Cicerone - de Officiis (I doveri) - Libro primo

Traduzione italiana (Versioni di riferimento: D. Arfelli, Zanichelli, 1969; P. Fedeli, Adriatica, 1969)

Nota bene : i caratteri greci usati in questo testo sono leggibili scaricando il font SGREEK dal sito di Perseus , dove viene illustrato in dettaglio come si procede per installare i vari font per i testi scritti in greco.


1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 

44 45 46 47 48 49 50 51 52 53 54 55 56 57 58 59 60 61 62 63 64 65 66 67 68 69 70 71 72 73 74 75 76 77 78 79 80 81 82 83 
84 85 86 87 88 89 90 91 92 93 94 95 96 97 98 99 100 101 102 103 104 105 106 107 108 109 110 111 112 113 114 115 116 
117 118 119 120 121 122 123 124 125 126 127 128 129 130 131 132 133 134 135 136 137 138 139 140 141 142 143 144 
145  146 147 148 149 150 151 152 153 154 155 156 157 158 159 160 161

I. PROEMIO

1. Marco, figlio mio, so bene che tu, ascoltando già da un anno le lezioni di Cratippo, e per di più in Atene, sei in possesso di un cospicuo bagaglio di precetti e dottrine filosofiche, grazie alla straordinaria autorità del maestro e della città, (l'uno può arricchirti di scienza, l'altra di esempi); tuttavia, come io per mia utilità ho sempre abbinato le lettere latine con le greche, e ciò non solo nel campo della filosofia, ma anche nella pratica dell'eloquenza, penso che tu debba fare altrettanto, per usare con uguale disinvoltura l'uno e l'altro idioma.  In questo campo io, se non m'inganno, ho dato un grande aiuto ai miei connazionali, al punto che non solo coloro che ignorano di lettere greche, ma anche i dotti ritengono d'aver raggiunto risultati non di poco conto nell'arte del ben parlare e del ben pensare.

2. Tu riuscirai ad apprendere dal principe dei filosofi contemporanei, e apprenderai finché lovorrai;  dovrai volerlo fintanto che non sarai soddisfatto del tuo profitto; ma tuttavia, leggendo i miei scritti, che non discordano molto dai Peripatetici, giacché gli uni e gli altri vogliamo essere Socratici e Platonici, tu, quanto alle dottrine, userai liberamente il tuo giudizio personale (io non voglio impedirtelo affatto); ma leggendo le cose mie renderai certamente più sicuro e più ricco il tuo stile latino.  E non vorrei che questa mia affermazione fosse ritenuta presuntuosa.  Difatti, pur ammettendo che molti hanno la capacità di filosofare, se io rivendico a me ciò che è proprio dell'oratore, cioè il parlare con proprietà, con chiarezza, con eleganza, credo di poterlo fare in certo qual modo con pieno diritto, giacché a questo lavoro io ho dedicato tutta la mia vita.

3. Perciò ti esorto vivamente, o mio Cicerone, a leggere con amore non solo le mie orazioni, ma anche questi miei libri filosofici, che ormai  le uguagliano per mole e per numero: certo in quelle vi è un maggior vigore di stile, ma è ben degno d'esser coltivato  questo mio stile di scrittura piana e pacata.  Francamente, a quanto mi è dato di vedere, nessuno dei Greci ha avuto finora la fortuna di riuscire  allo stesso modo nell'uno e nell'altro genere, coltivando a un tempo quel genere che è proprio del foro, e questo, più tranquillo, che è proprio del ragionare, anche se  non si può includere nel numero di costoro Demetrio di Falereo, ragionatore sottile, oratore poco vigoroso, ma tuttavia piacevole, per cui si può riconoscere in lui un discepolo di Teofrasto. Quanto a me, quale sia stato il mio contributo nell'uno e nell'altro genere, non sta a me giudicare;  in realtà io ho praticato entrambi i generi. 

4. Personalmente sono convinto che Platone, se avesse voluto trattare il genere forense, sarebbe diventato un potentissimo ed eloquentissimo oratore, e che Demostene, se avesse assimilato del tutto le dottrine apprese da Platone, e avesse voluto esporle, l'avrebbe fatto con molta eleganza e splendore; e lo stesso giudizio esprimo su Aristotele e Isocrate; purtroppo sia l'uno che l'altro, innamorato ciascuno della propria disciplina, tenne in poco conto quella dell'altro.

II.

 Ora, avendo io stabilito di scrivere per te qualche cosa in questo periodo e molte altre in avvenire, ho voluto prendere le mosse proprio da quell'argomento che più si addice e all'età tua e alla mia autorità.  Difatti, tra le molte questioni filosofiche, importanti ed utili, trattate con grande attenzione e ampiezza dai filosofi, a parer mio quelli che hanno la più larga e vasta applicazione sono gli insegnamenti e i precetti tramandati da essi intorno ai doveri.  In verità, non c'è momento della vita - sia negli affari pubblici che nei privati, sia nei forensi che nei domestici, sia che tu tratti qualcosa per tuo conto sia che tu abbia che fare con altri - non c'è momento che si sottragga al dovere anzi, così come nell'adempimento del dovere consiste tutta l'onestà della vita,  nell'inosservanza  di esso risiede tutta la disonestà.  E questo problema è comune a tutti i filosofi: infatti chi è che potrebbe definirsi filosofo, senza dare alcun precetto d'ordine morale? 

5. Ma ci sono alcune dottrine che, con la loro definizione del sommo bene e del sommo male, sovvertono ogni concetto del dovere. Chi, difatti,  definisce il sommo bene come del tutto disgiunto dalla virtù, e lo misura non col criterio dell'onestà, ma con quello del proprio vantaggio, costui, se vuol esser coerente con se stesso, e non è trascinato talora dalla bontà della propria indole, non potrà praticare né l'amicizia, né la giustizia, né la generosità: certo non può essere in alcun modo forte, giudicando il dolore il male peggiore, né temperante, ponendo come sommo bene il piacere. E benché questi principi siano così evidenti, che non hanno bisogno di alcuna dimostrazione, io li ho ampiamente discussi altrove.

6. Queste dottrine, dunque, se volessero essere coerenti con se stesse, non potrebbero dire nulla intorno al dovere: nessun precetto morale, saldo, stabile, conforme a natura, può esser impartito se non da chi afferma che o soltanto l'onestà o soprattutto l'onestà deve essere perseguita per se stessa.  Ora, un tale insegnamento è proprio degli Stoici, degli Accademici e dei Peripatetici, dal momento che la dottrina di Aristone, di Pirrone e di Erillo è ormai rifiutata da tempo.  E tuttavia anche costoro avrebbero il loro buon diritto di discutere del dovere, se avessero lasciato una qualche scelta tra le cose umane, sì che fosse aperta la via alla scoperta del concetto di dovere.  In questa occasione e in questa questione, dunque, io seguo principalmente gli Stoici, non già come semplice traduttore, ma, secondo il mio costume, attingendo da essi, come fonte, con piena e intera libertà di giudizio, quanto e come mi parrà opportuno.

7. Ora, poiché tutto il mio ragionamento si svolgerà intorno al dovere, mi piace definire innanzi tutto l'essenza del dovere; e mi meraviglio che Panezio abbia trascurato questo punto.  Ogni trattazione, infatti, che la ragione intraprende metodicamente su qualche argomento, dovrebbe partire dalla definizione, perché ben si comprenda qual è l'oggetto di cui si discute.

III.

ARGOMENTO E SUDDIVISIONE DELL'OPERA

Tutta la questione riguardante il  dovere consta di due parti: l'una, (teorica), che riguarda il concetto del sommo bene; l'altra, (pratica), che consiste nei precetti che devono regolare la condotta della vita in tutti i suoi aspetti.  Alla prima appartengono questioni di tal genere: i doveri sono tutti assoluti?  Ci sono doveri più importanti di altri doveri?; e così via, con l'aiuto di esempi.  Quanto poi a quei doveri, per i quali si possono dare norme pratiche, riguardano bensì anch'essi il sommo bene, ma tuttavia questo loro carattere è meno evidente, perché, a quanto pare, essi mirano piuttosto a regolare la vita comune di tutti i giorni; ebbene, sono appunto questi i doveri che io spiegherò in questi  libri.

8. Ma c'è anche un'altra suddivisione del dovere.  C'è infatti il così detto dovere intermedio o relativo e c'è quello che si chiama assoluto.  Il dovere assoluto possiamo anche chiamarlo, se non erro, perfetto, poiché i Greci lo chiamano kato/rqwma,  mentre chiamano  kaqh/kon  il dovere relativo.  E dei due doveri essi danno questa definizione: definiscono dovere assoluto l'assoluta rettitudine, mentre chiamano dovere relativo quello del cui adempimento si può fornire una ragione plausibile .

9. Tre punti si devono quindi considerare, secondo Panezio, nel prendere una decisione.  Prima di tutto ci si pone il quesito se sia onesto o disonesto da mettere in pratica, quello che è oggetto della nostra decisione; e appunto in questa indagine spesso gli animi si dividono in opposti pareri.  Poi si studia o si riflette attentamente, se ciò che si decide giovi, o no, alla comodità e alla piacevolezza della vita, agli averi, agli agi, al prestigio, al  potere, tutte cose utili a noi e ai nostri familiari; e questa valutazione rientra tutta nell'ambito dell'utilità.  La terza specie di dubbio si ha quando ciò che sembra utile entra in conflitto con l'onesto: quando pare, infatti, che per un verso l'utilità ci trascini a sé e l'onestà per contro ci richiami a sé, allora l'animo nel prendere una decisione si divide e produce una profonda incertezza nel pensiero.

10. Ora, questa divisione, benché sia gravissimo difetto trascurare qualcosa nel valutare un argomento, trascura ben due elementi: giacché non si è soliti, difatti,  decidere soltanto se un obiettivo sia onesto o disonesto, ma, posti dinanzi a due obiettivi onesti, decidere anche quale dei due sia più onesto; e allo stesso modo, postici innanzi due obiettivi utili, decidere quale dei due sia più utile.  Si trova così che quella materia, che Panezio ritenne di natura triplice, deve invece distribuirsi in cinque parti.  Prima di tutto, dunque, si dovrà ragionare dell'onestà, ma sotto due aspetti; poi, con lo stesso metodo, dell'utile; infine si dovranno confrontare tra loro questi due principi.

IV. ORIGINE E CONCETTO DI ONESTA'

11. Anzitutto, la natura ha dato ad ogni essere vivente l'istinto di conservare se stesso nella vita e nel corpo, schivando tutto ciò che può recargli danno e cercando ansiosamente tutto ciò che serve a sostentare la vita, come il cibo, il ricovero, e altre cose dello stesso genere.  Comune altresì a tutti gli esseri viventi è il desiderio dell'accoppiamento al fine di procreare, e una straordinaria cura della loro prole.  Ma tra l'uomo e la bestia c'è soprattutto questa gran differenza, che la bestia, solo in quanto è stimolata dal senso conforma le sue attitudini a ciò che le è presente nello spazio e nel tempo, poco o nulla ricordando del passato e presentando del futuro; mentre l'uomo, in quanto è partecipe della ragione (in virtù di questa egli scorge le conseguenze, vede le cause efficienti, non ignora le occasionali, e, oso dire, gli antecedenti, confronta tra loro i casi simili, e alle cose presenti collega strettamente le future), l'uomo, dico, vede facilmente tutto il corso della vita e prepara in tempo le cose necessarie a ben condurla.

12. Oltre a ciò la natura, con la forza della ragione, concilia l'uomo all'uomo in una comunione di linguaggio e di vita; soprattutto genera in lui un singolare e meraviglioso amore per le proprie creature; spinge la sua volontà a creare e a godere associazioni e comunità umane, e sollecita le sue energie a procacciarsi tutto ciò che occorre al sostentamento e al miglioramento della vita, non solo per sé, ma anche per la moglie, per i figli e per tutti gli altri a cui porta affetto e a cui deve protezione.  Ed è appunto questa sollecitudine che rinfranca  lo spirito e lo fa più forte e più pronto all'azione.

13. Ma soprattutto è propria esclusivamente dell'uomo l'accurata e laboriosa ricerca del vero.  Ecco perché, quando siamo liberi dalle occupazioni e dalle ansie inevitabili della vita, allora ci prende il desiderio di vedere, di udire, d'imparare, e siamo convinti che il conoscere i segreti e le meraviglie della natura è la via necessaria per giungere alla felicità.  E di qui ben si comprende come nulla sia più adatto alla natura umana di ciò che è intimamente vero e schiettamente sincero. A questo desiderio di contemplare la verità, va unita un certo desiderio d'indipendenza spirituale, per cui un animo ben formato per natura non è disposto ad obbedire ad alcuno, se non a chi lo educhi e lo ammaestri, oppure, nel suo interesse, con giusta e legittima autorità gli dia degli ordini.  Di qui sorge la grandezza d'animo, di qui il disprezzo delle cose umane.

14. E non è davvero piccolo pregio della natura razionale il fatto che l'uomo, unico fra tutti gli esseri viventi, senta quale sia il valore dell'ordine, del lecito e della misura nelle azioni e nelle parole.  Ecco perché, perfino in quelle cose che cadono sotto il senso della vista, nessun altro animale sente la bellezza, la grazia, l'armonia; solo la natura razionale dell'uomo, trasferendo per analogia questo sentimento dagli occhi allo spirito, pensa che a maggior ragione la bellezza, la costanza e l'ordine si debbano conservare nei pensieri e nelle azioni; e mentre essa si guarda dal commettere cosa contraria al decoro e alla dignità dell'uomo, bada anche, in ogni pensiero e in ogni azione, che non faccia e non pensi nulla obbedendo al capriccio. Ora, dall'intrinseca unione di questi quattro elementi è formato quello che andiamo cercando, cioè ciò che è onesto, il quale, anche se non gode di molta fama tra gli uomini, non cessa pertanto d'essere onesto; e anche se nessuno lo loda, noi diciamo a ragione che questo, per sua natura, è ben degno di lode.

V. LE QUATTRO VIRTU' CARDINALI

15. Eccoti, o Marco, figliuol mio, la forma ideale e, direi quasi, la sembianza pura dell'onesto, « quella che, se la si scorgesse coi nostri occhi, accenderebbe in noi», come dice Platone, « un meraviglioso amore per la sapienza».  Ma ogni atto onesto scaturisce da una di queste quattro fonti: o consiste nell'accurata e attenta indagine del vero; o nella conservazione della società umana, dando a ciascuno il suo e rispettando lealmente i patti; o nella grandezza e saldezza d'uno spirito sublime e invitto; o, infine, nell'ordine e nella misura di tutti i nostri atti e di tutti i nostri detti; e in ciò consiste appunto la moderazione e la temperanza.  E benché queste quattro virtù siano  in stretta connessione tra loro, tuttavia da ciascuna di esse nasce un particolare tipo di dovere, come, per esempio, quella virtù che ho distinta per prima e in cui poniamo la sapienza e la saggezza, la quale comporta, come suo proprio e speciale compito, la ricerca e la scoperta della verità. 

16. Difatti, chi più si addentra con gli occhi della mente nella segreta verità delle cose; chi con più acume e con più prontezza può non solo penetrarne, ma anche spiegarne le intime ragioni, questi di solito è giustamente considerato il più prudente e il più saggio.  Costui perciò ha in suo potere la verità, quasi come materia ch'egli debba trattare e di cui occuparsi.

17. Le altre tre virtù hanno il compito di procurare e salvaguardare quelle cose da cui dipende la vita pratica, perché da un lato il legame sociale tra gli uomini si mantenga saldo, dall'altro l'eccellenza e la grandezza dell'animo risplenda in tutta la sua luce, non solo nell'accrescere potenza e vantaggi a sé e ai propri cari, ma anche, e molto più, nel disprezzar tali cose.  Allo stesso modo, l'ordine, la coerenza, la moderazione e le altre simili virtù sono di  natura tale che esigono non solo un'attività intellettuale, ma anche un'attività pratica.  Se dunque alle operazioni della vita comune conferiamo una certa misura e un certo ordine, ecco, noi preserviamo ad un tempo l'onestà e la dignità.

VI. LA SAPIENZA: TEORIA E PRATICA

18. Delle quattro parti (o tipi), in cui abbiamo diviso l'intima essenza dell'onesto, quella prima, che si fonda sulla conoscenza del vero, tocca più da vicino l'essenza della natura umana.  In verità, tutti siamo irresistibilmente trascinati dal desiderio di conoscere e di sapere; tutti stimiamo nobile e bello eccellere in questo campo, mentre giudichiamo triste e brutta cosa il cadere in fallo e lo smarrire la strada, il peccare d'ignoranza e il lasciarsi ingannare.  In questa naturale e onesta inclinazione, dobbiamo peraltro evitare due difetti: il primo è che non si tenga per noto l'ignoto, dandogli ciecamente il nostro assenso; e chi vorrà fuggire questo difetto (e tutti dobbiamo volerlo), applicherà tempo e diligenza a ben considerare le cose.

