Lacrimae Rerum




BREVI NOTE SU: POLITICA, TANGENTI E TECNOLOGIA IN ITALIA
L'ECLISSE DELLA TECNOLOGIA E LA NASCITA DELLA CIVILTA' DELLE
TANGENTI IN ITALIA DAGLI ANNI '40 AGLI ANNI '90

A cura del: Prof. Raffaele Giovanelli
(Milano 1997)




Prefazione.

Le tesi presentate in questo lavoro, compendio di una trattazione più vasta, sono quanto meno inusuali. Per amore di chiarezza esse vengono qui riassunte.
Il Risorgimento, secondo il parere di molti fu tradito, per altri fu incompiuto. Qui invece si af-ferma che il Risorgimento fu un'invenzione derivata dalla cultura europea. In realtà si trattò dell'occupazione militare dell'Italia da parte dell'esercito piemontese. Gli italiani con qualche dubbio restarono nell'illusione di aver creato uno Stato a pari diritti con gli altri Stati europei. La prima Guerra mondiale distrusse l'illusione ed il fascismo venne accolto come il vero crea-tore dell'Italia. Il fascismo ci liberò dalla dominazione piemontese ma in tal modo, involonta-riamente, mise in moto la disgregazione dello Stato nazionale. A nulla valsero i suoi tentativi di recuperare la patria. Annegò nella retorica. L'inizio ufficiale del disfacimento risale al gri-do di "tutti a casa", quando il governo Badoglio scappò insieme ai membri di casa Savoia, la-sciando l'esercito senza capi e senza ordini.
Nel dopoguerra gli italiani si trovarono perfettamente a loro agio nelle vesti di sudditi ai confi-ni del grande impero americano. Ricostruirono in pochi anni case, ferrovie, fabbriche e cultu-ra sino a suscitare l'invidia e l'astio dei vincitori. Ma si proibirono l'ingresso nelle nuove tecno-logie sia per paura di essere indipendenti, sia per un'antica ruggine verso la Tecnica e verso la Scienza, ruggine che il grande Benedetto Croce aveva esaltato a dignità di credo filosofi-co. Questo a lunga scadenza provocò la crisi delle nostre grandi industrie, che non poterono e non seppero gestire la ricerca e l'innovazione. Il nostro sistema industriale, ereditato dall'e-ra fascista ancora in buona salute, venne provvisoriamente salvato dall'autodistruzione con l'invenzione di una complessa struttura politica fondata sulle tangenti. La capacità persuasi-va delle tangenti sopperì, per alcuni decenni, alle certezze che sarebbero dovute derivare dal progresso della scienza e della tecnica.
Quindi la "civiltà delle tangenti" si sviluppa per salvare un sistema che non vuole e non può fondarsi sulla "civiltà della tecnica". La realtà produttiva viene sostenuta dalla controcul-tura, l'arte di vivere ed anche prosperare in condizioni di totale avversità, condizioni costruite principalmente dalla cultura dominante, egemonizzata dalla sinistra. La cultura dominante spaccò il pensiero degli italiani e li costrinse ad infinite riserve mentali sino alla formazione di un pensiero nascosto, quello che qui si definisce come controcultura. Nella controcultura entra l'area del sommerso, dell'evasione fiscale delle piccole imprese ai margini e fuori della legalità. Ma essa può operare solo se esiste uno Stato, tollerante, inerte, inefficace e tuttavia in grado di garantire un quadro di riferimento, una società che si regga. La ventata di "mani pulite" ha cancellato la tolleranza non per moralizzare il costume sociale, ma per colpire una parte politica e far trionfare l'altra, che aveva ed ha altrettante colpe. Il risultato non è stato solo il trionfo della sinistra ma soprattutto l'aver danneggiato il nostro sistema produttivo, l'aver compromesso la sopravvivenza della controcultura, colpendo l'economia sommersa senza portare alcun vantaggio a quella legale. Stupisce lo stupore di alcuni magistrati, che hanno dichiarato di aver previsto un rifiorire dell'industria e dei commerci e di dover constata-re l'esatto contrario. In queste condizioni l'applicazione del trattato di Maastrict può solo por-tarci alla rovina, dalla quale la Germania si appresta a ricavare lucrosi frutti. Da due secoli indotti ad osannare le virtù dei popoli del nord-Europa, non ci siamo accorti che nel frattempo avevamo costruito una nuova civiltà che oggi ci apprestiamo a distruggere spontaneamente, per avere l'onore di sperare di poter sedere alla pari nel consesso dei popoli europei, nel frat-tempo non poco sbiaditi in ambito planetario.
Le conclusioni sono amarissime: L'Europa non ha energie per gareggiare con il resto del mondo e neppure il coraggio di richiudersi in se stessa. Divorata da rivalità profonde, oggi patetiche, l'Europa si avvia a diventare una regione colonizzata dal nuovo capitale tecnologi-co internazionale. Perduta ogni possibilità di avere peso nelle vicende mondiali, progressi-vamente si trasforma in una grande Disneyland. In questo quadro l'Italia è un caso ancor più tragico, essendo il nostro paese avviato letteralmente all'estinzione nell'incoscienza. Es-sa vive una sorta di eutanasia differita. L'Italia, totalmente indifesa ed indifendibile per l'osti-nazione persino a negare l'esistenza di qualche pericolo prossimo venturo, si viene riem-piendo di gente che arriva da regioni poverissime. Questa massa fatta di popoli diversi non può essere controllata e gestita da una macchina statale esosa ed inefficiente e da un potere politico che aveva fatto del pauperismo una bandiera ideologica. Nell'arco di un decennio molti gruppi etnici italiani scompariranno sino ad ingenerare un periodo di confusione e di sangue. E la storia si ripeterà in questa penisola che è il passaggio tra l'Africa e l'Europa, tra Oriente ed Occidente.

Introduzione - 4. La dissoluzione dello Stato italiano.

La mutazione dopo la prima guerra mondiale. Fine dell'Italia piemontese. Il fascismo crea uno Stato moderno, ma presto as-sume i connotati di un nuovo padrone. Finita la seconda guerra mondiale e scomparso il fa-scismo si riaffacciano i piemontesi. Il Partito d'Azione. Lotta Continua: una tardiva emulazio-ne a sinistra del Partito d'Azione. L'inizio della dissoluzione dello Stato si maschera di anti-fascismo. Riflessioni sul fascismo che era tornato al Nord ed aveva costruito il primo effime-ro modello di un'Italia divisa. Le tendenze antinazionali dei partiti di massa. Sulla guerra partigiana si costruiscono le glorie militari della nuova repubblica italiana. I cambiamenti de-terminati dal crollo dell'impero sovietico. La tesi che si propone. Il dramma (o la farsa) della cultura italiana. I capitali resi disponibili dalla nazionalizzazione dell'industria elettrica au-mentarono le possibilità di errore della nostra tecnocrazia. Il malsano rapporto con la tecno-logia. Come giustificare il caso italiano.

LA SCARSA INFLUENZA DELLA TECNOLOGIA NELLA RECENTE STORIA ITALIANA

La realta' italiana. L'influenza trascurabile della ricerca e delle tecnologie sulla produzione in-dustriale-14.
1) La "controcultura" ed il suo ruolo nello sviluppo industriale italiano-17. Il numero dei brevetti per l'Italia non rispecchia il livello tecnologico del suo sistema industriale. Le ra-gioni del nostro rifiuto del progresso tecnologico. Le possibili cause della nostra anomalia. Il ruolo delle piccole e medie aziende.
2) Anthony Daniels mette a confronto Italia ed Inghilterra-22. Le vicende dell'industria inglese. L'influenza negativa del tanto celebrato sistema politico britannico.
3) Limiti dell'espansione dell'economia italiana fondata sulla "controcultura"-27.
La deriva del sistema Italia, privo di una qualsiasi politica industriale. La differenza tra saper convincere e saper fare. Un potere politico che non ha creato una cultura dominante. La cultura italiana è un'appendice del potere politico consociato, che è stato un potere di si-nistra. Lo chiarisce un dibattito tra due esponenti della cultura politica: Paolo Mieli e Biagio De Giovanni. Il ruolo storico della controcultura. La non-arte della controcultura. Il ruolo fondamentale delle industrie di Stato. Conseguenze spiacevoli della nostra debolezza tec-nologica. Il ruolo delle tangenti è diventato essenziale.
4) Un caso interessante: l'assorbimento della Germania Est nella nuova grande Ger-mania europea. -37. Cosa avvenne quando la Germania si riunificò.
5) Gli aspetti "tecnologici" della riunificazione tedesca-39. L'epurazione politica e culturale nell'ex Rdt. Il confronto con l'Italia.
6) Esiti politici,sociali ed economici della politica tecnologica in Italia-43. La visione premonitrice di Pasolini, con qualche errore storico L'intolleranza radicale dei marxisti. La carriera dei cultori della rivoluzione dell'indomani. Le amare conclusioni.
7) La storia italiana recente vista attraverso il ruolo della "controcultura"-52. Gli Stati di-ventano colonie del grande capitale tecnologico. La domanda di rito: Dove stiamo andando?.

Introduzione
La dissoluzione dello Stato italiano.

Oggi si possono avanzare dubbi sul fatto che l'Italia sia ancora uno Stato nel senso stabilito dalle convenzioni internazionali. Ma gli stessi dubbi pare siano esistiti sin dai primi anni della creazione dell'Italia come Stato moderno. Per calcolo politico forse non si disse mai la verità. I piemontesi concepirono l'unità d'Italia più come una conquista territoriale che come un'aggregazione spontanea. Ma la storia d'Italia è stata scritta coprendo molti fatti oscuri, in modo da dare agli italiani un quadro commovente ed edificante. Il capolavoro della doppiezza dei futuri padroni si ebbe con l'affonda-mento, ad opera della marina militare piemontese, della nave sulla quale viaggiava il patriota e scrittore Ippolito Nievo, incaricato da Garibaldi di portare a Torino le "pezze" giustificative delle spese sostenute dalla spedizione dei "Mille". Era una nave a vapore, una delle migliori tra quelle presenti nel porto di Palermo, il mare era calmo, ma si riuscì ad accreditare la versione del naufragio. Con la distruzione delle "fatture" Garibaldi non avrebbe potuto difendersi dalle accuse di furto che i solerti funzionari di Cavour gli stavano preparando. Veniva in tal modo inaugurata una sorta di via giudiziaria della politica. Quindi a Teano Garibaldi dovette cedere al Re del Piemonte, senza condizioni, tutto il sud, che egli aveva conquistato con l'appoggio dell'Inghilterra e della borghesia meridionale. Dopo la caduta del Regno delle due Sicilie, tutte le regioni italiane non soggette al diretto dominio austriaco, vennero annesse al Regno Sabaudo senza alcuna condizione. Eppure si trattava di un Regno che proprio italia-no non era. Sino al 1856 le sentenze dei tribunali del Regno Sabaudo erano scritte in francese. I piemontesi che occuparono gli stati italiani non parlavano l'italiano. A tutti gli effetti i piemontesi erano invasori che si apprestavano a governare grazie al favore della Francia, al larvato appoggio dell'Inghilterra ed al sostegno di una minoranza costituita dalla media borghesia infatuata degli ideali nazionalisti. Sotto il dominio pie-montese gli eroi del Risorgimento non ebbero vita facile. Mazzzini morì a Livorno dove, rientrato dall'esilio, viveva sotto falso nome. Garibaldi finì i suoi giorni in una specie di volontario esilio, in realtà agli arresti domiciliari nell'isola di Caprera, anche se gli era concesso ricevere le visitate di donne ed uomini illustri. Solo i garibaldini che si affrettarono a diventare fedeli sostenitori di Casa Savoia ebbero qualche peso nella vita politica dell'Italia unita.

La mutazione dopo la prima guerra mondiale. Fine dell'Italia piemontese.

La prima guerra mondiale, secondo alcuni, fu per gli italiani l'ultima guerra per l'indipendenza della nazione. Fu una guerra che, pur fra contrasti, vide la partecipazione attiva degli operai e dei contadini, rimasti invece estranei al Risorgimento. A guerra finita si scoprì finalmente che la classe dirigente era incapace di condurre il paese. Sino alla prima guerra mondiale il dominio piemontese, con l'appoggio della borghesia italiota formata all'ombra di quel dominio, era riuscito a mantenere negli italiani la convinzione che essi vivevano dentro uno Stato nazionale e che erano ben governati. Ma questa convinzione si frantuma con la sconfitta di Caporetto, dove esplode tutta l'incapacità e la bestialità della classe dirigente di stampo piemontese. La sconfitta militare rivela agli italiani la necessità di liberasi dello spirito piemontese, che aveva sino ad allora inculcata la convinzione delle capacità militari e delle virtù civili dei padri della patria e dei loro eredi. Alla fine della prima guerra mondiale. Il governo italiano, ancora di stampo piemontese, apparve essere in realtà un dominio di classi privilegiate ed inette. E fu il fascismo a provocare il mutamento radicale, che alla fine travolse anche l'immagine della monarchia sabauda, conservata in vita per lasciare integra la facciata e poter più facilmente mutare le basi dello Stato. Il processo fu lungo e proseguì per alcuni decenni dopo la fine dello stesso fascismo ma i risultati furono diversi da quelli auspicati.

Il fascismo crea uno Stato moderno, ma presto assume i connotati di un nuovo padrone.
Inizialmente il fascismo fu visto dai più come la salvezza della patria. Poi anche il fa-scismo venne percepito dagli italiani come una nuova forza di dominio. Contro il fa-scismo, dopo il primo quindicennio dedicato proficuamente a costruire le basi di uno Stato moderno, gli italiani iniziano una sotterranea resistenza, che finirà per rivelarsi non solo come una forma di opposizione politica, ma principalmente come una forza di dissoluzione dello Stato nazionale.
Il fascismo fu la liberazione degli italiani dalla dominazione piemontese. Pochi pie-montesi furono fascisti. Questo dopo la guerra venne ascritto al loro amore per la li-bertà e la democrazia. Ma fu millantato credito. La cultura piemontese non fu antifa-scista per anelito verso la libertà. In realtà essa avvertì che il fascismo avrebbe aboli-to il monopolio piemontese, che aveva fatto dei piemontesi gli artefici e i padroni della realtà politica ed economica, creando prassi di governo che concepivano una società tutt'altro che libera e democratica.
Finita la seconda guerra mondiale e scomparso il fascismo si riaffacciano i piemontesi. Il Partito d'Azione.
A tal fine è istruttiva la lettura di alcuni scritti di Luigi Einaudi, contenuti nel libro: "Prediche inutili", pubblicato nel 1959 dal figlio Giulio con la Casa Editrice che porta il suo nome. Superato lo sgradevole impatto con il suo periodare goffo e ridondante, si scoprirà che la grettezza di Einaudi trova corrispettivo nel sogno sottinteso di ripristi-nare il predominio piemontese, che si era formato sin dalla creazione dello Stato ita-liano. Un predomino che si mascherava dietro una spocchiosa e falsa "buona ammi-nistrazione, che i piemontesi erano convinti di essere legittimati ad imporre al resto degli italiani, tutti spaghetti e mandolino. afflitti da una cronica propensione e far nul-la, capaci al massimo di fare i camerieri per servire i ricchi e saggi europei (in realtà gli scandali nell'italietta furono colossali, dalla svendita dei beni demaniali al sac-cheggio delle proprietà della Chiesa, sino allo scandalo della Banca Romana). Ma le pretese di rivincita dei piemontesi vennero battute alle prime elezioni politiche del do-poguerra, insieme all'ipocrisia di quei nobili padri della patria, che si erano dati con-vegno nel Partito d'Azione.

Lotta Continua: una tardiva emulazione a sinistra del Partito d'Azione.
Più tardi apparve a sinistra un gruppo politico che era simile al Partito d'Azione. Era Lotta Continua, un gruppo di giovani per lo più provenienti dalla buona borghesia, colti, spocchiosi e protetti da un sano disprezzo verso la classe operaia. Oggi quei giovani, diventati adulti, ricoprono posti importanti in quasi tutti i partiti politici, dalla destra alla sinistra. Hanno posti di rilievo nelle banche, negli organismi pubblici ed in quelli privati. Sono spesso in polemica tra loro, ma sono accomunati dal successo largamente immeritato. Il loro contributo alla progressiva dissoluzione dello Stato si è svolto in tempi successivi, e si è fondato sulla fede nell'internazionalismo marxista.


