Il rito greco-bizantino: elemento costitutivo nella vita
delle comunità arbëreshë di Calabria.
Mario
Pietro Tamburi
Le
comunità italo-albanesi della Calabria, soprattutto quella della provincia di
Cosenza come le altre comunità fuori di questa regione ma facenti parte della
Diocesi di rito greco
di Lungro, offrono uno stupefacente modello di vita propria che affonda le radici in una tradizione, in una
cultura sempre viva miracolosamente conservata e tramandata. Un simile fenomeno
pone degli interrogativi perché queste comunità, dal momento del loro
insediamento in Italia e sono passati cinque secoli, non hanno mai avuto aiuti
dall’esterno che favorissero il loro sviluppo o, almeno, il mantenimento del
loro precipuo patrimonio culturale quanto, piuttosto, hanno sempre dovuto
affrontare non semplici difficoltà di ambientamento se non addirittura di
sopravvivenza. Eppure, nonostante questo, la comunità arbëreshe presenta una
sua specifica identità culturale, una sicura coscienza del proprio patrimonio
etnico che la rende più consapevole del proprio essere in confronto alla
popolazione indigena limitrofa. E’, quindi, all’interno di questa comunità che
va individuato l’elemento costitutivo e la forza aggregante che non soltanto ha
salvato ed ha mantenuto il patrimonio etnico, ma addirittura ne ha promosso lo
sviluppo culturale conservando sempre vivo e vigile lo spirito della stirpe.
Individuare questa forza aggregante di conservazione e di sviluppo dello
spirito della comunità arbëreshe è l’argomento di questo intervento il quale
non può essere esaustivo sia per i limiti intrinseci di questa breve nota che
per le difficoltà obiettive di ricerca e di confronto di fonti attendibili,
come anche per la mancanza di una bibliografia specifica sull’argomento. Si
dovrà, quindi, fare ricorso a pubblicazioni e testi di carattere generale, pur
se superati dai recenti progressi degli studi comparativi e dalle analisi delle
fonti[1].
Per questo motivo il lavoro si presenterà come una riflessione personale su
fatti e circostanze che hanno determinato alcuni importanti avvenimenti della
vita della comunità italo-albanese di
rito bizantino.
Dalle emigrazioni degli albanesi, fine sec.
XV, alla fondazione del Collegio Corsini.
Negli ultimi decenni del sec. XV, dopo la morte di
Giorgio Kastriota Skanderbeg, avvenne quel grande fenomeno di migrazione di
popolazioni albanesi che, sotto la spinta dell’invasione, turca lasciarono la
terra di origine per trovare rifugio in Italia accolti dalla generosità degli
Aragonesi, la Casa Regnante del Regno delle Due Sicilie. I profughi, tutti di
rito bizantino, arrivarono con i loro sacerdoti e furono mandati a ripopolare
poveri borghi abbandonati o a coltivare terre sterili e sassose ubicate, il più
delle volte, in zone impervie e montane completamente isolate dal resto del
mondo. Ebbero, però, la fortuna di trovare sempre sensibile e sollecita nei
loro confronti la Sede Apostolica di Roma che lungo i secoli si interessò con
amore delle comunità italo-albanesi così come dimostrano i tanti documenti
degli archivi del Vaticano e della Congregazione di Propaganda Fide non ancora
del tutto esplorati per quanto riguarda la storia delle comunità
italo-albanesi. La Santa Sede si mostrò sempre lungimirante. Comprese che la
presenza di una popolazione appartenente ad un altro rito, ricca di una
tradizione e di una spiritualità diversa, costituiva un fatto positivo e ricco
di implicazioni per i contatti con la Chiesa d’Oriente, perciò ne prese sempre
le difese contro le importune opposizioni
dei Vescovi e parrochi latini e dei Baroni locali, i quali non lasciavano di
combatterlo in varie maniere o d’inquietare acerbamente e molestare i suoi
seguaci[2], scrive
Pietro Pompilio Rodotà nella sua fondamentale opera Del Rito Greco in Italia. La convivenza, quindi, tra i profughi
albanesi fuggiti dalle proprie terre per salvaguardare la fede e la propria
identità etnica dalla soffocante dominazione ottomana e la popolazione
indigena, non soltanto non era facile ma, soprattutto per il rito bizantino che
gli albanesi professavano, era in continua perenne tensione. Questo perché,
sempre citando il Rodotà, i Vescovi latini alla cui giurisdizione i profughi
albanesi erano sottoposti: nulla o
pochissimo intesi di un rito novello, né potendola fare da maestri sopra le
cerimonie orientali, erano obbligati ad una speciale sollecitudine. Per
iscuoterla andavano in traccia di mezzi opportuni d’estinguere la memoria, non
mancando loro speciosi pretesti di colorire sotto il finto manto di zelo la
naturale ripugnanza… Oltre a queste cose, ai Baroni delle rispettive colonie
erano odiose l’esenzione dei tributi che godevano non solo gli ecclesiastici
con le loro mogli e figli, ma specialmente i nobili Coronei con le loro
numerose famiglie[3].
