Macerie? incontra Gianmaria Testa, il cantautore cuneese impegnato in questo periodo nel tour promozionale del suo quarto album, "Il valzer di un giorno". In un familiare backstage cittadino, poco prima del concerto, abbiamo toccato argomenti che sia a noi sia a lui stanno a cuore, lo scrivere, il comunicare, i poeti e i cantautori. Ne è venuto fuori questo dialogo, tra veri innamorati della Parola. Un gioiellino che vi regaliamo, per iniziare bene l'anno nuovo. (L'incontro è avvenuto il 27 dicembre 2000.)


Come autore di canzoni, il tuo scrivere è sia scrivere musica che parole. Noi di "Macerie?" siamo più interessati a questo secondo aspetto, ai tuoi testi, e proprio su ciò vorremmo chiederti alcune cose. D'altra parte ci sembra che tu dia molta importanza alla Parola, e intendiamo anche la parola poetica, che nei tuoi concerti fa da contrappunto alle canzoni (grazie alle poesie di Pier Mario Giovannone) ed ora si è ritagliata uno spazio anche nel tuo ultimo disco. C'è dunque un'affinità elettiva tra la parola poetica e la parola cantata?


Bè, la poesia e la canzone sono due cose diverse. La poesia non ha bisogno di melodia o di ritmo all'infuori di se stessa, perché tutto sta già in ciò che essa dice, non c'è bisogno di aggiungere nulla. La canzone ha invece delle esigenze diverse. Ciò che io vorrei è che essa recuperasse un po' di dignità, e questo mi pare lo si possa fare  dando più importanza al testo, senza vederlo come un semplice  pre-testo. Mi sembra che la canzone sia sempre più un oggetto di commercio e sempre meno una forma di comunicazione, essa che è nata come una comunicazione popolare. Io cerco invece di tendere a quest'ultima concezione. Ma non faccio poesia cantata, io faccio canzoni.


In effetti nei tuoi lavori la poesia e la canzone hanno spazi autonomi, non si intrecciano. Hai mai pensato invece ad operazioni di commistione tra una e l'altra? Come musicare una poesia, o cose del genere.


Non l'ho ancora fatto, neanche con quelle di Pier Mario, fondamentalmente per un certo mio pudore di fronte alla poesia. Qualcuno è riuscito a fare bellissime cose musicando delle poesie, penso a Leo Ferrè, penso a Paco Ibanez con Lorca, con Neruda, con Machado…ma sono casi eccezionali. Io non ci sono ancora riuscito: mi piacerebbe adesso musicare qualcosa di Pavese, ma non è detto che ne trovi il coraggio. Ripeto, mi sembra che spesso tutto stia già nelle poesie, che non ci sia nulla da aggiungere.

Con queste tue risposte ci eviti l'imbarazzante momento del chiederti se ti senti più cantautore o più poeta, domanda che volevamo evitare…


Guardate, per me è facile rispondere perché appunto non sono poeta, non so scrivere poesie. Io penso che ognuno di noi ha un metodo alternativo alla parola parlata per comunicare, e che tutti i metodi siano validi: c'è chi piange, chi dipinge, chi s'incazza…io faccio le canzoni e non so fare altro.


Ci sarebbe piaciuto sapere però qualcosa sulle tue "fonti", se nello scrivere i tuoi testi  pensi di subire più l'influenza di altri cantautori o quella di scrittori e poeti.


Al principio la cosa che mi ha influenzato di più non è stata la canzone ma la poesia. Ho il ricordo (avrò avuto quattordici anni) di Ungaretti che in televisione leggeva l'Odissea: ho in mente quest'uomo, già vecchio, che pronunciava le parole come se queste avessero una fisicità, un vero peso. Leggendo le sue poesie, più avanti, ho capito quale potere evocativo potessero avere le parole. Poi ho ritrovato una sensazione del genere ascoltando Cohen, Brassens, scoperti grazie a De Andrè. Questi sono i miei riferimenti iniziali: oltre a questo non saprei dirvi altro, non saprei da dove vien fuori il mio modo di scrivere. Certamente ascolto dischi tanto quanto leggo.