L'inizio della dissoluzione dello Stato si maschera di antifascismo.
Il fascismo liberò gli Italiani dal "piemontesismo" ma in questo modo, involontaria-mente, mise in moto una deriva antinazionale. Il fascismo era nato localista, ma pre-sto i vertici del partito provvidero ad estinguere questo aspetto indesiderato in una logica di potenza. Aspetto localista che invece Sturzo aveva incoraggiato nel Partito Popolare dei cattolici. La deriva antinazionale continuò sotterranea andando ad ali-mentare una tenue e latente opposizione al fascismo, che nel frattempo aveva assunto connotati fortemente nazionalisti e centralisti.
Gli italiani, ormai sulla strada della dissoluzione dello Stato nazionale, assunsero poi Il fascismo stesso come nuova forza di occupazione del paese, una forza che, a dif-ferenza dei "piemontesi", non aveva alcuna dipendenza da paesi europei, era "pro-vinciale", era italiana, ma era anche incline al bluff e a giocare sulle apparenze e sul-la demagogia, aspetti che si ingigantiranno dopo la guerra e dopo il fascismo.
Riflessioni sul fascismo che era tornato al Nord ed aveva costruito il primo ef-fimero modello di un'Italia divisa.
Quando si verificò la frattura al vertice del partito fascista in occasione della celebre riunione del Gran Consiglio con l'ordine del giorno Grandi, la Monarchia poté interve-nirecon l'arresto di Mussolini perché questi aveva perduto il consenso popolare. Fu un intervento velleitario, che contribuì ad accelerare la dissoluzione dello Stato. Il Re si accorse che non solo il fascismo-monarchico era morto, ma anche il consenso ver-so la monarchia si era molto affievolito. Il fascismo risorgerà poi come forza naziona-le repubblicana, dando vita al governo di Salò, il primo governo del Nord, un governo che ebbe un consenso molto maggiore di quello attribuitogli dagli storici del regime postbellico. Si può vedere nel governo di Salò una sorta di anticipazione della seces-sione oggi proposta dalla Lega.
Ma la causa vera dell'autodistruzione dello Stato nazionale è da ricercare in quella deriva antinazionale iniziata con la liberazione dal dominio piemontese, in realtà uni-co ed esclusivo artefice di un possibile Stato italiano nazionale. Il grido "tutti a casa", che corse per le caserme italiane quando il Re sabaudo fuggì precipitosamente da Roma con il figlio Umberto, guerriero da operetta, con la sua corte insieme all'imbelle Badoglio, fornisce la prova di quel disfacimento. Ciascuno pensava di potersi tirar fuori dalla guerra semplicemente uscendo dallo Stato italiano. Fu una diserzione in massa non giustificata dall'assenza dei capi. Un popolo in gravi difficoltà i capi se li inventa.
La storia d'Italia del mezzo secolo che è seguito appare incomprensibile se non si parte dal concetto che l'Italia è scomparsa ed è stata mantenuta in vita artificialmente solo per una questione di ordine internazionale e per rendere più agevole il suo con-trollo e sfruttamento da parte delle potenze che hanno forti interessi nel sistema eco-nomico italiano.
Le tendenze antinazionali dei partiti di massa.
I partiti di massa del dopoguerra non avevano alcun sentimento nazionale. Il partito comunista era dichiaratamente antitaliano, come dimostrerà, sino a che durò il favore di Stalin, appoggiando Tito nelle sue pretese sull'Istria e su parte del veneto, pretese corroborate da una convincente pulizia etnica. E questo appoggio non procurerà al PCI alcuna perdita di consenso da parte delle masse. La democrazia cristiana pro-cederà prima alla svendita di tutto ciò che fosse appetibile ai vincitori, poi proseguì con altri paesi ricchi tra i quali la stessa Germania, risorta dalle ceneri della guerra. Sulla guerra partigiana si costruiscono le glorie militari della nuova repubblica italiana.
La cosidetta guerra partigiana venne alimentata da chi non ne voleva sapere di pre-stare il servizio militare nell'esercito di Salò. Il rifiuto era una dimostrazione della dis-soluzione del senso dello Stato piuttosto che la manifestazione di un prorompente antifascismo. L'obiettivo delle bande partigiane era quello di fare attentati ed evitare lo scontro diretto, lasciando che la vendetta dei nazisti e dei fascisti uccidesse donne, vecchi e bambini. Finita la guerra e rabberciato il funzionamento dello Stato, gli italia-ni, perduti definitivamente i sogni di grandezza postrisorgimentali, vedono costruire la retorica della resistenza ai tedeschi ed ai fascisti. Quella che in realtà fu una guerra civile con pochi momenti di grandezza e molte nefandezze ignobili, venne eletta a fondamento morale e gloria militare della nuova repubblica.
In realtà con la repubblica, subentrata allo sfratto della monarchia, aumentò la disso-luzione dello Stato nazionale. Come ha giustamente osservato Ernesto Galli della Loggia, la repubblica italiana nasce con lo stesso germe partitocratico che era già fallito nel precedente regime monarchico-parlamentare, quello che Mussolini aveva sfrattato tra il rimpianto di pochi ed il consenso della maggioranza degli italiani.
I cambiamenti determinati dal crollo dell'impero sovietico.
Con il crollo della forza politica dell'Est comunista e con l'attenuarsi del contrasto tra Oriente ed Occidente, per gli italiani si spalanca il baratro ideologico: perdono credi-bilità le ideologie e per di più momentaneamente gli italiani non hanno un vero pa-drone. Esiste ancora la presenza rassicurante degli americani a Napoli e nelle basi della NATO, esiste la possibilità di essere considerati una nazione a sovranità limita-ta, ma questo non è sufficiente a colmare l'ansia ed il bisogno degli italiani di sentirsi guidati, protetti e governati da un padrone esterno, alieno. L'indipendenza, che deriva dal possedere la preminenza tecnologica in qualche settore, improvvisamente ap-pare inopportuna ed in certi casi intollerabile. Dopo la caduta del muro di Berlino la privatizzazzione di settori nei quali il potere pubblico si era troppo allargato, diventa improvvisamente, con il concorso di una sinistra isterica e schizofrenica, necessità di svendere tutto agli americani ed ai tedeschi, anche per disfarsi delle prove di aver osato competere tecnologicamente e disturbare i nobili alleati ed amici. Un esempio clamoroso è offerto dalla precipitosa svendita della Nuovo Pignone dell'ENI agli ame-ricani, dimenticando che da quella fabbrica escono le trivelle di grande profondità indispensabili per le ricerche petrolifere.
La tesi che si propone.
l'attuale società italiana, basata sulle tangenti, deriva dal fallimento della precedente società tecnocratica. L'impianto tecnocratico del nostro sistema industriale era stato ereditato ancora in buona salute dal periodo fascista. Il punto cruciale del fallimento del sistema Italia nel dopoguerra è il fallimento della tecnocrazia italiana, un fallimen-to che si verificò con il concorso di colpa dei partiti politici, senza tuttavia che la loro responsabilità all'inizio fosse preponderante.
Dal fallimento della nostra tecnocrazia si cercherà poi di uscire inventando una socie-tà fondata su una rete di legami tangentizi, quindi una società che, con la capacità persua- siva della tangente, sopperiva alla persuasione ed alle certezze che sarebbe-ro dovute derivare da una efficiente gerarchia tecnocratica. Quindi la "civiltà delle tangenti" nasce dalla necessità di far funzionare in qualche modo un sistema eco-nomico che non poteva più fondarsi sulla "civiltà della tecnica".
L'attacco forsennato, che le frange armate della sinistra scateneranno negli anni '70 contro la dirigenza tecnica del nostro apparato industriale, interpreterà il risentimento dei lavoratori contro una classe di tecnici che si era dimostrata incapace e si era messa al servizio del padronato calpestando la tecnica, oltre che la propria dignità. Mentre la tecnocrazia tedesca e quella giapponese sapranno affrontare le sfide del-l'esplosione della tecnologia, la tecnocrazia italiana soccomberà pur partendo da un livello che certamente era superiore a quello del Giappone, mentre il superiore livello tedesco per molti anni sarà neutralizzato dalle spaventose condizioni derivanti dalle distruzioni belliche e dalla spartizione del paese imposta dai vincitori.
La necessità di trovare una soluzione al fallimento della grande industria italiana, verificatosi negli anni '60, ha fatto nascere e prosperare l'attuale società tangentizia che si è rivelata essere l'unico rimedio possibile al tracollo tecnologico.
Il dramma (o la farsa) della cultura italiana.
Dopo la guerra tutta la cultura italiana: quella scientifica e tecnologica, quella politica e quella umanistica, in tempi diversi per le sue diverse componenti, finì per arrendersi alle culture esterne. La parte politica, filosofica ed umanistica, senza esitazioni e con poche eccezioni, passò armi e bagagli al marxismo militante del partito comunista. Le altre parti, quelle scientifiche, tecnologiche ed ingegneristiche, con pochi anni di ritar-do, sposarono gli Stati Uniti, dimenticando e rinnegando i risultati non piccoli raggiunti durante il ventennio fascista, che venne considerato, dopo la sconfitta militare, pe-riodo di bieco e totale oscurantismo anche culturale e scientifico.
Una frazione non trascurabile di scienziati fisici preferì omologarsi all'Unione Sovieti-ca, con una piaggeria persino maggiore di coloro che avevano optato per gli Stati U-niti. Questa resa senza condizioni della cultura italiana, una resa che i trattati di pace auspicavano ma che certamente non potevano chiedere esplicitamente, fu ovviamen-te molto gradita ai vincitori e ci procurò non poche benemerenze internazionali delle quali andammo fieri e menammo vanto senza pudore.
Tuttavia questa resa spontanea e gratuita ebbe un risultato non previsto dai nostri politici: la gestione fallimentare della nostra grande industria. La dipendenza acritica dalla tecnologia americana ci tolse ogni autonomia decisionale, con il risultato che tecnocrati di valore, come Giustiniani alla testa della Montecatini, si svenarono per "americanizzare" il loro modo di pensare ed il modo di progettare i loro nuovi impianti, come nel caso di Brindisi, un impianto imbottito di costosissimi quanto inutili strumenti di misura e controllo made in USA, mentre la termodinamica e la chimica, ovvero i principi di base dei processi, erano molto sommari, essendo subentrata una schiera di progettisti politicizzati.
I capitali resi disponibili dalla nazionalizzazione dell'industria elettrica aumen-tarono le possibilità di errore della nostra tecnocrazia.
La tendenza fallimentare della nostra tecnocrazia crebbe con le crescenti disponibilità di capitali derivanti dalla nazionalizzazione dell'industria per la produzione dell'ener-gia elettrica. Questo fu il primo grande fallimento dell'Italia del dopoguerra e si tratta di un fallimento le cui cause certamente non risalgono all'immoralità tangentizia. Infatti la nostra tecnocrazia, di origine e formazione fascista, era onestissima ma istupidita dall'ansia di americanizzarsi. E come noto l'ansia, anche se americanofila, non è un argomento del codice penale. I politici si trovarono tra le mani una grande industria privata incapace di competere sul piano internazionale, pur annegando nei capitali, mentre le piccole e medie industrie, pur prive di mezzi finanziari, stavano di-mostrando di sapersi battere con successo. I politici dedicarono tutte le loro attenzio-ni alla prima, utilizzando le collaudate formule di salvataggio, come l'IRI, creato con successo dal fascismo, ma non poterono esimersi dall'inserire nell'operazione dosi crescenti del nuovo veleno: il meccanismo delle tangenti politiche.
Germania e Giappone, uscite sconfitte dalla guerra con distruzioni molto più gravi delle nostre, compirono un diverso cammino, che porterà quelle due nazioni ai vertici mondiali del potere industriale ed economico. Il Giappone americanizzò la facciata ma conservo' il potere rigidamente nelle mani delle grandi famiglie. L'industria giap-ponese venne trasfor- mata in senso ipertecnologico, partendo da un livello inferiore al nostro. La Germania in parte si americanizzò e tuttavia proseguì la politica econo-mica ed industriale del nazionalsocialismo. Nessuna tecnocrazia delle altre nazioni industriali fece errori così clamorosi come la nostra (fatta eccezione per l'Inghilterra).
Il malsano rapporto con la Tecnologia.
La storia del nostro strano rapporto con la Tecnologia ha inizio subito nel primo do-poguerra. Quando da noi si scoprì l'importanza di una politica della Scienza e della Tecnologia, si venne sviluppando un'infuocata disputa di carattere ideologico e politi-co. Quando le sinistre si resero conto che la crescita delle conoscenze scientifiche e tecnologiche era, o sarebbe potuta diventare presto, il principale punto di forza del-l'industria, investirono molte energie per impedire che l'industria privata italiana po-tesse avere accesso alle nuove tecnologie. I comunisti in Italia sostennero che la ri-cerca finanziata dallo Stato non doveva andare a vantaggio dell'industria privata. Questa bestialità veniva detta ed imposta ai governi a guida democristiana quasi fos-se cosa ovvia, mentre nel resto del mondo si veniva creando un sistema di cono-scenze tecnologiche che avevano costi e rischi di "produzione" così alti da divenire non accessibili alla singola industria privata, che quindi esigeva ed otteneva, per la ricerca tecnologica, sovvenzioni governative di vario genere. E' interessante ricordare che negli USA molte industrie, che lavorano su commesse pubbliche, ricevono dallo Stato, pagando affitti simbolici, edifici ed impianti. In Italia la stessa industria pubblica, per intenderci quella dell'IRI, Efim, GEPI e quant'altro, ha trovato molte difficoltà per accedere ai risultati della ricerca a finanziamento pubblico, per il prevalere di una mentalità accademica sempre più avulsa dai problemi reali.
Infine l'atteggiamento dei dirigenti industriali divenne progressivamente del tutto con-trario a correre i rischi derivanti dall'innovazione.
Come giustificare il caso italiano.
Si vuole qui ricordare che l'Italia a guerra finita disponeva di molti impianti industriali ancora in funzione, che seppe ricostruire rapidamente quelli distrutti, ed entrare nei mercati del dopoguerra con una schiera di tecnici molto preparati e con maestranze laboriose e tenaci. Ma, pur avendo avuto il vantaggio di una partenza di gran lunga migliore, l'Italia vide poi la Germania ed il Giappone vincere la guerra pacifica della concorrenza economica ed industriale, e diventare poli del potere tecnologico mon-diale. Senza ricorrere al paradosso del nostro innominabile bisogno di essere servi, non è facile spiegare, soprattutto ai giovani, perché, dopo cinquant'anni, l'Italia è av-viata verso un costante decadimento. E' difficile spiegare perché noi italiani siamo oggi così privi di forza tecnologica, quindi privi di orgoglio, privi di cultura critica co-struttiva ed incapaci persino di riflettere sulla nostra storia recente e di cercare le vere cause del nostro decadere. Il ripudio dell'innovazione, è certamente all'origine dalla nostra incapacità di governare le forze che agiscono nel mondo di oggi, forze che hanno radice nell'innovazione.

