il progetto per realizzare un calcolatore italiano. Così nacque la CEP.

Nel 1954 le Province e i Comuni di Pisa, Livorno e Lucca misero a disposizione dell'Università di Pisa un contributo di 150 milioni di lire per la realizzazione di un elettrosincrotrone. Enrico Fermi, consultato a Varenna nell'estate del 1954 da Marcello Conversi (allora direttore dell'Istituto di Fisica dell'Università di Pisa) e da Giorgio Salvini sul modo migliore per impiegare la somma, diede un parere diverso, suggerendo come scelta migliore quella di costruire a Pisa una macchina calcolatrice elettronica. L'argomento portato dal celebre fisico a sostegno del proprio parere era il fatto che la calcolatrice, a differenza del sincrotrone, avrebbe potuto essere d'utilità e supporto non solo per la fisica ma anche per altre scienze e tutti gli indirizzi di ricerca.
Enrico Avanzi, rettore dell'Università, fissò nell'ottobre dello stesso anno una riunione con i responsabili degli enti finanziatori per decidere la destinazione delle somme, riunione a cui parteciparono anche il preside della Facoltà di Scienze e i professori Conversi, Salvini e Ezio Tongiorgi. Avanzi aveva avuto nei giorni precedenti un colloquio con Gilberto Bernardini, presidente dell'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, il quale lo aveva informato che presso l'Università La Sapienza di Roma si era deciso di acquistare un grande calcolatore, ma poiché la spesa risultava superiore alle possibilità, si sarebbe ripiegato su un sistema con capacità limitata. Ciò significava che la disponibilità di un calcolatore con capacità avanzate rimaneva ancora un problema nazionale, senza soluzione.
Bernardini aveva fatto presente ad Avanzi che se la macchina fosse stata costruita in Italia, la spesa si sarebbe aggirata intorno ai 120-140 milioni di lire, mentre per l'acquisto sarebbe stato necessario disporre di una somma pari al quadruplo.
Avanzi propose quindi di procedere alla realizzazione della macchina calcolatrice in Italia, gestendone tutte le fasi: dalla progettazione alla costruzione. A questo lavoro avrebbe fornito un aiuto lo stesso Bernardini, fornendo un contributo annuale di 25-30 milioni per il funzionamento della macchina.
Nel corso della storica riunione, Conversi ricordò l'opinione allora diffusa nel mondo scientifico secondo la quale le possibilità di sviluppo di una Nazione sarebbero dipese dal numero di macchine elettroniche disponibili. Aggiunse anche che la calcolatrice sarebbe stata di utilità per tutti gli Atenei italiani, non solo per la fisica teorica e sperimentale, ma anche per la chimica, l'ingegneria, la biologia, l'economia, la statistica, il commercio.
Il progetto per una macchina calcolatrice elettronica, al posto del previsto sincrotrone (in seguito venne realizzato a Frascati), non sarebbe stato quindi un ripiego. La calcolatrice avrebbe dato ai ricercatori di fisica un maggiore aiuto, oltre a poter risultare importante per molteplici utilizzazioni da parte di varie branche scientifiche.
Con queste argomentazioni il progetto guadagnò l'appoggio degli Enti finanziatori e del presidente della Provincia di Pisa Maccarrone e dal 16 ottobre dello stesso anno, Conversi poteva disporre della somma di un milione di lire, per avviare il progetto.
Per la costruenda macchina fu costituito un comitato presieduto dallo stesso Conversi, di cui facevano parte anche Alessandro Faedo, responsabile per la matematica e Ugo Tiberio per l'elettronica.
Nel 1955 venne creato il Centro Studi Calcolatrici Elettroniche (CSCE), con l'appoggio del CNR. Nello stesso anno fu sottoscritta con l'Olivetti una convenzione di collaborazione da cui nacque, contemporaneamente alla CEP (acronimo della costruenda Calcolatrice Elettronica Pisana), il calcolatore commerciale ELEA. CEP cominciò a funzionare come un prototipo ridotto; la macchina vera e propria fu pronta solo alla fine del 1960, e venne inaugurata dal Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi nel novembre dell'anno successivo.
Nel complesso la CEP impiegava circa 3.500 valvole, 2.000 transistor e 12.000 diodi. Aveva una memoria a nuclei magnetici di 8.192 celle da 36 bit (molto grande per l'epoca), una memoria ausiliaria a tamburo magnetico da 16.384 celle di 36 bit e poteva collegare fino a otto unità di I/O a nastro magnetico.
Per molto tempo l'Università di Pisa restò portabandiera dell'informatica italiana. Al primo nucleo del CSCE conferito nel CNR, successe l'Istituto di Elaborazione dell'Informazione IEI a cui si aggiunse l'istituto CNUCE, nato nel 1964 nell'ambito di una convenzione tra l'Università di Pisa e l'IBM Italia.
Negli anni successivi furono sviluppati nell'ambito del CNR altri Organi a indirizzo non tipicamente informatico che attraverso un confronto di conoscenze in campi culturalmente diversi, hanno sviluppato nuove ricerche interdisciplinari.
Nel 1969 venne istituito a Pisa il primo corso di laurea in Scienza dell'Informazione. La prima lezione fu tenuta il 17 novembre del 1969 dal professore Alessandro Faedo, rettore dell'Università e in seguito presidente del CNR. L'esempio dell'ateneo toscano sarà seguito negli anni successivi dalle Università di Bari, Milano e Torino.

Il calcolatore del Politecnico di Milano

Il Politecnico di Milano, assieme all'Università La Sapienza di Roma sono stati i primi centri accademici italiani a disporre di un calcolatore. La necessità di disporre di calcolatore elettronico a supporto delle attività scientifiche era molto sentita già nella prima metà degli anni cinquanta, ma solo nel 1954 vi furono i fondi necessari per procedere all'acquisto. Tra i prodotti dei pochi costruttori allora sul mercato, Burroughs, CRC, IBM, Univac e dell'inglese Ferranti, il Politecnico di Milano scelse il calcolatore CRC 102A di Computer Research Co. (CRC) di Los Angeles: una macchina capace di funzionare alla velocità di 70 operazioni al secondo, oggi risibile, ma significativa all'epoca.
Il calcolatore a tubi CRC 102A era costituito da un grande armadio di tre metri per due e uno di profondità, realizzato con una logica elettronica basata su 600 valvole e 6000 diodi al germanio.
A occuparsi delle complesse operazioni necessarie per portare in Italia il calcolatore per conto del Politecnico di Milano, fu Luigi Dadda, professore e in seguito rettore dello stesso ateneo. Andò egli stesso in California a prendere in consegna il calcolatore che - come si faceva allora - doveva essere costruito su misura delle specifiche esigenze del cliente.
Dadda curò che il grande calcolatore, smontato e accuratamente imballato, venisse messo con la miglior cura possibile sulla nave che l'avrebbe portato in Italia. Il compito più difficile della complessa fase di trasporto
venne curiosamente dall'espletamento delle norme doganali presso il porto di Genova. Quando il calcolatore vi giunse dopo giorni di viaggio, si scoprì che su ciascuno dei tubi elettronici (valvole), che componevano l'elaboratore doveva essere apposta una etichetta comprovante la regolare importazione. La 'tassa radio' allora in vigore, facilmente applicabile sui comuni ricevitori dell'epoca, costruiti con 4-6 valvole, non era infatti adatta a un apparato delicato e complesso come un calcolatore, costruito con centinaia di valvole. Il problema fu comunque superato e il computer poté infine arrivare a Milano ed essere messo in funzione presso il Politecnico di Milano (dove è tuttora conservato). L'anno seguente il rettore Gino Cassinis e Ercole Bottani, già commissario per l'energia elettrica, fondarono il Centro di calcoli numerici. È stato questo il primo centro di calcolo elettronico in Europa, aperto anche all'industria.