Analizzando i tuoi testi, abbiamo isolato una caratteristica che ci sembra del tutto "tua": il focalizzare l'attenzione su un qualche particolare, su dei piccoli oggetti, che subito paiono descritti in maniera realistica, ma ad un certo punto vengono come trasfigurati e vanno ad appartenere ad una dimensione che ha un po'  del gioco, un po' del sogno, un po' della fiaba. Pensa al "transatlantico di carta", al "gomitolo di luna" etc… Se tu fossi uno scrittore, direbbero che di queste "cosucce" è fatta la tua poetica.


Questo è uno dei privilegi di ogni forma per così dire "artistica", il parlare per metafore, il poter descrivere non in modo convenzionale. È permesso usare delle immagini. Parlando del "transatlantico", l'antefatto è stato un pensiero su quelli della mia generazione, che non hanno fatto la Resistenza, non hanno partecipato al Sessantotto perché troppo presto ed al Settantasette perché troppo tardi, insomma siamo passati in mezzo ai grandi avvenimenti. Chiedendomi cosa avrei lasciato in eredità "ideale" ai miei figli, mi son detto che avrei lasciato delle cose fragili ed inesistenti quanto concrete, come appunto un transatlantico, però di carta.


Oltre a scrivere in italiano, tu hai composto anche un pezzo in piemontese e hai inciso una canzone in francese. Ci sono differenze fondamentali nel trattare le diverse lingue?


La canzone in piemontese è l'unica e penso tale rimarrà, perché il piemontese è stato usato recentemente come una forma di divisione e a me il dialetto, se inteso come forma di allontanamento da altri, non interessa per niente. Il pezzo è nato da un dialogo in piemontese tra me ed un'altra persona, quindi è stato naturale scriverlo nella sua lingua. L'ho scritto a 18 anni e per molto tempo non l'ho cantato, negli anni in cui è uscita fuori questa aberrazione che è la Lega: poi mi sono reso conto che lo potevo utilizzare senza essere frainteso. La canzone in francese non è invece mia, è di Arthur H, e prima di cantarla ho aspettato di essere praticamente bilingue, perché credo che tutte le lingue meritino il grande rispetto che meritano le cose libere. La lingua è per un popolo uno degli strumenti massimi di libertà d'espressione. Questo mi impedisce di accettare le operazioni di certi cantanti che, visto il loro successo in Sud America, incidono in portoghese o in spagnolo.


Abbiamo parlato del confine tra la parola poetica e la parola cantata, di quello tra il reale ed il fiabesco e di quello tra le lingue: il senso di frontiera pare innato in te, insomma ci sembra che il tuo campo d'azione preferito siano i "bordi"…


Forse è inevitabile, considerando i posti dove sono nato, ma anche considerando che chi non nasce privilegiato (non ne faccio solo una questione di soldi) ha sempre questo sentire, di non aver le spalle coperte da nulla. Questo penso che insegni da una parte l'umiltà, dall'altra una certa vigoria nel difendere ciò in cui si crede. Io comunque mi sono sempre sentito fuori posto in ogni posto. Anche in questo "mestiere": quando avevo trent'anni e facevo le mie canzoni, prima che il pubblico mi conoscesse, venivo trattato come un giullare, un eterno bambino: poi di colpo sono diventato "geniale". Non è vera né l'una né l'altra cosa, non diventi un genio perché il pubblico viene a vederti, non sei uno stupido prima. Pensare questo fa sì che io possa suonare nei locali di provincia o all'Olympia di Parigi con lo stesso spirito. Anche questo forse è un po' di frontiera, ma non m'importa che la gente lo capisca, m'importa che mi faccia viver bene.


CANTAR PAROLE

Di Andrea Coletti e Andrea Gerbaudo