A
cura del prof. Filadelfo Favara
Tramontata la potenza
degli Svevi con la sconfitta e la morte di Manfredi, nella battaglia di
Benevento (1266), e il fallito tentativo di Corradino, giustiziato a Napoli ( 1268), calava, sul Meridione d'Italia e sulla Sicilia, la dominazione francese. Il vincitore, Carlo d'Angiò,
disceso in Italia su invito del Papa Clemente V, che continuava la politica
anti-sveva dei suoi predecessori, organizzò il Regno, da poco conquistato,
ispirandosi a criteri di pratica utilità e di cinico realismo. Cominciò, così, per la
Sicilia la “ mala signoria “, come fu definita da Dante (Paradiso, canto
VIII, v. 73), che doveva essere la causa dell'insurrezione del Vespro. Infatti, Carlo, non avendo
alcuna considerazione per la civiltà la tradizione, le esigenze del popolo
siciliano, non rispettò l'ordinamento politico, sociale ed economico dell'Isola
e instaurò nel Regno l'antiquato sistema feudale francese. Impose al popolo
soggetto una classe dirigente estranea ed avida, un esercito di vassalli,
familiari, ufficiali regi, a cui si era legato con promesse all'inizio
dell'impresa, col compito di esercitare un sordido fiscalismo e con la licenza
di trarre i massimi vantaggi. Trasferì, inoltre, la
capitale da Palermo a Napoli, umiliando l'orgoglio dei Siciliani e, in
particolar modo, della classe aristocratica. Allorché le vessazioni e
le esazioni divennero insostenibili (a causa della spedizione contro l'Impero
d'Oriente, che il re preparava), scoppiò la rivolta del Vespro che vide
accomunati la nobiltà, spogliata di privilegi e di terre, e il popolo, vittima
di violenze e soprusi. L'insurrezione dilagò in tutta l'Isola: ultima città ad aderirvi fu
Messina, sede del Vicariato di Carlo ed unica a godere di certe franchigie. Essa, però, “ tamquam portus et porta Siciliae “ (Saba Malaspina),
doveva sostenere l'assedio degli Angioini e pagare un notevole tributo di
sacrifici e di sangue. Nella difesa della città, rifulsero le qualità del condottiero,
l'amore della libertà e la salda coscienza morale di Alaimo da Lentini. Molto viva è la presentazione che, nella sua prosa colorita, ma
efficace, fa di lui Michele Amari, lo storico della guerra del Vespro, di cui ci
piace riportare qui alcuni brani. In seguito alla sconfitta subita dai Messinesi a Milazzo, sorsero nella
città dei tumulti, nei quali il popolo, deposto l'inesperto capitano Baldovino
Mussone, “ a una voce, persuadendolo forse i più savi, gridò capitano Alaimo
da Lentini, nobile di sangue, vecchio robusto e animoso, espertissimo in guerra.
Fu somma ventura di Messina e di tutta l'Isola. Egli, preso appena il comando, ordinò con più alto argomento la
difesa della città; riparò, sopravvide, indefesso
addestrò il popolo alle armi”. Poi venne l'attacco. Il 6 agosto 1282, Alaimo respinse il furibondo assalto dei francesi
contro il Monastero del Salvatore, posizione chiave dell'assedio, perché sito
all'ingresso del porto. Le truppe angioine rinnovarono l'irruzione il giorno 8, investendo il
monte della Capperina, che, sovrastando la città da sud-ovest, era stato
fortificato di steccato e fosso e munito di arcieri. I nemici stavano già
guadagnando l'altezza, quando Alaimo, conscio
della gravità del pericolo, accorse trascinando il popolo alla lotta e
vittoriosamente ricacciò gli invasori che avevano raggiunto il ridotto. Essendo i cittadini decisi
a resistere, venne a Messina il legato pontificio, Cardinale Gherardo da Parma,
il quale fu accolto con tutti gli onori e ricevette in cattedrale le chiavi
della città e il bastone del comando da parte del capitano del popolo. Era desiderio di Messina affidarsi al presule della Chiesa, ma il
legato, in conformità alla sua missione, disse di volere riconciliare e
consegnare la città al re, il quale avrebbe usato clemenza verso i rivoltosi. Narra Michele Amari che a quelle parole Alaimo : “ A Carlo no - proruppe con voce di tuono e gli
strappava il bastone del comando - no, Padre, vaneggi : i francesi mai più
finché sangue e spade avremo noi ! “. Sorse un grande clamore e i tentativi “onesti e franchi” della
mediazione caddero a vuoto. Inutilmente la rabbia nemica si scatenò contro la cittò: tutti gli assalti furono respinti, quello del
15 agosto alla Capperina, quello del 2 settembre alle mura settentrionali,
quello “generale ed estremo”del 14 settembre. In tutti questi scontri domina la figura di Alaimo che “sfavillante