L'occasione perduta: la breve storia della Divisione Elettronica Olivetti

Nascita e declino del 'progetto elettronica' di Olivetti. Un modello di sviluppo contrastato e sconfitto

Chi segue da qualche tempo le vicende dell'industria dell'IT ha avuto e ha quotidianamente innumerevoli occasioni di riflettere sul divario che separa l'Italia dagli altri principali Paesi industrializzati. Sono arcinoti i dati che ci caratterizzano in negativo per tasso di diffusione dei personal computer, scarsa scolarizzazione informatica, pratiche clientelari che regolano ancora parte del mercato, estrema frammentarietà del comparto nazionale del software e servizi, e così via.
Ultime in ordine di tempo sono le preoccupazioni per quanto potrebbe accadere in occasione del passaggio all'Anno 2000 e le difficoltà che il Governo nazionale incontra per inserire, nell'ambito dei collegati alla Finanziaria, le prime timide misure per l'informatizzazione scolastica e l'incentivazione delle pratiche di commercio elettronico nelle nostre aziende. Indifferenza, scarsa sensibilità dei politici nostrani, arretratezza strutturale e culturale del nostro 'sistema-Paese'? Quel che è certo è che si tratta di fenomeni e atteggiamenti non nuovi, nella nostra storia, e che hanno costantemente caratterizzato il rapporto tra establishment politico-istituzionale e i settori più innovativi dell'industria e dei servizi.
È istruttivo ritornare con la memoria a 40 anni fa, quando l'Italia perse il treno che le avrebbe dato la possibilità di giocare un ruolo significativo sullo scenario internazionale dell'elettronica e dell'allora giovane industria dell'Information Technology.
Compagno ideale in questo viaggio a ritroso è un volume (oggi purtroppo introvabile) uscito nel 1979 presso l'editore Einaudi. "Informatica: un'occasione perduta": così Lorenzo Soria ha titolato questo suo saggio che ripercorre la vicenda della 'Divisione Elettronica' Olivetti.
Nata 'di fatto' nel 1955 (formalmente sarà costituita solo nel '62) in un clima di grande fermento di ricerca e spirito imprenditoriale e ideale sotto l'egida carismatica di Adriano Olivetti, la Divisione Elettronica di Olivetti verrà ceduta ("anzi regalata" sottolinea Soria) all'americana General Electric nel 1964, nella totale indifferenza dei governanti di allora e nella miopia del mondo politico e industriale. Unici a mostrarsi sensibili alle conseguenze di questa operazione furono un gruppo di 'colletti bianchi' sindacalizzati.
Ripercorriamo sinteticamente questa vicenda. L'attività di ricerca e produzione nel campo dell'elettronica nasce in Olivetti nel '55, come costola di un'azienda fino ad allora focalizzata sulla produzione e commercializzazione di macchine per scrivere e sistemi contabili in tecnologia meccanica. Nasce con la decisione di Adriano Olivetti di richiamare dagli Stati Uniti Mario Tchou, brillante ricercatore, che comincia a lavorare alla progettazione del primo computer italiano. Proprio per assicurare a questo computer il massimo livello di competitività sul piano tecnologico il progetto viene sviluppato non a Ivrea ma a Pisa (presso i laboratori di Barbaricina) proprio perché l'Università di Pisa è in quel momento all'avanguardia nella ricerca. I risultati di questi primi anni di attività sono, dal punto di vista della qualità tecnologica, eccellenti e così descritti nel libro di Soria: "Alla Fiera di Milano del 1959 venne presentato ufficialmente l'Elea 9003, un calcolatore transistorizzato che metteva l'Olivetti all'avanguardia rispetto agli altri produttori del mondo, IBM compresa". Segue, nel '61, il 6001, una macchina orientata alla soluzione di problemi scientifici, mentre nel '64 (quando si consuma la crisi della D.E. e matura la decisione di vendere alla General Electric) sono in fase avanzata di progettazione i calcolatori della linea 4000, oltre a numerosi tipi di unità accessorie e periferiche (stampanti, unità a nastro magnetico ecc.).
Un'attività, come si vede, che marcia a pieno regime e che a fine '64 dà lavoro a tremila dipendenti, cinquecento addetti alle attività di ricerca, mille alla produzione e il resto nel settore commerciale. È un'attività che, secondo Soria, è cresciuta anche con uno stile del tutto particolare, cioè "senza alcun ricorso alla tecnica allora già collaudata dalla quasi totalità delle aziende italiane, di ottenere contributi, diretti o indiretti dallo Stato. Per restare nel settore elettronico - continua Soria - era anzi accaduto che in varie occasioni i grandi enti, le società delle partecipazioni statali avevano preferito ordinare calcolatori IBM". Questo proprio mentre gli organismi federali americani rifiutavano di acquistare prodotti della consociata americana dell'Olivetti negli USA... "perché straniera".
La 'scelta elettronica' di Olivetti era il frutto di una valutazione che individuava in tale attività un fattore vitale per la stessa sopravvivenza della società, anche perché questa era la direzione imboccata da tutti i concorrenti dell'Olivetti. Ma nell'Italia di quegli anni - l'Italia del boom economico, fondato su un'industria a tecnologia matura, bassi salari e sovvenzioni assistenzialistiche da parte dello Stato - il progetto di Olivetti, che vede nell'elettronica e nei primi germi dell'informatica un settore trainante per ogni futuro sviluppo industriale, è visto come una sorta di bizzarra eresia, inevitabilmente destinata a tradursi in un disastro.
A qualche anno dalla costituzione della Divisione e di fronte alla sua situazione di difficoltà finanziaria, ecco come la pensava l'allora presidente della Fiat Vittorio Valletta: "Sul futuro della società pende una minaccia, un neo da estirpare: l'essersi inserita nel settore elettronico, per il quale occorrono investimenti che nessuna azienda italiana può affrontare". Insomma per Valletta la Divisione Elettronica è un ramo secco, e di quelli da recidere subito.
Secondo Lorenzo Soria l'atteggiamento del massimo rappresentante della Fiat è comprensibile: la casa automobilistica era infatti simbolo "di un certo tipo di crescita economica, imperniata sulla produzione di beni tradizionali e competitivi sui mercati internazionali. Così come era un simbolo, in questo caso dei settori a tecnologia avanzata, la Divisione Elettronica dell'Olivetti".
Se questo è il 'supporto' che l'establishment economico-industriale dell'epoca offre al 'modello di sviluppo' proposto dalla società di Ivrea, che dire dell'atteggiamento della classe politica? Che dire della sua assoluta incomprensione del carattere strategico che per lo sviluppo futuro può avere la creazione e il consolidamento di un centro autonomo di ricerca e produzione in un settore a tecnologia avanzata? Questo atteggiamento apparirà in tutta la sua evidenza con la crisi della Divisione Elettronica e il suo passaggio a General Electric.

