Il rito greco-bizantino: elemento costitutivo nella vita

delle comunità arbëreshë di Calabria.

 

Mario Pietro Tamburi

 

 

         Le comunità italo-albanesi della Calabria, soprattutto quella della provincia di Cosenza come le altre comunità fuori di questa regione ma facenti parte della Diocesi di rito greco di Lungro, offrono uno stupefacente modello di vita propria che affonda le radici in una tradizione, in una cultura sempre viva miracolosamente conservata e tramandata. Un simile fenomeno pone degli interrogativi perché queste comunità, dal momento del loro insediamento in Italia e sono passati cinque secoli, non hanno mai avuto aiuti dall’esterno che favorissero il loro sviluppo o, almeno, il mantenimento del loro precipuo patrimonio culturale quanto, piuttosto, hanno sempre dovuto affrontare non semplici difficoltà di ambientamento se non addirittura di sopravvivenza. Eppure, nonostante questo, la comunità arbëreshe presenta una sua specifica identità culturale, una sicura coscienza del proprio patrimonio etnico che la rende più consapevole del proprio essere in confronto alla popolazione indigena limitrofa. E’, quindi, all’interno di questa comunità che va individuato l’elemento costitutivo e la forza aggregante che non soltanto ha salvato ed ha mantenuto il patrimonio etnico, ma addirittura ne ha promosso lo sviluppo culturale conservando sempre vivo e vigile lo spirito della stirpe. Individuare questa forza aggregante di conservazione e di sviluppo dello spirito della comunità arbëreshe è l’argomento di questo intervento il quale non può essere esaustivo sia per i limiti intrinseci di questa breve nota che per le difficoltà obiettive di ricerca e di confronto di fonti attendibili, come anche per la mancanza di una bibliografia specifica sull’argomento. Si dovrà, quindi, fare ricorso a pubblicazioni e testi di carattere generale, pur se superati dai recenti progressi degli studi comparativi e dalle analisi delle fonti[1]. Per questo motivo il lavoro si presenterà come una riflessione personale su fatti e circostanze che hanno determinato alcuni importanti avvenimenti della vita  della comunità italo-albanese di rito bizantino.

 

Dalle emigrazioni degli albanesi, fine sec. XV, alla fondazione del Collegio Corsini.

Negli ultimi decenni del sec. XV, dopo la morte di Giorgio Kastriota Skanderbeg, avvenne quel grande fenomeno di migrazione di popolazioni albanesi che, sotto la spinta dell’invasione, turca lasciarono la terra di origine per trovare rifugio in Italia accolti dalla generosità degli Aragonesi, la Casa Regnante del Regno delle Due Sicilie. I profughi, tutti di rito bizantino, arrivarono con i loro sacerdoti e furono mandati a ripopolare poveri borghi abbandonati o a coltivare terre sterili e sassose ubicate, il più delle volte, in zone impervie e montane completamente isolate dal resto del mondo. Ebbero, però, la fortuna di trovare sempre sensibile e sollecita nei loro confronti la Sede Apostolica di Roma che lungo i secoli si interessò con amore delle comunità italo-albanesi così come dimostrano i tanti documenti degli archivi del Vaticano e della Congregazione di Propaganda Fide non ancora del tutto esplorati per quanto riguarda la storia delle comunità italo-albanesi. La Santa Sede si mostrò sempre lungimirante. Comprese che la presenza di una popolazione appartenente ad un altro rito, ricca di una tradizione e di una spiritualità diversa, costituiva un fatto positivo e ricco di implicazioni per i contatti con la Chiesa d’Oriente, perciò ne prese sempre le difese contro le importune opposizioni dei Vescovi e parrochi latini e dei Baroni locali, i quali non lasciavano di combatterlo in varie maniere o d’inquietare acerbamente e molestare i suoi seguaci[2], scrive Pietro Pompilio Rodotà nella sua fondamentale opera Del Rito Greco in Italia. La convivenza, quindi, tra i profughi albanesi fuggiti dalle proprie terre per salvaguardare la fede e la propria identità etnica dalla soffocante dominazione ottomana e la popolazione indigena, non soltanto non era facile ma, soprattutto per il rito bizantino che gli albanesi professavano, era in continua perenne tensione. Questo perché, sempre citando il Rodotà, i Vescovi latini alla cui giurisdizione i profughi albanesi erano sottoposti: nulla o pochissimo intesi di un rito novello, né potendola fare da maestri sopra le cerimonie orientali, erano obbligati ad una speciale sollecitudine. Per iscuoterla andavano in traccia di mezzi opportuni d’estinguere la memoria, non mancando loro speciosi pretesti di colorire sotto il finto manto di zelo la naturale ripugnanza… Oltre a queste cose, ai Baroni delle rispettive colonie erano odiose l’esenzione dei tributi che godevano non solo gli ecclesiastici con le loro mogli e figli, ma specialmente i nobili Coronei con le loro numerose famiglie[3]. La vita di queste comunità di profughi come la loro sopravvivenza era intimamente legata al rito che professavano. La loro fede, vissuta nella tradizione del rito greco-bizantino, diveniva il centro aggregante di queste popolazioni e la Chiesa il luogo dove mantenere viva la memoria dei padri e rimanere fedeli alla propria identità. I sacerdoti, di conseguenza, costituivano per queste comunità l’elemento essenziale non solo per lo svolgimento delle loro funzioni precipue, ma perché diventavano anche il comune punto di riferimento della vita dell’intera comunità, i custodi fedeli della memoria, i continuatori delle tradizioni di una intera etnia.