La vita di queste comunità di profughi come la loro sopravvivenza era
intimamente legata al rito che professavano. La loro fede, vissuta nella
tradizione del rito greco-bizantino, diveniva il centro aggregante di queste
popolazioni e la Chiesa il luogo dove mantenere viva la memoria dei padri e
rimanere fedeli alla propria identità. I sacerdoti, di conseguenza,
costituivano per queste comunità l’elemento essenziale non solo per lo
svolgimento delle loro funzioni precipue, ma perché diventavano anche il comune
punto di riferimento della vita dell’intera comunità, i custodi fedeli della
memoria, i continuatori delle tradizioni di una intera etnia.
La fondazione del Collegio Corsini e la sua
influenza nella vita delle comunità arbëreshë
Uno dei problemi fondamentali per la comunità
italo-albanese di rito greco-bizantino rimaneva la formazione e l’ordinazione
dei candidati al Sacerdozio. Per questo motivo si rendeva necessaria
l'istituzione sia di un Vescovo ordinante di rito greco che di un istituto, un
seminario, per la formazione specifica dei giovani candidati al Sacerdozio. Di
queste richieste pressanti e continue rivolte alla Santa Sede da parte delle
popolazioni italo-albanesi esiste un’ampia documentazione nell’archivio della
Congregazione di Propaganda Fide fin dalla sua istituzione avvenuta nel 1662[4].
Non si approdò, però, mai a nulla a causa delle difficoltà sempre
insormontabili che si incontravano per la realizzazione di un simile progetto e
per le opposizioni dei Vescovi latini locali che temevano di essere lesi nei
loro diritti, fino al 5 ottobre del 1732 quando Papa Clemente XII (Lorenzo
Corsini, di madre albanese) con la Bolla Inter
multiplices decretò la fondazione del Collegio di rito greco in S.
Benedetto Ullano [5] (denominato
Collegio Corsini in onore del suo fondatore) che nel 1794 verrà trasferito nel
Monastero di S. Adriano in S. Demetrio Corone. Non sembri superflua
l’insistenza su questi fatti giacchè si può tranquillamente affermare,
suffragati dalle fonti e dai documenti esistenti e conosciuti, che tutta la
storia delle comunità italo-albanesi è intimamente legata, anzi è un tutt’uno,
con la storia religiosa di questo popolo. Una storia non fatta di grandi
avvenimenti quanto piuttosto una registrazione di piccoli fatti che possono
addirittura sembrare insignificanti a chi ricerca soltanto gli eventi
importanti che segnano il corso della storia, ma che stanno a dimostrare
l’amore e l’attaccamento di queste popolazioni albanesi alle proprie radici. Ed
è in questo aspetto peculiare, in questo intrecciarsi della componente
religiosa con la propria identità etnica che va ricercata la chiave di lettura
che spiega la singolare tenacia di queste popolazioni nel conservare il proprio
patrimonio culturale e la propria identità etnica, la singolare vita delle
comunità italo-albanesi.