LA SCARSA INFLUENZA DELLA TECNICA NELLA RECENTE STO-RIA ITALIANA.
La realtà italiana. L'influenza trascurabile della ricerca e delle tecnologie sulla produzione industriale.
La reale influenza esercitata dalla tecnologia e dalle innovazioni sulla produzione in-dustriale e sull'economia italiana costituisce un aspetto certamente importante, anche perché gli economisti cominciano ad avere dubbi sulla validità degli schemi usati per stabilire il legame tra crescita tecnologica e crescita della produzione industriale. La crescita della produzione dipende da molti fattori, tra i quali la progressiva diminuzio-ne dei costi di produzione, l'allargamento del ventaglio merceologico e l'aumento del-la qualità dei prodotti, oltre ovviamente all'aumento della domanda. Certamente la crescita della produzione non modifica il calo tendenziale del profitto, ma anzi per certi aspetti ne costituisce una causa.
Per l'analisi della realtà pregressa utilizziamo un lavoro dell'ISRDS del CNR (autori: D. Archibugi, R. Evangelista e M. Pianta (1)) dal titolo: "Il dilemma tecnologico".
"Le risorse destinate alla produzione di nuove cnoscenze scientifiche e tecnologiche sono un fattore fondamentale per ogni aese. Nonostante i processi di globalizzazio-ne dell' economia, l'ampiezza del trasferimento internazionale di tecnologia, l'esisten-za di una pluralità di fonti innovative, non è pensabile di costruire un moderno siste-ma innovativo in assenza di un sostanziale sforzo endogeno."
E' difficile considerare gli attuali processi di globalizzazione, la crescita del trasferi-mento internazionale di tecnologia e la molteplicità delle fonti di innovazione, altret-tanti elementi di compensazione della carenza nella produzione endogena di innova-zione. Al contrario un investimento, che sia orientato a realizzare esclusivamente im-pianti di produzione, dipenderà totalmente da chi gestisce l'innovazione contenuta in quegli impianti. La produzione di innovazione, che comprende anche lo stadio del-l'applicazione finale nei processi di produzione, ha già in sé una produzione con un valore economico rilevante, anche se si tratta di una produzione immateriale. In altre parole il trasferimento di tecnologie non è gratuito, come non è gratuita la cessione di beni economici materiali.
Si viene formando un controllo globale dell'innovazione da parte di pochi gruppi e-gemoni, che coniugano la disponibilità di grandi capitali di rischio con il possesso del-le nuove tecnologie, elaborate sino al minimo dettaglio operativo per impartire tutte le istruzioni necessarie alle macchine utensili di una qualsiasi fabbrica situata in un qualsiasi punto del pianeta. Il possesso della tecnologia diviene oggi il principale strumento del potere, che è tecnologico e capitalistico. Essendo sempre più scarse le risorse finanziarie e le conoscenze a disposizione dei produttori finali di beni, è diffici-le per costoro impossessarsi delle nuove tecnologie con le quali rendersi autonomi.
E' importante insistere sul concetto di sistema innovativo, che include non solo i la-boratori di ricerca e le strutture delle imprese, ma anche tutto il settore pubblico, che contribuisce indirettamente a creare innovazione attraverso le scuole, i servizi sociali e le infrastrutture di supporto. Poiché oggi i mercati sono globali ed ogni impresa de-ve confrontarsi con il sistema produttivo planetario del suo settore, ad ogni impresa r richiesta una grande specializzazione tecnologica ed organizzativa. Lo stato di salu-te dell'economia di un paese si misura quindi valutando la forza dei settori nei quali esso è vincente, trascurando quelli che sono marginali, spesso destinati in breve tempo a scomparire per insufficiente competitività. Tuttavia se una nazione abbando-na settori merceologici senza compensare con l'aumento della produzione nei suoi settori forti, l'economia di quella nazione evidentemente si contrae. Il testo così pro-segue:
"Nonostante l'incremento conseguito negli ultimi quindici anni, l'Italia continua a dete-nere una quota piuttosto contenuta della R&S totale dei paesi OCSE: poco piu' di un terzo di quella tedesca, un quinto di quella giapponese e un quattordicesimo di quel-la statunitense. Considerata l'importanza delle dimensioni assolute nelle attività di ricerca e delle economie di scala... che possono realizzarsi in un sistema nazionale, risulta chiara l'importanza che la permanenza di forti asimmetrie nelle dimensioni as-solute dei poteziali tecnologici e scientifici ha nel condizionare l'evoluzione dei model-li di specializzazione nazionali. Un quadro simile (in realta' ben peggiore n.d.a.) e-merge anche da un'analisi dei dati relativi ad un indicatore delle conoscenze con fi-nalità commerciali quali il numero dei brevetti. ...Possiamo tuttavia assumere che i paesi europei abbiano il medesimo interesse a proteggere le proprie invenzioni tanto sul mercato europeo che in quello statunitense, e ciò consente di confrontare diret-tamente l'Italia con gli altri tre maggiori paesi europei."
Se i diversi paesi europei (ed in generale i paesi industrializzati) avessero tutti il me-desimo interesse a proteggere le loro invenzioni allora il numero dei brevetti conse-guiti costituirebbe un indice delle reali dimensioni tecnologiche dei singoli paesi.
1) La "controcultura" ed il suo ruolo nello sviluppo industriale ita-liano.
Ma questa ipotesi non è verificata nel caso Italia. Infatti una parte importante della nostra struttura industriale è stata costruita dalla "controcultura". Che cosa si debba intendere per "controcultura" è difficile da definire poiché si tratta di una corrente di pensiero e di atteggiamenti che tutti hanno come principale carattere quello di non voler apparire, di mimetizzarsi dietro le strutture istituzionali e dietro la cultura domi-nante. La struttura industriale, che idealmente fa riferimento alla controcultura, è composta da industrie medie e piccole, che vivono in una sorta di mondo marginale e nascosto. In moltissimi casi queste industrie preferiscono evitare il brevetto. Infatti il numero dei nostri brevetti è ridicolmente basso e non è correlabile alla nostra produ-zione industriale, che invece in alcuni settori è ancora a livello degli altri grandi paesi europei per qualità e quantità.
"L'Italia detiene appena lo 0.85% del totale mondiale dei brevetti rilasciati negli USA nel 1990, una quota sostanzialmente più bassa di quella degli altri tre principali paesi europei e addirittura in netto declino rispetto tanto al 1980 e addirittura al 1971, Il po-tenziale tecnologico italiano risulta lievemente più consistente se si prendono in con-siderazione i brevetti domandati presso l'Ufficio Europeo ... L'Italia, in proporzione al suo PIL, ha aumentato significativamente la spesa per R&S, passando dallo 0.85% del 1971 all'1.35% del PIL nel 1990....ma siamo ...ben lontani dagli ambiziosi obiettivi enunciati dalle più alte autorità politiche del nostro paese, che a cuor leggero pro-misero nel 1986 che la spesa per R&S in Italia sarebbe raddoppiata fino a giungere al 3% del PIL nell'arco di un quinquennio."
Il numero dei brevetti per l'Italia non rispecchia il livello tecnologico del suo si-stema industriale.
Ma uno dei principali indicatori della forza tecnologica di un paese è dato dal numero dei brevetti in rapporto al PIL. Orbene siamo ad un settimo del livello della Germania e meno di un terzo di quello di Francia e Gran Bretagna. Inoltre la distanza dell'Italia dal Giappone, dalla Germania e dalla Francia si è molto accresciuta durante gli ultimi venti anni. Quindi l'Italia sembra contraddire l'esistenza di un legame tra la produtti-vità industriale di una nazione e la sua dimensione tecnologica.
"Negli anni '80 le prestazioni economiche italiane, misurate dagli indicatori quali la crescita, la produttività e, fino a un certo punto, anche la competitività internazionale, sono state sostanzialmente positive, e comunque non certo così lontane dai paesi avanzati come (invece) indicherebbero gli indicatori tecnologici."
Questo risultato non stupirà se, dopo aver seguito il cammino di questa analisi, ci si sarà formata la convinzione che l'industria italiana, risorta dopo la seconda guerra mondiale, in realtà è costituita esclusivamente dalla piccola e media industria e da qualche settore della grande industria a finanziamento pubblico, essendo queste le uniche industrie che producono ricchezza e non vivono di finanziamenti dello Stato sotto forma delle più varie sovvenzioni.
Le ragioni del nostro rifiuto del progresso tecnologico.
L'andamento della spesa per la R&S in Italia evidenzia come l'ostacolo a produrre più innovazione non sia da cercare nell'insufficienza dei finanziamenti destinati alla ricer-ca. Infatti la crescita dei finanziamenti ha coinciso addirittura con una riduzione del nostro patrimonio tecnologico misurato con il numero di brevetti. L'ostacolo deve es-sere quindi di natura sociale e ideologica. Esso si annida nel rifiuto degli effetti sociali e politici che derivano dalla presenza di chi è autore in prima persona dell'innovazio-ne. Noi italiani ci rifiutiamo di riconoscere a queste persone un qualsiasi vantaggio o potere per aver avuta la capacità di saper fare. Maggiori finanziamenti alla R&S han-no il solo risultato di risvegliare maggiori interessi "politici" attorno a questa elargi-zione di pubblico denaro, con la conseguenza che i finanziamenti, a chi merita di ri-ceverli, diminuiscono. Questo atteggiamento ha radici molto antiche nella storia del-la civiltà italiana.
Certamente, come si rileva nel lavoro citato, "obiettivi più contenuti sarebbero stati facilmente raggiunti se, invece di altisonanti promesse, fossero state messe in atto politiche più concrete". Ma il non aver messo in atto politiche più concrete non è, co-me si dice poi, uno dei casi di politica economica del tempo perduto. Al contrario questa è una scelta precisa, un rifiuto cosciente, anche se non apertamente dichiara-to, delle conseguenze, per noi sgradevoli ed insopportabili, dei risultati delle ricerche, se risultati positivi vi fossero. E tra queste conseguenze citiamo ad esempio il contat-to diretto con gli autori dell'innovazione, autori il cui prestigio sociale dipenderebbe esclusivamente da incontestabili meriti derivanti da ricerche coronate da successo. Questi autori, questi tecnici incontestabilmente bravi, non sarebbero condizionabili, certamente deborderebbero e strariperebbero e metterebbero in crisi la piramide del potere fondata, in Italia, sull'incompetenza tecnica istituzionalizzata. Quindi non si debbono avere risultati dalle ricerche condotte in Italia! E se proprio risultati ci fossero si pubblicano su riviste estere e da noi non se ne parla. Le conoscenze necessarie per lavorare si comperano. Siamo anche disposti a mascherare il nostro feroce rifiuto di ogni tecnocrazia con una totale mancanza di fede nel progresso tecnico e nelle trasformazioni che esso opera.
La Pantera dimenticata
Il governo Craxi cercò di ristabilire un legame fisiologico tra industria e centri di studio e ricerca. Si cominciò col chiamare l'università al compito di appoggiare la crescita tecnologica della nostra industria, sia con l'aggiornamento delle materie dei corsi di laurea, sia con la ricerca applicata concordata con le necessità dell'industria naziona-le. Tuttavia questo encomiabile tentativo trovò molti ostacoli, non tutti provenienti dal-la sinistra più o meno estrema, che per decenni ha sperato di poter condurre una lot-ta decisiva contro il potere delle multinazionali colpendo tutto ciò che in Italia potesse somigliare a quel potere. E' accaduto che vennero prese di mira alcune già fragili in-dustrie italiane, soprattutto quelle che erano dotate di una tecnologia elevata e che quindi potevano infastidire proprio quelle multinazionali che i fanatici gruppi e grup-puscoli della sinistra affermavano a gran voce di voler distruggere. Si scoprì che esi-steva in Italia un'anima antica nemica della tecnica e principalmente di qualunque ge-rarchia burocratica sospettabile di essere tecnocratica. Una burocrazia ottusa ed an-che un poco corrotta induce ad eterne lamentazioni, ma in fondo è pienamente accet-tabile. La tecnocrazia invece è vista come il peggiore dei mali. L'attuale situazione, che ci vede andar in giro ad elemosinare un poco di innovazione tecnologica (come ad esempio si sta verificando nel settore delle telecomunicazioni) è stata costruita con scelte precise, che hanno coinvolto l'anima profonda degli italiani.
Improvvisamente, nel 1987, in un clima politico totalmente diverso da quello del '68, le principali università italiane, come Palermo, Napoli, Roma e Milano, tornano ad in-fiammarsi. Sorge spontaneamente un nuovo movimento studentesco, che sembra invece alimentarsi direttamente alle lontane fonti ideologiche del '68. Dalle pagine del Corriere della Sera del lunedì, nel suo spazio: "Pubblico & Privato", Alberoni dice:
"il movimento è sorto in modo spontaneo, e si alimenta spontaneamente delle cre-denze, dei principi base della nostra cultura politica, quelli assimilati, quasi senza accorgersene, durante l'infanzia dalle conversazioni familiari e dai mezzi di comuni-cazione di massa."
Ma che cosa aveva scatenato un simile movimento di massa? Che cosa aveva fatto il governo per provocare una reazione così corale, così generale? E' difficile credere che in un paese occidentale si sia potuta formare una reazione così mirata contro l'annuncio di una riforma che aveva il solo scopo di rendere il lavoro dell'università più adatto alla produzione industriale, quindi più efficiente.
La riforma del progetto Ruberti prevedeva la presenza dei rappresentanti del mondo della produzione industriale nei consigli di amministrazione delle università. Questa presenza, insieme ad una accresciuta autonomia delle università avrebbe dovuto consentire il rapido finanziamento di attività di ricerca di sicuro interesse per le indu-strie, anche grazie a norme più rapide per la concessione di finanziamenti pubblici a parziale sostegno delle ricerche, e per la possibilità di creare consorzi tra enti pubblici (università ed istituti di ricerca) ed industrie private. Grazie anche ai consueti mecca-nismi amplificatori insiti nei mezzi di comunicazione di massa, il movimento si tra-sformò in rivolta generale contro una proposta che era stata interpretata come un grave futuro sopruso del governo: fare un tentativo per introdurre l'industria, e quindi il mercato con le sue tirannie, ma anche con la sua forza ed i suoi innegabili vantaggi, nella struttura delle università affinché il loro principale prodotto, i laureati, fosse più adatto ad entrare nel mondo del lavoro. Alberoni così prosegue:
"Ogni movimento parla a nome dei valori, contro l'ipocrisia, contro i compromessi....i temi profondi, sotterranei del nostro sistema politico non sono mutati. Prima di tutto la fiducia in quello che e' pubblico, statale, e la diffidenza verso quanto e' capitalistico, privato. Il progetto di legge Ruberti prevedeva un rapporto più stretto fra università e imprese economiche. Fin dall'inizio del movimento, a Palermo, questa proposta e' stata condannata. "Via le mani del capitalismo dall'università. Sono i vecchi temi del populismo cattolico e del populismo marxista."
Ma è necessario andare oltre questa interpretazione. Palermo non è Bologna o Fi-renze oppure Padova, capitali del pensiero marxista le prime due e di quello cattolico l'ultima. La rivolta assume un'importanza fondamentale, per la futura formulazione di una politica tecnologica in Italia, proprio perché non è nata in una delle capitali del pensiero cattolico o marxista e quindi il suo reale significato può essere ben diverso da un movimento nato dal grembo della sinistra. Proseguiamo esponendo la tesi di Alberoni.
"L'Italia è un Paese capitalistico che continua ad avere una cultura politica anticapita-listica." - Ecco la cultura dominante di sinistra e l'anticultura, quasi fuori legge, che invece lavora e produce - "Tutti si lamentano dell'invadenza della politica, dell'ineffi-cienza dell'apparato dello Stato. Però, intimamente, diffidano del mercato e ripongo-no la loro fiducia proprio nello Stato. Un altro tema è l'egualitarismo. La riforma Ru-berti prevedeva due livelli universitari: il diploma e la laurea."
Solo dopo il 1992 sono iniziati molto stentatamente i corsi per assegnare i diplomi u-niversitari. A questo siamo stati costretti poiché rischiamo di essere invasi da diplo-mati che hanno ottenuto il titolo in un paese della Comunità Europea, poiché quei titoli di studio hanno ora validità anche in Italia.
"... noi abbiamo un grande bisogno di competenze intermedie. Per esempio i nostri ospedali sono paralizzati dalla mancanza di infermieri. Questi sono pochi, poco pa-gati, non hanno prospettive di carriera. In compenso c'è un pauroso eccesso di me-dici. Bisognerebbe creare una ... carriera per infermieri, con ... diplomi universitari, specializzazioni e livelli retributivi adeguati. Questa riforma non è mai stata fatta per-ché ha sempre prevalso l'egualitarismo sindacale. ... Ma anche perché il movimento politico del 1968 non ha voluto i diplomi intermedi: "No, non deve esserci laurea di serie A ed una di serie B, tutti eguali!". Il nuovo movimento riprende esattamente gli stessi temi, vuole l'università per tutti, la laurea per tutti, lo stesso lavoro per tutti, for-se addirittura la stessa retribuzione per tutti. E' la società moderna specializzata, dif-ferenziata, che funziona solo prevedendo sistemi di carriera articolati? Agli studenti non interessa. Essi esprimono l'esigenza ideale dell'uguaglianza, il resto non li ri-guarda. Troviamo così la terza radice della nostra cultura politica, l'idealismo e la demagogia. Da dove prenderà le risorse lo Stato? Come potranno funzionare le im-prese se tutti sono ufficiali e non ci sono più soldati? ... Ebbene questo è un problema che non interessa la nostra classe politica emergente."
Da qui si riconoscono le cause di due fatti che poi si sarebbero verificati: il primo è la ricostituzione della fascia inferiore della società. Il secondo è la necessità sociale e politica di far lievitare il debito pubblico prevalentemente per coprire le spese correnti.
"Vediamo così riprodursi, spontaneamente, dal basso, uno dei mali maggiori del si-stema politico e della pubblica amministrazione in Italia. L'incapacità di commisurare razionalmente i mezzi ai fini, l'incapacità di portare a termine un progetto riformatore. C'è la dichiarazione enfatica, retorica, roboante, e poi la palude dell'inefficienza, la furbizia individuale, il nulla."
Ed infatti per i nostri sociologi l'Italia dovrebbe sprofondare nel nulla poiché nessun indicatore le assicura la sopravvivenza. Ma quel nulla in realtà ha un nome ed una sua reale presenza: è la controcultura. Torniamo ora ed esaminare le radici del mo-vimento, che prenderà il nome di "pantera", da una vera pantera che in quei giorni era fuggita dalla gabbia e che rimase in libertà nelle regioni dell'Italia centrale.
A Palermo non è possibile agire senza tener conto della presenza palpabile della ma-fia, sia che si abbia una posizione contraria, sia che si abbia una posizione favorevo-le. Allora le ragioni che potrebbero aver creato la "pantera" possono essere state almeno tre: una che essa nasce per opporsi alla mafia, l'altra per accettare le diretti-ve della mafia. La terza per eccesso di entusiasmo marxista. Analizziamo quest'ul-tima.
Ritorna l'opposizione strisciante dei comunisti alla diffusione dell'innovazione nell'industria privata.