 

La fondazione del Collegio Corsini e la sua influenza nella vita delle comunità arbëreshë

Uno dei problemi fondamentali per la comunità italo-albanese di rito greco-bizantino rimaneva la formazione e l’ordinazione dei candidati al Sacerdozio. Per questo motivo si rendeva necessaria l'istituzione sia di un Vescovo ordinante di rito greco che di un istituto, un seminario, per la formazione specifica dei giovani candidati al Sacerdozio. Di queste richieste pressanti e continue rivolte alla Santa Sede da parte delle popolazioni italo-albanesi esiste un’ampia documentazione nell’archivio della Congregazione di Propaganda Fide fin dalla sua istituzione avvenuta nel 1662[4]. Non si approdò, però, mai a nulla a causa delle difficoltà sempre insormontabili che si incontravano per la realizzazione di un simile progetto e per le opposizioni dei Vescovi latini locali che temevano di essere lesi nei loro diritti, fino al 5 ottobre del 1732 quando Papa Clemente XII (Lorenzo Corsini, di madre albanese) con la Bolla Inter multiplices decretò la fondazione del Collegio di rito greco in S. Benedetto Ullano [5] (denominato Collegio Corsini in onore del suo fondatore) che nel 1794 verrà trasferito nel Monastero di S. Adriano in S. Demetrio Corone. Non sembri superflua l’insistenza su questi fatti giacchè si può tranquillamente affermare, suffragati dalle fonti e dai documenti esistenti e conosciuti, che tutta la storia delle comunità italo-albanesi è intimamente legata, anzi è un tutt’uno, con la storia religiosa di questo popolo. Una storia non fatta di grandi avvenimenti quanto piuttosto una registrazione di piccoli fatti che possono addirittura sembrare insignificanti a chi ricerca soltanto gli eventi importanti che segnano il corso della storia, ma che stanno a dimostrare l’amore e l’attaccamento di queste popolazioni albanesi alle proprie radici. Ed è in questo aspetto peculiare, in questo intrecciarsi della componente religiosa con la propria identità etnica che va ricercata la chiave di lettura che spiega la singolare tenacia di queste popolazioni nel conservare il proprio patrimonio culturale e la propria identità etnica, la singolare vita delle comunità italo-albanesi.