Pur se
tra alterne vicende e considerevoli difficoltà, il Collegio Corsini svolse
appieno il compito per cui era stato fondato: la formazione dei giovani
aspiranti al Sacerdozio. Incise, ed in profondità, su tutta la vita sociale e
culturale delle comunità italo-albanesi della Calabria poiché molto presto
vennero accolti anche numerosi giovani non candidati al Sacerdozio per
frequentare i corsi di studi. Generazioni intere di professionisti
italo-albanesi che si affermarono in vari campi, soprattutto nelle discipline
umanistiche, uscirono dal Collegio Corsini e dettero un decisivo contributo
alla coscienza etnica degli arbëreshë dell’Italia meridionale. Il Collegio
Corsini si affermò subito come uno dei più prestigiosi centri di cultura del
Regno di Napoli. Una vera fucina di intelligenze che si formarono al culto
delle tradizioni della stirpe, all’amore per il rito bizantino ereditato dai
padri. I frutti di tale formazione si videro presto. E’ nell’ambiente del
Collegio Corsini, infatti, che il senso di appartenenza ad una stirpe e ad una
cultura diversa diventa autentico sentimento di fierezza che investe tutte le
comunità italo-albanesi. Iniziarono i tentativi di dare vita ad una propria
letteratura. Il primo esempio è Giulio Varibobba, alunno del Collegio Corsini e
poi sacerdote di S. Giorgio Albanese che nel 1762 pubblica, a Roma, la Vita di Maria Vergine in lingua
albanese, consapevole di essere il primo ad usare la lingua materna per
comporre un poema. Senza voler entrare nel merito, si può dire che si è davanti
all’inizio, anche se timido e relativo, della letteratura riflessa arbëreshe.
Un inizio strettamente legato alla vita religiosa, alle tradizioni tipiche di
una popolazione che esprime la sua religiosità nella lingua materna. Sarà
l’opera e la personalità di Girolamo De Rada (Macchia Albanese, 1814-1903), il
poeta sommo della stirpe, a segnare non soltanto l’inizio ma la piena maturità
della letteratura riflessa albanese, a dare coscienza ad un intero popolo, a
suscitare negli stessi albanesi di Albania il sentimento nazionale spento
completamente da cinque secoli di dominazione ottomana, a chiedere per loro
libertà ed indipendenza. Non va dimenticato Giuseppe Serembe (S. Cosmo
Albanese, 1843- S. Paolo del Brasile, 1891), tormentato e sfortunato poeta,
forse il maggior lirico della letteratura albanese che nella sua poesia riesce
ad esprimere mirabilmente grande ansia di libertà e di bellezza, senso di
tristezza e di solitudine, profondissimo sentimento religioso.
E’ lo
spirito del Collegio Corsini, il fortissimo sentimento di libertà, di
indipendenza, a formare tantissimi giovani italo-albanesi agli ideali del
Risorgimento italiano. Non è compito di questa nota approfondire un simile
tema, ma non si può non sottolineare come il contributo offerto dagli arbëreshë
al Risorgimento italiano è stato davvero considerevole tenuto conto dell’entità
di questa piccola comunità nei confronti dell’intera comunità nazionale.
Quanto
detto è potuto avvenire perché le popolazioni italo-albanesi sentono la Chiesa
come unica istituzione propria che li sostiene e li rappresenta. Nel rito
greco-bizantino che professano riconoscono il segno più appariscente e visibile
del loro appartenere ad un’altra tradizione e cultura diversa da quella dei
paesi latini[6]
che li circondano, nei sacerdoti i loro maestri, le loro guide, i depositari ed
i custodi fedeli della tradizione.
Dalla crisi del Collegio Corsini alla
fondazione della Diocesi greca di Lungro.
La vita della benemerita istituzione divenne sempre
più difficile e travagliata quanto più si fece pressante la sorda opposizione
degli Arcivescovi di Rossano, una volta che il Collegio Corsini fu trasferito
da S. Benedetto Ullano alla Badia di S. Adriano in S. Demetrio Corone, dotato
anche di tutti i beni e possedimenti di quel celebre cenobio basiliano. I
tentativi degli Ordinari di Rossano erano di far ricadere sotto l’immediata
autorità e giurisdizione dell’Arcivescovo la conduzione del Collegio Corsini.