La crisi

Non è certo facile individuare una motivazione precisa alla base della crisi in cui cade la società. Sono infatti molteplici i fattori che concorrono a determinare questa situazione. Anzitutto il grosso problema di un 'sistema Paese' fortemente arretrato e inadeguato a ospitare l'attività di una società impegnata a competere sui fronti più avanzati dell'industria. Ecco come la direzione della società descriveva questa situazione: "La Olivetti ha dovuto supplire con i propri mezzi all'inadeguatezza dell'Università e degli Istituti tecnici e creare nuove qualificazioni e nuove specializzazioni (…) con ripercussioni sia sui tempi di attuazione sia sui costi dell'intera operazione elettronica. Non vi è dubbio che i costi e il successo della Elettronica Olivetti sarebbero stati diversi se la Olivetti si fosse trovata ad operare in un contesto sociale culturalmente più preparato e sensibile".
Di fronte al crescere delle difficoltà, gli uomini della Divisione Elettronica si trovarono isolati dalla direzione centrale a Ivrea, ai cui occhi, scrive Soria, apparivano sempre più come "personaggi fantasiosi che, invece di lavorare, facevano esperimenti e sprecavano gli utili che venivano realizzati con le produzioni tradizionali meccaniche". In più il management stesso della 'Elettronica' era diviso al proprio interno sulle strategie da seguire (spingere sulla produzione e sullo sviluppo commerciale oppure sviluppare i programmi di ricerca come premessa di futuri profitti?) con l'effetto di precipitare la Divisione stessa nel caos: "Mancavano direttive, i dipendenti, gli impianti e i laboratori erano inutilizzati, la ricerca cadeva progressivamente in abbandono; i tecnici venivano dequalificati e molti sentivano in pericolo lo stesso posto di lavoro". Non è più tempo, insomma, per le utopie di Adriano Olivetti, che sognava l'azienda come una comunità "dominata dal progresso, guidata dalla giustizia e ispirata dalla bellezza"…
La crisi di Olivetti diventa così profonda crisi finanziaria, che attecchisce facilmente sul tessuto ormai fragile della società. "All'inizio dei primi Anni 60 - scrive Soria - Olivetti aveva una dimensione multinazionale, ritmi di espansione 'asiatici' (ed era) l'unica azienda italiana presente nel settore dell'informatica". C'era però una profonda contraddizione tra uno status di azienda di dimensioni multinazionali e una struttura proprietaria e manageriale 'ottocentesca' (all'inizio del '64 il 70% delle azioni ordinarie con diritto di voto era nelle mani dei sei rami dei discendenti Olivetti, per di più assai divisi tra loro). La fragilità delle basi finanziarie si manifesta fino in fondo tra il '63 e il '64, quando il brusco rallentamento della domanda (è il tempo della famosa 'congiuntura'…) comincia a incidere sui risultati economici della società; il titolo in Borsa prende a scendere e le banche creditrici cominciano a manifestare il proprio nervosismo. Ad aggravare la situazione si aggiunge poi il fabbisogno di capitali per gli investimenti necessari per la ricerca e gli sviluppi produttivi previsti per gli anni successivi. Proprio le difficoltà a ottenere questi investimenti sono alla base della perdita di terreno che la società accusa anche sul piano tecnologico.
In questo contesto per più versi drammatico è estremamente eloquente l'assoluto lassismo del potere politico di allora (si veda invece più oltre quello che accade negli altri principali Paesi occidentali) che si traduce inizialmente nel lasciar maturare la crisi, e intervenire successivamente favorendo, attraverso Mediobanca e l'Imi, controllate dall'IRI, l'ingresso nel sindacato di controllo di Olivetti del 'salotto buono' dell'imprenditoria dell'epoca (Fiat e Pirelli) con un ruolo dominante e con l'obiettivo dichiarato di 'salvare la società'.
Abbiamo già visto, con la dichiarazione di Vittorio Valletta, quale fosse in realtà il giudizio che i massimi vertici dell'industria nazionale davano del 'progetto elettronico Olivetti'. Non è quindi sorprendente che, pochi mesi dopo l'ingresso dei nuovi gruppi, e malgrado una repentina ripresa della società, sia stata presa la decisione di cedere la Divisione Elettronica. Con il significativo commento della prestigiosa rivista americana 'Fortune': "Mai salvatori hanno ottenuto tanto rischiando così poco" e il commento dello stesso Soria: "Emerse subito, a trattative appena iniziate, che per il gruppo di controllo, e soprattutto per chi lo guidava, Mediobanca e Fiat, la cessione della Divisione Elettronica sarebbe stata una delle condizioni per associarsi al capitale della società".