19. Il secondo difetto è che taluni pongono troppa attenzione e troppa fatica in cose oscure e astruse, e, per giunta, non necessarie.  Eliminati questi due difetti, tutto lo sforzo e tutta la cura che si porrà in questioni oneste e proficue, avrà giusta e meritata lode: così fece, per esempio, nell'astronomia - come ho sentito raccontare - Gaio Sulpicio; nella matematica - come so per esperienza personale - Sesto Pompeo; e così fecero molti nella dialettica,  molti altri ancora nel diritto civile: tutte discipline  che hanno per oggetto la ricerca del vero. Ma se l'ardore di questa ricerca ci distoglie dai pubblici affari, noi manchiamo al nostro dovere: tutto il pregio della virtù consiste nell'azione. L'azione tuttavia ci consente spesso qualche svago, e molte occasioni ci si offrono per tornare ai nostri studi; inoltre, l'attività della mente, che non conosce riposo, vale di per sé a impegnarci nelle indagini speculative, anche senza nostro deliberato proposito.  Ma ogni atto della mente, ogni moto dell'animo deve avere per oggetto, o le sagge e oneste decisioni che riguardano la moralità e felicità della vita, o gli studi scientifici e speculativi.  E così ho parlato della prima fonte del dovere.

 

VII. LA GIUSTIZIA: DARE A CIASCUNO IL SUO

20. Fra le altre tre specie dell'onesto, la più ampia ed estesa è quella su cui si fonda la società degli uomini e, per così dire, la comunanza della vita.  Due sono le sue parti: la giustizia, che ha in sé il più fulgido splendore della virtù e che conferisce agli uomini il nome di buoni; e, congiunta ad essa , la beneficenza, che può anche chiamarsi generosità o liberalità. Il primo compito, dunque, della giustizia è che nessuno rechi danno ad alcuno, se non provocato a torto; il secondo è che ciascuno adoperi le cose comuni come comuni, le private come private. 

21. I beni privati, peraltro, non esistono per natura, ma tali diventano, o per antica occupazione. come nel caso di coloro che un tempo vennero a stabilirsi in luoghi disabitati, o per diritto di conquista, come nel caso di coloro che s'impadronirono di un territorio per forza d'armi, o infine per legge, per convenzione, per contratto, per sorteggio.  Per questo noi diciamo che il paese d'Arpino è degli Arpinati, e quel di Tuscolo, dei Tusculani; e allo stesso modo avviene la ripartizione dei beni privati.  Ora, poiché diventa proprietà individuale di ciascuno una parte dei beni naturalmente comuni, quella parte che a ciascuno toccò in sorte, ciascuno la tenga per sua; e se qualcuno vi stenderà la mano per impadronirsene, violerà la legge della convivenza umana.

22. Ma poiché, come ha scritto splendidamente Platone, noi non siamo nati soltanto per noi, ma una parte della nostra esistenza la rivendica per sé la patria, e un'altra gli amici; e poiché ancora, come vogliono gli Stoici, tutto ciò che la terra produce è a vantaggio degli uomini, e gli uomini furono generati per il bene degli uomini, affinché possano giovarsi l'un l'altro a vicenda; per queste ragioni, dunque, noi dobbiamo seguire come guida la natura, mettendo in comune le cose di utilità comune, e stringendo sempre più i vincoli della società umana con lo scambio dei servigi, cioè col dare e col ricevere, con le arti, con l'attività, con i mezzi.

23. Fondamento poi della giustizia è la lealtà, cioè la scrupolosa e sincera osservanza delle promesse e dei patti.  Perciò - ma forse la cosa parrà a taluni alquanto forzata - oserei imitare gli Stoici, che cercano con tanto zelo l'etimologia delle parole, e vorrei credere che fides (fede, lealtà) sia stata chiamata così perché fit (si fa) quel che è stato promesso.Vi sono, poi, due tipi d'ingiustizia: l'uno è di coloro che fanno una offesa; l'altro, di quelli che, pur potendo, non la respingono da quanti la subiscono.  Difatti, colui che, spinto dall'ira o da qualche altra passione, assale ingiustamente qualcuno, fa come chi metta le mani addosso a un suo compagno; ma chi, pur potendo, non respinge e non contrasta l'offesa non è meno colpevole di chi abbandonasse senza difesa i suoi genitori, i suoi amici, la sua patria.

24. Ed è ben vero che quelle ingiurie che si fanno per deliberato proposito di nuocere, hanno spesso origine dalla paura, quando, cioè, colui che medita di procurare un danno ad un altro, teme che, non facendo cosi, debba subir lui qualche danno.  Ma la maggior parte degli uomini sono spinti a danneggiare gli altri per conquistare ciò che stimola in loro un intenso desiderio.  E di questo la colpa massima è insita nell'avidità di denaro.

VIII. LA RICCHEZZA

25. Inoltre, la ricchezza si desidera, o per soddisfare i bisogni della vita, o per goderne i piaceri.  Ma coloro che hanno un animo assai grande  e progetti molto elevati, bramano e cercano il denaro per acquistar potenza e prestigio; come,  non molto tempo fa, Marco Crasso affermava che nessuna ricchezza è abbastanza grande per chi voglia primeggiare nello Stato se, coi proventi di essa, egli non possa mantenere un esercito.  Offrono godimento anche gli splendidi arredamenti, e un raffinato tenore di vita, ricco ed elegante.  Per tutte queste ragioni il desiderio della ricchezza non conosce limiti.  E in verità, non merita biasimo il cercare d'accrescere il patrimonio domestico, quando non si nuoce ad alcuno; basta non commetter mai nessuna ingiustizia.

26. Ma i più perdono ogni senso e ogni ricordo della giustizia, quando cadono in preda al desiderio del comando, degli onori e della gloria.  Certo, quella sentenza di Ennio:

         « La brama del regno non conosce né santità di affetti né integrità di fede»

ha un suo ben più vasto campo di applicazione.  In verità, ogni stato e ogni grado che non ammetta supremazia di varie persone, diventa generalmente il campo di contese così aspre che è assai difficile rispettare «la santità degli affetti».  Chiara dimostrazione ne ha dato di recente la temeraria azione di Gaio Cesare  che ha sovvertito tutte le leggi divine e umane per quel folle ideale di supremazia che egli s'era creato nella mente.  E a questo riguardo è assai penoso vedere che sono gli animi più grandi e gl'ingegni più splendidi quelli in cui per lo più si accendono i desideri d'onori, di comando, di potenza e di gloria.  Tanto maggiore cautela bisogna dunque usare per non commettere errori a questo riguardo.

27. Ma in ogni sorta d'ingiustizia è molto importante considerare se l'offesa viene fatta a causa di un forte eccitamento dell'animo, che per lo più è breve e passeggero, o per meditato e deliberato proposito.  Certo, sono più lievi le offese che prorompono da qualche improvvisa passione, che non quelle che si fanno con premeditazione e calcolo.  E così del recare offesa ho detto abbastanza.

IX. COMBATTERE PER LA GIUSTIZIA E' UN DOVERE

28. Parecchie sono le ragioni che inducono gli uomini a trascurare l'altrui difesa, mancando così al proprio dovere: o non vogliono procurarsi inimicizie, fatiche, spese, oppure la negligenza, la pigrizia, l'inerzia, o anche certe loro particolari inclinazioni e occupazioni li trattengono in maniera che essi lasciano nell'abbandono quelli che invece essi avrebbero il dovere di proteggere.  Temo pertanto che non soddisfi appieno ciò che Platone dice a proposito dei filosofi, cioè che essi sono giusti appunto perché, immersi nella ricerca del vero, tengono in poco e in nessun conto quelle cose che i più agognano con desiderio irrefrenabile, quelle cose per cui vogliono combattere tra loro persino con le armi.  Infatti, se da un lato essi rispettano parzialmente la giustizia, in quanto non recano né danno né offesa ad alcuno, dall'altro essi la contrastano; infatti impediti dall'amore del sapere, abbandonano proprio quelli che essi hanno il dovere di proteggere.  Proprio per tale motivo i seguaci di Platone ritengono che i filosofi non debbano neppure accostarsi alla vita pubblica, se non costretti.  Molto meglio sarebbe, invece, che vi si accostassero spontaneamente; perché anche un'azione retta non è giusta se non è spontanea.

29. Vi sono anche di quelli che, o per desiderio di ben custodire i propri beni, o per una certa avversione verso gli uomini, dichiarano di attendere soltanto ai loro affari, senza credere perciò di far torto ad alcuno.  Costoro, se sono esenti da una specie d'ingiustizia, incorrono però nell'altra: abbandonano l'umana società, perché non dedicano ad essa né amore, né attività, né denaro.

30. Noi poco fa abbiamo  chiarito le due forme dell'ingiustizia, aggiungendovi le cause dell'una e dell'altra; e prima ancora avevamo definito la vera essenza della giustizia; sicché ora potremo facilmente determinare quali siano i nostri particolari doveri nelle singole circostanze, se non ci farà velo l'eccessivo amore di noi stessi: perché è ben difficile il prendersi a cuore gl'interessi altrui.  Ha un bel dire  Cremete di Terenzio:

«Sono uomo: non c'è nulla di umano che non mi riguardi»;

ma tuttavia, poiché ci toccano ben più i sensi e il cuore le fortune e le sfortune nostre che non quelle degli altri (queste noi le vediamo, per cosi dire, a gran distanza), diverso è il giudizio che facciamo di di quelli e di noi.  Saggio perciò è il consiglio di chi ci ammonisce di non far cosa alcuna della cui giustizia o ingiustizia siamo in dubbio.  La giustizia risplende di un suo proprio splendore; il solo dubbio implica sempre un sospetto d'ingiustizia.

X. IL DOVERE MUTA SECONDO LE CIRCOSTANZE

31. Ma si danno spesso circostanze in cui, quelle azioni che sembrano più degne di un uomo giusto, di quello, cioè, che chiamiamo galantuomo, si mutano nel loro contrario, come, per esempio, il restituire un deposito (anche a un pazzo furioso?), o il mantenere una promessa; e così, il trasgredire e il non osservare le leggi della sincerità e della lealtà, diventa talvolta cosa giusta.  Conviene, infatti, riportarsi sempre a quelle norme fondamentali della giustizia che ho posto im principio: primo, non far male a nessuno; poi, servire alla utilità comune.  Mutano col tempo le circostanze?  Muta di pari passo il dovere e non è sempre lo stesso. 

32. Può darsi infatti che qualche promessa o qualche accordo sia di  natura tale che il mandarlo ad effetto procuri danno, o a chi è stata fatta o a chi l'ha fatta.  In verità, se Nettuno, come raccontano le favole, non avesse mantenuto la promessa fatta a Teseo, Teseo non avrebbe perduto il figlio Ippolito.  Di quei tre desideri , come si narra,  gliene restava da chiedere uno, il terzo, ed ecco che, accecato dall'ira, chiese la morte d'Ippolito: poichè il desiderio era stato esaudito, egli piombò nei più atroci dolori.  Dunque non si debbono mantenere quelle promesse che sono dannose alle persone a cui son fatte;   se quelle promesse recano maggior danno a chi le ha fatte che vantaggio a chi le ha ricevute, non è contrario al dovere anteporre il più al meno.  Così, per esempio, se tu avevi promesso a qualcuno di recarti in tribunale per assisterlo in giudizio, e nel frattempo un tuo figliuolo fosse caduto gravemente malato, non sarebbe contrario al dovere non mantener la parola, anzi mancherebbe ben di più l'altro al suo dovere, se si lamentasse dell'abbandono.  Inoltre, chi non s'accorge che non bisogna mantenere le promesse che si son fatte o costretti da paura o tratti in inganno?  E appunto la maggior parte di questi obblighi è annullata dal diritto pretorio; alcuni di essi anche dalle leggi.

33. Si commettono spesso ingiustizie anche per una certa tendenza al cavillo, cioè per una troppo sottile, ma in realtà maliziosa, interpretazione del diritto.  Di qui il comune e ormai trito proverbio: 

 ' somma giustizia, somma ingiustizia'

 A questo riguardo, si commettono molti errori anche nella vita pubblica; come, per esempio, quel tale che, conclusa col nemico una tregua di trenta giorni, andava di notte a saccheggiar le campagne, col pretesto che il patto parlava di giorni e non di notti. Non merita lode neppure, -se il fatto è vero -, quel nostro concittadino, sia egli Quinto Fabio Labeone o qualcun altro (io non ne so più che per sentito dire).  Il senato l'aveva mandato ai Nolani e ai Napoletani, come arbitro per una questione di confini.  Venuto egli sul luogo, parlò separatamente agli uni e agli altri, raccomandando che non trascendessero in  atti di avidità e di prepotenza, anzi volessero piuttosto retrocedere che avanzare.  Così fecero gli uni e gli altri, e un bel tratto di terreno rimase libero nel mezzo.  Allora egli fissò i confini dei due popoli come essi avevano detto; e il terreno rimasto nel mezzo, l'assegnò al popolo romano.  Questo si chiama ingannare, non giudicare.  Perciò, in ogni circostanza, conviene evitare simili furberie.

XI. GIUSTIZIA ANCHE VERSO I NEMICI

34. Vi sono poi certi doveri che bisogna osservare anche nei confronti di coloro che ci hanno offeso.  C'è una misura anche nella vendetta e nel castigo; anzi, io non so se non basti che il provocatore si penta della sua offesa, perché egli non ricada mai più in simile colpa, e gli altri siano meno pronti all'offesa.  Ma soprattutto nei rapporti fra Stato e Stato si debbono osservare le leggi di guerra.  In verità, ci sono due maniere di contendere: con la ragione e con la forza; e poiché la ragione è propria dell'uomo e la forza è propria delle bestie, bisogna ricorrere alla seconda solo quando non ci si può avvalere della prima. 

35. Si devono perciò intraprendere le guerre al solo scopo di vivere in sicura e tranquilla pace; ma, conseguita la vittoria, si devono risparmiare coloro che, durante la guerra, non furono né crudeli né spietati.  Così, i nostri padri concessero perfino la cittadinanza ai Tusculani, agli Equi, ai Volsci, ai Sabini, agli Ernici; ma distrussero dalle fondamenta Cartagine e Numanzia; non avrei voluto la distruzione di Corinto; ma forse essi ebbero le loro buone ragioni, soprattutto la felice posizione del luogo, temendo che appunto il luogo fosse, o prima o poi, occasione e stimolo a nuove guerre.  A mio parere, bisogna procurar sempre una pace che non nasconda insidie.  E se in ciò mi si fosse dato ascolto, noi avremmo, se non un'ottimo Stato, almeno uno Stato, mentre ora non ne abbiamo nessuno.  E se bisogna provvedere a quei popoli che sono stati pienamente sconfitti, tanto più si devono accogliere e proteggere quelli che, deposte le armi, ricorreranno alla lealtà dei capitani, anche se l'ariete abbia già percosso le loro mura.  E a questo riguardo i Romani furono così rigidi osservanti della giustizia che quegli stessi capitani che avevano accolto sotto la loro protezione città o nazioni da loro sconfitte, ne divenivan poi patroni, secondo il costume dei nostri antenati. 

36. E appunto la regolare condotta della guerra è stata scrupolosamente definita dal diritto feziale del popolo romano.  Da ciò si può dedurre che non è guerra giusta se non quella che si combatte o dopo aver chiesto riparazione dell'offesa, o dopo averla minacciata e dichiarata. [Era a capo d'una provincia il comandante Popilio, nel cui esercito militava come coscritto il figlio di Catone. Parve opportuno a Popilio congedare una legione, e quindi congedò anche il figlio di Catone che a quella legione apparteneva.  Ma poiché, per desiderio di combattere, egli volle rimanere nell'esercito, Catone scrisse a Popilio che, se permetteva a suo figlio di restare, l'obbligasse a prestare un secondo giuramento militare perché, sciolto dal primo, non poteva legittimamente combattere col nemico].  Tanto rigorosa era l'osservanza del diritto anche nella condotta della guerra.

37. [C'è una lettera del vecchio Catone al figlio Marco, nella quale scrive d'aver saputo che egli era stato congedato dal console, mentre si trovava come soldato in Macedonia, nella guerra contro Perseo.  L'ammonisce dunque di guardarsi bene dall'entrar in battaglia: « non è giusto - dice - che chi non è soldato, combatta col nemico».]

XII. REGOLE DA SEGUIRSI IN GUERRA

Voglio anche osservare che, chi doveva chiamarsi, con vocabolo proprio, perduellis («nemico di guerra»), era invece chiamato hostis («straniero»), temperando così con la dolcezza della parola la durezza della cosa.  Difatti i nostri antenatii chiamavano hostis quello che noi oggi chiamiamo peregrinus («forestiero»).  Ne danno prova le dodici tavole: Aut status dies cum hoste («o il giorno fissato, per un giudizio, con uno straniero»), e cosi ancora: Adversus hostem aeterna auctoritas («Verso lo straniero l'azione giuridica non è soggetta a prescrizione»).  Che cosa si può aggiungere a una così grande mitezza?  Chiamare con un nome così benigno  colui col quale si combatte!  E' ben vero che ormai il lungo tempo trascorso ha reso questo vocabolo assai più duro: esso ha perduto il significato di forestiero per indicare propriamente colui che ti vien contro con l'armi in pugno.