Con l’ausilio della Corte di Napoli le interferenze divennero sempre più gravi
e così il Collegio andò gradualmente perdendo i fini per cui era stato
istituito. Con la spedizione dei Mille, la sconfitta dei Borboni e la
conseguente unificazione del Regno di Napoli all’Italia, ci fu un deciso intervento
di Giuseppe Garibaldi a favore del Collegio Corsini. Come segno tangibile della
stima che nutriva per gli italo-albanesi, considerato l’apporto che superiori
ed alunni del Collegio italo-albanese di S. Adriano avevano dato alla storica
impresa della spedizione dei Mille, Giuseppe Garibaldi, con proprio decreto del
20 giugno 1860, in considerazione dei
segnalati servizi resi alla causa nazionale dai prodi e generosi albanesi[7],
stanziava dodicimila ducati al Collegio di S. Adriano, per ricondurre alla sua primitiva istituzione questo nobile
stabilimento che è fonte di civiltà per la gioventù albanese di quella
Provincia e della confinante Basilicata e che per le vicende dei tempi è stato
in gran parte deviato dai suoi primitivi ordinamenti, come veniva
specificato nel decreto esecutivo del provvedimento di pochi giorni dopo[8].
Presto le cose divennero ancora più difficili. Sarebbe troppo lungo soffermarsi
ancora su questo argomento; basti dire che molto presto il Collegio Corsini, di
fatto incamerato dallo Stato, nonostante le continue proteste della Santa Sede,
cessava di esistere come Collegio ecclesiastico perché venivano di fatto
abrogate le Bolle di fondazione di Clemente XII, mutando radicalmente gli scopi
e le finalità che avevano dato vita all’Istituto che diveniva un semplice
Collegio e Liceo Statale come tanti esistenti nel Regno d’Italia[9].
Si
ripresentò il problema della formazione del Clero di rito greco-bizantino per
le comunità italo-albanesi. Solo pochi elementi appartenenti a queste comunità
avevano la possibilità di essere accolti nel Pontificio Collegio Greco di Roma
e frequentare i Pontifici Atenei romani. Infatti, la Congregazione di
Propaganda Fide il 6 aprile del 1897 aveva stabilito per il Collegio Corsini
che clericis, durantibus circumstantiis
non educentur in praedicto collegio, sed Romam mittantur, vel saltem educentur in respectivis seminariis[10].
Il maggior numero, perciò, di candidati al Sacerdozio o doveva frequentare i
Seminari delle diocesi latine da cui dipendevano le comunità italo-albanesi o,
contrariamente a quanto disposto dalla Congregazione di Propaganda Fide,
doveva, ancora, frequentare il Collegio Corsini senza ricevere nessuna
formazione ecclesiastica. Tutto questo determinò un costante decadimento della
vita delle comunità arbëreshë e del rito greco-bizantino che andò sempre più
latinizzandosi. Si ritornò al progetto originario per cui sempre il clero di
rito bizantino delle comunità arbëreshë si era battuto: avere un proprio
Vescovo ordinario, ottenere la fondazione di una diocesi che potesse
raccogliere tutte le parrocchie italo-albanesi di rito greco-bizantino
sottoposte alla giurisdizione dei Vescovi latini. A Roma, intanto, nel febbraio
del 1878, veniva eletto Papa Leone XIII che rivelò presto una particolare sensibilità
verso le Chiese dell’Oriente e una grande attenzione al doloroso e delicato
problema della divisione dei cristiani[11].
A Leone XIII, nel 1888, venne presentata una supplica recante la firma di
migliaia di italo-albanesi di rito greco in cui si chiedeva formalmente
l’autonomia ecclesiastica delle comunità arbëreshë e la creazione di una
diocesi con a capo un Vescovo di rito greco[12].