In quegli anni molti giovani siciliani scoprivano il marxismo. Non è da stupirsi se i ne-ofiti hanno ricalcato, fuori tempo e fuori luogo, le orme dei loro predecessori del '68. E' vero che ogni commistione tra Università e Industria era stata osteggiata dal PCI sino alla fine degli anni '60. Ma si era avuto poi, almeno nelle dichiarazioni ufficiali, un rovesciamento della posizione di molti esponenti del PCI. Tra questi benemeriti è da annoverare il professor Giovanni Berlinguer (quando poi arriverà a fare il ministro del-la Pubblica Istruzione si dimostrerà invece essere un fanatico esecutore di un pro-gramma di ispirazione ideologica marxista, contrario ad ogni apertura al privato). E' strano quindi che il PCI non sia intervenuto per sedare gli animi, quando il partito a-veva già dovuto riconoscere la sua sconfitta con il distacco dall'Unione Sovietica, la cui crisi allora già si annunciava. E' quindi probabile, come sembra, che il PCI si sia accodato al movimento, dandogli incautamente il suo appoggio, visto che non aveva avuta la forza di fermarlo. Ma questo rivela che il movimento aveva altre cause molto forti, forse proprio quelle delle quali si è già detto: opporsi alla mafia oppure, al con-trario, accettarne le direttive, in ogni caso essere dentro l'anima del pensiero profon-do del sud.
In Sicilia ciò che è privato era, ed è tuttora, in larga misura sotto la diretta influenza della mafia. Ma c'è dell'altro: per un palermitano onesto avere gli industriali nei consi-gli direttivi dell'università è peggio che avere la mafia a dirigere l'università. Si tratta di una mancanza di rispetto di ruoli e competenze. Il mondo accademico ha una sua sacralità che nel resto d'Italia è sconosciuta. E la mafia non aveva alcun interesse che il progetto di Ruberti andasse in porto. Infatti gli "uomini della cupola" non erano certi di poter entrare con personaggi di loro fiducia in quei consigli direttivi. Anzi essi temevano che le industrie del Nord avrebbero inviato uomini di loro fiducia e che la società siciliana sarebbe stata guidata da un potere tecnocratico che, per un autenti-co meridionale, è peggio della peste. Per esplicita dichiarazione di uomini che rap-presentavano lo Stato, allora Palermo era una delle zone d'Italia dove era quasi cancellato il potere legale dello Stato, uno Stato ridotto al compito di elargitore di sti-pendi e di finanziamenti in prevalenza a fondo perso. A parte qualche folcloristica manifestazione di facciata contro il potere mafioso, non sembra che questa condizio-ne mafiosa endemica abbia mai turbato molto i pensieri dei giovani universitari sici-liani. Gli stessi giovani invece si scagliarono, in maniera dura e senza esitazioni, con-tro il governo italiano che aveva avanzato quella proposta. E' impossibile pensare che un potere così vasto e ramificato come quello mafioso in Sicilia, un potere allora sorretto dal consenso popolare, lasciasse senza guida ed indirizzo i giovani rampolli della società siciliana alle prese con le difficoltà degli studi e dell'inserimento in un la-voro connotato dalla "crudeltà" delle nuove tecnologie. Probabilmente la riforma pro-posta da Ruberti avrebbe convogliato soldi dell'industria verso le poche università ita-liane in grado di fare lavoro di ricerca e di formazione di tecnici veramente utili all'industria. Ma queste poche università non erano al sud. Quindi niente flussi di denaro da intercettare.
Le radici storiche dell'opposizione alla tecnologia nel sud.
Ma il problema non era solo questo. La realtà è che la società meridionale ha "stori-camente" scelto una linea di pensiero e di prassi che rifiuta l'innovazione soprattutto tecnologica, proprio perché, per sua natura, l'innovazione genera mutamenti sociali, che rischiano di sfuggire al controllo e di non rimanere nell'ambito delle vecchie rego-le.
Avendo anche quei giovani rampolli scelto nei fatti una linea di rifiuto, soprattutto ide-ologica, contro l'innovazione, non ci fu allora e non ci sarà mai intervento statale, poli-tico o industriale che possa inserirli nel mondo della produzione del sistema industria-le. Assurdo è quindi chiedere i redditi che solo un sistema industriale può dare. I nu-merosi interventi statali hanno solo reso cronico il perenne bisogno di sovvenzioni e sussidi. In quegli anni si stava esaurendo l'ultima dotazione assegnata alla Cassa del Mezzogiorno, una dotazione che in totale fu di ben 120 mila miliardi.
Il principio ispiratore del movimento della "pantera" mise la pietra tombale sopra ogni possibilità di sostenere, con finanziamenti pubblici, lo sviluppo tecnologico, indispen-sabile per un paese che vuole restare industriale e non regredire a livello di quarto mondo. Dopo la "pantera" i politici in Italia sapranno con certezza che i finanziamenti alla ricerca sono diventati una farsa perché gli italiani in realtà non credono (e non vogliono credere) nella propria capacità di costruire innovazione. E' anche apparso chiaramente che la politica italiana, nel dopoguerra, è stata costantemente dettata dallo spirito meridionalista. Andare contro la volontà della gente del sud era impen-sabile. E fu assurdo far pilotare la politica industriale italiana dalla gente del sud. Questa gente, pur con tanti meriti, ha tuttavia il peccato di dare alle cariche accade-miche (come alle cariche in magistratura e nei ministeri) un grande peso sociale in sé. La ricerca avrebbe portato enorme prestigio alle università del centro-nord, e questo il sud non poteva permetterlo. Nessuno al sud capisce che la ricerca non de-ve essere una fabbrica di vincitori di concorsi a cattedra, ma è un fondamentale strumento di lavoro. E nessuno al sud ha ancora capito che se il nord non può lavora-re, perché privato dell'innovazione, certamente non si avranno altri finanziamenti per "sostenere" il sud.
Quindi la rivoluzione contro il vero rinnovamento dell'università partì dal sud. Un sud diffidente del nuovo, conservatore, ma che tuttavia, proprio con il suo voto "conserva-tore" nel dopoguerra, insieme al Veneto, aveva avuto il grande merito (ed il buon senso) di salvare anche il centro-nord dalla rovinosa avventura comunista che in-combeva sull'Italia. Dopo il movimento della pantera la classe politica sembra con-vincersi che in Italia sarà molto difficile, se non impossibile, percorrere la strada che stanno tracciando i paesi industrialmente più progrediti. Anche se questa conclusione può sembrare affrettata, poiché è difficile immaginare che i politici abbiano mai avuto sull'argomento una qualsivoglia convinzione, tuttavia in seguito si smise di fare pro-getti sulla tecnologia come panacea dei nostri mali. Dopo ci si comportò come se si fosse arrivati a credere nell'impossibilità storica per gli italiani di percorrere la strada della crescita tecnologica. Il risultato fu quindi una rinnovata fioritura di convegni, ta-vole rotonde e congressi sulla ricerca scientifica. Ma in concreto nessun politico ri-schiò un'unghia della sua credibilità sull'argomento politica tecnologica.
Le possibili cause della nostra anomalia. Il ruolo delle piccole e medie aziende.
E' stata avanzata l'ipotesi che, per decisione dei vincitori, dopo la guerra l'Italia a-vrebbe dovuto svolgere un ruolo del tutto secondario nell'ambito dell'economia occi-dentale. Per- sino l'attività di Cinecittà, con il successo dei film neorealisti, dava fa-stidio agli americani, che incaricarono l' allora giovane Andreotti di mettere un freno alla nostra risorta cinematografia con la scusa della censura. La grande industria ita-liana venne devitalizzata grazie ad una serie di interventi, che iniziarono dall'epura-zione dei quadri dirigenti per sospetta connivenza con il passato regime. Gli interventi distruttivi si svilupparono attraverso l'ostilità dei sindacati, pilotati dai comunisti, per eliminare le aziende non gradite, come quelle ad alta tecnologia, con la scusa che erano state impegnate nella produzione militare. Gli interventi proseguirono con l'entrata in scena dei partiti politici, che chiedevano il pizzo ed imponevano uomini di loro fiducia nei posti chiave. Persino l'integerrimo Einaudi mise il suo contributo bloccando il credito nel '47 e arrestando la nostra prima espansione economica del dopoguerra con la giustificazione che si era creata un pò di inflazione, che in realtà derivava dalle Am-Lire, generosamente stampate dagli anglo-americani per pagarsi le spese di guerra.
Solo le piccole e medie aziende private sfuggirono a questa logica, insieme a po-chissime grandi aziende, come il gruppo ENI grazie alla figura di Mattei ed al suo gruppo di tecnici. Gli italiani debuttarono con lo scooter, un veicolo derivato dalle pic-cole moto, che gli alleati usavano per spostarsi negli aeroporti. Poi fu la volta dei frigoriferi e degli elettrodomestici. Ma tutto avvenne tra sotterfugi e difficoltà di ogni genere. Gli industriali che non accettarono la "protezione" del partito comunista (nei comuni in cui questo governava), oppure della mafia (la' dove questa controllava il potere politico), dovettero lottare contro tutto, a cominciare dal governo di Roma. In questo clima l'innovazione venne comperata, rubata, prodotta con espedienti incredi-bili, e poi, quando trovata valida, tenuta nascosta. I brevetti potevano essere un mo-do per far conoscere l'innovazione ai concorrenti, quindi meglio evitare inutile pubbli-cità. Alla fine la stessa cultura del popolo italiano è stata stravolta. Noi siamo cresciuti dentro un'anticultura, in una continua ribellione alla cultura scientifica ufficiale, che sentivamo nemica. La cultura accademica, internazionale non è neutrale, ma è orga-nica al potere dei suoi maggiori finanziatori, che certamente non hanno a cuore il successo degli italiani. In Italia questa cultura accademica molto spesso finiva per presentarsi come portavoce di un progresso di sinistra. La nostra produttività è stata in realtà il frutto di una colossale devianza, che è iniziata con la necessità di pagare il "pizzo" alla Guardia di Finanza.
Da qui prende l'avvio il sommerso, la cui nascita è concomitante alla formazione del-la cultura della tangente, quella tangente che poteva assicurare una zona franca, do-ve era garantita l'autonomia dai poteri statuali deviati, la salvezza da ulteriori rapine politiche. Ma il sommerso può vivere sino a che rimane ai margini o fuori dalle leggi e vive sino a quando può appoggiarsi ad un apparato industriale, privato e pubblico, in grado di reggersi. Pensare di far riemergere il sommerso è un'autentica stupidaggine poiché equivarrebbe a distruggerlo, essendo questo formato da attività che per loro natura non potrebbero reggere il pieno regime fiscale.
La storia dei protagonisti della piccola industria e del sommerso si snoda lungo tutti i cinquanta anni del dopoguerra. Essi hanno dovuto combattere contro le istituzioni, ostili e rapaci, contro i sindacati, ansiosi di far fallire le aziende private per trascinarle nel campo dell'azionariato di Stato, contro le decisioni della Comunità Europea, in realtà propaggine degli interessi del grande capitale internazionale. C'è stato il perio-do della contestazione scatenata dalla sinistra rivoluzionaria, un miscuglio poco chia-ro di legami con movimenti nati negli Stati Uniti, diventati realmente rivoluzionari e di-struttivi dopo aver attraversato l'Atlantico. Il tutto è stato poi riassorbito nella storia del comunismo italiano ed europeo, assumendo un significato mitico: il movimento del '68.
C'è stata poi la lunga stagione dei sequestri di persona, sequestri che hanno colpito spesso sconosciuti personaggi di questa economia "sommersa", di questa controcul-tura. Quella dei sequestri è stata un'attività criminale che non si può dire essere oggi conclusa, anche se non ha più la virulenza degli inizi. Recenti statistiche dicono che il 73% dei sequestri rimangono impuniti. Si tratta di un reato gravissimo di fatto tollera-to dal potere politico per realizzare un sussidio compensatorio verso la miseria di al-cune tra le più misere aree meridionali, ideologicamente refrattarie ad ogni tentativo di crescita economica. In realtà viene raggiunto anche il risultato di usare un facile strumento di ricatto e pressione contro questa categoria sommersa, refrattaria a subi-re i condizionamenti dei partiti. Grazie alla linea inaugurata dal governatore Ciampi, la restrizione del credito alle piccole inziative artigianali e commerciali ha fatto esplo-dere il credito clandestino, l'usura, imparentata strettamente con la criminalità mafio-sa. Infine i piccoli industriali hanno dovuto sopportare "Mani pulite". Un fatto che molti di essi all'inizio pensavano essere la liberazione dalle umiliazioni e dai taglieggiamenti imposti da tutto il potere politico, sino alle sue infime propaggini. In-vece il vero significato di "Mani pulite" si rivelerà essere una farsa, un modo per scaricare la rabbia di chi è rimasto fuori della porta, di chi è frustrato, mettendo alla gogna industriali e politici colpevoli e non, in un rito liberatorio che un tempo era as-segnato ai giorni di carnevale. Le tangenti restano mentre il lato politico della saga giudiziaria ha mostrato di essere niente altro che la strada maestra della scalata al potere della sinistra comunista in opposizione alla sinistra socialista. Infatti, con un'operazione altamente selettiva, che ha nascosto i reati tangentizi dei comunisti e messo in piazza quelli degli altri partiti, un ristretto gruppo di magistrati, appoggiati anche da una destra idiota, ha tolto di mezzo l'intera classe politica dei partiti della maggioranza. Da tangentopoli si è così sapientemente costruito un golpe giudiziario, che ha trovato l'appoggio neppure tanto mascherato dell'ambasciata USA in Italia e di gruppi dell'alta finanza internazionale.
2) Anthony Daniels mette a confronto Italia ed Inghilterra.
"Mani pulite", oltre che strumento di una improbabile giustizia, appare essere stato un mezzo per eliminare politici, industriali ed interi partiti politici invisi ai reggitori occulti del vero potere in Italia, oggi un potere così oscuro che si sarebbe persino tentati di credere che in realtà non esista affatto. La politica in Italia sembra avesse raggiunto vertici di assurdità e travisamenti assolutamente ineguagliabili. Ma si può affermare che questo modo di fare politica ha realmente ostacolato la crescita economica ed il benessere degli italiani? Crescita e benessere che indubbiamente si sono verificati. Si può dimostrare che l'Italia sarebbe oggi molto più ricca e felice se i suoi rappre-sentanti politici fossero stati onesti, coraggiosi, competenti e capaci di fare scelte giuste e preveggenti?
Il giornalista Anthony Daniels (3) sul Daily Telegraph del 30 dicembre 1994 fa un confronto tra Italia ed Inghilterra, paese questo dove la moralità politica, per antica consuetudine e grazie ad efficaci strumenti di controllo, pare sia molto superiore a quella vigente in Italia. Ma Anthony Daniels così scrive:
"One could argue that the Italians have prospered precisely because they suffer from institutionalised corruption."
Daniels ha il sospetto che l'Italia non si debba giudicare semplicisticamente utiliz-zando gli indicatori economici usati normalmente nelle analisi dei sistemi economici. Il titolo del suo articolo è: "Chi dice che essi hanno bisogno di mani pulite al ti-mone?" Egli parte dalla constatazione che l'Italia sino ai primi anni sessanta aveva consumi e benessere paragonabili a quelli di Cuba nello stesso periodo. Dopo alcuni decenni l'Italia ha un livello di benessere decisamente superiore a quello della Gran Bretagna, che per almeno tre secoli è stata economicamente molto superiore all'Ita-lia. Che cosa sia realmente accaduto in Italia Daniels non lo sa, ma, contro tutte le apparenze, è convinto che non si tratti di faccende spiacevoli. Pare che il sano empi-rismo inglese, di cui Daniels è largamente fornito, gli impedisca di capire anche ciò che è accaduto in Inghilterra, e questo fatto è un pò più grave. Mentre l'Italia era partita dopo la guerra con un bagaglio tecnologico considerevole, anche se amma-lato di immobilismo, come era apparso chiaramente nel periodo del mancato sforzo industriale durante la guerra, al contrario l'Inghilterra usciva dal conflitto con un indi-scusso predominio tecnologico in molti settori, avendo anche dimostrato una grande capacità di crescita proprio durante il periodo 1940-45 del massimo sforzo bellico.
Le vicende dell'industria inglese.
In settori come quello aeronautico e quello elettronico gli inglesi superavano anche gli Stati Uniti. Nella chimica, dopo la distruzione dei colossi tedeschi, per almeno un decennio contesero il primato agli Stati Uniti. Tutto era poi sostenuto da una solida struttura di ricerca, basata sulla collaborazione delle università e su istituti privati e pubblici di provate capacità. Inoltre la necessità di mantenere la guida del Common-wealth richiese la prosecuzione di una politica di aggiornamento degli armamenti, la cui consistenza avrebbe dovuto reggere il confronto con quelli americani e russi. La storia dei fallimenti dei tentativi degli inglesi per mantenere il rango di grande poten-za è anche la storia patetica della fine dell'Inghilterra come potenza militare ed eco-nomica. Gli inglesi fallirono in tutto.
Non riuscirono ad inserirsi nella gara tra Stati Uniti ed Unione Sovietica per il predo-minio dello spazio. Infatti il loro vettore, il Blue Streak, non divenne mai operativo. Con l'errore commesso nella costruzione della fusoliera del Comet persero la possibilità di competere nella produzione dei grandi aerei di linea dell'aviazione commerciale. Si dovettero accodare alla Francia per la costruzione dell'aereo supersonico Concorde, un splendido aereo del quale tuttavia gli americani decretarono il fallimento grazie ad una serie di ostacoli burocratici negli aeroporti USA. Il Comet della ditta De Havilland (uscito con la sigla DH106) era stato concepito ancor prima della fine della guerra, su indicazione di un Comitato di coordinamento presieduto da Lord Brabazon. Il primo prototipo volò nel luglio 1949 ed entrò in servizio nel 1952. Nella versione con i motori Rolls-Royce Avon il Comet ebbe un grande successo commerciale. Ma nel gennaio 1954, dopo l'ennesimo incidente, avvenuto presso l'isola d'Elba, i Comet venivano fermati per verificare a terra la resistenza della fusoliera. Si scoprì che la struttura dell'aereo cedeva per "fatica", uno fenomeno che non era mai stato preso in considerazione in aeronautica. Il Comet 4, che superava questo gravissimo errore di progettazione, divenne operativo nel settembre 1958, quando nel frattempo gli americani stavano per mettere in servizio il Boeing 707, il quadrigetto che era stato progettato utilizzando l'esperienza del Comet e che lo sostituì. Per gli inglesi fu un colpo mortale poiché non ebbero più la forza di competere con l'industria aeronautica americana. Per molti settori industriali gli inglesi ebbero percorsi caratterizzati da esiti analoghi. Nel settore dell'impiego pacifico dell'energia nucleare spesero somme ingenti ed alla fine dovettero ripiegare su reattori americani. Pur disponendo di una elevata tecnologia, essi non furono in grado di conquistare i nuovi mercati che si aprirono nel dopoguerra.
L'influenza negativa del tanto celebrato sistema politico britannico.
Gli inglesi, finita la guerra, non furono in grado di pianificare i loro sforzi. Essi chiese-ro e pretesero l'applicazione puntuale e meticolosa delle regole della democrazia. Cacciarono nel dimenticatoio la professionalità e la lungimiranza della loro classe di-rigente, ancora legata ai vecchi ma non logori schemi aristocratici. Essi iniziarono la stessa decadenza che colpì la democrazia ateniese, dove i capitali di investimento venivano tassati per distribuire continue regalie ai meno abbienti. E' noto che Atene, dotata di un'altissima tecnologia, non poté compiere nessuna delle grandi imprese che invece furono appannaggio del sistema industriale di Roma. Gli inglesi vollero avere l'assistenza medico-ospedaliera gratuita ed una serie di provvidenze sociali il cui costo non poteva essere pagato dalla loro scarsa produttività. Per di più pretese-ro anche di essere onesti, e questo, quasi certamente, fu il colpo fatale che ricevette la loro economia.