38. Quando, poi, si combatte per la supremazia, e con la guerra si cerca la gloria, occorre che anche allora le ostilità siano aperte per quelle stesse ragioni che, come ho detto poco fa anzi, sono giuste ragioni di guerra.  Queste guerre, però, che hanno come scopo la gloria del primato, si devono condurre con meno asprezza.  Come, con un cittadino, si contende in un modo, se è un nemico personale, in un altro, se è un competitore politico (con questo la lotta è per l'onore e la dignità, con quello per la vita e il buon nome), cosi coi Celtiberi e coi Cimbri si guerreggiava come con veri nemici, non per il primato, ma per l'esistenza; per contro, coi Latini, coi Sabini, coi Sanniti, coi Cartaginesi, con Pirro si combatteva per il primato.  Fedifraghi e spergiuri furono i Cartaginesi, crudele fu Annibale; più giusti gli altri.  Splendida fu davvero la risposta che Pirro diede ai nostri legati sul riscatto dei prigionieri: «Io non chiedo oro per me, e voi a me non offrirete riscatto.  Noi non facciamo la guerra da mercanti, ma da soldati: non con l'oro, ma col ferro decidiamo della nostra vita e della nostra sorte.  Sperimentiamo col valore se la Fortuna, arbitra delle cose umane, conceda a voi o a me l'impero; o vediamo se altro ci arrechi la sorte.  E ascolta anche queste altre parole: è mio fermo proposito lasciare la libertà a tutti quelli, al cui valore la fortuna delle armi lasciò la vita.  Ecco, riprendeteli con voi: io ve li offro in dono col favore del cielo».  Parole veramente regali e degne di un Eacida.

XIII. FEDELTA' AL GIURAMENTO

39. Ancora.  Se le singole persone, costrette dalle circostanze, fanno qualche promessa al nemico, devono scrupolosamente mantenerla.  Così, per esempio, nella prima guerra punica, Regolo, caduto in mano dei Cartaginesi, fu mandato a Roma per trattare lo scambio dei prigionieri, sotto giuramento che sarebbe ritornato.  Come giunse, per prima cosa, dichiarò in senato che non bisognava restituire i prigionieri; poi, benché i parenti e gli amici cercassero di trattenerlo, egli volle tornare al supplizio piuttosto che violare la parola data al nemico.

40. [Nella seconda guerra punica, poi, dopo la battaglia di Canne, quei dieci giovani che Annibale mandò a Roma, vincolati dal giuramento che avrebbero fatto ritorno, se non avessero ottenuto il riscatto dei prigionieri, tutti, finché ciascuno di loro visse, furono lasciati dai censori, appunto perché spergiuri, fra i tributari; e non meno degli altri, colui che era caduto nella colpa di un giuramento non rispettato. Uscito, difatti, dal campo col permesso di Annibale, vi ritornò poco dopo, col pretesto d'aver dimenticato non so che cosa; poi, uscito di nuovo dal campo, si teneva prosciolto dal giuramento; ed era, a parole, ma non di fatto].  Quando si tratta di lealtà, bisogna guardar sempre, non alla lettera, ma allo spirito della parola. [Il più grande esempio, di lealtà verso il nemico fu dato dai nostri padri, quando un disertore di Pirro offrì al senato di uccidere il re col veleno.  Il Senato e Gaio Fabrizio consegnarono il disertore a Pirro. Così, neppure di un nemico potente e aggressore si approvò la morte, se questa doveva comportare un delitto.] E dei doveri di guerra ho parlato abbastanza.

           GIUSTIZIA ANCHE VERSO I SERVI

41. Dobbiamo poi ricordare che anche verso le persone più umili si deve osservar la giustizia.  E più umile d'ogni altra è la condizione e la sorte degli schiavi.  Ottimo è il consiglio di coloro che raccomandano di valersi di essi come di lavoratori a mercede: si esiga buon lavoro, ma si dia la dovuta ricompensa.

LA FRODE E LA VIOLENZA

In due modi poi si può recare offesa: cioè con la violenza o con la frode; con la frode che è propria dell'astuta volpe e con la violenza che è propria del leone; indegnissime l'una e l'altra dell'uomo, ma la frode è assai più odiosa.  Fra tutte le specie d'ingiustizia, però, la più detestabile è quella di coloro che, quando più ingannano, più cercano di apparir galantuomini.  Ma basti per la prima parte della giustizia.

XIV. LA BENEFICENZA

42. Parlerò, ora, come mi ero proposto, della beneficenza e della generosità, che è senza dubbio la virtù più consona alla natura umana, ma richiede non poche cautele.  Bisogna, anzitutto, badare che la generosità non danneggi o la persona che si vuol beneficare, o gli altri; inoltre, che la generosità non sia superiore alle nostre forze; infine, che si doni a ciascuno secondo il suo merito: questo è il vero fondamento della giustizia, che deve caratterizzare sempre ogni precetto.  In verità, quelli che fanno un favore che si risolve in danno per colui al quale essi, in apparenza, vogliono giovare, non meritano il nome di benefattori o di generosi bensì di malefici adulatori; e quelli che tolgono agli uni per esser generosi con gli altri, commettono la stessa ingiustizia di chi, si appropria dei beni altrui.

43. Ci sono poi molti, e proprio fra quelli più avidi di onore e di gloria, i quali tolgono agli uni per elargire ad altri; e credono di passare per benefici verso i loro amici, se li arricchiscono in qualunque maniera.  Ma ciò è tanto lontano dal dovere che anzi nulla è più contrario al dovere.  Si cerchi dunque di usare quella generosità che giova agli amici e non nuoce ad alcuno.  Perciò l'atto con cui Lucio Silla e Gaio Cesare tolsero ai legittimi proprietari i loro beni per trasferirli ad altri, non deve sembrar generoso: non c'è lgenerosità dove non è giustizia.

44. La seconda cautela da usarsi è, come s'è detto, che la generosità non superi le nostre forze.  Coloro che vogliono essere più generosi di quel che le loro sostanze consentono, peccano, in primo luogo, d'ingiustizia verso i loro più stretti congiunti, trasferendo ad estranei quelle ricchezze che sarebbe più giusto donare o lasciare ad essi; in secondo luogo, peccano di cupidigia, in quanto tale generosità implica per lo più la bramosia di rapire e di sottrarre illegalmente per aver modo e agio di fare elargizioni; in terzo luogo, peccano d'ambizione: infatti, la maggior parte di costoro, non tanto per naturale generosità, quanto per prepotente vanagloria, pur di apparire benefici, fanno molte cose che sembrano scaturire più da ostentazione che da sincera benevolenza. 'I'ale simulazione è più vicina all'impostura che alla generosità o all'onestà.

45. Terza cautela da osservare è che, nella beneficenza, si faccia un'avveduta scelta dei meriti; bisogna, cioè, considerare bene il carattere della persona che si vuol beneficare, la disposizione dell'animo suo verso di noi, i rapporti sociali che tra noi intercedono e, infine, i servigi che essa ci ha resi: è desiderabile che tutte queste ragioni concorrano insieme; altrimenti le più numerose le più importanti avranno un peso maggiore

XV. ANCORA DELLA BENEFICENZA

46. E poiché si vive non assieme ad uomini perfetti e del tutto saggi, ma con gente in cui è già molto se c'è un'ombra di virtù, bisogna anche persuadersi (io credo) che non si debbba assolutamente trascurare nessuno, da cui trasparisca un qualche indizio di virtù; anzi, con tanta maggior cura si deve coltivare una persona, quanto più essa è adorna di certe virtù più miti, come la moderazione, la temperanza e quella stessa giustizia di cui si è già tanto parlato.  Invero, un animo forte e grande, in un uomo non perfetto e non saggio, è per lo più troppo fervido; quelle virtù, invece, sembrano convenir piuttosto al comune uomo dabbene.  E questo valga per ciò che riguarda il carattere.

47. Quanto alla benevolenza che altri mostrano verso di noi, il primo nostro dovere è che più si dia a chi più ci ama; ma questa benevolenza, non dobbiamo giudicarla, come fanno i giovinetti, da uno slancio d'affetto, ma piuttosto dalla sua stabilità e saldezza.  Se poi qualcuno ha  meriti tali  verso di noi, che noi dobbiamo, non già acquistarci la sua gratitudine, ma testimoniargli la nostra, allora bisogna adoperare maggior zelo: nessun dovere è più imperioso che il ricambiare un beneficio ricevuto. 

48. E se Esiodo consiglia di rendere in maggior misura, solo che tu possa, quello che hai avuto in prestito, che cosa  dobbiamo fare se qualcun altro ci previene nel benefizio?  Non dobbìamo forse imitare i campi fertili, che rendono assai più di quel che ricevono?  E se non esitiamo a prestare i nostri servigi a coloro dai quali ci ripromettiamo vantaggi futuri, quale riconoscenza non dobbiamo avere verso coloro che già ci hanno recato vantaggi? Ci sono due maniere di generosità: quella che consiste nel fare il beneficio e quella che consiste nel renderlo. Ora, se il farlo o il non farlo è in nostra facoltà, il non renderlo non è lecito a un uomo dabbene, purché possa fare ciò senza commettere un'ingiustizia.

49. Quanto, poi, ai benefici ricevuti, bisogna far distinzione tra essi, e non c'è dubbio che, maggiore è il beneficio, maggiore è il debito di riconoscenza.  A questo riguardo, tuttavia, bisogna soprattutto considerare con quale animo, con quale zelo, con quale benevolenza ciascuno l'ha fatto.  In realtà, molte persone, per una certa leggerezza, fanno molti benefici, così, senza discernimento, perché spronate, o da una morbosa benevolenza verso tutti, o da un improvviso impeto dell'animo, quasi come da una raffica di vento: questi benefici però non vanno tenuti nella stessa considerazione di quelli che furono prestati con giusto criterio, con meditata e consapevole fermezza.  In ogni modo, tanto nel fare, quanto nel ricambiare il beneficio, è nostro categorico dovere, (se tutte le altre condizioni sono pari), porgere più specialmente aiuto a colui che ha più bisogno d'aiuto. I più, invece, fanno tutto il contrario: prestano più specialmente i loro servigi a colui dal quale più sperano, anche se egli non ne abbia bisogno.

XVI. PROMUOVERE LA SOLIDARIETA'  UMANA

50. Il miglior modo per mantener salda la società e la fratellanza umana è di usare maggior lgenerosità verso chi ci è più strettamente congiunto.  Ma conviene, io penso, risalire più indietro e mostrare quali siano i principi naturali che reggono l'umano consorzio.  Il primo è quello che si scorge nella società dell'intero genere umano.  La sua forza unificatrice è la ragione e la parola, che, insegnando e imparando, comunicando, discutendo, giudicando, affratella gli uomini tra loro e li congiunge in una specie di associazione naturale.  Ed è questo il carattere che più ci allontana dalla natura delle bestie: noi diciamo spesso che nelle bestie c'è la forza - come nei cavalli e nei leoni -, ma non la giustizia, né l'equità, né la bontà; perché quelle son prive di ragione e di parola.

51. Questa, dunque, è la più ampia forma di società che esista, in quanto comprende e unisce tutti gli uomini con tutti gli altri uomini: in essa, quei beni che le leggi e il diritto civile assegnano ai privati, siano dai privati tenuti e goduti come appunto dispongono le leggi; ma tutti quegli altri beni che la natura produce per il comune vantaggio degli uomini siano tenuti e goduti dagli uomini come patrimonio di tutti e di ciascuno, così come raccomanda il proverbio greco: « Gli amici hanno tutto in comune con gli amici».  E comuni a tutti gli uomini sono evidentemente quei beni che appartengono a quel genere che, indicato da Ennio in un singolo esempio, può facilmente estendersi a moltissimi altri casi:

« L'uomo che mostra cortesemente la via a un viandante smarrito, fa come se dal suo lume accendesse un altro lume. La sua fiaccola non gli risplende meno, dopo che ha acceso quella dell'altro».

Con un solo ed unico esempio il poeta ci insegna che, quanto possiamo concedere senza nostro danno, tutto dobbiamo accordare anche a uno sconosciuto. 

52. Di qui le massime comuni: non impedir l'uso di un'acqua corrente; permetti che, chi vuole, accenda il suo fuoco dal tuo fuoco; dà un buon consiglio a chi è in dubbio; tutte cose che sono utili a chi le riceve, e che, a chi le dà, non sono affatto dannose.  A queste massime, dunque, dobbiamo attenerci e, in più, portare sempre qualche contributo al bene comune.  Ma, poiché i mezzi delle singole persone sono scarsi, e infinito è il numero dei bisognosi, questa liberalità aperta a tutti si restringa entro il limite posto da Ennio: «La sua fiaccola non gli risplende meno», sì che ci resti la possibilità di essere generosi verso i nostri cari.

XVII. DIVERSI GRADI DELLA SOCIETA' UMANA

53. La società umana ha diversi gradi o forme.  La società più ampia, dopo quella che non ha confini e di cui abbiamo già parlato, è quella che consiste nell'identità di nazione e di linguaggio, che è il vincolo più saldo che unisca gli uomini fra loro.  Società più intima ancora è quella di appartenere alla stessa città: molte cose i cittadini hanno in comune fra loro, come il fòro, i templi, i portici, le strade, le leggi, i diritti, i tribunali, i suffragi; inoltre, la familiarità e le amicizie, i molteplici e scambievoli rapporti d'interessi e di affari.  Ancora più stretto è il legame che avvince i membri di una stessa famiglia: la società umana, da quella forma universale e infinita, si restringe così a una cerchia piccola e angusta.

54. In verità, tutti gli esseri viventi tendono per naturale istinto alla procreazione, e perciò la prima forma di società si attua nell'accoppiamento sessuale; la seconda, nella prole, e quindi nell'unità della casa e nella comunanza di tutti i beni.  Ed è questo il primo principio della città e, direi quasi, il semenzaio dello Stato. Seguono le unioni tra fratelli e sorelle, poi tra cugini e biscugini, i quali, quando una sola casa non può più contenerli escono a fondar nuove case, quasi come colonie.  Seguono i matrimoni , le affinità , per cui si moltiplicano le parentele; e in questo propagarsi e pullulare della prole è appunto l'origine degli Stati. 

55. Or bene, la comunanza del sangue lega gli uomini con la benevolenza e l'amore: è davvero una gran cosa avere le stesse mernorie degli avi, compiere gli stessi riti sacri, avere in comune i sepolcri. [Ma fra tutte le forme di società, la più nobile e la più salda è quella che nasce quando uomini virtuosi, affini per carattere, si stringono fra loro di sincera e profonda amicizia.  Perché quell'onestà, di cui parlo spesso, ha un potere tale che, se la scorgiamo anche in altri, allora ci tocca il cuore, e ci rende amici di colui nel quale crediamo di trovarla

56. E benché ogni virtù ci attragga a sé e ci faccia amare coloro nei quali sembra che essa risieda, tuttavia la giustizia e la liberalità sono quelle che producono più specialmente questo effetto. [E niente è più atto a destare amore e a stringere i cuori che la somiglianza dei costumi nelle persone dabbene: quando due uomini hanno gli stessi interessi e le stesse aspirazioni, allora avviene che ciascuno dei due ami l'altro come  se stesso, e si avvera quello che Pitagora vuole nell'amicizia, che, cioè, di più anime si faccia un'anima sola].  Grande è ancora quella unione che nasce da vicendevole scambio di benefici: finché questi sono reciproci e graditi, una salda alleanza lega tra loro benefattori e beneficati.

57. Ma quando avrai ben considerato ogni cosa con la mente e col cuore, vedrai che fra tutte le forme di società la più importante e la più cara è quella che lega ciascuno di noi allo Stato.  Cari sono i genitori, cari i figliuoli, cari i parenti e gli amici; ma la patria da sola comprende in sé tutti gli affetti di tutti.  E quale buon cittadino esiterebbe ad affrontare la morte per lei, se il suo sacrifizio dovesse giovarle?  Tanto più escerabile, dunque, è la crudeltà di codesti facinorosi che, con ogni sorta di scelleratezze, fecero strazio della loro patria, e a nient'altro furono e sono intenti che a distruggerla dalle fondamenta.

58. Ma, se si vuole fare una gara e un confronto per sapere a chi dobbiamo rendere maggior ossequio, abbiano il primo posto la patria e i genitori, ai quali noi dobbiamo i più grandi benefici; vengano subito dopo i figliuoli e tutta la famiglia, che tiene fisso lo sguardo in noi soli e in noi soli trova il suo unico rifugio; seguano poi i parenti che sono in buona armonia con noi, i parenti coi quali noi abbiamo per lo più in comune anche la sorte.  Perciò gli aiuti necessari alla vita si devono principalmente a questi che ho nominato; ma la comunanza e l'intimità del vivere, i consigli, i discorsi, le esortazioni, i conforti, talora anche i rimproveri, hanno il loro massimo valore nell'amicizia, e amicizia dolcissima è quella originata dall'affinità di carattere.

XVIII. LA BENEFICENZA E LE SUE NORME

59. Ma, nell'adempimento di tutti questi doveri, dobbiamo guardare a ciò di cui ciascuno ha maggior bisogno, e a ciò che ciascuno anche senza di noi può o non può conseguire.  Così non sempre ai gradi degli obblighi sociali corrispondono quelli delle circostanze, e ci son certi servigi che è doveroso prestare ad alcuni piuttosto che ad altri.  Così, per esempio, nel tempo della raccolta, aiuterai più sollecitamente il vicino che non il fratello o l'amico; per contro, se si discute una lite in tribunale, difenderai il parente o l'amico piuttosto che il vicino. [Queste e altre simili considerazioni si debbono fare in ogni sorta di beneficenza, e si deve acquistar molta pratica, per diventar buoni calcolatori dei doveri, e vedere, sommando e sottraendo, quale ne sia il residuo, onde comprendere l'entità del nostro debito verso ciascuno]. 