Tenace ideatore e propugnatore di questa iniziativa fu l’Archimandrita Pietro
Camodeca dei Coronei che impegnò tutte le sue energie per condurre in porto un
simile progetto[13]. Ma ancora
non si fece nulla. Nel 1917 Papa Benedetto XV, eletto Pontefice nel 1914,
istituiva la Sacra Congregazione per la Chiesa Orientale per favorire le
relazioni ed il dialogo con le Chiese d’Oriente. Uno dei primissimi
provvedimenti di questa nuova Congregazione fu quello di dare un definitivo
assetto canonico ed una permanente soluzione al secolare problema
dell’autonomia religiosa delle comunità italo-albanesi di rito bizantino del
meridione d’Italia. Ne è prova la Nota di
Segreteria - Il rito greco
dell’Italia inferiore stampata dalla Poliglotta Vaticana nel 1917,
accurata, puntuale e documentata sintesi storica di tutto il problema
riguardante la fondazione di una Diocesi di rito greco per gli italo-albanesi
dell’Italia meridionale.
Fondazione della Diocesi greca di Lungro
Il 13
febbraio 1919 Papa Benedetto XV con la Bolla Catholici fideles greci ritus[14],
erigeva la Diocesi di Lungro di rito greco per gli italo-albanesi dell’Italia
continentale. Dalle Diocesi di Cassano allo Jonio, Rossano, Bisignano in
Calabria; da Anglona-Tursi in Basilicata, dalle Diocesi di Lecce in Puglia e
Penne in Abbruzzo, venti comunità parrocchiali di rito greco venivano riunite
in una entità ben precisa, la Diocesi greca di Lungro e unificate sotto la
giurisdizione di un solo Vescovo Ordinario dello stesso rito.
Finalmente dopo tante vicissitudini, lunghi periodi
di buio e difficoltà a volte insormontabili che avevano messo a dura prova l’attaccamento
degli arbëreshë ad una tradizione ed a una cultura propria, le popolazioni
italo-albanesi avevano una istituzione che li riuniva e dava loro, anche se
soltanto sotto l’aspetto religioso, una connotazione ben precisa che,
finalmente, consacrava la loro identità etnica, religiosa e culturale ed
assicurava la loro stessa sopravvivenza. La storia dei primi anni di vita della
Diocesi di Lungro parla del lavoro silenzioso, oscuro, ma costante, di dare
alle comunità italo-albanesi una coscienza comunitaria, una uniformità di vita
religiosa, una identità che presentasse con chiarezza i tratti essenziali di
una minoranza etnica e culturale che finalmente aveva ottenuto di essere
riconosciuta tale per la diversità del rito che aveva conservato nei secoli.
L’isolamento
di molte popolazioni viventi in paesi privi di strade di accesso e collocati in
località impervie, se da una parte aveva favorito il mantenimento di una
propria identità culturale ed etnica perché non influenzati da flussi esterni
rendeva arduo e difficile il compito di fornire una propria omogeneità a tutta
la comunità italo-albanese.
I
troppi anni in cui queste comunità erano dipese giuridicamente dai Vescovi
latini, le pressioni continue perché abbandonassero il rito di origine, la scarsezza
di clero formato alla tradizione orientale, avevano fatalmente compromesso
l’integrità di un rito e di una spiritualità che pure si erano mantenuti, nella
loro essenza, per secoli. Oltre il compito di aggregare e dare uno spirito
unitario a tutta la comunità della nuova Diocesi, il primo Vescovo, nominato
nel 1919 nella persona dell’Arciprete di Lungro Giovanni Mele dovette
dedicarsi, con solerte energia, al recupero ed al ripristino della piena
tradizione orientale, favorito in questa opera dalle nuove leve di sacerdoti
che venivano formati nel Pontificio Seminario italo-albanese di Grottaferrata
voluto dalla lungimirante beneficenza di Papa Benedetto XV e nel Pontificio
Collegio Greco di Roma diretto dai Padri Benedettini da sempre custodi fedeli della
vera tradizione liturgica della Chiesa. L’istituzione della Diocesi favorì non
solo il ritorno alla piena osservanza del rito bizantino, ma anche il
ripristino delle norme riguardanti la stessa struttura degli edifici sacri di
culto secondo le disposizioni liturgiche e dell’arte sacra bizantina. Nelle
chiese esistenti si intervenne con radicali cambiamenti per adattare gli
edifici di culto alle esigenze del rito. Si cominciò dagli altari: in
osservanza delle prescrizioni canoniche bizantine vennero eliminati gli altari
laterali per lasciare il solo altare centrale, di forma quadrata. Per la prima
volta, nella storia delle comunità italo-albanesi vennero realizzate le Iconostasi e ripresa la tradizione delle
sacre icone.