in volto, corre per ogni luogo: agli steccati, agli spalti, ov’è maggior
l'uopo, ove più aspro il pericolo; sopravvede i movimenti del nemico, regge
tutta la difesa, rifornisce gli stanchi coi freschi guerrieri, supplisce le
armi, esorta e combatte. Con esso i condottieri, i cittadini di maggior nome, adopran tutti
secondo la prova estrema e disperata; in tutto il popolo è una virtù - Viva
Messina e libertà- e torna la lena ai petti e s'addoppia il vigore alle braccia
e non è chi curi di ferite e di morte”. Infine, re Carlo, vista
l'inutilità della lotta, tentò di corrompere l'animo di Alaimo : venivano
offerti il perdono alla città al valoroso difensore 10.000 once d'oro, una
rendita annua di 200 once, onori e dignità, in cambio della resa. Alaimo rispose che mai
avrebbe tradito i suoi fratelli e i suoi figli e che la sua pi- alta aspirazione
era la libertà della patria, per la quale era pronto a sacrificare anche la
vita. Il 24 settembre fu
occupato dai francesi il palazzo dell'Arcivescovado, nei pressi delle mura. Nella notte i soldati di
Alaimo assalirono l'edificio e uccisero i nemici, mentre schiere di messinesi,
in una sortita, recavan scompiglio nel campo angioino. Scoraggiato dagli
insuccessi e temendo l'arrivo di Pietro d'Aragona e delle sue truppe, il 26
settembre Carlo d' Angiò tolse l'assedio alla città * * * Poche e frammentarie sono
le notizie ( che le fonti ci offrono ) relative all'arco dell'esistenza di
Alaimo, precedente gli avvenimenti di Messina. Non conosciamo l'anno di
nascita, ma sappiamo che il termine “Lentini ", aggiunto al nome di
battesimo, si riferisce al luogo d'origine e non alla famiglia, come dimostra
Pisano Baudo nella Storia di Lentini, p. 151, nota 3, con il confronto dei
diversi stemmi e la storia della famiglia lentinese di Alaimo. Nobile di nascita, forse
congiunto dei S. Basilio di Lentini, fu di parte guelfa e perciò esiliato da
Manfredi. Ritornò in Sicilia dopo
la battaglia di Benevento, divenne consigliere e familiare di Carlo d' Angiò e
ottenne da lui ( con diploma del 22 agosto 1274) la carica di Giustiziere, prima
nel Principato e nella terra di Benevento, poi in Sicilia. Nell'ordinamento giuridico
del Regno, il giustiziere “rappresentava l'autorità regia, invigilava
l'ordine pubblico, giudicava le cause penali e in appello le civili, affidate in
prima istanza ai giudici delle terre o università, e curava l'esazione
dell'imposta fondiaria “ . Alaimo esercitò tale
ufficio fino al 1278; nel 1279 assunse con altri la screzia di Sicilia e nel
1282 divenne Stradigota di Messina. Sinceramente amante del
suo popolo e della sua terra e vivamente addolorato per le condizioni in cui
versava la Sicilia, cominciò ad allontanarsi in cuor suo dagli Angioini e dalla
loro politica. Il Pisano Baudo ci parla
di un viaggio di Alaimo a Napoli, intrapreso nel tentativo di fare alleviare le
sofferenze degli isolani. Ricevuto dalla regina,
sarebbe stato trattato con ostilità, per cui ritornò in patria amareggiato e
convinto che nessuna concessione si sarebbe potuta ottenere dalla Corte. Al divampare della rivolta
siciliana, Alaimo cercava di persuadere l'animo dei messinesi alla prudenza e
alla attesa, ma il popolo, male interpretando il suo atteggiamento, lo depose
dalla carica di stratigota. Dopo l'insuccesso di
Milazzo, attribuito all'imperizia del nuovo comandante, il vecchio lentinese fu
acclamato capitano del popolo di Messina, Catania e dei comuni da Tusa ad
Augusta. Sotto la sua guida, com'è
stato detto precedentemente, la città dello Stretto riusciva a difendere la sua
libertà. Intanto Pietro III d'
Aragona, sposo di Costanza, figlia dj Manfredi, quindi legittimo pretendente
dell'eredità degli Hohenstaufen, sollecitato dagli esuli siciliani e chiamato
in aiuto dal popolo dell'Isola, era sbarcato in Sicilia e avanzava alla volta di
Messina. Alaimo, posponendo i suoi
principii personali alla volontà e all'interesse generale, gli andò incontro
con il popolo (2 Ottohrc 1282) : il re lo fece cavalcare al suo fianco, gli
manifestò la sua gratitudine per la difesa di Messina e gli disse che ormai
doveva essere dimenticato il tempo in cui aveva parteggiato contro gli Svevi. Alaimo affermò di non
essere stato nemico di Manfredi; che a causa delle fazioni era stato esiliato da
lui; era tornato poi coi Francesi, ma, per amore della patria che vedeva