60. Ancora.  Come i medici, i generali, gli oratori, pur avendo bene appreso le regole teoriche, non possono conseguir nulla che meriti gran lode senza l'esperienza e la pratica, così, regole e precetti sulla rigorosa osservanza dei doveri, se ne impartiscono, come appunto sto facendo io, ma la vastità e la varietà della cosa richiedono anche esperienza e pratica.  E così credo d'aver chiarito abbastanza in che modo, da quei principi che si fondano sul diritto dell'umana convivenza, derivi l'onestà, da cui dipende a sua volta il dovere.

LA FORTEZZA

61. Ma bisogna pur riconoscere che, delle quattro virtù che io ho esposto innanzi e da cui procedono l'onestà e il dovere, la più splendida è certamente quella che risiede in un animo grande ed elevato, il quale disprezza i beni esteriori.  Ecco perchè, quando si tratta di fare un  rimprovero a qualcuno, ci corrono subito alle labbra parole come queste :

« Voi, o giovani, avete un cuore di donna; quella fanciulla, invece, ha un cuore d'eroe»;

o come queste altre:

« 0 Salmacide (= effeminato), prenditi il bottino, che non ti costa né sudore né sangue»;

all'opposto, quando si tratta di lodare, tutte quelle azioni che furono compiute con grandezza e fortezza d'animo, noi le esaltiamo, non so come, con voce più alta e più chiara.  Di qui, quella larga messe di esempi che offrono ai maestri d'eloquenza le battaglie di Maratona, di Salamina, di Platea, delle Termopili, di Leuttra; di qui quella gloria onde risplendono i nostri eroi: Orazio Coclite, i Decii, Gaio e Publio Scipione, Marco Marcello e innumerevoli altri; ma soprattutto il popolo romano, meraviglioso campione di magnanimità.  Inoltre mette in chiara luce il nostro amore per la gloria delle armi il fatto che anche le statue noi le vediamo generalmente in abito militare.

XIX. LA GRANDEZZA D'ANIMO

62. Ma quella grandezza d'animo che si manifesta nei pericoli e nelle difficoltà, se manca di giustizia e combatte, non per il pubblico bene, ma per i suoi particolari interessi, è  in colpa: perché l'egoismo non solo  è estraneo alla virtù, ma piuttosto è proprio della brutalità, che esclude e respinge ogni gentilezza umana.  Pertanto gli Stoici ben definiscono la fortezza, quando affermano che essa è quella virtù che combatte in difesa della giustizia.  Nessuno, perciò, che abbia conseguito fama di fortezza con inganni e con malizia, ha mai ottenuto una vera gloria: non c'è onestà se non c'è giustizia. 63.  Bellissima, dunque, quella frase di Platone: « Non solo quel sapere, che è disgiunto da giustizia, va chiamato furfanteria piuttosto che sapienza, ma anche il coraggio che affronta i pericoli, se è mosso, non dal bene comune, ma da un suo personale interesse, abbia il nome di audacia piuttosto che di fortezza».  Noi vogliamo pertanto che gli uomini forti e coraggiosi siano, nel medesimo tempo, buoni e schietti, amanti della verità e alieni da ogni impostura: qualità queste che scaturiscono dall'intima essenza della giustizia.

64. Ma è ben penoso vedere come in seno a questa elevatezza e grandezza d'animo nasca assai facilmente l'ostinazione e un'eccessiva bramosia di primato.  A quel modo che, come scrive Platone, lo spirito pubblico degli Spartani non ardeva che d'amor di vittoria, così, quanto più uno eccelle per grandezza d'animo, tanto più agogna d'essere il primo, o piuttosto il solo fra tutti.  D'altra parte, quando si è posseduti dal desiderio di essere superiore a tutti, è ben difficile mantenere l'equità, che è il principale attributo della giustizia.  Onde avviene che gli ambiziosi non si lasciano vincere, né da buone ragioni, né da alcuna autorità di diritto e di leggi; ed ecco emergere per lo più nella vita pubblica corruttori e partigiani, che altro non vogliono se non acquistare quanta più potere è possibile, ed essere superiori nella forza piuttosto che pari nella giustizia.  Ma quanto più è difficile, tanto più è bella la moderazione: non c'è momento della vita che possa sottrarsi all'imperativo della giustizia. 

65. Forti e magnanimi, adunque, si devono stimare non quelli che fanno, ma quelli che respingono l'ingiustizia.  E la vera e sapiente grandezza d'animo giudica che quell'onestà, a cui tende sopratutto la natura umana, sia riposto non nella fama, bensi nelle azioni, e perciò non tanto vuol sembrare quanto essere superiore agli altri.  In verità, chi dipende dal capriccio d'una folla ignorante, non deve annoverarsi fra gli uomini grandi.  D'altra parte, l'animo umano, quanto più è elevato, tanto più facilmente è spinto a commettere azioni ingiuste dal desiderio della gloria; ma questo è un terreno assai sdrucciolevole, perché è difficile trovare uno che, dopo aver sostenuto fatiche e affrontato pericoli, non desideri, come ricompensa delle sue imprese, la gloria.

XX. SUPERIORITA' E LIBERTA' DELL'ANIMA

66. Generalmente la fortezza e la grandezza dell'animo si manifestano principalmente in due modi: l'uno consiste nel disprezzo dei beni esteriori, posto il principio che l'uomo non deve né ricercare né desiderare né ammirare cosa alcuna che non sia onesta e decorosa, e non deve sottostare, né ad alcun uomo, né ad alcuna passione, né ad alcun evento di fortuna; l'altro modo (ove tu sia in quella disposizione dello spirito che ora ho detto), consiste nell'operare bensì azioni grandi e soprattutto utili, ma anche straordinariamente difficili, e piene di travagli e di pericoli, come per la vita, così per molte cose che servono alla vita.

67. Di questi due modi, tutto lo splendore e tutta la magnificenza, aggiungo anche tutta l'utilità, tutto questo è nel secondo; ma la vera causa efficiente della grandezza d'animo è nel primo: in questo risiede l'intima ragione che fa gli animi veramente grandi e superiori alle cose umane.  E appunto questa forza morale si riconosce- dicevo - per due contrassegni: giudicare buono solo ciò che è onesto e ì'esser liberi da ogni passione.  In verità, se il giudicare meschine quelle cose che ai più sembrano straordinarie e magnifiche, e quindi disprezzarle con fermo e costante proposito è proprio d'un animo forte e grande, senza dubbio il sopportar quelle cose che sembrano penose, quelle che, numerose e varie, accadono nella travagliata e tempestosa vita umana, in modo che tu non ti discosti per nulla dallo stato naturale dell'uomo, per nulla dalla dignità del sapiente, questo è proprio di un animo solido e di una grande fermezza. 

68. D'altra parte, non sarebbe ragionevole che chi non si lascia abbattere dalla paura, si lasciasse abbattere dalla cupidigia, e chi si è mostrato invincibile alla fatica, si lasciasse vincere dal piacere.  Bisogna perciò evitare queste contraddizioni, e rifuggire anche dall'avidità del denaro: non c'è cosa che dimostri grettezza e bassezza d'animo quanto l'amor delle ricchezze; al contrario, nulla è più onesto e più nobile del disprezzo verso il denaro, se non lo possiedi; se lo possiedi, impiegarlo in una benefica elagizione.  Bisogna anche guardarsi, come ho già detto, da uno sfrenato desiderio di gloria, perché ci toglie la libertà dello spirito, quella libertà che gli uomini magnanimi devono conquistare e difendere con forza.  D'altra parte, non bisogna neppure aspirare ai supremi poteri, o, per meglio dire, talvolta conviene non accettarli, talora anche deporli. 

69. Sia l'animo tuo sgombro da ogni passione, non solo dalla cupidigia e dalla paura, ma anche, e specialmente, dalla tristezza, dalla eccessiva allegria e dalla collera, perché tu abbia quella tranquilla serenità che porta con sé fermezza e soprattutto dignità. Molti sono e molti furono quelli che, aspirando a questa tranquillità di cui parlo, rinunziarono ai pubblici uffici per cercare un rifugio nella pace d'una vita appartata: fra questi troviamo celebratissimi filosofi, veri principi del sapere, e certi uomini austeri e autorevoli che non seppero adattarsi ai capricci del popolo o dei potenti; e non pochi di essi passarono la vita in campagna, trovando il loro piacere nella curadel loro patrimonio. 

70. Tutti costoro non ebbero altro ideale che questo: « vivere da re». vale a dire, non aver bisogno di nulla, non obbedire a nessuno e godere di quella libertà, che consiste nel vivere come si vuole.

XXI. IL GOVERNO DELLO STATO

Ora, benché questo ideale sia comune agli ambiziosi, avidi di potenza, e agli spiriti pensosi, amanti della quiete, gli uni non credono di poterlo conseguire se non con l'aiuto di grandi ricchezze, gli altri invece col ritenersi soddisfatti della loro fortuna.  E in questo, a dir vero, non si può dar torto né agli uni né agli altri; mentre, però, la vita degli uomini appartati e tranquilli è più facile e sicura, e meno gravosa o dannosa agli altri, più utile invece all'umano genere, e più adatta a conferire splendore e grandezza, è la vita di coloro che si consacrano al governo dello Stato e al compimento di grandi imprese. 

71. Perciò si può forse concedere di non occuparsi dello Stato a quelli che, dotati di singolare ingegno, si dedicano agli studi, e a quelli che, impediti o dalla malferma salute o da qualche altra più grave causa, si ritraggono dalle cure dello Stato, cedendo ad altri il potere e la gloria di amministrarlo; ma a quelli che non hanno nessun motivo del genere, credo che non solo siano poco meritevoli di approvazione,  ma anzi meritevoli di colpa, se adducono il pretesto di nutrire dispezzo  per quelle cose che i più ammirano, cioè i comandi militari e le cariche civili.  E' vero che sarebbe difficile non approvare il loro proposito, in quanto dichiarino di non tenere in nessun conto la gloria; ma il male è che essi hanno tutta l'aria di temere, insieme alle fatiche e alle noie, anche i contrasti e gl'insuccessi, come una specie di disonore e d'infamia.  Ci sono alcuni che, in casi del tutto opposti, non eccellono per troppa coerenza: disprezzano con estrema energia  il piacere e nel dolore si abbattono; non si curano della gloria e si avvilisconono per l'infamia; e anche in tali contraddizioni  sono incoerenti.

72. Quelli, però, a cui natura elargì attitudini e mezzi per governare, devono, senz'alcuna esitazione, cercare di ottenere le magistrature e partecipare al governo: non c'è altro modo perché lo Stato si regga e la grandezza d'animo si manifesti.  D'altra parte, quelli che vogliono entrare nella vita pubblica, devono, non meno, anzi forse più dei filosofi, armarsi di fortezza e di disprezzo dei beni esteriori  come vado dicendo da tempo, e anche di tranquilla serenità d'animo, se pur vogliono vivere, non già in affannosa inquietudine, ma con dignitosa fermezza. 

73. Il che riesce tanto più facile ai filosofi, quanto meno essi, nella loro vita, offrono aperto il fianco ai colpi di fortuna, e quanto minori sono i loro bisogni; e anche perché, se qualche avversità li colpisce, non possono cadere con tanta rovina.  Perciò, non senza ragione, più vigorosi slanci dell'animo e più generoso desiderio d'operare si accendono in colui che sta al governo che non negli uomini appartati e tranquilli; e perciò tanto più l'uomo di Stato deve armarsi di grandezza d'animo e serbarsi libero da ogni affanno.  D'altra parte, chiunque s'accosta agli affari pubblici, si guardi bene dal considerar soltanto l'onore che gliene possa derivare, ma badi anche d'avere le forze adatte a realizzare i suoi progetti.  E anche in questa considerazione, si guardi da due pericoli: dal disperare senza ragione per fiacchezza d'animo e dall'aver troppa fiducia in se stesso per smaniosa ambizione.  Del resto, in ogni sorta d'impresa, prima di mettersi all'opera, occorre una diligente preparazione.

XXII. LE IMPRESE MILITARI E LE OPERE CIVILI

74. Generalmente si crede che le imprese di guerra abbiano maggior importanza che le opere di pace: questa opinione deve essere corretta. E' ben vero che molti, in ogni tempo, cercarono occasioni di guerra per solo desiderio di gloria, e ciò per lo più accade in persone di grande animo e di grande ingegno, tanto più se hanno attitudine all'arte militare e istintivo desiderio di guerreggiare; ma, se vogliamo giudicare secondo verità, la storia ci offre molti esempi di azioni civili ancor più grandi e più belle delle imprese guerresche. 

75. Si lodi pure a buon diritto Temistocle; sia pure il suo nome più illustre di quello di Solone, e si chiami Salamina a testimonianza d'una famosissima vittoria, per anteporla al provvedimento col quale Solone per la prima volta istituì l'Areopago; ma questo provvedimento è da giudicarsi non meno luminoso di quella vittoria: questa non giovò che una sola volta, quello invece gioverà in ogni tempo allo Stato. E' questo consesso che custodisce le leggi d'Atene; è questo che preserva le istituzioni degli avi.  E mentre Temistocle non potrebbe vantarsi d'aver giovato in nulla all'Areopago, Solone avrebbe invece ogni ragion di dire che egli giovò a Temistocle, in quanto la guerra fu condotta per consiglio di quel senato che Solone aveva istituito. 

76. Lo stesso può dirsi di Pausania e di Lisandro, le cui imprese, pur avendo ampliato, come si crede, l'impero agli Spartani, tuttavia non si possono neppure lontanamente paragonare con le leggi e gli ordinamenti di Licurgo;  anzi, proprio in virtù di questi, essi ebbero eserciti più disciplinati e più agguerriti. Secondo il mio parere, Marco Scauro, al tempo della mia fanciullezza, non era inferiore a Gaio Mario, e così Quinto Catulo, al tempo della mia attività politica, non era da meno di Gneo Pompeo: poco valgono gli eserciti in campo, se non c'è il buon consiglio in patria.  E lo stesso Africano, uomo e generale veramente unico, distruggendo Numanzia, non giovò allo Stato più di quel che  giovò, nel medesimo tempo, Publio Nasica, cittadino privato, uccidendo Tiberio Gracco. Si dirà che quest'azione non rientra solo nella ragione politica, ma riguarda anche la militare, in quanto fu compiuta con la forza delle armi; ma appunto quest'uso della forza avvenne per deliberazione civile e senza intervento dell'esercito.

77. Ottima è quella mia sentenza, contro la quale, a quel ch'io sento, si scagliano  i soliti maligni e gl'invidiosi:

« Cedano l'armi alla toga, ceda l'alloro del capitano alla gloria del cittadino» .

Per tralasciare altri casi, quando io reggevo il timone dello Stato, forse le armi non cedettero alla toga? Mai lo Stato corse più grave pericolo e mai godette più sicura pace.  Con tanta prontezza, in virtù dei miei provvedimenti e della mia vigilanza, caddero da se stesse le armi dalle mani di temerari e facinorosi cittadini.  Quale impresa così grande, dunque, fu mai compiuta in guerra?  Quale trionfo di capitano può paragonarsi con questo di magistrato? 

78. Lascia, Marco,  figlio mio, lascia che io me ne vanti con te, poiché spetta a te  ereditare questa mia gloria ed emulare queste mie azioni.  Certo è che un uomo, colmo di gloria militare, Gneo Pompeo, mi fece l'onore di affermare alla presenza di molti che invano egli avrebbe riportato il suo terzo trionfo se, per le mie benemerenze patriotticlie, egli non avesse avuto una patria, ove trionfare.  Le prove di fortezza che si danno in pace non sono dunque inferiori alle prove che si danno in guerra; ché anzi quelle richiedono maggiore fatica maggiore impegno di queste.

XXIII. LE VIRTU' CIVILI E IL VALOR MILITARE

79. In conclusione, quella particolare onestà che noi cerchiamo in un animo grande ed elevato, deriva dalle forze dello spirito, non già da quelle del corpo. Il corpo bisogna esercitarlo, e disporlo in maniera che possa obbedire ai consigli della ragione, sia nel disbrigo degli affari, sia nel sopportare la fatica.  Insomma, quell'onestà, che con tanta cura andiamo cercando, risiede tutta nell'attività dello spirito e, principalmente, nel pensiero.  E, a questo riguardo, recano non minor vantaggio al bene comune coloro che, come magistrati, presiedono allo Stato, di coloro che, come capitani, attendono alla guerra.  Il fatto è che spesso, per l'avveduto consiglio dei magistrati, le guerre, o non furono intraprese, o furono condotte a termine; talvolta  furono anche dichiarate, come fu dichiarata per consiglio di Marco Catone la terza guerra punica, quella guerra in cui trionfò la sua autorevole volontà pur dopo la sua morte. 

80. Si preferisca, dunque, la saggezza di una buona decisione alla prodezza di una fiera battaglia, con questa riserva però, che si anteponga il deliberare al combattere non già per paura della guerra, ma solo per riguardo dell'utile comune.  A ogni modo, quando è necessaria, si intraprenda pure una guerra, ma sempre e solo con l'evidente scopo di procurare la pace. In verità, l'uomo forte e costante si riconosce in questo: le avversità non lo turbano, la lotta non lo sgomenta e non l'abbatte; sempre presente a se stesso e sempre padrone del suo spirito, egli non si discosta mai dalla ragione che lo guida. 