La
consapevolezza di appartenere ad una tradizione diversa, l’attaccamento al
patrimonio dei padri, questa volta favorito dal clima nuovo di autonomia
religiosa, diede slancio a tutta la vita delle comunità arbëreshë. Il Clero, in
prima persona, si impegnò a favorire il mantenimento delle tradizioni popolari
con la nascita ed il fiorire di molti gruppi folkloristici, di circoli
culturali, di riviste e periodici albanesi, di movimenti e di associazioni che
avevano come programma la conservazione e lo sviluppo della cultura
italo-albanese. Con il secondo Vescovo Giovanni Stamati (1912-1987) si pervenne
alla introduzione della lingua albanese nella Santa Liturgia. Con decreto
vescovile del 1968, Mons. Stamati introduceva ufficialmente la traduzione in
lingua albanese della Liturgia di S. Giovanni Crisostomo[15]
condotta a termine dalle Commissioni Liturgiche delle Diocesi di Lungro, di
Piana degli Albanesi e del Monastero Esarchico di Grottaferrata e approvata
dalla Congregazione per le Chiese Orientali[16].
Oggi,
a distanza di cinque secoli dal suo esodo in Italia, questa minoranza
linguistica e culturale è ancora viva e mantiene intatti i suoi caratteri
peculiari. Questo fatto, considerando tutte le difficoltà e gli ostacoli sempre
incontrati lungo il corso dei secoli, è veramente straordinario.
In
questa nota si è cercato di individuare l’elemento costitutivo ed aggregante
che ha permesso un simile fenomeno che ha del miracoloso e che ha costituito
una vera barriera difensiva per la salvaguardia di un mondo, di una cultura, di
una tradizione particolare. L’elemento aggregante si è rivelato il rito
greco-bizantino professato dalle popolazioni italo-albanesi e intimamente
sentito come il più alto e prezioso patrimonio di tutta la stirpe.
Bibliografia
Acta
Apostolicae Sedis - Leonis XIII Acta, vol. XIV
A.A.S.,X,
1919
Eparchia di Lungro. Bollettino
Ecclesiastico. Nuova Serie. N° 3. Anno 1969, Lungro.
G. Laviola, Pietro Camodeca de’
Coronei. Aversa, 1969.
Il rito greco nell’Italia inferiore
(Nota di Segreteria). Novembre 1917. Roma, Tipografia Poliglotta Vaticana.
L’autonomia ecclesiastica degli
Italo-Albanesi delle Calabrie e della Basilicata per l’Arciprete Pietro
Camodeca de’ Coronei, parroco e vicario generale degli Italo-Greci, giudice ed
esaminatore sinodale della Diocesi di Anglona-Tursi, 2a edizione,
Roma 1903
G. Mazziotti, Monografia del
Collegio Italo-greco di Sant’Adriano. Roma, 1908
Oriente Cristiano, XXV, 1985, nrr.
2-3, Palermo.
P.P. Rodotà, Dell’origine,
progresso e stato presente del rito greco in Italia, osservato dai greci,
monaci brasiliani, e albanesi, libri tre, In Roma 1758,1760,1763.
Zavarroni A., Historia erectionis
Pontifici Collegi Corsini Ullanensis italo-graeci et deputationis episcopi
titularis greci, Napoli, 1750.
[1] L’opera a cui, ancora una volta, tocca fare riferimento è quella fondamentale e ancora non superata di Pietro Pompilio Rodotà: Dell’Origine, Progresso e Stato presente del Rito Greco in Italia, osservato dai greci, monaci basiliani e albanesi, libri tre In Roma 1758, 1760, 1763. E’ nel terzo volume in cui l’autore tratta specificamente degli italo-albanesi e del loro rito greco. Come afferma lo stesso Rodotà nella prefazione: espone lo stato presente, di cui siano tenuti agli albanesi che lo difendono con impareggiabile gloria.