Ma come non è facile capire il percorso della tecnologia italiana e lo scarso legame con la crescita industriale ed economica dell'Italia, altrettanto difficile è rendersi conto delle cause che stanno dietro la caduta industriale ed economica di un paese tuttora ad altissima tecnologia come l'Inghilterra. Possiamo cercare di enumerare le cause accertate, tutte sicuramente concorrenti alla disfatta inglese, ma nessuna di queste può essere riconosciuta come decisiva. L'industria inglese fu completamente votata alla produzione militare durante la seconda guerra mondiale. Le difficoltà della ri-conversione alla produzione civile furono enormi. Un ruolo negativo fu certamente quello che svolse la politica inglese, tutta rivolta alla soluzione dei problemi sociali in una società per sua natura poco dinamica e conservatrice. La Gran Bretagna è tutto-ra il paese d'Europa per certi aspetti socialmente più arretrato. La vicinanza con altri popoli europei, imposta dai mezzi di comunicazione di massa e dagli scambi molto accresciuti, si tradusse in una grande richiesta di democrazia sostanziale che tolse di mezzo la vecchia classe dirigente aristocratica e quindi "permanente". Le continue alternanze dei governi con la guida dei laburisti e dei conservatori si tradussero in un continuo mutare dei programmi di intervento del governo, cosi' che fu impossibile pianificare alcunché. Poiché continuarono egualmente a fare programmi, e ad iniziarli per interromperli ad ogni successivo cambio di guida politica, il tutto si risolse alla fine in uno sperpero colossale di pubblico denaro, sperpero che venne aggravato dall'onesta' e dal rigore dei pubblici amministratori. Infatti una certa dose di tangenti avrebbe almeno permesso di inserire nel ciclo produttivo dei beni di consumo capitali destinati alla pura totale distruzione. Lo scopo della politica non può essere ridotto, come alcuni oggi pensano in Italia, all'imperativo di negare uno storno del 2-3% del totale delle spese statali verso impieghi personali o nell'interesse di gruppi di potere. La politica è nel soddisfare le aspettative "vere" della gente. La difficoltà di fare poli-tica è tutta nello scoprire cio' che la gente veramente si aspetta senza sapere bene prima di che cosa si tratta. La politica non si fa con i sondaggi di opinione. I sondag-gi possono solo servire a posteriori per sapere se chi guida ha sbagliato, ma quando ha sbagliato di solito se ne accorge anche senza sondaggi. E le accuse di furto, non il furto in sé, sono uno dei modi per dire ad un politico o ad un intero sistema politico che ha sbagliato e che se ne deve andare. Altra causa può essere individuata nel crollo etnico della Gran Bretagna, crollo al quale anche l'Italia oggi va incontro. Que-sto crollo è poi coinciso con il sopraggiungere di interi gruppi sociali esterni non fa-cilmente assimilabili, rimasti in atteggiamento questuante verso lo Stato e le istituzio-ni. Il periodo del governo della Thatcher alla fine pare abbia solo aggravato la situa-zione.
L'Italia invece ha goduto di una sostanziale stabilità politica, coperta e mascherata da una pirotecnica instabilità di facciata. I problemi per l'Italia sono cominciati quando l'instabilità politica, dopo la caduta dell'ultimo governo Andreotti, è diventata reale.
3) Limiti dell'espansione dell'economia italiana fondata sulla "con-trocultura".
Ma la realtà cambia e noi restiamo fatalmente fuori gioco. Infatti la tecnologia assu-me un ruolo crescente quale fattore di concorrenza tra aree industriali. Il ruolo delle imprese nella creazione della tecnologia è diventato sempre più importante, come ri-sulta dalla maggiore quantità di risorse che le imprese debbono destinare alla R&S. In tutto il mondo si verifica la tendenza verso la concentrazione di tecnologia specia-lizzata in aree industriali omogenee. Di fronte a questa tendenza il sistema italiano sembrerebbe trovarsi in grave ritardo, soprattutto per quanto riguarda la capacità di produrre in proprio innovazione. Negli ultimi venti anni, l'industria italiana ha seguito un percorso di sviluppo diverso da quello delle industrie concorrenti di altri paesi, an-che se è persino difficile parlare oggi di un'industria italiana, difficilmente riconduci-bile ad una sola area omogenea. Per quanto i positivi risultati economici finora con-seguiti dall'industria italiana possano anche giustificare il comportamento delle nostre imprese verso l'innovazione, occorre riconoscere che ora la difficoltà a essere com-petitivi sui mercati esteri è dovuta principalmente alla mancanza di un livello tecnolo-gico adeguato. L'esperienza italiana mostra oggi chiaramente quali siano i limiti e la vulnerabilità di un sistema industriale moderno che basa il suo sviluppo su una deli-berata carenza di forza tecnologica. Ci si deve domandare come reagiranno le isti-tuzioni pubbliche e le imprese alla crisi economica, che è iniziata nel 1992, e che non è ancora al termine. Nei precedenti periodi di depressione l'industria italiana ha reagi-to ristrutturando gli impianti per comprimere i costi di produzione, ma ha anche ridot-to gli investimenti a lungo periodo, nei quali sono incluse le attività innovative. Anche nella congiuntura attuale sembra che la strada seguita sia sempre la stessa. Ma fino a quando la sistematica rinuncia alla tecnologia, soprattutto per l'innovazione nei beni prodotti, potrà essere efficace in futuro come lo è stata nel passato? C'è oggi spazio per continuare con il vecchio modello di sviluppo fondato esclusivamente su beni di consumo tradizionali? Già si vedono chiari segni della inadeguatezza del nostro si-stema a reggere il confronto sui mercati. La crescente deindustrializzazione ha as-sunto dimensioni che dovrebbero apparire allarmanti se il potere politico si decidesse ad aprire gli occhi sui problemi reali.
La deriva del sistema-Italia, privo di una qualsiasi politica industriale.
La risposta del sistema forse sarà quella di andare alla deriva, adeguandosi, secon-do le leggi del mercato, alla mutata realtà. La deriva significa ancora una volta entra-re nella spirale svalutazione-inflazione, con la riduzione dei salari reali e con l'aumen-to della disoccupazione, mentre la deindustrializzazione è sempre più conseguenza dall'incapacità di sostituire le produzioni manufatturiere, diventate obsolete, con altre produzioni che abbiano maggior contenuto tecnologico e maggiori margini di guada-gno. Il pericolo della deindustrializzazione in Italia è reso ancor più grave dalla en-demica inefficienza dei servizi pobblici. Da questa situazione discende la corruzione, che paradossalmente diventa l'unico reato importante, sentito insieme come atto su-premo di coraggio e massimo insulto. Il furto del denaro pubblico è considerato un atto sospeso tra l'eroismo e l'infamia. Si veda ad esempio l'autentica sollevazione popolare in favore di De Mita nell'avellinese, dove l'uomo politico ha fatto arrivare, a compenso dei morti e dei danni del terremoto, grandi risorse finanziarie, peraltro in gran parte distrutte da opere pubbliche ed iniziative industriali sbagliate. Con queste contraddizioni gli italiani affrontano il futuro privi di una qualsiasi decente concezione dello Stato, dell'industria, della cosa pubblica in generale ed oggi anche di quella pri-vata come la famiglia. Quindi proporre un cambiamento nel nostro modo di accumu-lare tecnologia, o meglio proporre un qualche modo di accumularne, visto che nes-sun modo di accumulazione oggi esiste in Italia, è impossibile e del tutto inutile. Le capacità tecnologiche non si improvvisano e non sarebbe possibile in Italia sostenere un programma di finanziamenti attorno ad un obiettivo che abbia una durata superio-re alla durata media di un politico nella carica di ministro. Nel lavoro sopra citato (1) si pone la domanda se sia possibile ed opportuno abbandonare settori produttivi in crisi per tentare di "saltare" in altri che dimostrino promettenti sviluppi.
"Quali sono i rischi di fallimento insiti nell'abbandonare le già sperimentate traiettorie tecnologiche per battere le nuove vie?".
I rischi di fallimento sono molti poiché capacità tecnologiche vincenti non si improvvi-sano e per raggiungere un livello competitivo si richiedono investimenti a lungo ter-mine, intelligenza ed un lungo impegno. Istruttivo è l'esempio del Giappone che do-vette compiere una lunga marcia per conseguire la supremazia tecnologica in alcuni settori.
La differenza tra saper convincere e saper fare.
Quindi cercare di entrare in altri settori, dai quali oggi siamo esclusi, appare velleita-rio e quindi improponibile. Ma anche se il potere politico in carica decidesse di impe-gnare tutto il suo prestigio nel tentativo di recuperare all'industria italiana settori che oggi ci sono proibiti, esso sarebbe in ogni caso destinato al fallimento, anche se ve-nissero investite risorse finanziarie adeguate e chiamati alla direzione dei programmi di ricerca persone di indubbio valore. Infatti per far decollare un qualsiasi program-ma di mutazione della società e delle sue strutture è necessario che la società sia di-sposta ad accettare le conseguenze della mutazione. E la mutazione che consegue all'avvento della fede nella tecnologia comporta la creazione di una gerarchia sociale fondata sul saper fare. In Italia, se si toglie una breve parentesi del periodo post-risorgimentale, e prima, durante il tempo del Rinascimento, ha sempre regnato so-vrano il principio che la gerarchia sociale si costruisce sulla base del saper convince-re, con la parola, con le idee, con il denaro, con la violenza, anche con l'inganno, ma sempre saper convincere contro e al di sopra di una realtà obiettiva, della quale si deve ignorare l'esistenza. Uno dei teorici illustri di questo principio fu Benedetto Cro-ce. La gerarchia del saper convincere contraddice la gerarchia del saper fare, che al contrario si fonda sul riconoscimento del valore della realtà oggettiva, la realtà del mondo fisico. Questo scontro viene riportato nelle cronache quotidiane dal contrasto tra politica e tecnica, contrasto che ha avuto il suo momento di massima celebrità negli anni della condanna di Felice Ippolito. Torniamo al lavoro citato:
"Le analisi disponibili sul sistema innovativo italiano mostrano che questi dilemmi non sono affatto nuovi. Essi vennero posti, esattamente negli stessi termini, alla fine degli anni '70. Negli anni '80 non solo l'economia italiana non ha fatto il salto, ma non ha neppure tentato di farlo. Si è così perso un decennio, caratterizzato da condi-zioni macro-economiche relativamente favorevoli e da un tasso di cambio che poteva consentire ben più ampi investimenti di lungo termine. Finita l'euforia, il sistema tec-nologico italiano si ritrova oggi con gli stessi problemi e di fronte alle stesse scelte di dieci anni fa." (Errore: la sfida è perduta definitivamente come si vedrà nel seguito. n.d.a.)
Un potere politico che non ha creato una cultura dominante.
Se si vuole cercare una spiegazione politica globale per il caso Italia si può iniziare da una affermazione ovvia: in tutti i paesi la classe dominante adotta una cultura che viene resa egemone, mentre le altre culture, che diventano subalterne, possono con-vivere, se siamo in regimi democratici. L'anomalia è data dal fatto che in Italia la cul-tura egemone non è stata quella della parte politica dominante, e neppure della clas-se economica. Entrambe hanno rinunciato a controllare la cultura, inclusa quella cul-tura che è sostenuta dallo Stato. La parte politica dominante si è limitata ad arginare, in alcuni casi, lo straripare della cultura costruita ed imposta dall'opposizione di sini-stra. La causa non secondaria di questa anomalia è nella presenza della controcul-tura.
La cultura italiana è un'appendice del potere politico reale, che è stato un pote-re di sinistra. Un dibattito tra due esponenti della cultura politica: Paolo Mieli e Biagio De Giovanni.
In Italia, sin dal primo dopoguerra, è esistita l'egemonia comunista nella cultura. Do-po la caduta del muro di Berlino, la situazione paradossale esistente sfociò in un raf-forzamento del predominio culturale comunista, la cui influenza nella formazione del-la pubblica opinione divenne ancora maggiore. Galli della Loggia lanciò il sasso nel-lo stagno. Seguirono vasti ed appassionati dibattiti ma alla fine furono ancora gli intellettuali di sinistra a condurre il gioco del finto processo, come quello contro la ca-sa editrice Einaudi, principale strumento di quel predominio comunista. E' interes-sante a questo riguardo un dibattito trasmesso dalla Radio 3 RAI tra il comunista Biagio de Giovanni e Paolo Mieli, allora direttore del Corriere della Sera. Mentre il primo disse che la cultura di sinistra si era imposta per la forza del pensiero di Gramsci, che seppe mediare tra la nostra iniziale filosofia idealistica-crociana e quella marxista, il secondo, al tempo nelle vesti di critico del comunismo, parlò senza reticenze di egemonia culturale del partito comunista per precisa strategia di Togliat-ti. Ma la tesi di Mieli, sotto questo aspetto, è pienamente congruente con il concetto di controcultura. Dice Mieli:
"La cultura liberale sino agli anni '60 pagò un prezzo alto perché in qualche modo era sospettata di essersi arresa al fascismo. La cultura liberale, che sarebbe stata l'anta-gonista di quella marxista - non nella visione crociana che .. in quel modo fu sussun-ta da questa nuova egemonia (quella comunista), ma per quello che riguardava l'a-pertura al mondo anglosassone - si riaffacciò nel dopoguerra con un tallone d'Achil-le, con questo terribile sospetto di essere stata in qualche modo connivente, non a sufficienza avversaria del fascismo. Non che Croce fosse stato fascista, però c'era stata una strana convivenza negli anni '20 e '30. Ed il prezzo questa cultura lo do-vette pagare cedendo il passo. La cultura marxista ne approfittò e questo fu occasio-ne di esercizio di egemonia politica, oltre che culturale, da parte del partito comuni-sta, che riuscì a riprendersi in campo culturale, parlo dell'editoria, del cinema, delle arti visive, dell'università una rivincita sulla sconfitta elettorale del 18 aprile del '48. ... Togliatti, grazie a questa debolezza degli avversari, riuscì ad avere una rivincita e a controllare per molti anni, con Alicata ed i suoi, sostanzialmente la cultura italiana. Vicende connesse al dibattito culturale delle Botteghe Oscure di casa comunista pro-vocavano negli intellettuali italiani drammi personali da cui questi intellettuali non si riavevano..."
Per completare il quadro si deve anche dire che molti uomini, di cultura fascista o simpatizzanti, dopo la guerra divennero ferventi comunisti andando ad ingrossare le file degli intellettuali organici all'ideologia marxista. Coloro che ebbero la folgorazio-ne della conversione al comunismo ebbero salva la carriera ed anzi molti ebbero una nuova stagione di successi. Le difficoltà ideologiche per fare questo passo non furo-no poi così ardue poiché il fascismo, nella sua ultima stagione: quella della repubbli-ca di Salò, aveva compiuto passi decisivi verso una forma politica di sinistra. Ma tut-te queste contorsioni non interessarono molto la grande maggioranza degli italiani che dovette misurarsi con i duri problemi quotidiani. E gli italiani sperimentarono la validità della loro vera cultura nella lotta di ogni giorno contro le infinite difficoltà deri-vanti da una sconfitta militare e da distruzioni inflitte più per garantire la sottomissio-ne economica e politica che per affrettare la vittoria.
Il ruolo storico della controcultura.
La controcultura (e non la cultura egemone) è stata in realtà l'anima ed il vero soste-gno del potere della prima repubblica, anche se il potere (democristiano) non ha ri-cambiato il favore. L'economia sommersa, che il potere politico cercò di far entrare nella logica della sottomissione clientelare (in cui da sempre vive e prospera la gran-de industria in Italia) è una delle manifestazioni di questa nostra anomala controcul-tura. E l'economia sommersa è stata l'unica possibile risposta all'impossibilità di ac-cumulare capitali di investimenti, impossibilita' che è dipesa dall'essere le detrazioni fiscali soggette alla benevolenza del potere politico e burocratico, e dall'essere stato ostacolato l'accumulo delle conoscenze tecnologiche con il meccanismo politicizzato dei finanziamenti statali delle ricerche. Questa area di controcultura non si è indeboli-ta ma si è rafforzata con la crescita del debito pubblico, che si è dilatato per alimenta-re l'inesauribile voracità dei collateralismi ai partiti politici. Infatti molta parte del corri-spondente credito privato à nelle mani di quella parte della società italiana che è fon-data sulla controcultura. Questa cultura-contro si è espressa con simboli e segni che si caratterizzano per la loro estrema bruttezza. Questa è l'Italia dei palazzinari, che hanno costruito baraccopoli di lusso con la pretesa di essere città, l'Italia della strafot-tenza del brutto, che è stata l'espressione vera di questa controciviltà. L'Italia del cat-tivo gusto orripilante, che si è sviluppato insieme alla crescita economica, insieme alle prime esportazioni di capitali all'estero, l'Italia del morboso tifo calcistico, l'Italia delle prime liste civiche autonomiste è l'Italia di questa controcultura. Ma questa è anche l'Italia che ha finanziato l'altra Italia, quella progressista, quella colta, quella che ha ben remunerati rappresentanti negli organismi internazionali, quella che quin-di è internazionalista, sempre all'avanguardia, quella snob, quella che oggi plaude "mani pulite".
La ragion d'essere della controcultura si è concentrata nel tessuto produttivo, fatto da una miriade di piccole industrie, che sono sempre state fuori legge sia perché nate da una ribellione iniziale, sia perché nel frattempo le leggi erano state fatte contro di loro. Alla fine questa controcultura è entrata nella politica attiva inizialmente con i movimenti leghisti, caratterizzati dal rifiuto di qualsiasi regola di razionalità, comprese anche le regole della scienza e della tecnica. Poi la controcultura si è entusiasmata di Forza Italia, un movimento che supera la fase della protesta per arrivare a formula-re proposte per un nuovo modo di governare. Per una stagione Berlusconi diventa il campione di questa nuova forza sociale, che viene sempre più assumendo connotati politici. Intanto l'ala ribelle di questa parte della società in fermento sfocia nell'irrazio-nalità esponendosi quindi, per ingenuità, ad essere inconsapevolmente sempre più strettamente al servizio del grande potere internazionale del capitale tecnologico.
La non-arte della controcultura.
Anche nel gusto artistico la controcultura sembra avere un sussulto di coraggio, libe-randosi dalla dittatura dell'arte astratta, del modernismo, delle infinite mode e ten-denze, che per tutto il dopoguerra hanno preteso di tradurre in immagini la mistica dell'antifascismo, la forza del pensiero marxista e dialettico-materialista, della libertà progressista. La dittatura degli Zevi si è allungata a coprire d'infamia il post-moderno e a colpire inesorabilmente tutto ciò che avesse il più vago sapore di realismo e di verità. Il colmo dell'assurdo è che l'arte moderna occidentale, prevalentemente di si-nistra, ha sempre ignorato l'arte realista sovietica, tutta concentrata sulla celebrazio-ne dei fasti del socialismo reale agli occhi del popolo russo. Ora si verifica che quel-l'arte russa in occidente ha un mercato mentre gli epigoni dell'arte astratta occidenta-le non trovano più compratori. La controcultura ora si affaccia alla ribalta con il co-raggio di dire ciò che le piace, e afferma il principio che un quadro ha da essere un quadro dove si capisca il significato delle forme che vi sono dipinte senza dover es-sere educati da solenni critici a capire ciò che non ha alcun senso.
