Onde
magnetiche si sprigionano dalle gigantografie di Stefano Grassi
saturando lo spazio e, allo stesso tempo, dilatandolo illusivamente
in un vortice centripeto e centrifugo. Niente è più
stabile, niente è più sicuro, proiettati nella dimensione
del costante dinamismo, siamo parte di un processo cinetico che
ripete il movimento stesso dell'esistenza. I lavori di Stefano
Grassi innescano meccanismi intensi, suscitano emozioni forti
provocando coinvolgimenti fisici e psichici: la fotografia diventa
installazione e trova il proprio equivalente estetico nella sintassi
pittorica. Nei grandi riquadri in bianco e nero, corpi nudi si
liberano in uno spazio - tempo assoluto dove, superate le categorie
relative agli accadimenti comuni, la scena si offre nella teatralità
del mito classico. Corpi sorpresi nella simulazione della lotta,
del gioco, della competizione; corpi che si incontrano, si sovrappongono,
si compenetrano, si respingono in una rappresentazione tragica
e dionisiaca. Da anni Stefano Grassi indaga con il mezzo fotografico
il nudo, in particolare quello femminile, di cui si serve per
proporre una nuova identità, fuori dagli stereotipi, che,
particolarmente con quest'ultimo lavoro, approda a soluzioni iconiche
di singolare efficacia visiva.
Il
nudo femminile era apparso, in precedenza, con ricercata eleganza
stilistica, negli audaci scorci compositivi, nelle trasversali
angolazioni, nelle brusche sforbiciate che rendevano la visione
del corpo lirica e aerea, focalizzata su particolari anatomici
restituiti monumentalmente alla visione dallo sfaldamento continuo
dell'immagine mai in riposo. La danza sacrale a cui la figura
veniva sottoposta faceva sì che questa rispondesse con
magica adesione, sollecitata dalla musicalità diffusa in
un ambiente naturalistico in cui diveniva necessario amalgamarsi
e in cui ritrovare il respiro vitale della terra e dell'aria.
L'occhio del fotografo si spostava, veloce e attento, a cogliere
il momento ideale consegnato poi alla stampa dove, in ultima analisi,
ciò che domina, sempre, sono le ragioni compositive dell'opera.
Ora, la visione poetica e sensuale del nudo femminile si è
consolidata in una nuova morfologia: l'immagine si duplica e si
scolpisce in nuovi volumi che i fondali scuri lasciano emergere
con maggiore evidenza accrescendo la vibrazione delle forme trasmessa
allo spazio circostante. I confini allargati della scena sospendono
i corpi in una nuova statuaria, ritmica e flessuosamente plastica:
si precisa meglio, adesso, nel moto avvinghiante dei corpi, la
levità delle strutture muscolari trasformate in masse atmosferiche
e la deformazione elastica dei nudi infinitamente moltiplicati
nel ritmo cadenzato e avvolgente delle forme in movimento. Nelle
vertiginose movenze si disegnano profili leggeri come aria, silhouette
infuocate, metafore corporee del fluido scorrere dell'acqua.
La
sintesi di questi elementi, che Stefano Grassi ha definito metamorfosi,
scompone e ricompone continuamente le forme, annullando la sensualità,
per porsi al di là del bello e del brutto, del bene e del
male, e rintracciare le forze primigenie che muovono l'esistenza.
Si assiste così, grazie alla sua abile regia, ad un rituale
arcaico e prepotente, ad una danza matissiana condotta nel buio
dello scenario da cui i corpi fuoriescono come travolti da un
vento impetuoso e costretti a compiere una frenetica e concitata
interpretazione pagana.
In queste ultime opere, si rivela inoltre una maggiore attenzione
verso l'espressività non solo fisica ma anche mimica e
i volti si trasformano in maschere tragiche o crudeli, dolorose
o eteree. In questo modo, per Stefano Grassi, il movimento acquista
valore non esclusivamente fisico ma diviene l'immagine psicologica
del movimento stesso, l'estensione del ritmo motorio alla realtà
psichica della coscienza.