Pietro
Pompilio Rodotà, nativo di S. Benedetto Ullano (1707-1770) fu scrittore greco
alla Biblioteca Vaticana. Questo incarico gli diede l’opportunità di svolgere
ampie ed accurate ricerche nei ricchissimi archivi vaticani, di consultare e
studiare documenti di primissima mano e di accedere a documenti che non erano
stati ancora resi pubblici.
[2] P.P. Rodotà, Del Rito Greco in Italia, vol. III, L. III, c. III, p. 59.
[3] P.P. Rodotà, o.c. p. 59.
[4] Una ricca fonte di notizie sono gli Atti della Sacra Congregazione di Propaganda Fide, per quanto riguarda la vita religiosa e tutte le questioni e gli affari importanti attinenti le comunità italo-albanesi di rito greco-bizantino. Un lavoro sì sistematico e completo di ricerca, catalogazione e trascrizione, fatta eccezione per alcuni singoli fatti o personaggi, non è stata ancora fatta. E’ auspicabile che documenti di primissima importanza possano essere resi pubblici per contribuire a scrivere, finalmente, una storia delle comunità albanesi d’Italia attendibile e documentata.
[5] Angelo Zavarroni: Historia Erectionis Pontifici Collegi Corsini Ullanensis italo-graeci et deputationis episcopi titularis greci, Napoli 1750.
[6] E’ con questo termine di “latino” che gli arbëreshë definiscono i non appartenenti alla loro etnia, con chiaro riferimento al rito professato.
[7] G. Mazziotti: Monografia del Collegio Italo-greco di Sant’Adriano. Roma, 1908. p.3
[8] Cfr. G. Mazziotti, o. c., p. 27
[9] Sulla funzione svolta dai Seminari greco-albanesi, il Collegio Corsini in Calabria, il Seminario greco-albanese fondato da Giorgio Gazzetta (1682-1752) in Sicilia, per una vitale promozione culturale nelle comunità albanesi d’Italia, si veda il numero speciale della rivista Oriente Cristiano, XXV (1985) nrr. 2 – 3, dedicato al 250° anniversario del Seminario greco-albanese di Palermo. Gli argomenti trattati, pur riguardando direttamente il Seminario greco-albanese di Sicilia, hanno una comune attinenza con il Collegio Corsini ed illuminano sull’azione svolta dai due seminari e sul contributo essenziale dato al mantenimento del rito e dei valori della stirpe.
[10] Il rito greco nell’Italia inferiore (Nota di Segreteria), Novembre 1917, Roma Tipografia Poliglotta Vaticana, p.131
[11] Cfr. Leo XIII, Litt. Apost. Orientalium dignitas 30 nov. 1894, in Leonis XIII Acta, vol. XIV, basilare documento pontificio, che pone le fondamenta per instaurare in un clima nuovo il rapporto di stima e di grande rispetto verso la tradizione della Chiese orientali.
[12] Cfr. L’autonomia ecclesiastica degli Italo-Albanesi delle Calabrie e della Basilicata per l’Arciprete Pietro Camodeca de’ Coronei, parroco e vicario generale degli Italo-Greci, giudice ed esaminatore sinodale della Diocesi di Anglona e Tursi, 2a edizione, Rma 1903.
[13] Cfr. G. La viola, Pietro Camodeca de’ Coronei, Aversa 1969.
[14] Benedetto PP. XV Catholici fideles greci ritus. Acta Apostolicae Sedis, X, 1919.
[15] Cfr. Eparchia di Lungro, Bollettino Ecclesiastico. Nuova Serie. N. 3 - Anno 1969, p. 14 e ss.
[16] Fu per questa circostanza che Mons. Stamati, ancora una volta, dopo aver ottenuto una specifica delibera di richiesta da parte di tutte le Amministrazioni dei Comuni italo-albanesi, fece formale richiesta allo Stato italiano di una legge quadro che introducesse l’insegnamento della lingua albanese nella scuola primaria delle comunità albanofone d’Italia.