La fine della Divisione Elettronica

Sotto la nuova direzione imposta dal 'sindacato di controllo' Olivetti inizia a trattare con General Electric con cui, nell'agosto '64, viene raggiunto un accordo che, attraverso la cessione della Divisione Elettronica, sancisce la formazione della joint venture Olivetti-General Electric, in cui Olivetti detiene una quota pari al 25% del capitale.
General Electric era già allora un colosso finanziario e industriale che nell'informatica stentava però ad imporsi. Per crescere nel settore la società americana puntava su una strategia di acquisizione di società concorrenti per occupare fette di mercato, cominciando in particolare dall'Europa, e più precisamente dalla francese Bull e dalla Divisione Elettronica di Olivetti.
Assai differente, come annota Soria, fu però il clima politico incontrato dal colosso americano nei due Paesi. In Francia il suo arrivo sollevò preoccupazioni e polemiche non solo tra l'opposizione e i sindacati, ma anche da parte del governo e dello stesso presidente della Repubblica. In Italia invece la multinazionale trovò le condizioni più adatte, e in particolare sottolinea Soria, "il silenzio e l'indifferenza del governo". A ciò va anche aggiunto che pressoché tutti, anche i partiti e i sindacati che avevano visto, o semplicemente sospettato, il pericolo che correvano l'industria e la ricerca nazionali, dopo la firma dell'accordo per la cessione della Divisione Elettronica cambiarono opinione; tra le motivazioni accampate a difesa di questo mutato atteggiamento la certezza che, all'ombra di un colosso finanziario e industriale come General Electric, sarebbe stato più facile contendere il mercato a IBM, a tutto vantaggio del posto di lavoro dei dipendenti.
Non ci volle molto per verificare la scarsa fondatezza di queste speranze. Nel '65 la quota di mercato di General Electric era risibile (2,21% contro il 73,6% di IBM); un anno dopo le perdite del suo settore elettronico ammontavano a 100 milioni di dollari, "perdite talmente pesanti - commentava Fortune - da mettere in difficoltà l'intero gruppo". Da qui presero il via pesanti riduzioni di organico, mancati turnover, dimissioni volontarie.
Un anno dopo Olivetti decideva di cedere la sua quota di minoranza alla General Electric, che nel '70 vendeva alla Honeywell la sua Information System, comprendente la ex Divisione Elettronica Olivetti. Al momento di formalizzare questo passaggio la società americana, con estrema correttezza, informò il Governo italiano di quanto stava accadendo e chiese il suo benestare. L'allora Presidente del Consiglio, ricorda Soria, "occupato a seguire le vicende del trasferimento di un gruppo di insegnanti raccomandati" rispose che non c'era bisogno di alcun permesso, dichiarando quanto segue: "Si tratta di una società privata: può fare quello che vuole".

Intanto, negli altri Paesi…

Mentre il Governo italiano assisteva con indifferenza alla cessione della Divisione Elettronica di Olivetti e alle successive vicende, nei principali Paesi industrializzati si dava il via a politiche di sostegno delle rispettive industrie operanti nel settore elettronico e soprattutto informatico. L'obiettivo era quello di porre le industrie nazionali nella condizione di acquisire le tecniche di progettazione più avanzate per poter competere con i maggiori gruppi multinazionali in un settore che tutti (tranne, come si è visto, i vertici politici e industriali del nostro Paese…) giudicavano di importanza fondamentale. Di qui una serie di misure di grande impatto: commesse assegnate per ricerche particolari in ambito militare e sociale, iniziative per la formazione professionale e tecnica, sovvenzioni a fondo perduto come contributo per la ricerca e lo sviluppo, prestiti a tasso agevolato e così via.
Certo, ragionando a posteriori sulle vicende vissute da alcune delle società 'beneficiate', per esempio Bull in Francia e ICL in Gran Bretagna, si può notare come tutte queste iniziative non siano riuscite a evitare il progressivo declino di queste società. E tuttavia, osserva Soria, "la semplice valutazione del conto economico delle singole imprese, il computo dei costi e dei ricavi, sono un modo riduttivo e limitante per valutare i risultati ottenuti in un'industria, quella informatica, così complessa e difficile". Sembra più opportuno invece valutare gli effetti indotti da queste misure sull'intero tessuto sociale e industriale di questi Paesi. Il fatto per esempio che in alcuni Paesi europei, già nei primi Anni 70 si sia cominciato a introdurre l'informatica nell'educazione di base di ogni cittadino (vedi in Germania il 'Programma Informatica '71-'74', con sovvenzioni per l'industria nazionale del settore e la costituzione di centri di calcolo nelle scuole e nelle università e programmi di 'decentralizzazione amministrativa automatizzata'); oppure la costituzione in Francia di un istituto come l'Inria (Institut de recherche en informatique et en automatisme) che diventerà negli Anni 80 e 90 una vera e propria fucina di talenti e di iniziative imprenditoriali nel campo del software, tali da dotare la Francia di un sistema di società di servizi ancora oggi di assoluto rilievo internazionale; oppure ancora l'istituzione di organismi e meccanismi amministrativi nati con il compito di definire una politica coerente di equipaggiamento dell'amministrazione pubblica e di favorire i prodotti nazionali. Per non parlare di iniziative, come quella del dicembre '66, con cui il governo francese decise di creare una vera e propria società di bandiera, la CII, sovvenzionata da un apposito piano quinquennale con finanziamenti per contratti di studio e ricerche del valore di 400 milioni di franchi e prestiti agevolati per altri 125. 
Altro clamoroso esempio è quello del Giappone: "Nel 1960 di industrie giapponesi in grado di costruire un elaboratore non ce n'era neanche una", nota Soria, che si chiede anche: "come è stato possibile allora, in neppure un decennio, arrivare a controllare il 70% del mercato nazionale e mettere in guardia perfino l'IBM?". Grazie all'iniziativa del governo nipponico che operando attraverso il Miti (il potentissimo Ministero per l'industria e il commercio con l'estero) attivò, oltre a una serie di misure assai discutibili di tipo protezionistico, un imponente pacchetto di programmi nazionali per la ricerca e sviluppo, favorendo le iniziative di concentrazione degli operatori nazionali del settore e istituendo un complesso di enti e organismi incaricati di formulare progetti e piani di ricerca con l'obiettivo di alimentare il mercato a favore dei fornitori nazionali.

Il 'Programma finalizzato per l'elettronica'