         Pur se tra alterne vicende e considerevoli difficoltà, il Collegio Corsini svolse appieno il compito per cui era stato fondato: la formazione dei giovani aspiranti al Sacerdozio. Incise, ed in profondità, su tutta la vita sociale e culturale delle comunità italo-albanesi della Calabria poiché molto presto vennero accolti anche numerosi giovani non candidati al Sacerdozio per frequentare i corsi di studi. Generazioni intere di professionisti italo-albanesi che si affermarono in vari campi, soprattutto nelle discipline umanistiche, uscirono dal Collegio Corsini e dettero un decisivo contributo alla coscienza etnica degli arbëreshë dell’Italia meridionale. Il Collegio Corsini si affermò subito come uno dei più prestigiosi centri di cultura del Regno di Napoli. Una vera fucina di intelligenze che si formarono al culto delle tradizioni della stirpe, all’amore per il rito bizantino ereditato dai padri. I frutti di tale formazione si videro presto. E’ nell’ambiente del Collegio Corsini, infatti, che il senso di appartenenza ad una stirpe e ad una cultura diversa diventa autentico sentimento di fierezza che investe tutte le comunità italo-albanesi. Iniziarono i tentativi di dare vita ad una propria letteratura. Il primo esempio è Giulio Varibobba, alunno del Collegio Corsini e poi sacerdote di S. Giorgio Albanese che nel 1762 pubblica, a Roma, la Vita di Maria Vergine in lingua albanese, consapevole di essere il primo ad usare la lingua materna per comporre un poema. Senza voler entrare nel merito, si può dire che si è davanti all’inizio, anche se timido e relativo, della letteratura riflessa arbëreshe. Un inizio strettamente legato alla vita religiosa, alle tradizioni tipiche di una popolazione che esprime la sua religiosità nella lingua materna. Sarà l’opera e la personalità di Girolamo De Rada (Macchia Albanese, 1814-1903), il poeta sommo della stirpe, a segnare non soltanto l’inizio ma la piena maturità della letteratura riflessa albanese, a dare coscienza ad un intero popolo, a suscitare negli stessi albanesi di Albania il sentimento nazionale spento completamente da cinque secoli di dominazione ottomana, a chiedere per loro libertà ed indipendenza. Non va dimenticato Giuseppe Serembe (S. Cosmo Albanese, 1843- S. Paolo del Brasile, 1891), tormentato e sfortunato poeta, forse il maggior lirico della letteratura albanese che nella sua poesia riesce ad esprimere mirabilmente grande ansia di libertà e di bellezza, senso di tristezza e di solitudine, profondissimo sentimento religioso.

 

 

 

         E’ lo spirito del Collegio Corsini, il fortissimo sentimento di libertà, di indipendenza, a formare tantissimi giovani italo-albanesi agli ideali del Risorgimento italiano. Non è compito di questa nota approfondire un simile tema, ma non si può non sottolineare come il contributo offerto dagli arbëreshë al Risorgimento italiano è stato davvero considerevole tenuto conto dell’entità di questa piccola comunità nei confronti dell’intera comunità nazionale.

         Quanto detto è potuto avvenire perché le popolazioni italo-albanesi sentono la Chiesa come unica istituzione propria che li sostiene e li rappresenta. Nel rito greco-bizantino che professano riconoscono il segno più appariscente e visibile del loro appartenere ad un’altra tradizione e cultura diversa da quella dei paesi latini[6] che li circondano, nei sacerdoti i loro maestri, le loro guide, i depositari ed i custodi fedeli della tradizione.

 

Dalla crisi del Collegio Corsini alla fondazione della Diocesi greca di Lungro.