81. Questo è il pregio dell'animo grande; ma anche il grande intelletto ha un suo pregio: esso precorre col pensiero il futuro, determina con buon anticipo i possibili eventi favorevoli e sfavorevoli, stabilisce i vari comportamenti nelle varie circostanze; in una parola, si comporta in modo da non dover dire un giorno: « Oh, io non l'avrei mai creduto»!  Queste sono le opere di un animo grande ed elevato, e che confida nel suo senno e nella sua saggezza.  Ma cacciarsi alla cieca nella mischia e combattere a corpo a corpo col nemico, è un atto di bestiale ferocia; quando però il momento e la necessità lo richiedono, allora si combatta pure fino all'ultimo sangue e si anteponga la morte all'infamia della schiavitù.

CORAGGIO E PRUDENZA: TUTTO PER LA PATRIA

82. [Quando la necessità impone di distruggere o di saccheggiare una città, si osservino scrupolosamente due cose: nessun atto temerario, nessuna crudeltà.  Nei rivolgimenti politici e sociali, è stretto dovere dell'uomo magnanimo punire i sobillatori, preservare il popolo; in ogni momento e in ogni evento, rispettare la giustizia e l'onestà].  Come ci sono alcuni (ne ho parlato più sopra), i quali alle opere civili antepongono le imprese militari, così si trovano molti, a cui le decisioni rischiose e precipitose appaiono più splendide e più nobili di quelle tranquille e meditate.

83. E' ben vero che noi, col fuggire il pericolo, non dobbiamo mai correre il rischio di passar da imbelli e da codardi; ma è anche vero che dobbiamo rifuggire dal buttarci allo sbaraglio senza ragione, che è la cosa più dissennata del mondo.  Perciò, nell'affrontare i pericoli, dobbiamo seguire il metodo dei medici, che, ai malati leggeri, porgono blandi rimedi, riservando di necessità alle malattie più gravi le cure pericolose e incerte.  Nella bonaccia pertanto, invocare la tempesta è grande follia; ma superare la tempesta in qualunque modo, è vera saggezza, tanto più se il vantaggio di una pronta decisione supera il danno di un'incerta esecuzione! D'altra parte, le pubbliche imprese sono pericolose tanto per coloro che le affrontano, quanto per lo Stato.  E così, alcuni corrono il rischio di sacrificare la vita, altri di perdere la loro gloria e la benevolenza dei concittadini.  Dobbiamo, dunque, essere più pronti a metter a repentaglio i nostri interessi che non quelli della patria; e, particolarmente, più disposti a combattere per l'onore e per la gloria che non per gli altri beni materiali.

84. Si trovano molti però che sono disposti a sacrificare per la patria non solo il denaro, ma anche la vita, mentre poi rifiutano di fare il più piccolo sacrificio della loro gloria, anche se lo richiede la patria.  Come fece, per esempio, Callieratida, il quale, essendo ammiraglio degli Spartani nella guerra del Peloponneso e avendo compiuto molte e mirabili imprese, alla fine mandò tutto inrovina, per non aver voluto seguire il consiglio di coloro i quali giudicavano opportuno ritirare la flotta dalle Arginuse e non venire a battaglia con gli Ateniesi.  Egli rispose loro che Sparta, perduta quella flotta, ben poteva allestirne un'altra, mentre lui non poteva fuggire senza macchiarsi d'infamia.  E quello fu per gli Spartani un colpo abbastanza lieve; rovinoso fu l'altro, quando Cleombroto,  temendo lo sfavore popolare, a cuor leggero venne alle mani con Epaminonda, e la potenza di Sparta crollò.  Quanto migliore fu la condotta di Quinto Massimo, del quale Ennio dice:

«Un uomo solo, temporeggiando, rialzò le nostre sorti.  Egli non anteponeva le dicerie del volgo alla salvezza della patria.  Onde la gloria di quel grande di giorno in giorno risplende più viva  »

Questa sorta d'errore, per altro, si deve evitare anche nelle questioni civili: ci sono di quelli, infatti, che, per timore della impopolarità, non osano manifestare il loro pensiero, anche se ottimo.

XXV. DOVERI DELL'UOMO DI STATO

85. In generale, quelli che si dispongono a governare lo Stato, tengano ben presenti questi due precetti di Platone: primo, curare l'utile dei cittadini in modo da adeguare ad esso ogni loro azione, dimentichi e incuranti dei propri interessi; secondo, provvedere a tutto l'organismo dello Stato, affinché, mentre ne curano una parte, non abbiano a trascurare le altre.  Come la tutela di un pupillo, così il governo dello Stato deve esercitarsi a vantaggio non dei Governanti, ma dei governati.  D'altra parte, quelli che provvedono a una parte dei cittadini e ne trascurano un'altra, introducono nello Stato il più funesto dei malanni: la discordia e la sedizione; onde avvviene che alcuni appaiono amici del popolo, altri fautori degli ottimati; ben pochi sono devoti al bene di tutti. 

86. Di qui nacquero in Atene grandi discordie; di qui scoppiarono nella nostra repubblica, non solo sedizioni, ma anche rovinose guerre civili; mali, questi, che un cittadino austero e forte, degno di primeggiar nello Stato, fuggirà con orrore: consacrandosi interamente allo Stato, senza cercar per sé né ricchezze né potenza, egli lo custodirà e lo proteggerà tutto quanto, in modo da provvedere al bene di tutti i cittadini.  Inoltre, con false accuse, egli non susciterà né odio né disprezzo contro alcuno; anzi si atterrà così strettamente alla giustizia e all'onestà che, pur di mantenerle ferme e salde, affronterà i più gravi insuccessi e incontrerà anche la morte, piuttosto che tradire quelle norme che ho detto.

87. Miserabile soprattutto è l'ambizione e la caccia agli onori.  Bellissime cose scrive a questo proposito lo stesso Platone: «Coloro che si contendono il governo dello Stato somigliano a dei marinai che si contrastino il timone della nave».  E ancora ci ammonisce di tener per avversari coloro che ci vengono incontro con l'arme in pugno, non già coloro che vorrebbero governar lo Stato secondo le proprie vedute. Un dissenso di tale specie, senza intrinseca amarezza, ci fu, per esempio, tra Publio Africano e Quinto Metello.

88. Non bisogna dare ascolto a coloro i quali credono che dobbiamo adirarci fieramente coi nostri nemici, e anzi vedono appunto nell'adirarsi il carattere distintivo dell'uomo magnanimo e forte: no, la virtù più bella, la virtù più degna di un uomo grande e nobile è la mitezza e la clemenza. Negli Stati liberi, ove regna l'eguaglianza del diritto, bisogna anche dare prova di una certa arrendevolezza, e di quella che è solita chiamarsi padronanza di sé, per non incorrere nella taccia di inutile e odiosa scontrosità, se ci accada di adirarci con ímportuni visitatori o con sfrontati sollecitatori.  E tuttavia la mite e mansueta clemenza merita lode solo a patto che, per il bene superiore dello Stato, si adoperi anche la severità, senza la qualenessun governo è possibile.  Ogni punizione e ogni rimprovero, però, devono essere privi di offesa, e mirare, non alla soddisfazione di colui che punisce o rimprovera, ma solo al vantaggio dello Stato.

89. Bisogna anche badare che la pena non sia maggiore della colpa, e non avvenga che, per le medesime ragioni, alcuni siano duramente colpiti, altri neppure richiamati al dovere.  Soprattutto è da evitare la collera nell'atto stesso del punire: chi si accinge al castigo in preda alla collera, non terrà mai quella giusta via di mezzo, che corre fra il troppo e il poco, via che piace tanto ai Peripatetici, e piace a ragione, solo che poi non dovrebbero lodare l'ira, dicendo che essa è un utile dono della natura.  No, l'ira è da tenere lontana in tutte le cose, e bisogna far voti che i reggitori dello Stato assomiglino alle leggi, le quali sono spinte a punire non per impeto d'ira, ma per dovere di giustizia.

XXVI. SERENITA' NELLA PROSPERA E NELL'AVVERSA FORTUNA

90. Ancora un avvertimento.  Nella prospera fortuna, quando tutto  va secondo i nostri desideri, evitiamo quanto più è possibile l'orgoglio, fuggiamo il disprezzo e l'arroganza.  E' indizio. di gran leggerezza il sopportare senza regola e senza misura cosi la prospera come l'avversa fortuna; mentre  è cosa bellissima il mostrarsi eguali a se stessi in ogni momento della vita, e il mantenere sempre lo stesso volto e la stessa fronte, come si racconta di Socrate e di Gaio Lelio. Io leggo nella storia che Filippo, re dei Macedoni, fu bensi superato da suo figlio nella gloria delle imprese militari, ma lo superò di gran lunga nell'affabilità e nella dignità umana; e così, mentre il padre fu grande sempre, il figlio fu spesso brutale; cosí che hanno evidentemente ragione coloro i quali ci consigliano di comportarci tanto più umilmente quanto più siamo posti in alto.  Racconta Panezio che l'Africano, suo discepolo ed amico, soleva dire:

« come i cavalli, vibranti di selvaggia fierezza per il frequente slanciarsi nelle battaglie, li affidiamo di solito ai domatori per averli più docili alla mano, così gli uomini, imbaldanziti dalle molte fortune e troppo fiduciosi nelle proprie forze, dobbiamo condurli, per così dire, alla scuola della ragione e della saggezza, perché vi imparino l'instabilità delle cose umane e la mutabilità della fortuna». 

91. Anzi, quanto più ci assiste la fortuna, tanto più noi dobbiamo ricorrere al consiglio degli amici, concedendo loro anche maggiore autorità che nel passato. E in tale stato felice, guardiamo di non prestar l'orecchio agli adulatori e di non lasciarci lusingare da essi: bevendo le loro parole, è facile cadere in inganno, perché noi ci crediamo così brave persone da meritare ogni più alta lode.  E da questo smarrimento, nascono innumerevoli guai, quando gli uomini, gonfi della loro presunzione, si avvolgono nei più grandi errori e restano infine col danno e con le beffe.  Ma di ciò basti.

 92. Un'ultima considerazione.  Se gli uomini di Stato compiono le più grandi e magnanime imprese, perché il governo della cosa pubblica si estende su un più vasto campo e riguarda un maggior numero di persone, tuttavia vi furono e vi sono molti uomini di grande animo anche nella vita privata: anzitutto, coloro che tentano col pensiero ardue ricerche filosofiche o scientifiche, tenendosi però ben chiusi nella cerchia dei loro studi; poi, coloro che, posti in mezzo tra i filosofi e gli uomini politici, si dilettano di amministrare le proprie sostanze, non accrescendole però a dismisura con qualunque mezzo, né escludendo dal godimento di esse i propri congiunti; anzi, facendone partecipi gli amici e lo Stato, quando lo richieda il bisogno.  E queste sostanze, prima di tutto, siano acquistate onestamente, cioè con mezzi né indegni né odiosi; [poi, si rendano utili a quanti più è possibile, purchè meritevoli]; si accrescano quindi con l'accortezza, con la diligenza e con la parsimonia; [e non servano al capriccio e al lusso invece che alla generosità e alla beneficenza].  Chi osserva tutti questi precetti può ben vivere con magnificenza, con dignità e con fìducioso coraggio, e al tempo stesso con semplicità, con lealtà, con vera filantropia.

XXVII. LA TEMPERANZA

93. Rimane da trattare della quarta ed ultima parte dell'onestà, cioè di quella parte che comprende in sé, anzitutto il ritegno, e poi - come ornamento della vita - la temperanza e la moderazione, vale a dire il pieno acquietamento delle passioni e la giusta misura in ogni cosa. Questa parte dell'onesto contiene quella virtù che i Greci chiamano pre/pon e che noi possiamo chiamare decoro.

94. Essa è tale per sua natura che non può separarsi dall'onesto: poiché ciò che è decoroso è onesto e ciò che è onesto è decoroso; e la differenza che passa tra l'onestà e il decoro, è più facile a intendere che a spiegare.  In verità, tutto ciò che ha il carattere del decoro, non appare se non quando lo precede l'onestà.  Ecco perché, non solo in questa parte dell'onestà, della quale dobbiamo ora trattare, ma anche nelle tre precedenti si manifesta il decoro. Il  sapiente uso della ragione e della parola, il meditare ogni azione, e in ogni cosa cercare e osservare la verità, e ad essa attenersi, è decoroso, mentre al contrario l'ingannarsi e l'errare, il cadere in fallo e il lasciarsi raggirare è altrettanto indecoroso quanto l'uscir di strada e uscire di senno; e così ogni azione giusta è decorosa, e ogni azione ingiusta, com'é disonesta, così è anche indecorosa. Allo stesso modo si comporta la fortezza: tutte le azioni generosi e magnanime appaiono degne dell'uomo e decorose: le azioni contrarie, invece, come sono disoneste, così offendono il decoro.

95. Questo decoro, dunque, di cui sto parlando, appartiene a ogni specie di onestà, e vi appartiene in tal modo che ciò non si scorge soltanto per via di astrusi ragionamenti, ma è di piena evidenza per tutti.  Difatti, in ogni virtù c'è qualche cosa che ha il carattere del decoro; ma questo decoro può separarsi dalla virtù più in teoria che in pratica. Come la grazia e la bellezza del corpo non si possono separare dalla buona salute, così questo decoro, di cui parliamo, è bensì intimamente congiunto con la virtù, eppure se ne distingue per via d'astrazione mentale.

96. Ora, il decoro è di due specie, giacché per decoro o conveniente intendiamo tanto un carattere generale che risiede in tutto l'onesto, quanto un carattere particolare, a quello subordinato, che appartiene alle singole parti dell'onesto. Del primo si suol dare pressapoco questa definizione: « è decoro ciò che è conforme all'eccellenza dell'uomo, in quanto la sua natura differisce da quella degli altri esseri viventi »; la parte speciale, invece, è definita così: «decoro è ciò che è conforme alla particolare natura di ciascuno, così che in esso appaiono moderazione e temperanza con un certo aspetto di nobiltà ».

XXVIII. IL DECORO NELLA POESIA E NELLA VITA

97. Che tale sia la vera nozione del decoro (conveniente), noi possiamo argomentarlo da quel decoro al quale tendono i poeti.  Di questo speciale decoro si suole parlare diffusamente altrove; qui io noterò soltanto che esso è rispettato dai poeti quando appunto i singoli personaggi agiscono e parlano in modo conforme al loro proprio carattere. Così, per esempio, se Eaco o Minosse dicessero «Mi odino, purché mi temano »; oppure: « Ai figliuoli è tomba il corpo del padre », l'espressione parrebbe sconveniente, perché, come sappiamo, quelli furono uomini giusti; ma se lo dice Atreo, scoppiano applausi, perché il suo linguaggio è conforme al suo carattere.  Ma i poeti, dal carattere dei singoli personaggi, comprenderanno quali tratti convengano a ciascuno di essi; noi, invece, dobbiamo conservare quel carattere che appunto la natura ci ha imposto e che, per la sua grande nobiltà, ci innalza sopra tutti gli altri esseri viventi. 

98. Perciò i poeti, nella grande varietà dei caratteri, vedranno essi quale condotta e quale linguaggio convengano propriamente anche ai personaggi viziosi; noi, invece, non dobbiamo che osservare la legge della natura; la natura ci assegna le parti della coerenza, della moderazione, della temperanza e della discrezione; e ancora sempre la natura ci insegna a considerare attentamente come dobbiamo comportarci in rapporto agli altri uomini; ebbene, da tutto questo appare in chiara luce quanto vasto sia il campo su cui si estende il decoro, sia quello generale che riguarda l'onestà tutta quanta, sia quello particolare che si manifesta in ogni singola virtù. Come la bellezza del corpo, per l'armonica disposizione delle membra, attira gli sguardi e infonde piacere, appunto perché tutte le parti si accordano tra loro con una certa grazia, così quel decoro, che risplende nella vita, suscita l'approvazione di coloro coi quali viviamo, in virtù dell'ordine, della coerenza e della temperanza che informano ogni nostro detto e ogni nostro atto.

99. Pertanto, nei nostri rapporti con gli uomini, noi dobbiamo usare un rispettoso riguardo, non solo verso i migliori, ma anche verso gli altri. Perché il non curarsi della pubblica opinione, è indizio non solo di arroganza, ma addiritura di sfrontatezza.  Peraltro, nei rapporti tra uomo e uomo, v'è una certa differenza tra giustizia e discrezione. Compito della giustizia è di non recar danno agli altri; compito della discrezione è di non recar molestia; e appunto in ciò si manifesta principalmente l'essenza del decoro. Esposti, adunque, questi principi, io credo che il nostro concetto del decoro sia abbastanza chiarito.

100. Ora la prima strada che si presenta al dovere derivante dal decoro, è quella che conduce a una piena e stabile armonia con le leggi della natura: poiché, se prenderemo la natura per guida, noi non ci allontaneremo mai dalla retta via e conseguiremo quelle tre virtù che abbiamo già esaminate: la naturale perspicacia ed acutezza della mente, una condotta adeguata alla convivenza civile, la forza e il vigore del carattere.Ma la maggior forza del decoro risiede in questa parte della quale discutiamo, cioè nella temperanza.  Perché, se sono da lodare i movimenti del corpo, quando sono conformi a natura, tanto più sono da lodare quelli dell'animo, quando egualmente si accordano con la natura. 