straziata ed avvilita, era divenuto a loro ostile. Apprezzando la sua
franchezza e nobiltà di sentire e stimandolo degno di assumere funzioni di
responsabilità, il re lo nominò maestro
giustiziere a vita di tutto il reame ( 21 Ottobre 1282), gli diede in feudo le
terre di Palazzolo, di Buccheri e del Casale di Odogrillo e ne rinnovò la
concessione a lui, alla moglie Macalda e ai figli. Inoltre, prima di partire dalla Sicilia per Bordeaux, sede prescelta
per il duello con re Carlo, Pietro d' Aragona donò al gran giustiziere il proprio cavallo, l'elmo,
lo scudo, la lancia e la spada e gli affidò la protezione della moglie Costanza
e dei figli. Alaimo mostrò di meritare pienamente la fiducia del re in tutti gli atti del suo ufficio e, in
modo particolare, quando, assieme a Giacomo, secondogenito di Pietro, domò la
ribellione capeggiata dal barone Gualtiero di Caltagirone, il quale, rifugiatosi
a Butera, fu persuaso dal nobile lentinese ad accettare il nuovo governo. Quando, però, il barone si ribellò per la seconda volta, catturato,
fu giudicato e condannato a morte dall'alto giustiziere (1283). L'autorità e il prestigio di Alaimo si consolidavano sempre più, sicché, dopo la partenza di
Pietro d' Aragona per la Catalogna, l'invidia e la gelosia spinsero i cortigiani
a tramare contro di lui. L'occasione fu presto
trovata. Nella battaglia del Golfo
di Napoli ( 1284), era caduto prigioniero degli aragonesi Carlo lo Zoppo, figlio
di Carlo d' Angiò), e i ghibellini più accesi volevano vendicare l'uccisione
di Corradino chiedendo la testa del principe catturato. Al loro disegno si oppose energicamente Alaimo, in qualità di grande giustiziere. Sospettato di tradimento
dai suoi nemici, divenne inviso al reggente Giacomo, che volle punire tutti
coloro che avevano impedito la morte dell' Angioino. Secondo Bartolomeo di Nicastro, invece, la rovina di Alaimo fu
determinata dalle stranezze e dai maneggi della moglie, Macalda Scaletta, donna
ambiziosa e bizzarra, il cui comportamento avrebbe provocato l'antipatia e lo
sdegno della regina e della corte. Molto significativo, per altro, è il fatto che nessuna menzione del
supposto tradimento si trovi nelle cronache di Raimondo Montaner e Bernardo d'Esclot,
scrittori catalani contemporanei agli avvenimenti. E' quindi da escludere, alla luce delle testimonianze dei cronisti e
dei documenti del tempo, che Alaimo avesse verarnente intrecciato relazioni con
gli angioini ai danni di Pietro d’Aragona
e di Giacomo. Questi, volendo
allontanare il giustiziere dalla Sicilia, Io convocò al consiglio che si tenne
a Trapani e gli ordinò di recarsi a Barcellona col pretesto di sollecitare gli
aiuti contro i francesi, già richiesti a re Pietro. Alaimo partì il 19
Novembre 1284 e successivamente il reggente ne faceva imprigionare la moglie e i
figli e incamerava e divideva i suoi beni senza regolare giudizio. A Barcellona, Alaimo fu
accolto amichevolmente da Pietro III, il quale si sdegnò per il modo di
procedere del figlio, concedette al difensore di Messina una larga pensione e
promise che sarebbe tornato con lui in Sicilia. I nemici di Alaimo, però,
nel numero dei quali erano forse gli stessi Giovanni da Procida e Ruggero di
Lauria, non desistettero dal macchinare. Così, alla morte di
Pietro III, Giacomo, divenuto re, temendo che il nobile lentinese fosse liberato
e che " al ritorno di quel grande potesse seguire qualche novità in
Sicilia “, decise la sua morte. Alaimo fu richiamato in
patria assieme ai nipoti Adenolfo di Mineo e Giovanni di Mazzarino, anch'essi
sospetti di tradimento. La sentenza fu eseguita :
i prigionieri vennero “mazzerati " cioè
rinchiusi ciascuno in sacchi di tela zavorrati e buttati in mare. Così conclude l' Amari il racconto sulla morte di Alaimo di Lentini: “Approdò a Trapani la
scellerata nave; e per tutta la Sicilia si disse con orrore della fine di
Alaimo. Ricordavano la nobiltà del sangue, il grand'animo nelle cose della
guerra e dello Stato, la possanza a cui salì, il pazzo orgoglio di Macalda che
aiutò a perderlo; e tremavano gli amici, sussurravano i guardinghi gran cagione
doverne avere per certo il re. Questi romori in intricato linguaggio riferisce
il Nicastro e riporta con simpatia di dolore tutto il supplizio e i memorabili
detti di Alaimo, forse il miglior cittadino, certo l'uomo più famoso che la
Sicilia vantava nella rivoluzione del
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