La vita della benemerita istituzione divenne sempre più difficile e travagliata quanto più si fece pressante la sorda opposizione degli Arcivescovi di Rossano, una volta che il Collegio Corsini fu trasferito da S. Benedetto Ullano alla Badia di S. Adriano in S. Demetrio Corone, dotato anche di tutti i beni e possedimenti di quel celebre cenobio basiliano. I tentativi degli Ordinari di Rossano erano di far ricadere sotto l’immediata autorità e giurisdizione dell’Arcivescovo la conduzione del Collegio Corsini. Con l’ausilio della Corte di Napoli le interferenze divennero sempre più gravi e così il Collegio andò gradualmente perdendo i fini per cui era stato istituito. Con la spedizione dei Mille, la sconfitta dei Borboni e la conseguente unificazione del Regno di Napoli all’Italia, ci fu un deciso intervento di Giuseppe Garibaldi a favore del Collegio Corsini. Come segno tangibile della stima che nutriva per gli italo-albanesi, considerato l’apporto che superiori ed alunni del Collegio italo-albanese di S. Adriano avevano dato alla storica impresa della spedizione dei Mille, Giuseppe Garibaldi, con proprio decreto del 20 giugno 1860, in considerazione dei segnalati servizi resi alla causa nazionale dai prodi e generosi albanesi[7], stanziava dodicimila ducati al Collegio di S. Adriano, per ricondurre alla sua primitiva istituzione questo nobile stabilimento che è fonte di civiltà per la gioventù albanese di quella Provincia e della confinante Basilicata e che per le vicende dei tempi è stato in gran parte deviato dai suoi primitivi ordinamenti, come veniva specificato nel decreto esecutivo del provvedimento di pochi giorni dopo[8]. Presto le cose divennero ancora più difficili. Sarebbe troppo lungo soffermarsi ancora su questo argomento; basti dire che molto presto il Collegio Corsini, di fatto incamerato dallo Stato, nonostante le continue proteste della Santa Sede, cessava di esistere come Collegio ecclesiastico perché venivano di fatto abrogate le Bolle di fondazione di Clemente XII, mutando radicalmente gli scopi e le finalità che avevano dato vita all’Istituto che diveniva un semplice Collegio e Liceo Statale come tanti esistenti nel Regno d’Italia[9].

         Si ripresentò il problema della formazione del Clero di rito greco-bizantino per le comunità italo-albanesi. Solo pochi elementi appartenenti a queste comunità avevano la possibilità di essere accolti nel Pontificio Collegio Greco di Roma e frequentare i Pontifici Atenei romani. Infatti, la Congregazione di Propaganda Fide il 6 aprile del 1897 aveva stabilito per il Collegio Corsini che clericis, durantibus circumstantiis non educentur in praedicto collegio, sed Romam mittantur, vel saltem educentur in respectivis seminariis[10]. Il maggior numero, perciò, di candidati al Sacerdozio o doveva frequentare i Seminari delle diocesi latine da cui dipendevano le comunità italo-albanesi o, contrariamente a quanto disposto dalla Congregazione di Propaganda Fide, doveva, ancora, frequentare il Collegio Corsini senza ricevere nessuna formazione ecclesiastica. Tutto questo determinò un costante decadimento della vita delle comunità arbëreshë e del rito greco-bizantino che andò sempre più latinizzandosi. Si ritornò al progetto originario per cui sempre il clero di rito bizantino delle comunità arbëreshë si era battuto: avere un proprio Vescovo ordinario, ottenere la fondazione di una diocesi che potesse raccogliere tutte le parrocchie italo-albanesi di rito greco-bizantino sottoposte alla giurisdizione dei Vescovi latini. A Roma, intanto, nel febbraio del 1878, veniva eletto Papa Leone XIII che rivelò presto una particolare sensibilità verso le Chiese dell’Oriente e una grande attenzione al doloroso e delicato problema della divisione dei cristiani[11]. A Leone XIII, nel 1888, venne presentata una supplica recante la firma di migliaia di italo-albanesi di rito greco in cui si chiedeva formalmente l’autonomia ecclesiastica delle comunità arbëreshë e la creazione di una diocesi con a capo un Vescovo di rito greco[12]. Tenace ideatore e propugnatore di questa iniziativa fu l’Archimandrita Pietro Camodeca dei Coronei che impegnò tutte le sue energie per condurre in porto un simile progetto[13]. Ma ancora non si fece nulla. Nel 1917 Papa Benedetto XV, eletto Pontefice nel 1914, istituiva la Sacra Congregazione per la Chiesa Orientale per favorire le relazioni ed il dialogo con le Chiese d’Oriente. Uno dei primissimi provvedimenti di questa nuova Congregazione fu quello di dare un definitivo assetto canonico ed una permanente soluzione al secolare problema dell’autonomia religiosa delle comunità italo-albanesi di rito bizantino del meridione d’Italia. Ne è prova la Nota di Segreteria - Il rito greco dell’Italia inferiore stampata dalla Poliglotta Vaticana nel 1917, accurata, puntuale e documentata sintesi storica di tutto il problema riguardante la fondazione di una Diocesi di rito greco per gli italo-albanesi dell’Italia meridionale.