Come si è detto la classe che ha detenuto il potere economico (ma non quello politi-co) non ha imposto una cultura in Italia, così che la cultura dominante è stata di fatto, ed in molti casi anche di diritto, creata dalla sinistra, una sinistra marxista, non orto-dossa e non sempre allineata con i dettami stabiliti da Mosca, ma sostanzialmente in linea con i grandi principi dell'internazionalismo comunista. Questa creazione di cul-tura era basata più sulla distruzione di quella precedente, più sulla mistica dell'antifa-scismo che non sulla creazione di una autentica, reale, nuova cultura. Quindi si è formato un pensiero politico comunista egemone che ha tollerato temporaneamente un certo sviluppo, limitato e frenato, dell'economia capitalistica in Italia.
Il ruolo fondamentale delle industrie di Stato.
L'eredità di quelle industrie, che furono statalizzate al tempo del fascismo, era stata ingigantita dopo la guerra sino a fare dello Stato il principale imprenditore industriale. Il troppo rapido smantellamento di questa struttura statale, di imprese ed istituti di credito, sta determinando gravi scompensi, perché questa stessa struttura contribui-va anche a sostenere la parte costituita dalle imprese private. Poiché non esistono in Italia capitali privati in grado di comperare la grande massa di enti pubblici da met-tere in vendita e non esistono neppure le competenze dei privati per gestirli, si profila la svendita degli stessi enti all'estero. La mancanza di grandi capitali è la naturale conseguenza di quaranta anni e più di politica di sinistra, contraria alla loro formazio-ne. Quindi la traiettoria politica ed economica dell'Italia paradossalmente non è dis-simile da quella percorsa dai paesi dell'Est dopo il crollo dell'Unione Sovietica.
Conseguenze spiacevoli della nostra debolezza tecnologica. Il ruolo delle tan-genti è diventato essenziale.
Ma il vero dramma del sistema industriale italiano è nella sua debolezza, o meglio nella sua inconsistenza tecnologica. Il nostro apparato produttivo e le nostre struttu-re di vendita sono state improvvisamente private della protezione che era garantita da una rete di rapporti compiacenti e tangentizi all'interno ed all'esterno del paese. In questo modo il confronto con industrie e poteri finanziari stranieri si è risolto poi ine-vitabilmente a nostro totale sfavore. E non poteva essere diversamente poiché dopo il furore giustizialista di tangentopoli, che ha distrutto l'immagine di centinaia di opera-tori economici e delle loro ditte, per ricostruire la credibilità commerciale dei nostri prodotti avremmo dovuto rilanciare, gettando nella competizione più qualità e più tecnologia. In realtà abbiamo potuto solo giocare al ribasso, svendendo i nostri pro-dotti, svalutando la Lira e riducendo i guadagni sino ad accumulare debiti.
Gli ultimi governi in Italia non hanno avuta alcuna cognizione degli elementi nuovi che giocavano a nostro danno. Tolte le tangenti ed insieme gli appoggi (o le benevo-lenze) internazionali, che esistevano grazie alla nostra collocazione sulla frontiera dei due blocchi contrapposti, sarebbe stato necessario ripristinare una sorta di frontiera doganale temporanea, una protezione che ci consentisse almeno un sommario ag-giornamento tecnologico ed un ripristino, in senso tecnocratico, dei quadri dirigenti distrutti dall'epurazione di tangentopoli, se si voleva realmente mutare la nostra etica commerciale.
Un recente studio (anno 1997) della School of Government dell'Università di Harvard ha avuto per oggetto i risultati della Foreign Corrupt Pratices Act, la legge del Con-gresso USA, approvata nel 1977, che colpisce la corruzione estera. Questa legge venne varata sotto la spinta emotiva del Watergate (Mani pulite negli USA). Essa prevede forti multe e l'arresto per i manager di aziende americane che abbiano elar-gito tangenti all'estero. La legge venne preceduta da un condono per le aziende che avessero confessato attività illecite pregresse. Ben 400 aziende ammisero di aver pagato tangenti. La legge è permissiva verso le tangenti dette "grease payments", pagameti oleosi, dati a funzionari di rango inferiore per accelerare il cammino delle pratiche. Il risultato dello studio è sconfortante: "Questa iniziativa unilaterale ameri-cana ha indebolito la posizione competitiva delle imprese statunitensi senza d'altra parte ridurre il fenomeno della corruzione nelle transazioni commerciali internaziona-li". Infatti dopo il 1977 gli investimenti americani nei paesi ad alta corruzione sono crollati, mentre sono cresciuti nei paesi a basso tenore di illegalità. Gli altri paesi in-dustrializzati si sono affrettati a prendere il posto lasciato libero dagli USA. La con-clusione si riassume in poche righe:
"Questo studio dimostra come la legge americana sia parzialmente riuscita a ridurre l'elargizione di tangenti da parte di aziende statunitensi, ma abbia totalmente fallito nell'in- tento, che si era proposta, di ridurre il livello totale di corruzione nel mondo". E si deve osservare che, a differenza dell'Italia, gli USA potevano contare su un ele-vato livello tecnologico dei loro prodotti (da IL FOGLIO del 24 sett. 1996). Invece i governi Amato e Ciampi sembra abbiano voluto prendere l'occasione per danneggia-re, oltre alle industrie dell'IRI, proprio le piccole e le medie aziende, il frutto di quella civilta' subalterna che, a dispetto di tutto, aveva costruito il reale tessuto produttivo del paese.
La controcultura, espressione di quella civiltà subalterna (saltuariamente e malde-stramente sostenuta nel passato dalla DC), sfuggita alla totalizzante e perniciosa cul-tura egemone di sinistra, ora viene erosa e distrutta per essere finalmente sostituita con il nulla internazionale, inter-razziale ed ecumenico, con lo sfacelo di ogni credo politico e religioso, preparando l'ingresso dell'Italia nel novero dei paesi arretrati, quei paesi che vivono di elemosine alimentari e che lavorano mal pagati per il grande ca-pitale internazionale.
L'evoluzione verso questa nostra nuova collocazione tra le nazioni procede grazie al-la distruzione della nostra industria ad alta tecnologia, l'unico punto di forza nella guerra economica di oggi e di domani. La perdita di ogni autonomia progettuale e di innovazione ci trascina in una sempre crescente dipendenza da i grandi produttori e gestori dell'alta tecnologia, nella cui sfera di influenza sono già caduti i paesi che so-no stati parte dell'impero spagnolo. Persino chi guarda la politica con la sola preoc-cupazione di vedersi garantita la pensione per la vecchiaia dovrebbe riflettere sull'in-fluenza che il livello tecnologico delle industrie italiane esercita alla fine anche sui fondi per le pensioni. In questo futuro infatti non c'è posto per pensioni alte riferite a-gli stipendi che erano possibili quando in Italia operavano industrie efficienti ed auto-nome, grazie ad una tecnologia ancora competitiva. Tutto progressivamente si dovrà adeguare alla nuova realtà, alla nuova ripartizione internazionale del lavoro e della ricchezza.
4) Un caso interessante: l'assorbimento della Germania Est nella nuova grande Germania europea.
In netto contrasto con le opinioni correnti in Italia, abbiamo cercato di convincere il lettore che il possesso della tecnologia e la capacità di utilizzarla, incorporandola nel capitale di rischio, costituiscono il principale punto di forza degli attuali imperi mon-diali. Un aspetto non secondario della presenza di questi imperi è dato dalla cura con cui essi si mimetizzano e celano abilmente le vere cause degli enormi danni morali, sociali ed ambientali provocati dal loro agire.
Per fornire al lettore un esempio concreto e recente esaminiamo un caso in cui la ricerca tecnologica è stata completamente azzerata per ottenere la totale sostituzio-ne della precedente cultura, condizione essenziale per distruggere il precedente po-tere politico. Questo esempio, per analogia, ci fornirà almeno il sospetto che si pos-sa dare un'altra interpretazione circa le cause dei nostri guai.
Il caso che esaminiamo è quello della Germania Est dopo il suo assorbimento nella Germania Occidentale. Pur trattandosi di due realtà diverse, che hanno in comune solo gli interventi statali, attuati peraltro con diverse metodologie, il confronto fra Italia e Germania Est fornisce indicazioni simili circa il significato della politica tecnologica nella costruzione (o distruzione) di un sistema economico e di tutta una cultura. Si deve ricordare che l'intero sistema formato dai paesi comunisti dell'Europa Orientale, Russia compresa, nella prima fase di industrializzazione ebbe una crescita superiore a quella dei paesi occidentali ad economia capitalistica, anche se all'Est il benessere del popolo è stato sacrificato alle priorità dettate dallo sviluppo della grande industria.
Nel settore spaziale l'Unione Sovietica per molti anni ha preceduto gli Stati Uniti. Solo con l'apertura di un nuovo fronte di competizione: quello delle "guerre stellari" e dello "scudo spaziale", l'Unione Sovietica ha dovuto rinunciare alla gara con il mondo Oc-cidentale. Questo è una conferma del fatto che il sistema economico comunista non ha raggiunto l'obiettivo di compiere il passaggio dall'industria pesante all'industria fine con alta tecnologia. La stessa cosa si verificava nella più "pacifica" guerra commer-ciale, nella quale il blocco comunista perdeva ogni possibilità di competere con la crescente complessificazione della produzione mondiale di beni sempre più perfe-zionati e ricchi di innovazione.
Cosa avvenne quando la Germania si riunificò.
Dello sviluppo industriale del blocco comunista la Germania Orientale è stata il gran-de laboratorio tecnologico per le applicazioni militari e per quelle civili. Non è facile oggi trovare una ragionevole spiegazione al fatto che le regioni dell'ex Germania Est siano improvvisamente crollate a livello di paese povero, bisognoso di una totale ri-costruzione. E' chiaro che la foga di ristrutturare industrie e servizi dell'Est nasconde anche la volontà politica dei tedeschi occidentali di estirpare ogni radice del potere e dell'ideologia comunista che fossero rimaste annidate nelle più piccole pieghe del si-stema.
Oggi si propende a credere che la causa prima del crollo della formula comunista sia stata la sua incapacità di passare dalla quantità alla qualità, qualità che è stata impo-sta dalla molto accresciuta sofisticazione della produzione industriale in tutto il mon-do. E poiché la formula comunista si basava su forme di lavoro più o meno coatto, anche se garantito per tutti, è proprio il lavoro coatto ad entrare in conflitto con una produzione di alta qualità, come storicamente si è sempre verificato.
5) Gli aspetti "tecnologici" della riunificazione tedesca.
La riunificazione delle due Germanie è stata in realtà l'annessione di un intero stato alla Germania occidentale. Le strutture di ricerca applicata della Germania dell'Est sono state ridimensionate progressivamente, sino a che gli Istituti di ricerca sono sta-ti completamente svuotati del loro personale scientifico (4). Nella Germania Est esi-stevano 57 Istituti di ricerca dell'Accademia delle Scienze. Questi Istituti occupava-no 24000 persone. Le Università svolgevano poca ricerca ed erano prevalentemente impegnate nella didattica. Nell'ottobre 1990, dopo la riunificazione, venne varato il Programma di Rinnovamento dell'Istruzione Universitaria che restituì la funzione di ricerca alle Università. Negli Istituti di ricerca molti ingegneri e tecnici erano impe-gnati nell'autocostruzione degli impianti ed apparecchiature necessarie per l'attività di ricerca all'interno degli Istituti. Le stesse apparecchiature, anche se esistevano sul mercato, venivano egualmente costruite e persino vendute in Occidente, poiché non era conveniente comperarle a causa del cambio svantaggioso. Questa produzione era preziosa in un'economia autarchica come quella della Germania Est prima del 1989, ma dopo sarebbe stata del tutto inutile ed infatti quegli ingegneri furono i primi ad essere licenziati. Eppure non si vede perché la ricerca non potrebbe essere, an-che nei paesi capitalisti, un pò più autarchica e meno legata alle speculazioni delle grandi case costruttrici di apparecchi scientifici. Alla fine poi vennero licenziati anche tutti gli altri ricercatori. Si è proceduto quindi a compiere una cernita sulla base delle competenze tecniche e dei rapporti intercorsi con la Stasi (la polizia del regime co-munista). Quando si trovava un contatto, appena oltre un certo limite, la persona ve-niva licenziata senza appello. E' stata realizzata una rigida epurazione di natura poli-tica per la quale sarebbe opportuno stabilire se sia compatibile, o meno, con le leggi europee.
Sino agli inizi del 1994 gli Istituti di ricerca dell'ex Germania Est avevano ancora 7200 dipendenti, mentre altri 1900 sarebbero dovuti entrare in Istituti ed Università della Germania Ovest. Ma le cose non sono andate lisce perché le istituzioni occi-dentali hanno rifiutato di dare a costoro i contratti di ricerca, peraltro già finanziati dal programma di reintegrazione (Wissenschaftler-Integrationspro-gramm) con un'asse-gnazione di 400 milioni di DM. Del totale di 1920 candidati solo 85 riuscirono ad ave-re un contratto. Prima del crollo del muro di Berlino nella Germania Est circa 86000 persone erano addette alla ricerca nelle industrie. Nel 1991 il numero era sceso a 34600 e nel 1994 non superava 16000. La diminuzione è addebitata alla crisi che colpisce tutte le industrie dei Lander che appartenevano alla Germania Est. La di-struzione delle istituzioni di ricerca della Germania Est è stata attuata all'insegna dei principi del liberalismo e dell'efficienza capitalistica. Ma questi Istituti avevano fornito la ricerca necessaria per l'industria dell'Est comunista. Il programma spaziale sovieti-co non sarebbe stato possibile senza il contributo della ricerca e delle apparecchiatu-re provenienti dalla Germania Est. Un apparato scientifico e tecnologico, che aveva meritato il rispetto dell'Occidente impaurito, è stato liquidato dai burocrati della Ger-mania Occidentale apparentemente per inefficienza e per il fatto di non essere in grado di inserirsi nella logica del mercato, in realtà perché puzzavano ancora di co-munismo! Ora questa è una scelta politica rispettabile, e personalmente non potrei certamente difendere l'indifendibile diritto alla sopravvivenza dell'ideologia comunista, che ha creato nel mondo soprattutto genocidi e distruzione di civiltà. Ma se la Ger-mania ha compiuto questa scelta sarebbe dovuta essere una scelta chiara e senza equivoci. In Germania si è attuata una grande epurazione contro ciò che del comu-nismo poteva essere sopravissuto nei Lander dell'Est. E questa epurazione ha un costo che in nessun modo deve essere pagato dagli altri paesi d'Europa. Ed infine esiste un aspetto umano e giuridico. Non è lecito condannare tecnici e scienziati di valore come fossero degli ignoranti fannulloni, mentre in realtà non si vuole rivelare che questi vengono condannati solo a causa dei loro legami con il precedente regi-me. Il Governo tedesco dica chiaro che ha compiuto un'epurazione di natura politica.
L'epurazione politica e culturale nell'ex Rdt.
Invece il governo tedesco, che dovrebbe essere un buon amministratore dei soldi dei suoi contribuenti, si affrettò a dichiarare, già nel 1994, di aver quasi terminato il "risa-namento" dell'ex Rdt, impiegando somme ingenti. Per attuare questo risanamento venne chiusa ogni attività di ricerca che veniva svolta nell'ex Rdt, con il risultato di averne distrutta totalmente l'indipendenza, dimenticando che la Germania dovrebbe essere uno stato federale. Ma in realtà il "risanamento" è stato la ricostruzione dalle fondamenta l'ex Rdt, a cominciare dalle strade (7500 chilometri), dalle ferrovie (3000 chilometri), dal parco macchine (da 3,9 milioni di prima a 6,7 milioni tre anni dopo), dalle città, la cui urbanistica venne completamente stravolta. In realtà sembra che ci sia stata la necessità di far sparire le tracce di una civiltà che, bene o male, per oltre quarant'anni è stata alternativa a quella consumistica occidentale.
Lo sviluppo della ex Rdt venne sostenuto da una massiccia iniezione di denaro pro-veniente dalla Germania Ovest. Per averne un'idea è sufficiente esaminare il deficit di bilancio dello Stato, un deficit che è passato dall'1% del Pil nel 1989 (33 milardi di marchi) al 4,5% del Pil (146 milardi di marchi) per il 1994. In corrispondenza il debito pubblico tdesco è passato da 924 miliardi di marchi nel 1989 (41% del Pil) ai 1690 miliardi nel 1994 (52% del Pil), sino a circa 2000 miliardi di marchi (62% del Pil) nel 1995. Al denaro dello Stato si è aggiunto quello dei privati. Dal 1991 a tutto il 1993 si sarebbero avuti investimenti superiori a 200 miliardi di marchi. Pur con un tasso di disoccupazione ancora al 16 per cento, le regioni della Germania Est avrebbero una spettacolare crescita economica, 8 per cento all'anno. Quindi si realizza uno sviluppo sostenuto dal capitale tecnologico con una dipendenza totale dalle conoscenze tec-niche di chi opera gli investimenti industriali mentre lo Stato vi mette, di suo, le infra-strutture.
Portato avanti in Germania in tempi molto brevi, questo è lo stesso modello di colo-nizzazione attuato in Italia dopo gli anni sessanta, cominciando dal Mezzogiorno sino alla Lombardia.
Il confronto con l'Italia.
Anche in Italia venne attuata una distruzione totale della ricerca applicata, in modo che la nostra industria perdesse ogni possibilità di indipendenza ed autonomia. An-che in Italia è stato compiuto uno sviluppo finanziato dalla crescita del debito pubbli-co e fondato sulla produzione di beni di largo consumo, sacrificando tutto il resto: cul-tura, ambiente naturale, tradizione e indipendenza politica ed economica.
Alla fine, in realtà, nell'ex Rdt si riparte da zero, ed in ciò si realizza una somiglianza con l'Italia che, per un'altra strada, egualmente sta arrivando al livello zero delle sue capacità di trasferire innovazione nei processi produttivi. A sua volta lo sviluppo tec-nologico della Germania riunificata non è privo di aspetti critici che non garantiscono la crescita industriale di tutti i settori produttivi.
L'ambasciatore Konrad Seitz (5) ha richiamata l'attenzione sulla poca competitività di certi rami dell'industria tedesca. La distruzione delle conoscenze tecnologiche della ex Rdt potrebbe quindi rivelarsi per tutta la Germania un fatto disastroso venendo a mancare una fonte alternativa di innovazioni. Seitz dice:
"L'industria della Germania occidentale sta attraversando la crisi più profonda della sua storia. Recessione ciclica, dicono gli economisti; la Germania ha perso competi-tività, aggiungono gli imprenditori: noi ci permettiamo i salari più alti e gli orari di lavo-ro più brevi, i tempi più lunghi per l'autorizzazione di nuovi impianti e i tempi di utiliz-zo dei macchinari più brevi...Alla fine del XX secolo, il benessere tedesco continua a venir sorretto dalle industrie nate durante la prima rivoluzione industriale che abbrac-cia i duecento anni dal 1780 al 1980. Dagli anni 80 è però in pieno corso una secon-da rivoluzione industriale a cui la Germania partecipa solo insufficientemente".
Già nel 1983 Bruce Nussbaum aveva diagnosticata la malattia del sistema tecnologi-co-industriale tedesco (6). Egli aveva scritto:
<Forse i Tedeschi ancora non lo sanno, ma la loro base industriale sta sgretolandosi. Durante l'ultimo secolo la Germania ha costruito le industrie meccaniche, chimiche, elettromeccaniche, automobilistiche più progredite. Oggi però è una nazione che non riesce a passare dalla meccanica all'elettronica, dalla chimica alla biotecnica. Conti-nua a fabbricare i prodotti migliori del XX secolo, ma i suoi sforzi per fare i prodotti del XXI secolo sono deboli e i suoi tentativi di venderli sui mercati internazionali ven-gono respinti senza fatica dai concorrenti americani e giapponesi."
Quindi le conseguenze di una errata politica tecnologica potrebbero rovinare il siste-ma industriale di tutta la Germania, compresa l'ormai assimilata ex Rdt.