Devono passare ben dieci anni prima che si veda finalmente anche da noi, è l'inizio degli Anni 80, un'iniziativa di respiro indirizzata all'elettronica e all'informatica. È il 'Programma finalizzato per l'elettronica' che assegna all'informatica 225 miliardi di sovvenzioni, contributi e crediti agevolati alla ricerca e lancia una serie di iniziative nel campo della formazione e della ricerca pubblica. "Siamo però ben lontani da un programma che mira a recuperare quel ritardo tecnologico che separa l'Italia dagli altri Paesi industrializzati" commenta Soria. Manca qualsiasi integrazione tra il Programma e la ricerca universitaria e manca qualsiasi indicazione sul software e i programmi applicativi (con effetti evidenti sull'assetto del comparto software e servizi del nostro Paese). 
Nel frattempo Olivetti ha cambiato pelle: dell'antica famiglia Olivetti resta solo il nome. Nel '78 arriva infatti ai vertici della società Carlo De Benedetti, che porta il capitale sociale da 60 a 200 miliardi di lire. I prodotti a tecnologia elettronica, agli inizi degli anni '80, contribuiscono al fatturato della società per quasi il 60 per cento. Il fatturato cresce e nel '78 raggiunge i 1.555 miliardi con oltre 60 mila dipendenti. Restano però i problemi, soprattutto finanziari: ogni 100 lire fatturate, quasi 10 se ne vanno per pagare gli oneri finanziari. E poi i problemi commerciali, con una forza vendita da riciclare in tutta fretta: 'piazzare' una macchina per scrivere è ben diverso dal vendere un sistema informatico. E infine i problemi produttivi e di strategia, con gli enormi investimenti necessari per la ricerca e l'avviamento di nuovi prodotti. 
E tutto senza alcun supporto pubblico, come ripetutamente sottolinea De Benedetti: "Non si comprende perché il denaro pubblico si rivolga così di frequente verso investimenti senza ritorno ed escluda invece da ogni considerazione un settore che in tutto il mondo è considerato in primario e accelerato sviluppo (…). Non chiediamo favoritismi o forme nascoste di protezionismo. Chiediamo unicamente condizioni ambientali analoghe a quelle nelle quali operano i nostri concorrenti". 
E qui si ferma il libro di Soria, che potremmo idealmente continuare fino ai giorni nostri. Dovremmo così descrivere un'Olivetti progressivamente svuotata della sua missione originaria (malgrado gli sforzi di Vittorio Cassoni e di Elserino Piol per cavalcare l'ondata degli open system nei primi Anni 90) e infine, proseguendo nella sua traiettoria discendente, persino accusata di aver fornito apparecchiature obsolete a un ente pubblico.
Quale lezione trarre da questa affrettata cavalcata su vent'anni di storia dell'Olivetti e sui rapporti tra 'sistema Paese' e un settore industriale a forte innovazione tecnologica? Il lettore tragga la sua morale. Col senno di poi, qualcuno potrebbe anche arrivare a scambiare per opportuno 'non interventismo' il totale assenteismo dei nostri governanti, attribuendo così loro un'anima 'liberale', anima che, come ognuno sa, gli stessi dimenticarono però di avere in innumerevoli altri casi e soprattutto nel loro rapporto con i settori più potenti, tradizionali e arretrati dell'economia nazionale. Abbiamo visto come siano molteplici le componenti che hanno concorso alla crisi di quello che forse resta il più ambizioso tentativo di inserire il nostro Paese ai vertici dell'industria high-tech. È difficile ricondurre queste componenti a un discorso unitario che possa spiegare come questa vicenda abbia poi pesato su tutta la storia della nostra industria IT fino ai giorni nostri. Ci ha provato Soria, che scrive: "Sono convinto che il nodo da sciogliere sia un nodo politico. E che sia questo il motivo per cui il progetto di Adriano Olivetti ha fatto la fine che ha fatto: nessuno ha saputo dire no al ruolo subalterno in cui la divisione internazionale del lavoro ha relegato il Paese. L'informatica è solo uno dei tanti episodi che confermano questa emarginazione".

Olivetti story

1955 Su incarico di Adriano Olivetti, Mario Tchou organizza il gruppo dei tecnici che lavorano nel laboratorio di Barbaricina. Nel 1958, per la successiva fase di industrializzazione, le attività sono trasferite nel milanese, a Borgolombardo.

1959 In produzione il primo elaboratore elettronico italiano costruito in serie e a transistor: l'Elea 9003.

1960 Muore Adriano Olivetti e l'anno seguente scompare in un incidente d'auto anche Mario Tchou. La crisi industriale dei primi anni sessanta e il forte impegno finanziario per risanare la società di macchine da scrivere americana Underwood porteranno Olivetti sull'orlo del tracollo.

1962 Entra in funzione il parco tecnologico di Pregnana, progettato dall'architetto Le Corbusier. Olivetti concentra le attività di produzione e ricerca nell'elettronica nei due siti di Pregnana e Caluso. Attorno a essi si sviluppa un forte indotto industriale. Le società più importanti sono SGS, che opera nella componentistica elettronica e Zincocelere prima azienda italiana nei circuiti stampati.

1962 Nasce l'Elea 6000, un elaboratore di medie dimensioni orientato al calcolo scientifico.

1964 Per uscire dalla crisi Olivetti cede le attività della Divisione Elettronica a General Electric (GE). Nei mesi seguenti nasce Olivetti-General Electric (OGE), società partecipata al 75% da General Electric e al 25% da Olivetti di cui è presidente Attilio Cattaneo e direttore generale Ottorino Beltrami. Nel '68 con la cessione della residua quota Olivetti, OGE diviene General Electric Information Systems Italia; dal 1970, con l'uscita di GE dai computer, diventa Honeywell Information Systems Italia.

1965 Nasce la calcolatrice programmabile Olivetti Programma 101: un personal computer 'ante litteram' dotato di memoria a schede magnetiche. Abbandonati i grandi calcolatori, Olivetti torna a impegnarsi con successo nelle calcolatrici da ufficio, avviando una lenta ma progressiva conversione dalla tecnologia meccanica all'elettronica.

1978 Carlo De Benedetti assume la responsabilità operativa di Olivetti guidandone la ristrutturazione industriale e la riconversione nell'elettronica.

1982 Olivetti introduce l'M20, il primo personal computer italiano, basato sull'antesignano dei processori a sedici bit, Zilog Z8001, e dotato dei sistemi operativi PCOS e CP/M.

1983 Olivetti si allea con AT&T. La collaborazione porterà al lancio di nuovi computer in ogni fascia di mercato e all'avvio di nuove attività nel campo dei servizi informatici.

1984 Nasce l'M24, il primo personal IBM-compatibile di Olivetti basato sul sistema operativo MS-DOS.

1990 Il 19 giugno nasce Omnitel Sistemi Radiocellulari Italiani. Nel capitale ci sono: Olivetti, Bell Atlantic International, Cellular Communication International, Telia International e Lehman Brothers.

1995 Nasce Infostrada.

1997 Olivetti cede le attività nel campo dei personal computer a Piedmont International.

1998 Olivetti cede a Wang Global le attività nel campo dei servizi.

1999 Divenuta una holding di partecipazioni nel settore delle telecomunicazioni, Olivetti lancia in primavera, sotto la guida di Roberto Colaninno, la scalata a Telecom Italia.


Elserino Piol: "Il silenzio dei governi e la solitudine del settore informatico nazionale"

Piol racconta quarant'anni di storia dell'ICT 'made in Italy'. Dall'Elea a Tiscali, un solo filo conduttore: l'assenza del sistema Paese

Erano i primi di maggio del '59 quando Elserino Piol assunse il compito di rafforzare la presenza Olivetti sul mercato USA. Forse fu proprio il contatto con il Paese dell'high-tech per antonomasia a dargli quella particolare sensibilità per le idee innovative di cui, nella sua quarantennale carriera nel settore, Piol ha dato a più riprese dimostrazione.
Per esempio a metà degli Anni 70, quando scrisse a Marisa Bellisario sollecitando una maggior attenzione dell'Olivetti al fenomeno allora emergente del personal computer (per la cronaca gli fu risposto che "Olivetti non era interessata al business degli hobby computer"); oppure come quando lanciò nel '93 Italia On Line, la prima significativa iniziativa Internet nel nostro Paese; o infine, è cronaca dei giorni nostri, con il contributo determinante da lui dato al lancio e all'affermazione del 'fenomeno Tiscali'.