 

Fondazione della Diocesi greca di Lungro

         Il 13 febbraio 1919 Papa Benedetto XV con la Bolla Catholici fideles greci ritus[14], erigeva la Diocesi di Lungro di rito greco per gli italo-albanesi dell’Italia continentale. Dalle Diocesi di Cassano allo Jonio, Rossano, Bisignano in Calabria; da Anglona-Tursi in Basilicata, dalle Diocesi di Lecce in Puglia e Penne in Abbruzzo, venti comunità parrocchiali di rito greco venivano riunite in una entità ben precisa, la Diocesi greca di Lungro e unificate sotto la giurisdizione di un solo Vescovo Ordinario dello stesso rito.

Finalmente dopo tante vicissitudini, lunghi periodi di buio e difficoltà a volte insormontabili che avevano messo a dura prova l’attaccamento degli arbëreshë ad una tradizione ed a una cultura propria, le popolazioni italo-albanesi avevano una istituzione che li riuniva e dava loro, anche se soltanto sotto l’aspetto religioso, una connotazione ben precisa che, finalmente, consacrava la loro identità etnica, religiosa e culturale ed assicurava la loro stessa sopravvivenza. La storia dei primi anni di vita della Diocesi di Lungro parla del lavoro silenzioso, oscuro, ma costante, di dare alle comunità italo-albanesi una coscienza comunitaria, una uniformità di vita religiosa, una identità che presentasse con chiarezza i tratti essenziali di una minoranza etnica e culturale che finalmente aveva ottenuto di essere riconosciuta tale per la diversità del rito che aveva conservato nei secoli.

         L’isolamento di molte popolazioni viventi in paesi privi di strade di accesso e collocati in località impervie, se da una parte aveva favorito il mantenimento di una propria identità culturale ed etnica perché non influenzati da flussi esterni rendeva arduo e difficile il compito di fornire una propria omogeneità a tutta la comunità italo-albanese.

         I troppi anni in cui queste comunità erano dipese giuridicamente dai Vescovi latini, le pressioni continue perché abbandonassero il rito di origine, la scarsezza di clero formato alla tradizione orientale, avevano fatalmente compromesso l’integrità di un rito e di una spiritualità che pure si erano mantenuti, nella loro essenza, per secoli. Oltre il compito di aggregare e dare uno spirito unitario a tutta la comunità della nuova Diocesi, il primo Vescovo, nominato nel 1919 nella persona dell’Arciprete di Lungro Giovanni Mele dovette dedicarsi, con solerte energia, al recupero ed al ripristino della piena tradizione orientale, favorito in questa opera dalle nuove leve di sacerdoti che venivano formati nel Pontificio Seminario italo-albanese di Grottaferrata voluto dalla lungimirante beneficenza di Papa Benedetto XV e nel Pontificio Collegio Greco di Roma diretto dai Padri Benedettini da sempre custodi fedeli della vera tradizione liturgica della Chiesa. L’istituzione della Diocesi favorì non solo il ritorno alla piena osservanza del rito bizantino, ma anche il ripristino delle norme riguardanti la stessa struttura degli edifici sacri di culto secondo le disposizioni liturgiche e dell’arte sacra bizantina. Nelle chiese esistenti si intervenne con radicali cambiamenti per adattare gli edifici di culto alle esigenze del rito. Si cominciò dagli altari: in osservanza delle prescrizioni canoniche bizantine vennero eliminati gli altari laterali per lasciare il solo altare centrale, di forma quadrata. Per la prima volta, nella storia delle comunità italo-albanesi vennero realizzate le Iconostasi e ripresa la tradizione delle sacre icone.