6) Esiti politici, sociali ed economici della politica tecnologica in Ita-lia.
In Italia si era creata una struttura di ricerca largamente sostenuta dallo Stato, quin-di non molto diversa da quella della Germania Est. Forse un poco meno efficiente, ma non totalmente inutile. La differenza è che a compiere l'opera salvifica in Italia non è una nuova classe dirigente, che non esiste, ma i grandi complessi industriali finanziari internazionali, che in realtà tutto hanno a cuore fuorché la nostra rieduca-zione a fare ricerca come si usa nei paesi capitalisti (8).
Così la Nuova Pignone, già azienda di punta del gruppo ENI, viene "comperata" dalla General Electric e svuotata della sua innovazione, così la nostra industria farmaceu-tica viene privata dei laboratori di ricerca per divenire manifattura o semplice confe-zionatrice di prodotti farmaceutici forniti da altre filiali o dalle case madri all'estero. Ma il quadro di oggi e le previsioni per il prossimo futuro dipendono da un insieme di cause che non sono di facile identificazione, e che certamente si collocano tempo-ralmente nel periodo che va dalla fine degli anni sessanta agli inizi degli anni ottanta. Che cosa abbia determinato in quel periodo una sorta di mutazione genetica nel no-stro paese è quasi impossibile sapere. Quello che è certo è che, da un esame storico fatto oggi senza pregiudizi ideologici, un cambiamento profondo, che si potrebbe appunto definire mutazione genetica del pensiero politico, si è realmente verificato allora in Italia. Ma diversamente dalla vicenda dei Lander tedeschi dell'Est, dei quali conosciamo perfettamente le statistiche complete ed attendibili, per l'Italia tutto è più sfumato, e non esiste dato che non sia avvolto dal dubbio e quindi opinabile.
La visione premonitrice di Pasolini, con qualche errore storico.
Tanto vale andarci a leggere ciò che di quel periodo scrisse un uomo intelligente e del tutto digiuno di tecnologia come Pasolini (7).
<Nei primi anni sessanta, a causa dell'inquinamento dell'aria, e, soprattutto, in cam-pagna, a causa dell'inquinamento dell'acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulminante e folgoran-te. Dopo pochi anni le lucciole non c'erano più
Nessuno poteva sospettare la realtà storica che sarebbe stato l'immediato futuro: né identificare quello che allora si chiamava "benessere" con lo "sviluppo" che avrebbe dovuto realizzare in Italia per la prima volta pienamente il "genocidio" di cui nel Mani-festo parlava Marx.>
Lo sviluppo, di cui parla Pasolini, è avvenuto dopo il '65, ed è stato causato princi-palmente dalla distruzione della capacità di fare tecnologia in modo autonomo, met-tendo invece la nostra forza lavoro al servizio del capitale tecnologico internazionale, per ottenere in breve tempo un benessere diffuso che, nei disegni della DC avrebbe dovuto, come in realtà in parte avvenne, togliere forza alla carica rivoluzionaria del comunismo. Ma questo benessere è stato ottenuto sacrificando tutto il resto, dalla cultura all'ambiente naturale, sino alla perdita di ogni autonomia politica. A partire dal decennio seguente, il benessere, che tardava a svilupparsi, venne aiutato con la crescita del debito pubblico con cui pensammo di importare tecnologia. Quindi lo svi-luppo divenne rapido ed infine disastroso, ma fu l'unico possibile, dopo che una serie di cause aveva messo fuori gioco la nostra capacità di produrre tecnologia.
L'analisi marxista, internazionalista ed ecumenica non distingue tra la tecnologia pro-pria e quella esterna e neppure ha mai potuto comprendere il ruolo del capitale che usa l'arma della tecnologia. Ha sempre ripudiato la proudhoniana piccola industria! Ecco come Pasolini vedeva l'Italia prima che si sviluppasse la dittatura del capitale tecnologico:
<La continuità tra fascismo fascista e fascismo democristiano è completa e assoluta. Taccio su ciò, che a questo proposito, si diceva anche allora, magari appunto nel "Politecnico": la mancata epurazione, la continuità dei codici, la violenza poliziesca, il disprezzo per la Costituzione.>
Se queste sono le accuse che si possono fare al regime democristiano, sino agli anni sessanta, esse in realtà sono altrettanti riconoscimenti di meriti. L'epurazione è stata la cosa più autolesionista che gli italiani abbiano combinato. Con l'epurazione venne eliminata buona parte della classe dirigente delle industrie e delle banche perché compromessa, o sospetta di compromissioni con il vecchio regime fascista. Ma si trattava prevalentemente di persone con un'elevata preparazione tecnica ed un grande attaccamento alla patria ed allo Stato. Coloro che furono chiamati a sostituirli risultarono essere spesso tecnicamente incapaci e legati solo al partito che li aveva fatti nominare, privi di senso dello Stato e dotati di un sano disprezzo verso la patria. Per onore della verità è doveroso ricordare che, oltre all'epurazione, a guerra finita, si scatenò la vendetta contro i fascisti, contro i loro familiari, contro alcuni uomini di cultura del vecchio regime ed infine contro i nemici personali che con il regime non avevano avuto nulla a che fare. Secondo diverse stime si ebbero dai 40000 ai 70000 morti ammazzati concentrati prevalentemente nelle regioni rosse. I tribunali regolari fecero eseguire oltre un centinaio di condanne a morte, mentre durante gli anni del regime le sentenze di morte eseguite erano state sei. L'effetto fu quello di aver can-cellato in molte provincie del centro-nord un'intera classe dirigente e di aver creato uno stabile e plebiscitario consenso alle sinistre. Ma le sinistre vedevano la nazione come un ostacolo alle loro aspettative messianiche, essendo in attesa della grande rivoluzione comunista di tutti i popoli della terra. Le sinistre si dedicarono a consolida-re la loro forza a livello locale con governi regionali al limite della secessione. Se-guendo questa politica le sinistre si autoesclusero e vennero poi estromesse dalla formazione della nuova classe politica del governo nazionale, classe politica nella quale presto inevitabilmente prevalsero gli uomini del sud, poco o nulla ostacolati dai rappresentanti di un centro-nord operoso, costruttivo, "progressista", internazionali-sta, ma anche rissoso ed alla fine inconcludente ed incapace di governarsi.
Così la seconda guerra mondiale ebbe il risultato di modificare radicalmente la com-posizione della classe politica italiana a causa principalmente della deriva a sinistra di molte regioni, con tutte le conseguenze che si ebbero poi sulla politica italiana. Quanto poi alla continuità dei codici si deve riconoscere che, ancora oggi, molti non nostalgici del vecchio regime rimpiangono il codice Rocco. Le mostruosità giuridiche, messe in piedi dal sistema politico fondato sul tacito accordo tra la DC ed il PCI, hanno delegato alla magistratura tutti i provvedimenti impopolari e fatto della giustizia italiana un insieme pieno di assurdità e di illegalità codificate, basate sull'ingiustificata insindacabilità dell'operato dei magistrati italiani, i quali, a causa dell'esorbitante pote-re di cui dispongono, sono destinati, presto o tardi, a distruggersi tra loro. Quanto alla Costituzione si vede bene oggi quanto sia inattuabile ed insieme immodificabile.
<In tale universo (quello dell'Italia nell'immediato dopoguerra) i "valori" che contava-no erano gli stessi che per il fascismo: la Chiesa, la patria, la famiglia, l'obbedienza, la disciplina, l'ordine, il risparmio, la moralità. Tali "valori" (come del resto durante il fascismo) erano "anche reali": appartenevano cioè alle culture particolari e concrete che costituivano l'Italia arcaicamente agricola e paleoindustriale.>
Quindi nella cultura di sinistra non ci dovrebbe essere posto (secondo Pasolini) per ciò che il fascismo ha sfiorato. Anche se si tratta di andare verso l'autodistruzione, per la sinistra si dovrebbe negare tutto ciò che il fascismo ha elevato a valore di rife-rimento, essendo questo sufficiente a giustificare che si debba eternamente fare l'opposto di ciò che il fascismo aveva scelto.
L'intolleranza radicale dei marxisti.
A tanta intolleranza e a tanto fanatismo condusse il credo marxista, radicato in Ita-lia con la forza di una religione atea. Il pensiero di sinistra, diventato egemone della cultura, diventato l'anima pensante ufficiale, ha finito per ricorrere al ripudio della ra-gione pur di distruggere il sistema, nella speranza che risultasse alla fine distrutta la stabilità del potere politico. E nel ripudio della ragione, della razionalità e della stes-sa ragionevolezza, il comunismo ha finito con lo sposare tutte le strade più aberranti che si presentavano. Ed in questo negare la ragione ha persino troncato le radici il-luministiche del peniero di sinistra. Quindi è stato tagliato anche il legame con la scienza applicata, perché non abbastanza popolare in Italia, non abbastanza bene accetta dalla gente, ed ha finito per seguire disgraziatamente la logica della soluzio-ne facile, quella della sottomissione al potere del capitalismo tecnologico interna-zionale.
Il comunismo italiano ha finito per favorire il disegno della DC, che all'opposto, attra-verso il benessere ed una certa dose di rilassatezza dei costuni, sperava di sciogliere la forza rivoluzionaria comunista. Con questa scelta la sinistra si è alleata con il pote-re democristiano, il potere politico che diventava unico, compartecipato e indifferen-ziato, che non accettava di essere disturbato a causa di scelte difficili, che esigeva il primato assoluto di una politica definita come umanistica ed umana, ma in realtà tri-bale, preilluminista, supporto di un potere che non vuole certo rompersi il capo con i problemi di strategia industriale collegata alla scomoda dinamica del progresso tec-nologico.
La tanto temuta ventata rivoluzionaria, che venne dopo il '68, sembra sia servita da alibi per la distruzione dell'innovazione e dell'autonomia dell'industria italiana, distru-zione già iniziata per opera del capitale internazionale. Sulla rivista <Dramma> del marzo '74, Pasolini pubblicò un articolo molto polemico contro gli intellettuali del do-po '68. Pasolini mostra come la realtà politica ed industriale si sia venuta creando nella disattenzione del pensiero politico di sinistra. Pur non avendo forse una completa cognizione delle verità che affermava, Pasolini seppe definire lucidamente la natura del nuovo corso.
<C'è stato un momento, pochi anni fa, in cui pareva ogni giorno che la Rivoluzione sarebbe scoppiata l'indomani. Insieme ai giovani - dal 1968 in poi - a credere nella rivoluzione imminente ....c'erano anche degli intellettuali non più giovani ...In essi questa certezza di una "Rivoluzione dell'indomani" non trova le giustificazioni che trova nei giovani: essi si sono resi colpevoli di aver mancato al primo dovere di un intellettuale: quello di esercitare prima di tutto ...un esame critico dei fatti. E se, per la verità, si sono fatte in quei giorni orge di diagnosi critiche, ciò che mancava era la reale volontà della critica. ...Senza senso comune e concretezza la razionalità è fa-natismo. E infatti, su quelle mappe intorno a cui si affollavano gli strateghi della guer-riglia di oggi e della rivoluzione del giorno dopo, l'idea del "dovere" dell'intervento politico degli intellettauli non veniva fondata sulla necessità e sulla ragione, ma sul ricatto e sul partito preso.
Oggi è chiaro che tutto ciò era prodotto di disperazione e di inconscio sentimento di impotenza. Nel momento in cui si delineava in Europa una nuova forma di civiltà e un lungo futuro "sviluppo" programmato dal Capitale - che realizzava così una propria rivoluzione interna: la rivoluzione della Scienza Applicata, pari per importanza alla Prima Seminagione, su cui si è fondata la millenaria civiltà contadina - si è sentito che ogni speranza di Rivoluzione operaia stava andando perduta. ... Non solo, ma ormai era chiara non tanto l'impossibilità di una dialettica, quanto addirittura l'impos-sibilità di una commensurabilità, tra capitalismo tecnologico e marxismo umanistico. Da ciò l'urlo che è echeggiato in tutta l'Europa, e in cui predominava, su ogni altra, la parola Marxismo. Non si voleva - giustamente - accettare l'inaccettabile. I giovani hanno vissuto disperatamente i giorni di questo lungo urlo, che era una specie di e-sorcismo e di addio alle speranze marxiste: gli intellettuali maturi che erano con loro hanno invece commesso, ripeto, un errore politico.>
Le parole sono alte, il contenuto è profetico, ma gli errori storici sono tanti e gravi. La Prima Seminagione, a cui Pasolini accenna è forse quella che avvenne a partire dal 6000 avanti Cristo. La civiltà contadina che Pasolini aveva sempre in mente era nata invece a cavallo del primo millennio dopo Cristo. La rivoluzione delle tecnologie a-grarie venne compiuta dagli ordini religiosi, attorno al mille. Nei monasteri venne compiuta la sperimentazione che avrebbe trasformato radicalmente le tecniche di coltivazione e di trattamento dei prodotti agricoli. La Chiesa affermò il suo predomi-nio avvalendosi non solo di prediche, ma di una grande rivoluzione tecnologica nel-l'agricoltura e nella medicina; in entrambi i campi mantenne di fatto il monopolio sino alla vigilia della rivoluzione francese. Invece la rivoluzione della Scienza Applicata è sfuggita di mano ai comunisti per essere monopolizzata dal Capitale. L'errore fu di non aver inteso che il marxismo si fondava sull'avvento del regno delle macchine al-meno quanto il capitalismo. Il marxismo che appare dagli scritti di Marx non si ab-bandona ad illusioni ma mira ad attuare per primo ed in esclusiva la grande Rivolu-zione della Scienza Applicata. Ma i comunisti non hanno capito. I giovani poi non seppero fare altro che urlare ed esercitarsi nella guerriglia, circondata oggi dal so-spetto di essere stata per un certo periodo protetta allo scopo di ingenerare nell'opi-nione pubblica un forte rifiuto. I giovani non seppero certo seguire la strada dell'asti-nenza tecnologica per limitare il potere del grande Capitale Tecnologico internazio-nale. Strada che invece Gandhi fece seguire con successo ai popoli dell'India, che rifiutarono i prodotti, allora ad alta tecnologia, dell'industria inglese. I giovani dimenti-carono di leggere tutto Marx ed in particolare trascurarono il capitolo delle macchine e non si accorsero che il progetto marxiano, pur contemplando il ruolo fondamentale delle macchine, aveva a sua volta dimenticato i costruttori della scienza e della tec-nologia, i costruttori delle macchine. Costoro, nei paesi europei occidentali, furono monopolizzati dal capitale che incorporò le loro scoperte, pagando ben miseramente il plusvalore del loro lavoro. I lavoratori della Scienza e della Tecnologia non furono mai protetti dalle potentissime organizzazioni sindacali comuniste, essi furono ab-bandonati allo sfruttamento del Capitale, che in tal modo si rafforzò. Oggi per colmo di sventura abbiamo sul collo, nei punti nevralgici, molti eredi di quella rivoluzione mancata. Arrivati tutti insieme, per ragioni anagrafiche, al momento di cominciare a lavorare, riscoprendo vecchie amicizie e collateralismi inossidabili, questi, che, come eroi immaginari di un fumetto, avevano attraversato da protagonisti i furibondi anni della rivolta anticapitalista, tutti insieme si accorgevano che la struttura capitalistica della società, in attesa della sua definitiva sconfitta, poteva offrire non pochi agi e vantaggi materiali. Del capitalismo questi eroi mancati, personaggi privi di competen-ze professionali, frustrati e prepotenti, hanno scelto gli aspetti peggiori.
La carriera dei cultori della rivoluzione dell'indomani. Gli eredi della rivoluzione mancata, abbandonati gli ideali della gioventù, non hanno avuto grande interesse per la faticosa produzione industriale. Molti di essi hanno da-to la loro preferenza alla speculazione finanziaria, che è priva di riferimenti alla pro-duzione di qualche cosa di reale, essendo rivolta a produrre denaro dal denaro, strumento di ricatto per sfruttare chi ancora si ostina a lavorare arrabattandosi con una tecnologia rubacchiata.
Alla fine, come conclusione di tanta cercata disillusione, non può non nascere quella volontà di "suicidio differito", che si manifesta come causa inconscia dell'ostinato ri-fiuto di procreare, origine dell'attuale contrazione delle nascite, contrazione che è ar-rivata a dare un numero di nati che neppure raggiunge la metà del necessario per avere la crescita zero della popolazione. Ma la nuova civiltà appare basata su ben al-tre crescite, come la crescita degli automi, che forniscono forza lavoro ad un costo inferiore al costo del lavoro offerto dagli operai e dagli impiegati, senza la seccatura delle loro rivendicazioni sindacali. Si verifica, come fatto ricorrente nella storia mo-derna, una progressiva espulsione della forza lavoro, ora non pii compensata da nuove assunzioni. L'espulsione comincia oggi dalla manodopera poco qualificata, scacciata dall'avvento di nuovi automi intelligenti. Da qui sembra derivare il rifiuto, espresso apertamente nel 1992 da Giugni, allora ministro socialista del lavoro, di for-nire sostegno alle piccole imprese perché, secondo la sua opinione, gli aiuti si sareb-bero riversati in aumento dell'automazione con conseguente riduzione del numero dei lavoratori occupati. Questa trasformazione riguarda i processi produttivi che pro-ducono beni sempre piu' standardizzati, contenuti in un ventaglio merceologico sem-pre più ristretto. La tendenza è quindi verso beni tutti eguali in tutto il mondo e ver-so un sempre minor numero di addetti per la loro produzione e vendita. Se non si in-serisce innovazione nei beni prodotti il sistema industriale si impoverisce ed alla fine collassa, poiché l'offerta di beni, con qualità e costi decrescenti, trova sempre meno acquirenti a causa della progresssiva riduzione delle persone dotate di reddito (8,9). Pasolini non si accorse neppure che anche il marxismo, là dove si realizzava, non era umanistico ma cercava di diventare tecnologico, dopo essere stato proletario e stakanovista. L'assenza di una realistica, e non retorica, concezione della tecnologia e del suo legame con la dinamica industriale ed economica è equamente distribuita nel pensiero politico italiano. Anche in un convegno di illustri sconfitti alle elezioni po-litiche del 1994 si è sentito dire che la crescita tecnologica non deve essere mitizzata poiché ha dimostrato di non essere neppure in grado di realizzare la crescita dell'oc-cupazione. Ovviamente questa affermazione viene espressa dimenticando il fatto certo ed incontrovertibile che la stagnazione dell'innovazione tecnologica porta sicu-ramente e necessariamente ad una diminuzione progressiva dell'occupazione. Ov-viamente sarebbe stato troppo chiedere a quei signori se il concetto si voleva riferito alla tecnologia dei sistemi produttivi oppure all'innovazione nei beni prodotti, essendo diverso ed opposto nei due casi l'impatto sull'occupazione.
Le amare conclusioni. Volendo, al termine di questa storia, darne al lettore una sintesi, sarà necessario tor-nare agli anni '30, quando il governo italiano fu costretto a varare una reale politica tecnologica per resistere alle sanzioni che la Società delle Nazioni (diventata ONU dopo la guerra) ci inflisse per punirci delle nostre velleità espansioniste in Africa. Si trattava di sostituire con nuovi prodotti ciò che ci veniva negato dalle nazioni più in-dustralizzate. Venne creata così una chimica italiana, che in pochi anni raggiunse ri-sultati eccellenti e che preparò una schiera di tecnici e di scienziati, formando una scuola che dopo la guerra, per circa due decenni ancora, poté produrre della buona chimica. In quel periodo un altro settore di eccellenza fu l'elettronica, risultato indu-striale del grande entusiasmo creato dalle scoperte di Marconi, un uomo di genio che il governo fascista utilizzò purtroppo principalmente come richiamo pubblicitario, sen-za creare un programma concertato, come avvenne con la chimica. Il regime fasci-sta, dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale, lasciò alcune eredità impor-tanti, che il nuovo regime democratico compartecipativo cercò accuratamente di far sparire oppure di camuffare come proprie. Queste eredità sono:
-una tecnologia industriale dotata di originalità e ben fondata nella cultura tecnica delle scuole e nel sistema produttivo industriale,
-un sistema industriale reso omogeneo e funzionale dall'IRI, il più riuscito e duraturo successo del regime fascista,
-l'assistenza sociale, che all'epoca fu di gran lunga la migliore del mondo.
Usciti dalla guerra in condizioni di non totale distruzione e completata in brevissimo tempo la ricostruzione, entrammo nella competizione commerciale con grande slan-cio ma con governi che non vedevano nella ricerca null'altro che la necessità di sal-vare le apparenze dell'immagine Italia.
E' probabile che il "lato oscuro" delle condizioni di resa ci abbia costretti ad abbando-nare subito l'industria aeronautica, nella quale avevamo raggiunto buoni risultati e che era sostenuta da una agguerrita schiera di tecnici e scienziati, molti dei quali fu-rono costretti, dopo la guerra, ad andare a lavorare negli Stati Uniti (si veda il gruppo attorno a Ferri e Crocco).
7) La storia italiana recente vista attraverso il ruolo della "controcultura".
Come si è già detto nel capitolo precedente, il fatto più importante, e mai chiaramen-te identificato da sociologi e politici, è che in Italia si verificò la nascita di una contro-cultura, quasi in tutto opposta alla cultura ufficiale, monopolizzata dalle èlite di sini-stra. Questa controcultura, che ha affondato le sue radici in ciò che restava delle tradizioni popolari e contadine, si è diffusa trasversalmente alle fascie sociali stabilite per reddito e professione. E questa controcultura ha realizzato un sistema economi-co che è sfuggito alla logica di programmazione distruttiva, che voleva l'Italia con-dannata dai vincitori ad una dipendenza totale e perenne. Si tratta di ciò che econo-misti, giornalisti e politici chiamano il "sommerso" e che si ritrova, in minor misura, in tutte le economie del socialismo reale. In Italia questa parte dell'economia ha dimen-sioni paragonabili a quelle dell'economia ufficiale. Quando Craxi con una valutazione approssimata cercò di sommare il nostro "sommerso" all'economia palese trovò che l'Italia scavalcava l'Inghilterra!
Incapaci di credere nel bene pubblico gli italiani si ubriacarono di idee comuniste, ma non votarono per una maggioranza comunista ed invece lavorarono sodo per il bene privato e riuscirono a rovesciare tutte le previsioni ed i progetti dei vincitori circa il fu-turo. Ma la distruzione della nostra tecnologia, con il beneplacito dei governi a guida democristiana e con la spinta a volte tacita ed a volte palese dei comunisti, costitui-sce un vincolo invalicabile alla nostra crescita. Questa distruzione venne attuata si-stematicamente dalla fine degli anni sessanta, quando i settori, nei quali avevamo indipendenza tecnologica, andarono progressivamente scomparendo. Visentini eli-minerà la ricerca Olivetti nel settore calcolatori, mentre con la morte di Mattei l'ENI sarà progressivamente fagocitato dalla logica spartitoria dei partiti politici, contenitori di stupidità più che di corruzione. E' argomento delle cronache recenti (1994) la ven-dita della Nuova Pignone, che ha tolto all'ENI il principale punto di forza: le grandi trivelle petrolifere, dalla cui disponibilità dipende l'autonomia nello svolgimento delle campagne di ricerca di nuovi pozzi.
Il processo e la condanna di Ippolito misero al sicuro le grandi multinazionali del nu-cleare dal rischio (abbastanza remoto) che l'Italia potesse raggiungere nel settore dell'energia una sua autonomia. Si trattava anche di mettere un freno alla straripante vitalità ed inventiva politica dell'uomo Ippolito. E l'operazione, con il contributo della stampa nazionale e della magistratura, riuscì egregiamente, senza la necessità di passare attraverso l'eliminazione fisica di Ippolito, come forse invece si fece con Mat-tei.
Nella chimica, essendo molto consistente la nostra forza di conoscenze scientifiche e tecnologiche, non si poterono impedire i successi del gruppo di Natta e la vittoria del-le cause per il riconoscimento dei suoi brevetti. Ma con i buoni uffici di Mediobanca, che poté gestire l'ingente massa di denaro affluita alla Edison dalla nazionalizzazione dell'industria elettrica, e grazie ai tanti errori tecnici ed economici dei dirigenti della Montecatini, alla fine si arrivò al desiderato risultato di azzerare la ricerca della Mon-tedison, togliendole quindi ogni reale possibilità di svolgere una politica autonoma. Questo risultato venne raggiunto anche grazie ad una particolare condizione di fana-tica adorazione per il made in USA. La nostra classe dirigente, la nostra superstite tecnocrazia venne sconfitta, prima che da "congiure" politiche ed economiche, da un erroneo sentimento di impotenza, dalla frustrazione nata dalla convinzione di non saper competere con la trionfante forza delle nuova tecnologia americana, rivelatasi negli anni seguenti essere in parte frutto di un'abile montatura pubblicitaria. Queste operazioni sono state facilitate dalla scarsa (se non nulla) cultura industriale di molti nuovi personaggi emergenti alla guida dei nostri complessi industriali privati e pubbli-ci. Uomini come Gardini, che certamente suscitano passioni ed anche simpatie attor-no alle loro vicende, per quanto attiene alle capacità di dirigere una grande industria chimica debbono essere classificati come personaggi incompetenti e folcloristici, dannosi a sé ed alla comunità.
Fra i politici è difficile dire se sia stata maggiore l'incompetenza oppure la deliberata volontà di nuocere. La vicenda incresciosa della TV a colori, che venne ritardata in Italia a causa della puntigliosa ostilità di Ugo La Malfa, dimostra come sia possibile e facile, con argomentazioni populiste e demagogiche, ingannare la pubblica opinione e finire col privare il paese di un intero settore di produzione e di posti di lavoro.
Può sembrare una contraddizione ed una smentita delle fosche previsioni sin qui formulate, l'aver l'Italia iniziato la sua forte espansione economica (con la produzione su larga scala di beni di consumo di massa) proprio in coincidenza non fortuita con l'inizio dell'operazione di distruzione della nostra indipendenza tecnologica. Invece questa coincidenza rivela il legame che esiste tra l'essere diventata l'Italia un paese sottomesso docilmente al grande capitale, e l'aver goduto di una apparente espan-sione economica. Ciò che avviene, durante un tempo molto più breve, nei Lander di quella che fu la Germania Est, dimostra che questa colonizzazione si realizza in con-comitanza con la crescita di quasi tutti gli indicatori economici.
Gli Stati diventano colonie del grande capitale tecnologico.
Ma la dipendenza ha una conseguenza spiacevole: impedisce di fatto ai governi na-zionali di governare. Essa certamente rende poi impossibile svincolarsi dalle reces-sioni, quando il gioco dei grandi flussi di capitali le impongono. In queste condizioni sarebbe impensabile un salvataggio da una grande crisi, come ad esempio quella del '29, quando solo l'Italia e la Russia sfuggirono alla recessione mondiale. Forse a nessuno oggi interessa l'indipendenza e l'orgoglio delle proprie tradizioni. Nè interes-sa tramandare qualche cosa ai figli, visto che i pochi figli non appartengono ai genito-ri, ma sembrano invece appartenere alla società, alle ideologie ed alle mode, com-prese quelle che si fondano sulle droghe. Questo quadro non desta alcun interesse negli italiani, che vivono immersi in una litigiosità endemica, sterile, e rivolta a con-quistare un potere politico sempre più effimero ed inconsistente.
Così si chiude un'epoca. Forse è iniziata la fine dello Stato-nazione, la fine della pa-tria come sacralità culturale e territoriale, mentre inizia l'era dei governi e degli Stati a sovranità limitata. La fine dello Stato juguslavo, i fermenti che percorrono gli stati i-slamici, l'autodistruzione dell'impero sovietico, il crearsi di una nuova area di influen-za economica, commerciale e tecnologica attorno alla Germania riunificata, sono tut-te indicazioni di una mutazione della storia, che, a dispetto di una ripetuta e scontata affermazione lapidaria, appare invece ben decisa a tornare indietro.
La domanda di rito: dove stiamo andando?
Dalla storia della politica tecnologica siamo così arrivati al futuro della storia, nel qua-le le nuove tecnologie certamente giocheranno un ruolo non secondario.
Alla fine di questo ventesimo secolo quel luogo di creazione di cultura e d'arte, che è stato l'Italia, si avvia a diventare un paese privo di cultura, di arte e per di più felice-mente limitato nella sua sovranità politica: una sperduta provincia dell'impero mon-diale. Guardando indietro il secolo che si chiude e che porta con sé la fine del se-condo millennio, quei millenni contati a partire da una nascita avvenuta in una sper-duta provincia di un impero del quale l'Italia era il centro, si scopre che si è realizzata un'immensa mutazione della storia del mondo.
Da un'Europa centro del mondo siamo oggi ad un mondo senza centro, con un pote-re sovranazionale che vaga nelle reti informatiche, nello spazio esterno e nelle visce-re della Terra, dove dormono i grandi arsenali per la morte totale. In questo rivolgi-mento che si potrebbe definire cosmico, scrivendo in italiano, una lingua che forse avrà corso per pochi anni ancora, cerchiamo di fare una sintesi di ciò che ci è acca-duto e che abbiamo cercato di capire.
Si può dire che all'incirca in tutto il secolo solo durante poco più di un decennio ab-biamo avuto ancora la possibilità di stare sulla ribalta della storia: dal 1923-24 sino alla fine della campagna d'Africa, nel 1935. In quegli anni è stata costruita l'Italia e gli italiani hanno trovato una patria nella quale si sono riconosciuti.
Poi è subito iniziato il declino, reso ancor più rapido dalla partecipazione alla secon-da guerra mondiale. Sino al 1975 la generazione che si era formata sotto il fascismo e che era rimasta fuori dalle sue ultime degenerazioni, ha potuto dare ancora il me-glio di sé con uomini come Mattei, Giustiniani, Olivetti, Saraceno, Valletta, e gli scienziati come Fauser e Natta, sino a Carassa. Tra i politici si debbono a malincuore annoverare gli Andreotti ed i Craxi, a loro modo geniali, preceduti dalle figure di De Gasperi, di Togliatti e di Moro. Ma nessuno di costoro può essere considerato un ve-ro statista. Lo stuolo rumoroso e pasticcione di aspiranti politici, che è venuto dopo, si incarica di rendere irreversibile la dissoluzione dell'Italia, conservata nella sua for-ma burocratica solo per rendere più agevoli le speculazioni in corso e quelle prossi-me venture. La "nuova" nomenclatura politica non solo non domina i mutamenti in corso ma neppure ne percepisce l'esistenza. Un fiume di diseredati del quarto mondo approda ogni giorno sulle nostre coste. Se ne ha notizia solo durante le mareggiate, quando Il mare s'incarica di svelare il pietoso segreto trascinando a riva naufraghi ed annegati.
Chiudiamo gli occhi davanti al gigante Germania credendo che le strutture della nuo-va Europa lo ingabbieranno e lo faranno lavorare per noi. La millenaria cultura politi-ca romana è certa della riuscita dell'operazione. Quindi per non guastarci queste speranze non vogliamo riconoscere che il trattamento riservato alla Germania Est, dopo l'annessione, è stato il banco di prova per studiare le forme adatte per "norma-lizzare" tutta l'Europa in un futuro prossimo venturo. E' in corso una sorta di Guerni-ca culturale-economica e politica che prelude all'applicazione unilaterale del trattato di Maastricht, la completa trasformazione dei paesi europei in colonia americana tramite il governatorato germanico. La lunga marcia degli Stati Uniti per raggiungere il potere sull'intero pianeta, iniziata sotto la guida di Wilson con il modesto intervento nella prima guerra mondiale, sembra essere
arrivata al traguardo oggi con la neutralizzazione della Russia, il patto con la Germa-nia in Occidente e gli stretti legami con il Giappone in Oriente. L'esame della nostra politica tecnologica ha mostrato le tappe della nostra perdita di esistenza come Stato e come nazione. Ma nel nuovo ordine mondiale abbiamo visto anche nascere, in al-cuni paesi, tra i quali in primo luogo l'Italia, una nuova forma di aggregazione sociale fondata sull'indifferenza verso la cultura dominante al punto da erigere una sorta di controcultura, l'unica forza vitale in grado di traghettarci nel futuro ignoto che ci attende e ci sovrasta.