101. Due sono, invero, le potenze naturali dell'animo: l'una è riposta nell'istinto (i Greci la chiamano o)rmh/  = impulso), e trascina ciecamente l'uomo qua e là; l'altra risiede nella ragione, che insegna e dimostra quello che si debba fare e quello che è da evitare. [Onde avviene che la ragione comanda e l'istinto obbedisce.

XXIX. L'ISTINTO OBBEDISCA ALLA RAGIONE

Ogni nostra azione deve essere assolutamente priva di temerità e di negligenza; noi non dobbiamo far nulla di cui non possiamo fornire una plausibile ragione.  Questa, invero, è quasi la definizione del dovere].

102. Anzitutto bisogna fare in modo che gl'istinti obbediscano alla ragione: senza precederla né lasciarla da parte per pigrizia o per viltà, ma se ne stiano tranquilli, liberi e franchi da ogni turbamento.  Per tal modo risplenderanno in tutta la loro luce la fermezza e la temperanza.  Difatti, quegli istinti che vanno fuor di strada e, come cavalli imbizzarriti per eccesso di bramosia o di paura, non son tenuti abbastanza a freno dalla ragione, oltrepassano senza dubbio il limite e la misura: abbandonano e rifiutano l'obbedienza, ribellandosi alla ragione, a cui son pure sottoposti per legge di natura; sì che questi sfrenati istinti turbano non solo l'animo, ma anche il corpo.  Basta osservare l'aspetto degli uomini adirati, o di quelli che sono sconvolti da qualche passione o da qualche timore, o di quelli che si esaltano per l'eccessiva gioia: tutto in loro si muta, il volto, la voce, l'andare, il modo di stare fermi.

103. Da ciò si conclude (per tornare al nostro concetto del dovere), che bisogna frenare e calmare tutti gl'istinti, spronando la nostra vigile attenzione sì che non si faccia nulla alla cieca e a caso, nulla senza riflessione e con negligenza.  In verità, noi non siamo stati generati dalla natura in modo da sembrar fatti per il gioco e per lo scherzo, ma piuttosto per un dignitoso contegno e per occupazioni più serie e più importanti.  E' lecito senza dubbio lasciarsi andare talvolta al gioco e allo scherzo, ma come  è il caso del sonno e degli altri riposi, cioè quando avremo adempiuti i nostri gravi e importanti doveri.  E il genere stesso dello scherzo dev'essere, non eccessivo o smodato, ma onesto e gentile.  Come non concediamo ai fanciulli ogni libertà nei giochi, ma solo quella che non è contraria alle azioni che l'onestà richiede, così anche nello scherzo risplenda un barlume d'animo gentile.

104. Ci sono, insomma, due specie di scherzi: l'uno volgare, aggressivo, scandaloso, turpe; l'altro elegante, garbato, ingegnoso, fine. Di questa seconda specie son pieni non solo il nostro Plauto e l'antica commedia degli Attici ma anche i libri dei filosofi socratici; e di questa specie sono molte facezie di molti, come, per esempio, quelle che furono raccolte dal vecchio Catone e che vanno sotto il titolo di a)pofqe/gma.  E' facile, dunque, distinguere lo scherzo nobile dal volgare.  L'uno è degno anche dell'uomo più austero, se è fatto a tempo debito, come, per esempio, quando lo spirito si allenta; l'altro non è neppure degno di un uomo libero, se all'indecenza dei pensieri si aggiunge l'oscenità delle parole. 

105. Anche nei divertimenti dobbiamo osservare una certa misura, per non prorompere in eccessi e, inebriati dal piacere, scivolare in qualche sconcezza.  Offrono esempi di onesti divertimenti il nostro Campo di Marte e gli esercizi della caccia.

XXX. L'UOMO E LA BESTIA

Sempre, in ogni questione morale, conviene tener presente la grande eccellenza della natura umana rispetto a tutti gli animali, domestici e selvatici.  Questi non sentono altro che il piacere dei sensi, e ad esso son trascinati da cieco impeto;  invece la mente dell'uomo trova il suo alimento nell'imparare e nel meditare: essa o cerca o fa sempre qualche cosa, ed è guidata dalla gioia del vedere e dell'udire.  Anzi, se un uomo è per temperamento alquanto incline ai piaceri, purché non sia della razza dei bruti (alcuni sono uomini non di fatto, ma di nome); solo che egli sia d'animo un po' elevato, per quanto dominato dal piacere, nasconde e dissimula, per un senso di pudore, codesta sua bramosia. 

106. Da ciò si comprende che il piacere dei sensi non è troppo degno dell' uomo nobile e che, anzi, conviene disprezzarlo e respingerlo; se c'è però qualcuno che conceda qualche cosa al piacere, ponga ogni cura nell'usarne con sapiente moderazione. Perciò il vitto e la cura della persona abbiano per fine, non il piacere, ma la buona salute e il vigore delle forze.  Anzi, sol che vogliamo riflettere un poco sopra l'eccellenza e la dignità della natura umana, comprenderemo quanto sia turpe una vita che nuota nel lusso e si sprofonda nelle mollezze, e per contro quanto sia bella una vita modesta e frugale, austera e sobria.

LA RAGIONE E IL TEMPERAMENTO

107. Oltre a questo, bisogna riflettere che la natura ci ha come dotati di due caratteri: l'uno è comune a tutti, per cui tutti siamo partecipi della ragione, cioè di quella eccellenza onde noi superiamo le bestie: eccellenza da cui deriva ogni specie di onestà e di decoro, e da cui si desume il metodo che conduce alla scoperta del dovere; l'altro, invece, è quello che la natura ha assegnato in modo specifico alle singole persone.  Invero, come nei corpi ci sono grandi differenze (alcuni, per l'agilità, sono evidentemente adatti alla corsa, altri, per la robustezza, alla lotta, e similmente, per ciò che riguarda le sembianze, alcuni hanno in sé la bellezza, altri la grazia), così negli animi appaiono dissomiglianze anche maggiori.

108. In Lucio Crasso e in Lucio Filippo c'era molto spirito, ma ne possedeva ancor più, e di più ricercato, Gaio Cesare, il figlio di Lucio; ma in quei medesimi tempi MauroScauro e il giovane Mario Druso possedevano una straordinaria austerità; Gaio Lelio, invece, molta giocondità, mentre maggiore era l'ambizione e più serio il comportamento del suo amico Scipione.  Fra i Greci, poi, sappiamo che Socrate era affabile e gioviale e piacevole conversatore, e, in ogni discorso, maestro in quella particolare fìnzione che i Greci chiamano ei)/rwna  per contro, Pitagora e Pericle conseguirono somma autorità, pur senz'ombra di buon umore.  Astuto fu (com'è noto), tra i capitani cartaginesi Annibale, tra i nostri Quinto Massimo esperti entrambi nell'arte di celare, tacere, dissimulare, tendere insidie, prevenire e sventare i disegni del nemico.  Per questo rispetto i Greci antepongono Temistocle e Giàsone di Fere a tutti gli altri; ed esaltano in particolar modo lo scaltro e ingegnoso espediente di Solone, il quale, per meglio tutelar la sua vita e per più giovare alla sua patria, si finse pazzo. 

109. Ben diversi da costoro vi sono altri, candidi e schietti, i quali credono che non si debba far nulla di nascosto, nulla per inganno, amanti della verità, nemici della frode; e altri ancora vi sono, disposti a sopportare qualunque affronto e a inchinarsi a qualunque persona, pur di raggiungere il proprio intento, come vedevamo fare a Silla e a Marco CrassoPer questo rispetto, insigne per scaltrezza e per pazienza fu (com'è noto) lo spartano Lisandro; tutto l'opposto fu Callicratida, che successe a Lisandro nel comando dell'armata.  Similmente, nel conversare familiare, qualcuno, per potente che sia, non ottiene altro effetto che di sembrare uno dei tanti.  L'abbiamo notato nei due Catuli padre e figlio, e anche in Quinto Mucio Mancia. Ho sentito dire dai nostri vecchi che la stessa disinvoltura l'ebbe Publio Scipione Nasica; al contrario, il padre di lui, quello che represse gli scellerati tentativi di Tiberio Gracco, non aveva alcuna affabilità nel  parlare; come non l'ebbe neanche Senocrate, il più rigido e burbero dei filosofi, il quale, appunto per questa mancanza di affabilità, fu grande e famoso. Ci sono poi innumerevoli altre differenze psicologiche e morali, non però meritevoli di biasimo alcuno.

XXXI. FEDELTA' ALLA PROPRIA NATURA

110. Ogni uomo deve accuratamente coltivare le sue qualità naturali (le buone, s'intende, non le cattive), per poter più facilmente conservare quel decoro di cui andiamo parlando. E il modo da tenere è questo: non dobbiamo far nulla contro l'universale natura umana e, nel pieno rispetto di essa, dobbiamo seguir la nostra particolare, in modo che, anche se altri abbiano altre attitudini maggiori e migliori, noi misuriamo le nostre alla stregua della nostra natura: non giova, invero, contrastare alla propria natura o inseguire qualcosa che non si può raggiungere. Da ciò emerge più evidente la vera essenza del decoro, appunto perché nulla è decoroso a dispetto, come suol dirsi, di Minerva, cioè, nel caso nostro, della natura.

111.  In generale, se c'è al mondo cosa decorosa, nessuna certamente è tale più della coerenza, così nella vita intera come nelle singole azioni; coerenza che noi non potremmo conservare, se, imitando l'altrui natura, ci spogliassimo della nostra. Come noi dobbiamo far uso di quella lingua che ci è materna, per non essere giustamente derisi, come accade a taluni che vi inseriscono parole greche, così non dobbiamo introdurre alcuna dissonanza nelle nostre azioni e nella nostra vita.

112. Ora, questa diversità di nature ha in sé tanta forza che talvolta un uomo deve darsi la morte, mentre un altro, nelle stesse condizioni, non deve.  Forse che Marco Catone si trovò in condizione diversa da quella di coloro che in Africa si arresero a Cesare?  Eppure, mentre a costoro si sarebbe fatta una colpa se si fossero uccisi, perché meno austera era stata la loro vita e meno rigidi i loro costumi, a Catone, invece, che aveva avuto in dono da natura una straordinaria austerità, da lui rafforzata con una incessante fermezza, a Catone, ch'era sempre rimasto incrollabilmente fermo nel suo proposito, il dovere impose di morire piuttosto che vedere la faccia del tiranno.

113. Quante disavventure sopportò Ulisse, in quel suo lungo e periglioso errare, riducendosi perfino a schiavo di donne, se donne si possono chiamare Circe e Calipso, e cercando di mostrarsi in ogni discorso affabile e cortese con tutti!  Nella sua casa, poi, sopportò perfino gli oltraggi dei servi e delle ancelle, pur di raggiungere finalmente il suo intento. Laddove Aiace, con quel carattere che la tradizione gli attribuisce, mille volte avrebbe voluto incontrar la morte piuttosto che sopportare quegli umilianti oltraggi. Per queste ragioni e per questi esempi, conviene che ciascuno esamini attentamente la propria natura e la indirizzi a buon fine, senza voler sperimentare quanto gli si addica l'altrui: a ciascuno tanto più conviene il suo carattere quanto più è suo.

114. Ciascuno, dunque, ben conosca la propria indole, facendosi giudice attento e oculato delle sue virtù e dei suoi difetti, perché non sembri che gli attori abbiano più discernimento di noi.  Gli attori, infatti, scelgono non i drammi migliori, ma quelli più adatti alle loro forze: coloro che confidano nella voce, preferiscono gli Epigoni e il Medo, coloro che confidano nella mimica, la Melanippa e la Clitemestra; Rupilio, ben lo ricordo, recitava sempre l'Antiope, Esopo di rado l'Aiace. Un istrione, dunque, vedrà ciò che gli conviene su la scena, e il sapiente non lo vedrà nella vita?  Applichiamoci dunque con cura a quelle cose alle quali siamo più specialmente adatti.  Che se talora la necessità, sviandoci dal nostro cammino, ci spingerà a cose non conformi all'indole nostra, ci converrà adoperare ogni cura, ogni più meditata diligenza per poterle fare, se non proprio convenientemente, almeno con la minore  sconvenienza possibile.  Non tanto dobbiamo sforzarci di conseguire quelle doti che la natura ci ha negato, quanto piuttosto di fuggire quei difetti che essa ci ha dato.

XXXII. SCEGLIERE CON CAUTELA LA PROPRIA STRADA

115. In verità, a quei due caratteri, di cui ho parlato più sopra, se ne aggiunge un terzo, che ci è imposto dal caso o dalle circostanze; e ancora un quarto, che noi stessi ci adattiamo a nostro arbitrio. Perché i regni, i comandi, i vari gradi di nobiltà, gli onori, le ricchezze, la potenza, come anche i loro contrari, sono in balia del caso e dipendono dalle circostanze; ma quella parte che noi stessi vogliamo rappresentar nella vita, procede dalla nostra volontà.  Ecco perché alcuni si dedicano alla filosofia, altri al diritto civile, altri all'eloquenza, e anche nel campo delle virtù morali, chi preferisce eccellere in una e chi in un'altra.

116.  In verità, quelli i cui padri o antenati si segnalarono in qualche genere di gloria, si studiano per lo più di emergere in quel medesimo genere, come, per esempio, Quinto Mucio, figlio di Publio, nel diritto civile, e l'Africano, figlio di Paolo, nell'arte della guerra. Certuni, però, alle glorie ereditate dai padri, ne aggiunsero qualcuna tutta loro, come, per esempio, il medesimo Africano coronò la gloria dell'armi con quella dell'eloquenza; e lo stesso fece Timoteo, figlio di Conone, il quale, non inferiore al padre nella gloria militare, vi aggiunse quella della cultura e dell'ingegno.  Del resto, accade talvolta che alcuni, lasciando da parte l'imitazione dei loro maggiori, perseguano un loro particolare proposito, e per lo più pongono in ciò ogni diligenza soprattutto coloro che, nati da parenti oscuri, si prefiggono un alto e nobile ideale.

117. Ora, quando noi cerchiamo che cosa sia il decoro, dobbiamo abbracciare con la mente tutte queste considerazioni; ma in primo luogo dobbiamo stabilire chi e quali vogliamo essere, e qual genere di vita vogliamo seguire deliberazione questa che è la più difficile fra tutte. Perché, entrando nella giovinezza, quando più debole è la forza del raziocinio, ciascuno si sceglie quel modo di vivere di cui si è maggiormente invaghito; per cui si trova impigliato in un certo sistema di vita, prima ancora d'aver potuto giudicare qual sia il migliore.

118. Racconta Prodico, come si legge in Senofonte, che Ercole, nella prima giovinezza, che è il tempo assegnato dalla natura per la scelta del cammino che ognuno percorrerà nella vita, giunse in un luogo solitario e che ivi sedendo (si aprivano innanzi a lui due strade, una del Piacere, l'altra della Virtù), stette lungamente e intensamente riflettendo tra sé, in quale delle due fosse meglio entrare. Ebbene, questa consapevole e libera scelta del proprio stato poté forse toccare in sorte a un Ercole, « nato dal seme di Giove ma non può certo capitare egualmente a noi, che di solito imitiamo coloro che attraggono il nostro spirito e che ci inducono a seguir ciecamente le loro occupazioni e il loro tenore di vita; il più delle volte, poi, imbevuti dei precetti dei nostri genitori, noi siamo dolcemente condotti a prendere i loro costumi e le loro abitudini.  Altri si lasciano trascinare dal giudizio della moltitudine e vagheggiano con più acceso desiderio quelle cose che alla maggior parte degli uomini sembrano infinitamente belle. Solo pochi, o per felicità di fortuna o per bontà di natura, seguono il retto cammino della vita, pur senza la scuola e la guida dei genitori.

XXXIII. ...E PERSERVERARE IN ESSA

119. Ma la specie più rara è quella di coloro che, dotati di una singolare altezza d'ingegno, o di una squisita cultura e dottrina, o dell'una e dell'altra cosa insieme, hanno anche il tempo e l'agio di scegliere liberamente quella particolar maniera di vita a cui il loro genio naturale li porta; e appunto in questa scelta ciascuno deve scrutare e penetrare la propria natura con la più vigile attenzione.  Perché, se in ogni singola azione il decoro si determina, come sopra ho detto, dalla rispondenza di essa al carattere di ciascuno, così, nell'ordinamento di tutta la vita, con tanto maggior cura bisogna cercare tale armonia, sì che possiamo in tutto il corso della vita essere coerenti con noi stessi e non zoppicare in alcun dovere.

120. E poiché, in questa determinazione, la natura ha il maggior potere, e subito dopo viene la fortuna, dell'una e dell'altra bisogna certamente tener conto nella scelta dello stato, ma più della natura, che è molto più salda e costante, sì che talvolta pare che la fortuna, come mortale, venga in conflitto con l'immortale natura. Chi dunque avrà conformato il proprio tenore di vita alla propria natura, purché non viziosa, si mantenga ad esso coerente (in ciò consiste il maggior decoro), tranne che non s'accorga d'avere errato nella scelta della carriera.  In questo caso, che facilmente può darsi, bisogna cambiar sistema di vita.  E questo cambiamento sarà tanto più facile e agevole quando le circostanze aiutano; se no, lo si faccia a poco a poco e a passo a passo, a quel modo che le amicizie, che non ci garbano e non ci soddisfano, conviene, a giudizio dei savi, allentarle a poco a poco anziché troncarle d'un tratto.