         La consapevolezza di appartenere ad una tradizione diversa, l’attaccamento al patrimonio dei padri, questa volta favorito dal clima nuovo di autonomia religiosa, diede slancio a tutta la vita delle comunità arbëreshë. Il Clero, in prima persona, si impegnò a favorire il mantenimento delle tradizioni popolari con la nascita ed il fiorire di molti gruppi folkloristici, di circoli culturali, di riviste e periodici albanesi, di movimenti e di associazioni che avevano come programma la conservazione e lo sviluppo della cultura italo-albanese. Con il secondo Vescovo Giovanni Stamati (1912-1987) si pervenne alla introduzione della lingua albanese nella Santa Liturgia. Con decreto vescovile del 1968, Mons. Stamati introduceva ufficialmente la traduzione in lingua albanese della Liturgia di S. Giovanni Crisostomo[15] condotta a termine dalle Commissioni Liturgiche delle Diocesi di Lungro, di Piana degli Albanesi e del Monastero Esarchico di Grottaferrata e approvata dalla Congregazione per le Chiese Orientali[16].

         Oggi, a distanza di cinque secoli dal suo esodo in Italia, questa minoranza linguistica e culturale è ancora viva e mantiene intatti i suoi caratteri peculiari. Questo fatto, considerando tutte le difficoltà e gli ostacoli sempre incontrati lungo il corso dei secoli, è veramente straordinario.

         In questa nota si è cercato di individuare l’elemento costitutivo ed aggregante che ha permesso un simile fenomeno che ha del miracoloso e che ha costituito una vera barriera difensiva per la salvaguardia di un mondo, di una cultura, di una tradizione particolare. L’elemento aggregante si è rivelato il rito greco-bizantino professato dalle popolazioni italo-albanesi e intimamente sentito come il più alto e prezioso patrimonio di tutta la stirpe.

 

Bibliografia

 

Acta Apostolicae Sedis - Leonis XIII Acta, vol. XIV

A.A.S.,X, 1919

Eparchia di Lungro. Bollettino Ecclesiastico. Nuova Serie. N° 3. Anno 1969, Lungro.

G. Laviola, Pietro Camodeca de’ Coronei. Aversa, 1969.

Il rito greco nell’Italia inferiore (Nota di Segreteria). Novembre 1917. Roma, Tipografia Poliglotta Vaticana.

L’autonomia ecclesiastica degli Italo-Albanesi delle Calabrie e della Basilicata per l’Arciprete Pietro Camodeca de’ Coronei, parroco e vicario generale degli Italo-Greci, giudice ed esaminatore sinodale della Diocesi di Anglona-Tursi, 2a edizione, Roma 1903

G. Mazziotti, Monografia del Collegio Italo-greco di Sant’Adriano. Roma, 1908

Oriente Cristiano, XXV, 1985, nrr. 2-3, Palermo.

P.P. Rodotà, Dell’origine, progresso e stato presente del rito greco in Italia, osservato dai greci, monaci brasiliani, e albanesi, libri tre, In Roma 1758,1760,1763.

Zavarroni A., Historia erectionis Pontifici Collegi Corsini Ullanensis italo-graeci et deputationis episcopi titularis greci, Napoli, 1750.



[1] L’opera a cui, ancora una volta, tocca fare riferimento è quella fondamentale e ancora non superata di Pietro Pompilio Rodotà: Dell’Origine, Progresso e Stato presente del Rito Greco in Italia, osservato dai greci, monaci basiliani e albanesi, libri tre In Roma 1758, 1760, 1763. E’ nel terzo volume in cui l’autore tratta specificamente degli italo-albanesi e del loro rito greco. Come afferma lo stesso Rodotà nella prefazione: espone lo stato presente, di cui siano tenuti agli albanesi che lo difendono con impareggiabile gloria.