Quale miglior testimone e 'ponte ideale' di collegamento tra gli anni della nascita dell'informatica italiana e i giorni nostri?

Ho incontrato Piol per un paio di ore di un sabato pomeriggio, in una stanza dello studio milanese di Pino Venture Partners, società di venture capital che costituisce una delle attività in cui Piol è oggi maggiormente impegnato: sono 34 le nuove società che in un solo anno Piol ha contribuito a lanciare sul mercato di Internet e delle tlc. Sulla scrivania di Piol innumerevoli ritagli di giornali finanziari, report sul mercato delle telecomunicazioni, e soprattutto molta posta ancora inevasa: "Tra quelle lettere - dice Piol - so per certo che ci saranno almeno 10, 15 richieste di finanziamento per idee di business su Internet. Io rispondo a tutti - tiene a precisare - anche se molte di queste proposte sono rudimentali". Da chi arrivano queste lettere? "Per lo più da giovani che non hanno capito che non basta l'idea se non si sa a che mercato ci si rivolge, quali professionalità servono, quali sono i ricavi attesi. Solo se l'idea è davvero valida cerchiamo di aiutarli".
Piol è reduce da Udine, dove è stato invitato a parlare a un convegno sull'imprenditorialità giovanile organizzato dalla Fiera locale. Anche lì, come spesso gli è accaduto in quarant'anni di 'militanza' nel settore, confessa di essersi sentito un po' come la classica 'voce che predica nel deserto'. Racconta di aver parlato di Internet e dei nuovi mercati nati dall'evoluzione dell'industria dell'ICT e di averne parlato come della più seria prospettiva di occupazione o di attività imprenditoriale per i giovani; con il solo effetto, racconta, di aver suscitato la presa di distanze da parte degli altri relatori, tutti molto cauti ("Internet? Una bolla speculativa che presto si esaurirà" e così via) e impegnati solo a difendere l'importanza e la solidità delle attività tradizionali (i mobili, il tessile e così via) in cui da decenni padri e nonni di questi giovani sono impegnati.
La chiacchierata con Elserino Piol comincia dal passato, un passato che è ancora vivo nella memoria del nostro interlocutore, al punto che ogni tanto, ricordando qualche episodio, la sua voce sale di tono, e assume una forte verve polemica. "Mi ha sempre stupito la scarsa presa di coscienza che in Italia banche, governi, e istituzioni di ogni tipo hanno sempre mostrato nei confronti dell'IT. La cosa è tanto più evidente di fronte alla grande attenzione che invece circonda le telecomunicazioni di oggi, che come si sa, sono però figlie proprio dell'IT. Certo oggi Internet sta cambiando qualcosa, ma se oggi si chiedesse al governo, alle banche e ai sindacati: è più importante l'industria dell'automobile o quella dell'ICT, cosa crede che risponderebbero"?

Ci può indicare allora qualche momento in cui questa assenza di Governo e istituzioni economiche è apparsa con particolare evidenza?

L'intera storia dell'Olivetti è ricca di episodi del genere. Possiamo partire addirittura dalla nascita del 'progetto elettronica', alla fine degli Anni 50, quando la società fu lasciata assolutamente sola, mentre i suoi concorrenti, in Europa e oltreoceano, godevano del più ampio sostegno. Possiamo poi andare al 1964, quando l'Olivetti si trovò in crisi finanziaria. Allora era un'azienda già lanciata nell'informatica, con prodotti validi e ricerca molto avanzata, anche se gestita in modo discutibile: scarsa attenzione ai conti economici, una certa supponenza e qualche spreco. Di fronte all'alternativa tra continuare a produrre macchine per scrivere o consolidare la scelta informatica, stimolando gli investimenti necessari, Governo, partiti, istituzioni finanziarie e industriali del Paese operarono attivamente per contrastare il 'progetto elettronico' Olivetti, senza capire che il futuro non solo di Olivetti ma dell'intero Paese poteva stare proprio da quella parte. Così la Divisione Elettronica fu ceduta.

Quelle furono le prime occasioni in cui Olivetti dovette fare da sola. Cosa è successo negli anni seguenti?

All'Olivetti è sempre mancato un supporto strategico, ripeto sempre; come altre aziende di altri settori Olivetti ha goduto certo in qualche occasione di sovvenzioni, ma non è mai stata vista come un'azienda strategica, un patrimonio nazionale con un ruolo importante sullo scenario internazionale e intorno alla quale occorreva quindi creare un'atmosfera e delle condizioni tali da permetterle di operare al meglio. Certo in questo può aver giocato il fatto che a volte alla guida della società si sono trovate forti personalità, spesso poco in sintonia con i governi e l'establishment dell'epoca. Quel che è certo è che se si vanno a vedere le percentuali di forniture che governi e amministrazioni pubbliche di tutta Europa garantivano alle rispettive industrie IT nazionali e le si confronta con quel che accadeva in Italia nei confronti di Olivetti si vede la differenza...

C'è qualche episodio che ci può ricordare come indicativo di questa situazione?

Ci sono due episodi che rivelano non soltanto il distacco della politica governativa dall'Olivetti e dalla sua strategia, ma addirittura quasi un atteggiamento di ostilità nei confronti della società. A fine degli anni '80, con l'intento di costituire un polo nazionale dell'IT, Olivetti avanzò la proposta di una sua fusione con Finsiel, allora controllata dall'IRI. Come rispose il Governo? Portando Finsiel al sicuro sotto l'ombrello della finanziaria Stet, che con l'IT non c'entrava proprio nulla. Un altro episodio avvenne intorno all'83, con l'accordo tra Olivetti e AT&T; a distanza di qualche mese l'allora presidente dell'IRI Romano Prodi annunciò un accordo tra Stet e IBM. Dietro questo accordo non c'era alcuna strategia e alcun obiettivo: era soltanto una reazione all'iniziativa di Olivetti, come se questa avesse disturbato qualche assetto particolare e andasse quindi contrastata.

In generale il nostro Paese ha sempre avuto, e tanto più oggi ha, un peso marginale nello scenario internazionale dell'industria IT. Lei ricorda dei momenti in cui invece la tecnologia e l'industria italiana hanno avuto un ruolo di punta in questo scenario?

Nel 1965 dall'Olivetti è uscito il P101 (Programma 101) che potremmo definire il primo pc nella storia dell'IT, ma la cosa non ebbe assolutamente il rilievo che avrebbe meritato, sia per un'inadeguata spinta da parte della stessa Olivetti sia soprattutto, tanto per cambiare, per l'assenza di qualsiasi sostegno nel Paese. Il P101, quasi ignorato in Italia, ha avuto invece grandi riconoscimenti negli USA: il primo importante ordine di P101 l'Olivetti lo ebbe proprio dagli Stati Uniti, dall'HP, che due anni dopo realizzò un sistema di calcolo, il 9100, che era sostanzialmente un P101 ottimizzato. Ricordo che HP pagava delle royalty a Olivetti per poter utilizzare nel suo sistema la scheda magnetica del P101.