121. Ma, una volta cambiato il genere di vita, bisogna in ogni maniera cercare che di noi si dica: « L'ha fatto con sano intelletto». Ho detto poc'anzi che dobbiamo imitare i nostri antenati.  Aggiungo due riserve.  Prima: non dobbiamo imitarne i difetti.  Seconda: può darsi che la nostra natura non ci consenta d'imitarne certe virtù, come il figlio dell'Africano Maggiore, colui che adottò l'altro Africano, figlio di Paolo, non poté, per la malferma salute, somigliare tanto a suo padre, quanto questi era somigliato al padre suo; in tal caso, chi non può, o difendere cause nel foro, o arringare il popolo nelle assemblee, o far guerre, dovrà almeno dar prova di quelle virtù che saranno in suo potere, quali la giustizia, la lealtà, la generosità, la moderazione, la temperanza, cosìche tanto meno si desideri da lui ciò che gli manca.  Ma la migliore eredità che i padri possano trasmettere ai figli, eredità più preziosa d'ogni patrimonio, è la gloria della virtù e delle belle imprese: macchiarla, è delitto e sacrilegio.

XXXIV. DOVERI DELLE VARIE ETA' E DELLE VARIE CONDIZIONI.

122. Ancora. Le diverse età non hanno gli stessi doveri: altri sono i doveri dei giovani, altri quelli dei vecchi. A proposito di questa distinzione conviene perciò dire qualche cosa. E' dovere del giovane rispettare gli anziani, scegliendo tra essi i più specchiati e stimati, per appoggiarsi al loro autorevole consiglio; perché l'inesperienza giovanile ha bisogno di essere sorretta e guidata dalla saggezza dei vecchi.  E soprattutto bisogna tener lontani i giovani dai piaceri sensuali, ed esercitarli nel tollerare le fatiche e i travagli dell'animo e del corpo, sì che possano adempiere con vigorosa energia i loro doveri militari e civili. E anche quando vorranno allentare lo spirito e abbandonarsi alla letizia, si guardino dall'intemperanza e si ricordino del pudore; cosa che riuscirà loro tanto più facile se non impediranno che a ricreazioni di tal genere assistano gli anziani.

123.  Quanto ai vecchi, essi dovranno diminuire le fatiche del corpo e aumentare gli esercizi della mente; e dovranno impegnarsi ad aiutare con consigli e  saggezza quanto più è possibile gli amici, la gioventù e, soprattutto, la patria.  D'altra parte, non c'è cosa da cui la vecchiaia debba più rifuggire che dall'abbandonarsi a una torpida inerzia; e la lussuria, se è brutta in ogni età, nella vecchiaia è suprema vergogna; se poi vi si aggiunge anche l'intemperanza nei piaceri, doppio è il male, perché la vecchiaia, mentre disonora se stessa, rende più sfacciata l'intemperanza dei giovani.

124. Ma non è neppure fuor di luogo il dire qualcosa sui doveri dei magistrati, dei privati cittadini e dei forestieri.  Compito particolare del magistrato, dunque, è di ben comprendere che egli rappresenta lo Stato, e deve perciò sostenerne la dignità e il decoro; deve far rispettare le leggi e amministrar la giustizia, ricordando sempre che tutto questo è affidato alla sua lealtà.  Quanto al privato, conviene che egli viva in perfetta uguaglianza di diritti coi suoi concittadini, né umiliato e avvilito né prepotente e superbo; e oltre a ciò curi che nello Stato regnino ordine e onestà: tale è colui che noi, di solito, stimiamo e chiamiamo buon cittadino.

125. Dovere, poi, del forestiere, o di passaggio o residente, è di badare soltanto ai fatti suoi, non immischiandosi negli affari degli altri e non ficcando il naso nella politica di uno Stato che non è il suo. Questi sono all'incirca i doveri che si ritrovano indagando quale sia l'essenza del decoro in rapporto alle persone, alle circostanze e alle età.  Ma il sommo del decoro consiste pur sempre nel mantenere la coerenza in ogni azione e in ogni risoluzione.

XXXV. IL DECORO ESTERIORE

126. Ora, questo decoro di cui parliamo e che si manifesta in ogni azione e in ogni parola, e perfino nel muoversi e nell'atteggiamento della persona, è riposto in tre cose, difficili a spiegare bene, ma tali che basta darne un'idea: nella bellezza, nell'ordine e nell'eleganza adatta all'azione.  E in queste tre cose è compreso anche il segreto di piacere a coloro coi quali o presso i quali viviamo.  Ebbene, anche di queste cose converrà discorrere brevemente. Prima di tutto è evidente che la natura pose grande cura nella conformazione del nostro corpo: mise in mostra il volto e tutte quelle parti che sono decorose a vedersi, mentre celò e nascose quelle che, destinate alle necessità naturali, avrebbero avuto un aspetto brutto e vergognoso.

127.  Il pudore dell'uomo imitò questa così diligente costruzione della natura. Quelle parti che la natura nascose, tutti gli uomini sani di mente le sottraggono alla vista, cercando di soddisfare le necessità naturali nel modo più occulto possibile; e quanto a quelle parti del corpo che servono a certe necessarie funzioni, noi non chiamiamo col loro nome né quelle parti né le funzioni loro: in generale, ciò che non è brutto a farsi, purché si faccia in segreto, è osceno a dirsi. Pertanto, se il fare quelle cose apertamente è indizio di spudoratezza, non è certo indizio di pudore il parlarne senza ritegno.

128. E in verità non bisogna dar retta ai Cinici, o a quegli Stoici che furono quasi Cinici, i quali ci riprendono e ci deridono perché giudichiamo vergognose solo a nominarle certe cose che in realtà non sono vergognose, mentre chiamiamo coi loro  nomi altre cose che in realtà sono veramente spregevoli.  Per esempio, il rubare, il frodare, il falsificare, sono cose realmente spregevoli, ma  si possono nominare senza dar nell'osceno; invece il dare alla luce figlioli, cosa in sé onesta, è osceno chiamarla col suo nome; e parecchi altri argomenti adducono gli stessi filosofi in appoggio a tale opinione contro il così detto pregiudizio del pudore. No, noi dobbiamo prendere per guida la natura ed evitare tutto ciò che può offendere gli orecchi: lo stare in piedi e il camminare, il modo di star a tavola, il volto, lo sguardo, il gesto conservino il più dignitoso decoro.

129. In queste cose dobbiamo soprattutto guardarci da due difetti: da una effeminata mollezza e da una scontrosa villania.  E invero non si deve ammettere che queste norme, obbligatorie per gl'istrioni e per gli oratori, siano indifferenti per noi. Certo, il costume degli attori comporta, per antica rigidezza morale, un così delicato pudore che nessuno osa presentarsi su la scena senza mutandine per timore che, se per qualche accidente certe parti del corpo si scoprono, la loro vista non offenda il decoro. E così, secondo il nostro costume, i figlioli grandi non fanno il bagno insieme col padre, né il genero col suocero. Bisogna, dunque, osservare la pudicizia anche in queste cose, tanto più che la natura stessa ne è maestra e guida.

XXXVI. DUE TIPI DI BELLEZZA: MASCHILE E FEMMINILE

130. Vi sono due specie di bellezza: l'una ha in sé la grazia, l'altra la dignità.  Dobbiamo perciò apprezzare la grazia propria della donna e la dignità propria dell'uomo.  Si tenga dunque lontano dalla nostra persona ogni ornamento non degno dell'uomo; si rifugga da un simile difetto anche nel gesto e nel moto. Invero, come certe movenze da ginnasti sono spesso alquanto affettate, così alcuni gesti di attori peccano di leziosaggine; nell'uno e nell'altro caso si lodano invece la semplicità e la naturalezza. La nobiltà dell'aspetto si manterrà con la freschezza del colorito, e questo con gli esercizi del corpo. Si ami inoltre la pulizia, non  affettata né ricercata, ma quanto basta  per schivare la rustica e incivile trascuratezza.  La stessa cura dobbiamo avere anche nel vestire; in questo come nella maggior parte delle cose, la via di mezzo è la migliore. 131. Anche nel camminare ci vuole misura: quando si è in cammino, non si tenga un passo troppo lento e molle, come chi va in processione, e quando si ha fretta, non si prenda la corsa, perché il respiro diventa affannoso, il volto si altera e la bocca si storce: segni evidenti che non c'è in noi fermezza di carattere.  Ma assai più ancora dobbiamo studiarci che non discordino dalla natura i moti dell'animo; il che ci verrà fatto, se ci guarderemo dal cadere in turbamenti e smarrimenti, e se terremo l'animo sempre vigile e attento a conservare il decoro.

  132. I moti dell'animo, poi, sono di due specie: del pensiero e del sentimento; il pensiero ha per fine supremo la ricerca della verità; il sentimento ci spinge all'azione. Dobbiamo dunque cercare di rivolgere il pensiero al conseguimento dei più alti e nobili ideali, e di rendere docile il sentimento al controllo della ragione.

XXXVII. IL DECORO NEL PARLARE E NEL CONVERSARE

Grande importanza ha il discorso, il quale è di due tipi: quello della trattazione oratoria e quello della conversazione familiare.  L'oratorio sia riservato alle discussioni che si fanno nei tribunali e nelle assemblee del popolo o del senato; il familiare si adoperi nei circoli, nelle dispute, nei convegni d'amici ed entri anche nei conviti.  Per l'oratorio, ci sono i precetti dei retori, per il familiare non c'è nessun precetto; credo, peraltro, che se ne possano dare anche per questo. In realtà è la passione degli scolari che crea e moltiplica i maestri; a questo parlar familiare nessuno presta attenzione, tutto il mondo si affolla intorno ai retori. Del resto, non esistono forse precetti intorno alle parole e ai pensieri? Ebbene, questi precetti si estendano anche al parlar familiare.

133. Come strumento del discorso abbiamo la voce e nella voce dobbiamo cercare due qualità: la chiarezza e la dolcezza.  L'uno e l'altra dote  la si deve richiedere dalla natura; ma l'una si accrescerà con l'esercizio e l'altra con l'imitazione di coloro che parlano con pronunzia precisa e pacata.  Non c'era nulla nei Catuli che li facesse giudicare dotati di uno squisito gusto letterario; erano colti, sì,ma come tanti altri; eppure essi avevano fama di parlar magnificamente il latino: il tono della loro voce era dolce; le sillabe non erano né strascicate né smozzicate, sì che non c'era neppure un'ombra né di affettazione, né di oscurità; la voce usciva dalla loro bocca senza sforzo, né languida né canora.  Più ricco, e non meno piacevole, era il discorrere di Lucio Crasso ma non minor fama di buoni parlatori ebbero i Catuli.  Nelle arguzie e nelle facezie, poi, Cesare, fratello di Catulo padre, superò tutti, così che perfino nella eloquenza forense egli, col suo parlar familiare, vinceva il solenne parlare degli altri. In tutte queste cose noi dobbiamo porre attenzione, se vogliamo conseguire in tutto e per tutto il decoro.

134. Dunque, questo parlar familiare, in cui si segnalano soprattutto i Socratici, sia placido e mite e non petulante; abbia in sé la grazia, e non escluda gli altri tipi di  discorso, come se questo fosse il padrone assoluto del campo; anzi, come in ogni altra cosa, così specialmente nel conversar comune è giusto l'avvicendarsi degli interlocutori. E' bene che (chi parla) rifletta dapprima sui temi di cui  deve discorrere: se seri, si adoperi un linguaggio austero; se scherzosi, la gaiezza. E prima di tutto procuri che il suo discorrere non tradisca mai qualche suo intimo difetto morale, come di solito accade quando, a bella posta, a scopo di denigrazione, si fa dell'offensiva maldicenza a carico di persone assenti, o con aria scherzosa, o con severo cipiglio.

135. Offrono per lo più materia al conversar familiare gli affari privati, la politica, l'arte, la scienza. Se il discorso comincia a scivolare verso altri argomenti, si cerchi di ricondurlo al tema, ma sempre in armonia col gusto dei presenti: poiché noi non ci compiacciamo né in ogni momento né in egual modo delle stesse cose. Bisogna porre attenzione fino a che punto il discorso riesca dilettevole e interessante; e, come c'è stata una buona ragione per cominciarlo, così si trovi una bella maniera per terminarlo.

XXXVIII. IL DOMINIO DI SE' NELLA PAROLA E NEL CONTEGNO

136. Un giusto e sapiente precetto vuole che noi, in ogni momento della vita, evitiamo i turbamenti dell'animo, cioè quei moti incomposti che si oppongono alla ragione. Ebbene, anche il discorso familiare dev'essere assolutamente libero da tali moti, perché non non si manifesti collera né alcun'altra passione, e perché non ne traspaia né fiacchezza né viltà di cuore né altro simile difetto. Soprattutto dobbiamo cercar di mostrare apertamente il nostro rispetto e il nostro affetto per quelli coi quali conversiamo. Talvolta sono necessari anche i rimproveri, e nel farli bisogna forse adoperare una  intensità di voce maggiore e una più aspra gravità di parole; bisogna perfino atteggiarsi in modo da sembrare adirati.  Ma, come i medici solo nei casi estremi ricorrono al ferro e al fuoco, cosi noi ricorreremo a questa specie di rimproveri, solo di rado e a malincuore, e non mai se non per necessità, quando, cioè, non si trovi nessun altro rimedio; ma anche allora stia lungi da noi l'ira, con la quale non si può far nulla né di giusto né di assennato.

137.  Nella maggior parte dei casi basta fare un dolce rimprovero, non disgiunto da una certa sostenutezza, di modo che si adoperi la severità senza scendere fino all'offesa.  E anche quel tanto di amaro che il rimprovero comporta, bisogna far capire che l'abbiamo adoperato per amor di colui che si rimprovera. E anche in quei contrasti, che sorgono tra noi e i nostri più fieri nemici, se pure ci accada di sentir cose indegne di noi, dobbiamo serbar tuttavia una dignitosa compostezza, reprimendo lo sdegno. Tutto ciò che si fa nell'impeto d'una passione, non può né rispettare la coerenza né ottenere lode dai presenti. Gran brutta cosa è anche il decantare i propri meriti, soprattutto non veri, e imitare il soldato millantatore, provocando le risa di chi ci ascolta.

XXXIX.  LA CASA DELL'UOMO DABBENE

138. Io voglio, o almeno vorrei, trattare compiutamente ogni cosa; conviene perciò dire anche quale dev'essere, a mio parere, la casa di un uomo che gli onori e i meriti hanno posto in alto. Scopo principale della casa è l'utilità pratica; e appunto a questa deve conformarsi la struttura generale dell'edificio; bisogna tuttavia tener conto a un tempo della comodità e della dignità. A Gneo Ottavio, che, primo della sua famiglia, fu eletto console, tornò, com'è noto, a grande onore l'aver costruito sul Palatino una bellissima e dignitosissima casa; e poiché tutti andavano a vederla, si credeva che quella avesse aiutato il suo padrone, uomo nuovo, ad arrivare al consolato. Scauro  la demolì per farne un'appendice al suo palazzo. Fu cosi che, mentre quello portò per primo nella sua casa il consolato, questi, figlio di un grande e illustre personaggio, riportò nella sua casa più volte ingrandita non solo la sconfitta elettorale, ma anche il disonore e la sventura. 

139. E giustamente: poiché la dignità della persona deve trovar nella casa il suo ornamento, ma non deve cercare in essa la sua prima ed ultima ragione.  Non la casa deve conferir decoro al padrone, ma il padrone alla casa. E come in tutte le cose si deve tener conto non solo di sé, ma anche degli altri, così trattandosi della casa di un personaggio illustre, nella quale bisogna ricevere molti ospiti e ammettere molta gente d'ogni sorta, si procuri che essa abbia una giusta ampiezza; se no, una casa troppo vasta, se rimane vuota e deserta, risulta indecorosa per il padrone, tanto più se, in altro tempo e con altro padrone, era di solito molto frequentata.  Fa pena sentir dire dai passanti:

0 casa antica, in quali man cadesti!

cosa che in questi tempi si può dire a proposito di molti.

140. E bisogna guardarsi, specialmente se uno si fabbrica per sé la sua casa, dall'eccedere nella spesa e nella magnificenza: in questo campo il cattivo esempio è contagioso e pernicioso. I più, infatti, specialmente a questo riguardo, si sforzano di imitare gli atti esteriori dei grandi.  Chi, ad esempio, imitò l'intima virtù del grande Lucio Lucullo? Quanti, invece, non imitarono la magnificenza delle sue ville!  Ma almeno in fatto di ville si osservi la modestia, e ci si attenga alla giusta misura; e la giusta misura, la si applichi anche a tutti i bisogni e a tutti i comodi della vita.  Ma di ciò basti.

141. Nell'intraprendere un'azione, qualunque sia, bisogna osservare costantemente tre norme: prima, che il sentimento obbedisca alla ragione (e questo è il miglior modo per adempiere i nostri doveri); poi, che si determini esattamente l'importanza della cosa che si vuole effettuare, per non assumersi cura e fatica maggiore o minore di quel che la cosa richiede; infine, procurare che tutto ciò che riguarda l'aspetto e la dignità di un uomo libero, non oltrepassi la giusta misura.  E misura perfetta è mantener rigorosamente quel decoro, del quale ho parlato innanzi, senz'andare troppo oltre.  Di queste tre norme, peraltro, la più importante è che il sentimento obbedisca alla ragione.