(1) Daniele Archibugi, Rinaldo Evangelista, Mario Pianta "Il dilemma tecnologico", Sapere, maggio 1993.

(2) Luciano Nigro "Ma la ricerca fa davvero bene all'industria?", la Repubblica, 12 ot-tobre 1994.

(3) Anthony Daniels, "Who says they need a clean pair of hands at the Helm?", Daily Telegraph, 30 dicembre 1994. <Berlusconi has imploded. Italy slides further into poli-tical chaos. Yesterday President Scalfaro was searching for someone, anyone, who might be described as a prime minister with clean hands. Among the very few possi-ble candidates ... is .. Antonio Di Pietro, who fought long and hard first to expose and then to punish corruption in high places. It is generally agreed that corruption, per-meating all levels of Italian society, has brought the state to the point of disentagra-tion. And yet I wonder whether all this is too pat. One could argue that the Italians have prospered precisely because they suffer from institutionalised corruption. When I first went in Italy as a child, in the year of the Rome Olympics, Italian levels of con-sumption were in some respects similar to those of Cuba. .....The Italian economy was much more diversified than Cuba's, but Italy was still recognisably a poor coun-try. ...I think that a Sicilian visitor to England is now more likely to be shocked by En-glish poverty than vice versa. ... "Il Sorpasso" has been enshrined in official GNP figures, though they have been hotly disputed in Britain. .... what in any case is un-deniable is the starting reversal in relative economic fortunes of the two countries. In 1950 ..., Britain, with a very similar population, had seven times as many private cars as Italy; by 1980, Italy had three million more, and by 1987 nearly seven million ...more. Those patriots who console themselves for Britain's relative economic decli-ne vis-a-vis Italy with tales of Italy's terrible public services, especially its hospitals, may be surprised to learn that while Italy's infant mortality rate ... was three times higher than Britain's in 1960, it is now the same as, or possibly a little better than, Bri-tain's. What has brought about this overturning, in a comparatively few years, of our economic superiority which had lasted for three centuries? Even the most ardent admires of Italy would be reluctant to argue that the answer is good government. With one former prime minister, Bettino Craxi, sensibly having taken refuge in Tunis "for the sake of his health", and another, Giulio Andreotti, accused of membership of the mafia, with the party which ruled Italy for 40 years annihilated by a most unsa-voury corruption scandal, it seems at first sight that Italian economic success must have been achieved in spite of, rather than because of, Italy's government.
Alas for neo-liberal, one cannot argue that the Italian state's participation in economy has been small. If anything, its weight in the Italian economy has been greater than that of the British state in the British economy. There is no simple message here. But the role of the Italian state has been very different from that of the British state, at le-ast in the view of the people. The Italian state posses little legitimacy. ... The centrali-sing pretensions of Rome are therefore resisted, its decrees ignored as far as possi-ble.
Those who control the state use it as a means of patronage merely to remain in power, while those who are subject to it see it as (at best) an object of plunder. From this gross corruption inevitably follows. This is of incalculable advantage to I-taly. It keeps alive the entrepreneurial spirit, even in the heart of the bureaucracy. It disabuses everyone of the idea that the state might provide the answer to social, personal and other problems, since it self-evidently will not. It thus preserves the family as the focus of loyalty and source of aid. It induces a healthy contempt for ab-surd regulations, which a large bureaucracy inevitably produces, and evasion of which stimulates initiative. The vibrancy of Italian economic life, which depends upon the spirit of the people, could not survive honest (but meddlesome - impiccione - ) government. There are disavantages to corrupt government. It makes everyday life difficult, and the clientage indulged in both by Christian Democrats and the Socialists has resulted in an enormous burden of public debt. However, one can exaggerate the rottenness of the Italian state: its money, after all, is still money, an impressive in-frastructure has been built, and public order maintained.
In Britain, by contrast, we have suffered terribly from honest government. Such cor-ruption scandals as we can manage would disgrace a small Italian municipality. This has resulted in everyone taking government too seriously. ...Public money can still be invested well or badly, and on the whole we have invested badly; instead of milk into babies, we have put paid to initiative. But intangible factors, such as the spirit of the people, are at least as important as economic policy: and those who blamed our e-conomic woes on our failure to join the ERM were soon blanking them on our pre-sence within it. ...it would be wrong not to draw a lesson from a country which in so-me ways has been very much more successful than our own. That lesson is that the purpose of government should be to guarantee opportunity, not the satisfaction of desires.
In Italy, this has been done very expensively by making politics utterly contemptible (and with the risk of a dangerous backlash), in Britain, we should achieve it by reali-sing that politicians, despite their comparative honesty and whatever their policies, cannot save us.>

(4) A. Abbott, "Germany stumbles on enacting plan to integrate eastern scientists", Nature, 362, 775 (1993). A. Abbott, "Industrial research in crisis in east Germany", "Differing views on technology transfer", Nature, 367, 306 (1994); A. Abbott, "Ger-man parties compete for scientists' vote", Nature, 371, 466 (1994); A. Abbott, "Berlin university protests at bid to cut science faculties", Nature, 375, 346 (1995); A. Ab-bott, "Germany seeks to re-balance funding for research centres", Nature, 375, 170 (1995); A. Abbott, "Germany refuses to prolong university support scheme", Nature, 375, 97 (1995).

(5) K. Seitz, "Il Dibattito sulla Competitivita' dell'Industria Tedesca non Colpisce nel Segno", Il Sole 24 Ore, 25 maggio 1993.

(6) B. Nussbaum, "The World after Oil" 1983.

(7) P. Pasolini, Corriere della Sera, 1-2-1975.

(8) L. Thurow "Head to Head", Warner Books (1993).

(9) E. Lingeman, "West goes East as East moves forward", Physics

World, p.59, no-vembre 1992.