E dopo il Programma 101, c'è stato qualche altro momento di 'picco' dell'IT nazionale?

Certamente. Nel 1984, con l'Olivetti M24. Era un personal computer superiore per molti aspetti al pc IBM e ai compatibili IBM che utilizzava sì un processore Intel ma di maggior potenza; la Compaq fece una macchina simile all'M24 più di un anno dopo. Ma qual è stato il giudizio dato in Italia dell'M24 e del suo carattere innovativo? Ricordo, tra l'altro, che gli stessi giornali specializzati italiani di allora, più che mettere in risalto le caratteristiche innovative dell'M24 sottolinearono il rischio che proprio queste caratteristiche potessero mettere il pc di Olivetti fuori mercato; videro insomma un limite nel fatto che l'M24 non fosse fino in fondo un perfetto 'clone' del pc IBM.

Insomma si può dire che una costante di tutta la storia dell'Olivetti è la sua, diciamo così, 'solitudine', la mancanza di una cultura e di un assetto adeguato del sistema Paese alle spalle...

Sì, ma vorrei anche sottolineare che l'assenza di sensibilità verso l'Olivetti ha inciso negativamente sulla crescita dell'intero settore IT nel nostro Paese. Ha inciso per esempio sullo scarso sviluppo di un comparto vitale come quello del software e dei servizi, mentre nell'indifferenza generale la domanda pubblica di IT veniva monopolizzata da Finsiel. L'Olivetti ha saputo in parte compensare questa situazione con una quota rilevante di esportazioni, largamente superiore a quella dei suoi principali concorrenti europei. E comunque questa scarsissima coscienza dell'importanza dell'industria ICT è una costante che in Italia continua ancora oggi.

Amarcord...

Abbiamo chiesto a Elserino Piol di ricordare gli uomini che hanno dato lustro, dal punto di vista imprenditoriale e manageriale, all'industria ICT nazionale. Ecco le sue risposte:

ROBERTO OLIVETTI
"È una persona che il mondo ha dimenticato e che invece ha meriti enormi. È stato lui a spingere l'Olivetti nell'elettronica, convincendo il padre Adriano a investire nel settore; ha assunto lui Mario Tchou per avviare la ricerca e la produzione nel campo elettronico; ha avuto un ruolo determinante nella nascita della SGS, nata dallo sforzo congiunto di Fairchild (culla di alcuni tra i fondatori di Intel), Telettra e Olivetti. Sotto la sua iniziativa il laboratorio di Barbaricina prima e quello di Pregnana poi hanno attirato le migliori intelligenze italiane".

CARLO DE BENEDETTI
"Ha portato in Olivetti la coscienza di poter essere protagonista a livello mondiale. Con lui Olivetti è diventata un'azienda di caratura internazionale, per un paio di anni l'ottava azienda al mondo per fatturato nelle classifiche dell'industria IT. Fu lui a decidere a fine '81 l'accordo con AT&T. È stato anche all'origine della crisi Olivetti perchè avendo a un certo punto aumentato le proprie ambizioni è stato distratto da altre attività e interessi. E comunque ha anche avuto un ulteriore merito, in parte condiviso da me, per il passaggio di Olivetti alle tlc: se oggi Olivetti esiste è perchè lui ha avuto, nel '90, l'idea di Omnitel e poi, qualche anno più tardi, di Infostrada".

VIRGILIO FLORIANI
"Una persona di grande rilievo è stato Virgilio Floriani, che ha costruito una grande realtà tecnologica e imprenditoriale come la Telettra, che è arrivata nel campo delle telecomunicazioni a un ruolo di leadership a livello mondiale, ma che poi la Fiat ha venduto all'Alcatel".

PIERGIORGIO PEROTTO
"È stato un altro personaggio di spicco nella storia Olivetti. Il suo difetto - so che quanto dico non gli piacerà - è stato quello di andare sempre alla ricerca del 'Santo Graal', dell'invenzione che avrebbe sconvolto l'industria e il mercato. In questo rifletteva un difetto tipico della cultura Olivetti di un certo periodo. Sotto la sua guida è comunque uscito un prodotto rivoluzionario come il P101".

Eppure di Internet oggi si parla in TV e persino negli editoriali dei maggiori quotidiani nazionali. E poi non le pare di vedere nell'interesse verso le telecomunicazioni e nella liberalizzazione di questo settore una nuova tendenza? Nella Finanziaria, poi, si parla per la prima volta di incentivi per l'e-commerce e la scolarizzazione informatica...

Certo si può notare una nuova, generica attenzione per le tlc e per Internet, ma non al punto da convincermi che sia maturata la coscienza del fatto che l'industria ICT oggi è l'industria più importante nel mondo, che cresce facendo nascere nuove aziende e nuove iniziative e creando un gran numero di posti di lavoro. Le tlc cominciano a trovare attenzione da noi perchè si tratta di tecnologie pervasive, ma anche perchè in questo settore opera Telecom Italia e questo ha un forte impatto sulla politica del nostro Paese e sul Governo. Ma, attenzione, quando si parla di Internet bisogna ricordare che ha fatto molto di più per Internet il signor Soru con Tiscali che non i governi e l'intera politica italiana.

Il nostro Paese, lo si dice da tutte le parti, è ricco di capitali in cerca di idee nuove e di nuovi imprenditori da finanziare. Ma queste idee ci sono davvero in giro? C'è davvero un nuovo spirito imprenditoriale? Nella sua attività di venture capitalist lei ne vedrà di certo...

La risposta è complessa: sinteticamente però direi no, o meglio non ancora. Vedo pochi nuovi imprenditori e poche iniziative nel settore, al punto che molti nostri investimenti li abbiamo fatti creando di fatto noi le aziende. Già nell'ultimo anno però in Italia molto è cambiato. Tiscali è un fenomeno da vedersi non come un successo fine a se stesso ma come indicazione che la strada dell'innovazione è possibile e paga finalmente anche da noi. Soru è partito con l'idea, ha costruito un'azienda, è diventato multimiliardario. L'Italia ha bisogno di esempi forti come questo per darsi una scossa.

Si dice anche che Internet sia un grande 'equalizzatore', un momento di 'rimescolamento delle carte' e di ridefinizione della presenza delle diverse industrie IT nazionali e degli equilibri del settore. Insomma, detto in termini forse un po' banali: anche in Italia potrebbe nascere qualche Silicon Valley?