Pietro Pompilio Rodotà, nativo di S. Benedetto Ullano (1707-1770) fu scrittore greco alla Biblioteca Vaticana. Questo incarico gli diede l’opportunità di svolgere ampie ed accurate ricerche nei ricchissimi archivi vaticani, di consultare e studiare documenti di primissima mano e di accedere a documenti che non erano stati ancora resi pubblici.

[2] P.P. Rodotà, Del Rito Greco in Italia, vol. III, L. III, c. III, p. 59.

[3] P.P. Rodotà, o.c. p. 59.

[4] Una ricca fonte di notizie sono gli Atti della Sacra Congregazione di Propaganda Fide, per quanto riguarda la vita religiosa e tutte le questioni e gli affari importanti attinenti le comunità italo-albanesi di rito greco-bizantino. Un lavoro sì sistematico e completo di ricerca, catalogazione e trascrizione, fatta eccezione per alcuni singoli fatti o personaggi, non è stata ancora fatta. E’ auspicabile che documenti di primissima importanza possano essere resi pubblici per contribuire a scrivere, finalmente, una storia delle comunità albanesi d’Italia attendibile e documentata.

 

[5] Angelo Zavarroni: Historia Erectionis Pontifici Collegi Corsini Ullanensis italo-graeci et deputationis episcopi titularis greci, Napoli 1750.

[6] E’ con questo termine di “latino” che gli arbëreshë definiscono i non appartenenti alla loro etnia, con chiaro riferimento al rito professato.

[7] G. Mazziotti: Monografia del Collegio Italo-greco di Sant’Adriano. Roma, 1908. p.3

[8] Cfr. G. Mazziotti, o. c., p. 27

[9] Sulla funzione svolta dai Seminari greco-albanesi, il Collegio Corsini in Calabria, il Seminario greco-albanese fondato da Giorgio Gazzetta (1682-1752) in Sicilia, per una vitale promozione culturale nelle comunità albanesi d’Italia, si veda il numero speciale della rivista Oriente Cristiano, XXV (1985) nrr. 2 – 3, dedicato al 250° anniversario del Seminario greco-albanese di Palermo. Gli argomenti trattati, pur riguardando direttamente il Seminario greco-albanese di Sicilia, hanno una comune attinenza con il Collegio Corsini ed illuminano sull’azione svolta dai due seminari e sul contributo essenziale dato al mantenimento del rito e dei valori della stirpe.

[10] Il rito greco nell’Italia inferiore (Nota di Segreteria), Novembre 1917, Roma Tipografia Poliglotta Vaticana, p.131

[11] Cfr. Leo XIII, Litt. Apost. Orientalium dignitas 30 nov. 1894, in Leonis XIII Acta, vol. XIV, basilare documento pontificio, che pone le fondamenta per instaurare in un clima nuovo il rapporto di stima e di grande rispetto verso la tradizione della Chiese orientali.

[12] Cfr. L’autonomia ecclesiastica degli Italo-Albanesi delle Calabrie e della Basilicata per l’Arciprete Pietro Camodeca de’ Coronei, parroco e vicario generale degli Italo-Greci, giudice ed esaminatore sinodale della Diocesi di Anglona e Tursi, 2a edizione, Rma 1903.

[13] Cfr. G. La viola, Pietro Camodeca de’ Coronei, Aversa 1969.

[14] Benedetto PP. XV Catholici fideles greci ritus. Acta Apostolicae Sedis, X, 1919.

[15] Cfr. Eparchia di Lungro, Bollettino Ecclesiastico. Nuova Serie. N. 3 - Anno 1969, p. 14 e ss.

[16] Fu per questa circostanza che Mons. Stamati, ancora una volta, dopo aver ottenuto una specifica delibera di richiesta da parte di tutte le Amministrazioni dei Comuni italo-albanesi, fece formale richiesta allo Stato italiano di una legge quadro che introducesse l’insegnamento della lingua albanese nella scuola primaria delle comunità albanofone d’Italia.