XL. ORDINE E ARMONIA NELLE AZIONI UMANE

142. Ora dobbiamo parlare dell'ordine, in cui si devono disporre, e del tempo, in cui si devono compiere, le nostre azioni.  Questi due concetti son compresi in quella facoltà che i Greci chiamano eu)taXi/a (cioè buon ordine); non già quella che noi rendiamo con la voce moderazione (parola in cui è inclusa la nozione di modo, nel senso di misura), ma quella eutaxia, che significa osservanza dell'ordine.  Del resto, a chiamarla anche col nome di moderazione, ce ne danno pieno diritto gli Stoici, i quali la definiscono come la facoltà di collocare nel loro giusto luogo tutte quelle cose che si devono fare o dire.  Appare così chiaramente che i due termini ordine e collocazione sono equivalenti.  In verità, gli Stoici definiscono e deducono questi concetti così: l'ordine è l'arte di collocare e disporre le cose nel luogo e più adatto; ma il luogo dell'azione non è che l'opportunità del tempo; e il tempo opportuno per l'azione è quello che i Greci chiamano  eu)kairi/a  e che noi chiamiamo occasione.  Ne segue che questa moderazione, interpretata così come ho detto, é l'arte di conoscere e di scegliere il tempo opportuno per ogni nostra azione.

143. Ma tale definizione può convenire anche a quella prudenza, della quale abbiamo parlato nel principio del libro, mentre qui, in questo punto, noi andiamo esaminando la moderazione, temperanza e altre simili virtù.  Perciò, se i caratteri e le proprietà della prudenza sono stati descritti a suo luogo, ora dobbiamo descrivere i caratteri e le proprietà di queste virtù delle quali già da tempo parliamo e che hanno attinenza con la verecondia e mirano ad ottenere l'approvazione di quelle persone con le quali viviamo.

144. Ora, dunque, noi dobbiamo imporre alle nostre azioni un ordine tale che per esso, come in un discorso armonicamente composto, così nella nostra vita tutti gli atti e tutti i detti siano in pieno e perfetto accordo fra di loro. E' cosa molto brutta e molto sconveniente introdurre in un argomento serio motti e lazzi degni di un banchetto, o peggio ancora, qualche discorso frivolo ed osceno. Bella fu la risposta di Pericle. Aveva egli per collega nel comando dell'esercito il poeta Sofocle.  Un giorno si riunirono a convegno i due uomini per cose del comune ufficio.  Passa per caso dinanzi a loro un bellissimo giovinetto. « Oh, che bel ragazzo, Pericle!», esclama Sofocle.  E l'altro, pronto: «No, no, Sofocle; un comandante deve saper tenere a freno non solo le mani, ma anche gli occhi».  Eppure, se Sofocle avesse detto quelle stesse parole in una rivista di atleti, non avrebbe meritato alcun rimprovero.  Tanta è l'importanza del luogo e del tempo. Così, se uno, dovendo trattare una causa, ci si preparasse in viaggio o a passeggio, o se si sprofondasse in qualche altro pensiero, non sarebbe biasimato; ma se facesse la medesima cosa in un convito, passerebbe da maleducato, non avendo il senso dell'opportunità.

145.  Tuttavia quegli atti che discordano molto dalla buona educazione (come, per esempio, se uno si mettesse a cantare in piazza, o commettesse qualche altra grave sconcezza), saltano subito agli occhi, e non hanno gran bisogno di ammonimenti e di precetti; dobbiamo invece guardarci con maggior cura da quelle sconvenienze che sernbrano piccole e sono percepite da pochi. [Come nel suono delle cetre o dei flauti, anche la più piccola stonatura è di solito avvertita dal buon intenditore, cosi noi dobbiamo cercare che nella nostra vita non vi sia mai dissonanza alcuna, anzi tanto più ne abbiamo il dovere quanto l'accordo delle azioni è più importante e più bello che non quello dei suoni].

XLI. IL COSTUME INDIVIDUALE RISPECCHI
L'ORDINE CIVILE E UMANO

146. Ora, come nel suono della cetra, gli orecchi dei musici avvertono anche le più lievi stonature, così noi, se vogliamo essere acuti e diligenti osservatori dei vizi umani, potremo da piccoli indizi rilevare grandi difetti. Da un volger d'occhi, da uno spianare o aggrottar di ciglia, dalla tristezza, dall'allegria, dal sorriso, dal parlare, dal tacere, da un alzare o abbassar di voce, da questi e da altri simili atteggiamenti, ci sarà facile giudicare quale di essi si accordi e quale invece discordi dal dovere e dalla natura. Per questo rispetto, è molto utile osservare negli altri il particolar valore di ciascuno di quegli atti, sì che noi possiamo evitare ciò che è sconveniente: è vero, purtroppo, che , se c'è qualche mancanza o difetto, noi lo scorgiamo più acutamente negli altri che in noi stessi.  Ecco perché si correggono tanto più facilmente quegli scolari, i cui maestri ne imitano i difetti, allo scopo di correggerli.

147. E non è inopportuno, per fare una buona scelta tra casi dubbi, ricorrere al consiglio di persone dotte, o anche solo esperte della vita, cercando di conoscere il loro giudizio su ogni particolare dovere. [La maggior parte degli uomini, infatti, hanno per guida il loro naturale istinto]. In tutti costoro, dunque, giova osservare non solo le parole, ma anche i sentimenti di ciascuno, e, di questi sentimenti, le specifiche ragioni.  Come i pittori e gli scultori, e in realtà anche i poeti, sottopongono ciascuno l'opera sua al giudizio della gente, nell'intento di correggere quei tratti in cui concordano le critiche di molti, riservandosi d'esaminare poi tra sé e con altri in che consista il notato errore, così ci sono moltisime cose che noi dobbiamo fare o non fare, e anche mutare o correggere secondo il giudizio degli altri.

148. Quanto a quella condotta che si adeguano ai costumi e alle usanze cìvili, non occorre dare su di essa alcun precetto, perché quei costumi e quelle usanze valgono di per sé come precetti; e nessuno deve cadere nell'errore di credere che, se Socrate o Aristippo, con l'azione o con la parola, si misero talvolta contro i costumi e le usanze cittadine, la stessa facoltà sia concessa a lui: essi ottenevano questa libertà per rispetto delle loro grandi ed eccelse virtù.  Il sistema di vita dei Cinici, però, è da rigettarsi totalmente: esso è nemico del ritegno, senza del quale non c'è rettitudine e non c'è onestà.

149. Quelli, poi, la cui vita si è distinta per oneste e grandi azioni; quelli che sono animati da un vero amor di patria, e hanno acquisito e acquisiscono tuttora benemerenze, tutti questi noi li dobbiamo rispettare e riverire non meno che se fossero investiti di qualche carica militare o civile.  Dobbiamo anche rendere omaggio alla vecchiezza, mostrare deferenza verso i magistrati, far distinzione tra cittadino e forestiero e, nel forestiero stesso, guardare se sia venuto come privato o in veste ufficiale. In una parola, per non entrare in troppi particolari, noi dobbiamo rispettare, difendere e sostenere tutto ciò che promuove e aiuta la fratellanza e l'armonia di tutto il genere umano.

XLII.  IL DECORO NELLE VARIE PROFESSIONI

150. Parliamo, infine, delle professioni e dei guadagni.  Quali di essi sono da reputarsi nobili e quali ignobili?  Ecco, all'incirca, quanto la tradizione ci insegna. Anzitutto, si disapprovano quei guadagni che suscitano l'odio della gente, come quelli degli esattori e degli usurai. Ignobili e abietti, poi, sono i guadagni di tutti quei mercenari che vendono, non l'opera della mente, ma il lavoro del braccio: in essi la mercede è per se stessa il prezzo della loro servitù. Abietti sono da reputarsi anche coloro che acquistano dai grossi mercanti cose da rivender subito al minuto: costoro non farebbero alcun guadagno se non dicessero tante bugie; e il mentire è la più grande vergogna del mondo. Tutti gli artigiani, inoltre, esercitano un mestiere volgare: non c'è ombra di nobiltà in una bottega. Ancora più in basso sono quei mestieri che servono al piacere:

« Pescivendoli, macellai, cuochi, salsicciai, pescatori».

per dirla con Terenzio;aggiungi pure, se non ti dispiace, i profumieri, i ballerini e tutta la masnada dei mimi e delle mime.

151. Tutte quelle professioni, invece, che richiedono maggiore intelligenza e che procurano inestimabile profitto, come la medicina, l'architettura e l'insegnamento delle arti liberali, sono professioni onorevoli per coloro al cui ceto si addicono.  Quanto al commercio, se è in piccolo, è da considerarsi degradante; ma se è in grande, poiché con esso si importano da ogni parte molte merci e sono distribuite a molti senza frode, non è poi tanto da biasimarsi.  Anzi, se il mercante, sazio o, per dir meglio, contento dei suoi guadagni, come spesso dall'alto mare si trasferisce nel porto, così ora dal porto si ritira nei suoì possedimenti in campagna, merita evidentemente ogni lode. Ma fra tutte le occupazioni, da cui si può trarre qualche profitto, la più nobile, la più feconda, la più dilettevole, la più degna di un vero uomo e di un libero cittadino è l'agricoltura.  Di essa ho parlato abbastanza nel mio « Catone Maggiore»; e tu potrai apprendere da quel libro ciò che riguarda quest'argomento.

XLIII.

IL CONFLITTO TRA DUE COSE ONESTE
LA GIUSTIZIA PREVALGA SULLA PRUDENZA

152. Mi pare d'aver spiegato a sufficienza in che modo i doveri derivino da quelle virtù che compongono l'onesto.  Ma può spesso accadere che, anche quelle azioni che sono oneste vengano in conflitto o a confronto tra di loro: di due azioni oneste, qual è la più onesta?  Questione che Panezio tralasciò completamente. Invero, poiché l'onestà scaturisce tutta da quattro fonti, delle quali la prima consiste nell'amore del sapere, la seconda nel sentimento dell'umana fratellanza, la terza nella fortezza, la quarta nella temperanza, ne viene di necessità che queste virtù, nella scelta del dovere, vengano spesso a confronto tra di loro.

153. Ora appunto io credo che siano più conformi alla natura quei doveri che derivano dal sentimento della socialità che non quelli che derivano dalla sapienza; e lo si può comprovare con quest'argomento, che, se il sapiente avesse in sorte una vita tale che, affluendogli in grande abbondanza ogni bene, potesse meditare e contemplare tra sé in santa pace le più alte e nobili verità, tuttavia, se la solitudine fosse così grande da non veder mai faccia d'uomo, finirebbe col rinunziare alla vita. Poi, quella sapienza, signora di tutte le virtù, che i Greci chiamano sofi/a da non confondersi con la prudenza, che i Greci chiamano  fro'nhsij  e che io definirei la conoscenza di ciò che si deve cercare o fuggire); quella sapienza, dunque, che ho chiamato signora, altro non è che la scienza delle cose divine e umane e in sé comprende gli scambievoli rapporti tra gli dèi e gli uomini e le relazioni degli uomini tra di loro. Ora, se questa virtù è, com'è senza dubbio, la maggiore fra tutte, ne viene di necessità che il dovere, che dall'umana convivenza deriva, è fra tutti il maggiore. E invero la conoscenza e la contemplazione dell'universo è, in certo qual modo, manchevole e imperfetta se nessun'azione pratica la segue.  Ma l'azione pratica si esplica soprattutto nella difesa dei beni comuni a tutti gli uomini; riguarda, dunque, la convivenza del genere umano.  L'azione, pertanto, è da anteporre alla scienza.

154. E appunto gli uomini migliori lo dimostrano col giudizio e coi fatti. Chi è così appassionato per lo studio e per la conoscenza dell'universo, che se, mentre è tutto intento a contemplare altissime verità, gli giunge tutt'a un tratto notizia che è in estremo pericolo la sua patria, alla quale egli può recar pronto e valido soccorso, non abbandoni all'istante ogni cosa, anche se si riprometta di poter contare le stelle ad una ad una o misurar la grandezza del mondo?  E altrettanto farebbe se si trovasse nel bisogno o nel pericolo il padre o l'amico. 

155. Da tutto ciò si comprende che agli studi e ai doveri della scienza si devono anteporre i doveri della giustizia, i quali hanno per fine la fratellanza umana, che deve essere il supremo ideale dell'uomo.

XLIV. PENSIERO E PAROLA AL SERVIZIO DELL'UOMO

Dirò di più: perfino coloro che dedicarono tutti i loro studi e tutta la loro vita al sapere, non rinunziarono però a promuovere la prosperità e la felicità degli uomini. In verità, essi educarono molti a essere migliori cittadini e più utili alla loro patria, come appunto fece il pitagorico Liside col tebano Epaminonda; come fece Platone col siracusano Dioneo così molti altri con molti altri; e anch'io, quel po' di bene che ho fatto alla mia patria, se pure ne ho fatto, lo si deve all'essere io entrato nella vita pubblica ammaestrato dai filosofi e ben dotato di dottrina. 

156. E questi uomini, non solo finché sono vivi e presenti, istruiscono e ammaestrano gli spiriti avidi di sapere, ma anche dopo morti ottengono il medesimo effetto con le loro immortali scritture. Essi non tralasciarono alcun argomento che riguardasse le leggi, la morale, il buon governo dello Stato, così che può dirsi che consacrarono i loro studi privati al bene della nostra vita pubblica. Così anche quei sapienti, dediti agli studi scientifici e filosofici, recano principalmente al bene comune il contributo del loro ingegno e della loro saggezza.  E per la stessa ragione, anche l'eloquenza, purché illuminata dal pensiero, vale più di una speculazione quanto mai acuta, ma incapace di esprimersi; perché la speculazione si chiude in se stessa, mentre l'eloquenza abbraccia tutti coloro che un comune vincolo unisce e affratella.

157. Anzi, come le api non si raccolgono in sciami per costruir favi, ma costruiscono favi perché sono naturalmente socievoli, così, e tanto più, gli uomini, appunto perché uniti in società per naturale istinto, mettono in comune la loro capacità di operare e di pensare.  Perciò, se quella virtù che consiste nella tutela degli uomini, cioè nell'alleanza del genere umano, non informasse la conoscenza, la conoscenza parrebbe una solitaria e povera cosa; [e così la fortezza, disgiunta dalla fratellanza umana, non sarebbe altro che crudeltà e ferocia].

158. Onde avviene che il sentimento della fratellanza umana sia superiore all'amore del sapere.  E non è vero quel che dicono certi filosofi: «La società umana ha avuto origine dalle necessità della vita, perché noi, senza l'aiuto degli altri, non potremmo né ottenere né provvedere quel che la natura richiede.  E se, come suol dirsi, una bacchetta magica ci procurasse tutte quelle cose che servono ai bisogni e agli agi della vita, ogni uomo di più felice ingegno lascerebbe da parte ogni altro affare per dedicarsi tutto alla speculazione e alla scienza». Ma no, non è così: costui fuggirebbe la solitudine e si cercherebbe un compagno di studi; vorrebbe insegnare e imparare, vorrebbe ascoltare e parlare. Ogni dovere, dunque, che valga a preservare la società e la fratellanza degli uomini si deve anteporre a quel dovere che è inerente all'attività del pensiero.

XLV. FINE ULTIMO DELL'UOMO: L'UMANITA

159. Ora, ci si potrebbe domandare: questo sentimento di fratellanza, che più d'ogni altro è conforme alla natura umana, è anche da anteporsi sempre alla moderazione e alla temperanza?  Io rispondo di no.  Ci sono certe azioni così infami, così criminose che un uomo saggio non si sognerebbe mai di commettere neppure per salvare la propria patria.  Posidonio ne raccolse moltissimi esempi, ma alcuni così sconci, così osceni che paion turpi anche solo a dirsi.  Di questi, dunque, l'uomo  saggio non si aggraverà la coscienza neppure per amor di patria; e del resto nemmeno la patria vorrà che uno si disonori per amor suo.  Ma, per fortuna, la cosa è tanto più agevole in quanto è del tutto improbabile che l'interesse dello Stato esiga un tale sacrificio dal sapiente.

160. Resti perciò ben fermo questo principio: nella scelta dei doveri, prevalga quella specie di doveri che è connaturato con la società umana.  [E razionale sarà quell'azione che seguirà conoscenza e saggezza; solo così avverrà che l'agire con riflessione valga più dell'accorto pensiero].

CONCLUSIONE

Ma di ciò basta.  Il punto essenziale è chiarito, sì che non è difficile, indagando la legge morale, vedere la gerarchia dei doveri.  Ma anche nell'ambito della convivenza umana c'è una gradazione di doveri, dalla quale si può comprendere la loro rispettiva preminenza. Così, i primi doveri sono verso gli dèi immortali, i secondi verso la patria, i terzi verso i genitori, e gli altri, gradatamente verso gli altri. 

161. Da questa breve discussione, si deduce come gli uomini ordinariamente si pongano non soltanto il problema se un'azione sia onesta o disonesta, ma anche, quale delle due sia più onesta, una volta messi di fronte a due azioni oneste.  Questione che, come ho detto in precedenza, fu trascurata da Panezio Ma ormai è tempo di passare ad altri argomenti.

 

Inizio pagina


web arrangement by vittorio.todisco@tin.it