Andiamoci piano. Anche qui infatti c'è un problema di cultura che separa l'Italia, forse tutta l'Europa, dalla Silicon Valley. Il primo punto di differenziazione riguarda quella che chiamo la 'tolleranza per il fallimento': in USA chi fa innovazione ma fallisce - perchè ha anticipato i tempi, perché è stato troppo aggressivo nella sua proposta ecc. - può sempre riprovarci, perché troverà chi gli darà e gli farà ancora credito. Chi ha delle idee innovative in Italia ha paura di rischiare e di bruciarsi per sempre. Il secondo punto riguarda il rapporto tra l'imprenditore e l'azienda stessa. Da noi chi ha l'idea di business che fa nascere una nuova azienda vuole anche 'fare il padrone'; negli USA le cose non stanno così: anche se sono io con una mia idea a far nascere un'azienda, a capo di questa azienda ci può stare un altro: c'è quindi una 'tolleranza per un certo caos o ricambio organizzativo'. E poi da noi c'è l'idea dell'azienda come investimento per garantire il futuro dei propri figli e dei nipoti, e non si capisce che le aziende non sono eterne, ma hanno un ciclo di vita, che deve anche prevedere la fine di questo ciclo.

Tenendo conto della storia, delle tradizioni e del DNA culturale dell'imprenditoria nazionale, in quali aree dell'ICT lei vede qualche particolare potenzialità per il nostro Paese?

Malgrado tutto l'Italia resta un Paese di imprenditori, a cui mancano solo alcuni esempi di riferimento, come Tiscali, che possano tracciare un trend e seminare nuove iniziative. Questo, secondo me, può succedere nell'area delle applicazioni aziendali, business to business, per il commercio elettronico su Internet. È un settore non ancora pienamente decollato, ma è questo il futuro a breve termine di Internet.

Perché lo ritiene un settore ancora non pienamente maturo?

Perché per decollare pienamente credo che debba ancora superare una fase di 'bagno aziendale'. Mi spiego: sta succedendo per Internet quello che accadde 20 anni fa al pc. Quando sono nati, i personal computer si chiamavano in realtà hobby computer; poi IBM annunciò il suo pc e questo cominciò a entrare nelle aziende, diventando così più robusto, affidabile e professionale, sia nella componente hardware sia in quella software. Il 'bagno aziendale' ha trasformato il pc da strumento hobbistico in uno strumento professionale, in un vero prodotto. Per Internet oggi accade qualcosa di analogo: le applicazioni per Internet stanno entrando nelle aziende e questo dà uno spessore nuovo al software. Così l'offerta si sta irrobustendo e molta più gente, anche all'interno delle aziende utenti sta lavorando su Internet. È così che la cultura su Internet si diffonde.

E tornando alle opportunità per le aziende italiane?

Se gioca bene le sue carte, il nostro Paese può recuperare posizioni. Non dimentichiamo la spinta che può venire dall'enorme numero di piccole e medie imprese, che grazie a Internet e all'e-commerce business to business potranno uscire dal loro localismo e guadagnare in visibilità sui mercati internazionali. È una grande occasione che se giocata bene ci potrà portare non dico al livello degli Stati Uniti ma almeno alla pari degli altri Paesi europei. Su questo sono ottimista. L'unico problema che vedo, e che potrebbe costituire un vincolo per il pieno decollo di Internet, sta nell'inadeguatezza delle infrastrutture che dovranno reggere gli investimenti delle aziende su Internet. Questo dipende in buona parte dalle politiche governative e istituzionali, e se penso a quello che è venuto fino ad oggi da quel fronte, faccio davvero fatica a essere ottimista.


Cosa ci riserva il futuro?

 

Bill Gates

Chairman e CEO di Microsoft

Fino a questo momento non abbiamo visto ancora nulla di quello che la tecnologia informatica può fare. Tra dieci anni il pc sarà un piccolo schermo che si potrà tranquillamente portare in giro oppure che si troverà incastonato nel piano di una scrivania e che servirà per visionare lettere e documenti. Il concetto di archivio, così come lo intendiamo oggi - pile di documenti di carta -, risulterà antiquato. Oggi anche quelli di noi che ricorrono alla tecnologia il più possibile continuano a mettere su carta molte cose: tra non molto i progressi nel campo dell'hardware e del software renderanno tutto ciò puramente digitale. Le innovazioni saranno comunque molte. Per esempio lavoreremo con computer che condivideranno i dati e saranno sempre collegati a Internet. Non sarà più necessario spostare i dati: semplicemente i nostri file compariranno. Credo che nel giro di dieci anni i libri, la musica e le fotografie saranno tutti in formato digitale. L'intero ciclo che parte dall'autore del libro e arriva fino al lettore sarà digitale. La gente si stupirà quando si troverà davanti a un modulo di carta. Sono disposto a giocare la mia reputazione, ma credo fermamente che nei prossimi dieci anni qualsiasi modulo di carta sparirà. Chi baserà il suo lavoro principalmente sui dati avrà a disposizione un computer, un dispositivo contenente un processore dalla potenza incredibile, in grado di fornire risposte immediate: si porterà questo dispositivo appresso, per esempio a una riunione, e tutte le informazioni saranno lì. Non ci sarà neppure bisogno di pensare a dove si troveranno effettivamente le informazioni; basterà sapere che quando si accenderà il computer, a casa o in ufficio, i propri file saranno lì. I computer saranno in grado di replicare le informazioni e, quando verranno lanciati degli aggiornamenti, i dati raggiungeranno tutti i computer e tutte le applicazioni. I sistemi operativi si occuperanno dell'autenticazione e del riconoscimento vocale. E a nessuno interesserà sapere dove risiederà il server.


Ray Kurzweil

Ha brevettato diverse tecnologie hardware e software, fondato una decina di società d'informatica, scritto tre libri e vinto diversi premi letterari e scientifici. 
Da anni è impegnato nella progettazione di prodotti per i disabili

Entro il 2019 un computer da 1.000 dollari avrà la stessa potenza di calcolo del cervello umano: 20 milioni di miliardi di operazioni al secondo. Entro il 2029, 1.000 dollari di computer equivarranno a 1.000 cervelli. Questo riguarda le capacità dell'hardware. Il software impiegherà di più, ma nel 2029 saremo in grado di pareggiare la flessibilità e l'intelligenza del cervello umano. In parte questo avverrà effettuando il 'reverse engineering' del cervello. Una volta raggiunto un livello di intelligenza comparabile a quella umana, i computer la surclasseranno necessariamente perché in grado di condividere con estrema facilità le proprie conoscenze e le abilità che hanno appreso. Personalmente penso che il mondo dell'intelligenza umana e quello delle macchine cominceranno a crescere assieme. Piazzeremo impianti neurali intelligenti nei nostri cervelli per migliorare le nostre capacità sensoriali e le nostre percezioni, la memoria e le facoltà di ragionamento. In effetti lo stiamo già facendo, anche se in modo molto limitato. Saremo anche capaci di collegarci al Web direttamente con il cervello, senza bisogno di apparecchiature esterne, e la realtà virtuale sarà molto più convincente della versione molto rudimentale che ci è dato sperimentare oggi

In collaborazione con COMPUTER WORLD

 

 

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