Dopo molti anni nei quali gli studi avevano confinato i popoli italici nel ruolo di sfondo alle vicende della nascente potenza di Roma, o considerati solo incidentalmente nei più ampi studi etruscologici, lavori come quelli di Salomon e Pallottino proposero una spiegazione unitaria dei molteplici e complessi fenomeni dell'Italia del I millennio a.C., inserendoli in un più ampio quadro mediterraneo, e proponendoli non solo agli studiosi, ma anche, tramite un impareggiabile lavoro divulgativo, ad un pubblico più vasto. Nell'ambito degli ormai consolidati studi italici, anche l'ethnos volsco inizia a rivelare le proprie caratteristiche; a distanza di alcuni anni dagli scavi di Satricum si può tentare una prima, approssimativa ricostruzione.
1.1 Il quadro della penisola nell'età del ferro. Profondi cambiamenti intervennero alla fine dell'età del bronzo; su un substrato di popolazioni autoctone (dette "appenniniche"), la cui produzione materiale presenta rilevanti caratteristiche di omogeneità, si andranno via via innestando popolazioni di lingua indoeuropea, ma questo lungo processo, che va sotto il generico nome di indoeuropeizzazione, troverà piena realizzazione solo con la conquista romana (non dimentichiamo infatti che la lingua etrusca è stata ormai riconosciuta come sostanzialmente non indoeuropea). Poco possiamo dire sulle modalità di questo fenomeno, se cioè si sia dispiegato tramite un processo di lenta assimilazione di modelli culturali esterni portati da gruppi di popolazioni estranee, o se, invece, corrisponda ad un più ampio movimento che abbia in qualche modo "sopraffatto" le genti autoctone. Di certo sappiamo che esso non fu né rapido, né unidirezionale, e all'ipotesi tradizionale di una repentina invasione dal nord-est europeo attraverso le Alpi, se ne vanno sostituendo di nuove che tengono in maggior considerazioni i remoti contatti con l'Egeo e con il mondo balcanico. E' certo però, che nell'età del ferro (IX-VIII sec. a.C.), si vanno stabilizzando quelle differenziazioni etniche, molto significative dal punto di vista archeologico, che andranno a costituire i grandi gruppi etnici dell'Italia arcaica. A grandi linee possiamo affermare che tutto il sud della penisola al di sotto del Garigliano (con l'esclusione della Puglia -la cui cultura rivela sempre più caratteristiche affini a quella illirica - e del metapontino, sede di quella, archeologicamente ben distinguibile, detta "enotria") è interessato dalla cultura detta "delle tombe a fossa". Questa potrebbe rappresentare una fase del processo di indoeuropeizzazione precedente a quella nel cui ambito si formano i popoli italici propriamente detti; per descrivere il complesso di queste genti si è spesso usato il termine "paleoitalici" o "culture ausonie" e le loro parlate (cui apparterrebbe in ultima analisi anche il latino) sono state definite "italico occidentale". Al di là di un'area archeologicamente piuttosto silenziosa, corrispondente al basso Lazio, fiorisce la "cultura laziale" (prima espressione dei Latini di epoca storica), la cui caratteristica archeologicamente più evidente è la presenza nelle loro necropoli delle urne cinerarie "a capanna". Molto affine a quest'ultima è la cultura villanoviana (anch' essa di inceneritori), estesa in tutta l'Etruria storica, con importanti propaggini verso la pianura padana, ed una significativa enclave nel Salernitano nella zona di Pontecagnano (una precoce colonizzazione?). E' certo che questa cultura rappresenta l'antefatto archeologico di quella etrusca. Ma l'area più interessante ai nostri fini è quella parte del versante adriatico che ha come confine settentrionale il riminese. Qui si va rapidamente configurando una vasta entità etnica (che dal nome di una delle sue ramificazioni è detta picena, ma che più propriamente in questa fase sarà meglio definire come medio-adriatica), che darà presto origine agli ethnè italici propriamente detti, la cui lingua si differenzierà presto in tre grandi gruppi: l'osco, il sabino e l'umbro. 1.2 I secoli VII e V Il definitivo consolidarsi della presenza greca a sud della penisola incide in maniera determinante su buona parte del territorio italiano e avrà profondi riflessi sia sulla cultura etrusca (e quindi in definitiva anche su quella latina) sia italica occidentale (o "paleoitalica"). Se però i reciproci, strettissimi rapporti - senza i quali la stessa formazione dell'ethos etrusco risulta inimmaginabile - assumono ben presto le caratteristiche di un ferocissimo scontro militare, nel secondo, dove non si arriva - come in Calabria - al totale annientamento delle popolazioni autoctone, si assiste alla lenta, ma costante, assimilazione di modelli greci. I nuovi stimoli culturali contribuiscono ai due fenomeni più rilevanti di questi secoli: la tendenza a quella stratificazione sociale che porterà in breve tempo alla nascita delle grandi aristocrazie sia in ambito laziale che etrusco, e quello del definitivo consolidarsi del modello urbano in queste stesse zone; mentre in altre -come nell'area apula ed enotria - si assisterà ad una evoluzione verso forme insediative con caratteri protourbani. Ciò che interessa ai nostri fini è la situazione dei popoli propriamente detti "italici". Ancora occupanti le zone interne appenniniche, risentiranno relativamente poco di questi influssi e se, specie in ambito piceno, l'ascesa del ceto aristocratico è un fatto ben testimoniato dalle loro necropoli, quello dell'urbanesimo resterà sempre un fenomeno estraneo a queste popolazioni, e la definitiva penetrazione romana nel territorio appenninico troverà una situazione ancora cristallizzata in forme "pagano-vicaniche". Ma queste stesse popolazioni, dalle zone medio-adriatiche in cui si erano formati i grandi gruppi etnici, iniziano a muoversi verso quei territori che saranno le sedi d'origine della loro massiccia invasione dei territori occidentali (latini, etruschi, greci, o "paleoitalici" che siano) tra la fine del VI e l'inizio del IV secolo. Questo fenomeno, alimentato da una indubbia esplosione demografica (e dalla continua gemmazione di nuovi ethnè), metteranno profondamente in crisi tutto il quadro geopolitico della penisola, e si risolverà in una continua pressione sia per i Greci italioti, sia per la giovane repubblica romana. Contemporaneamente (sul finire del VI secolo) viene meno il controllo etrusco sul basso Lazio (ma in quale forma esso si sia esplicato non sappiamo), fenomeno certamente in relazione alle vicende della dinastia dei Tarquini a Roma. Non sappiamo in che modo si svolgesse, è certo però, come sottolineato da Salomon, che l'usanza dei veria sacra (migrazione in armi di una intera generazione), se mai fu praticata in maniera massiccia, doveva essersi esaurita in tempi storici. Una ricostruzione sommaria del complesso di questi movimenti è piuttosto difficile, sia perché permangono ampie zone d'ombra nelle nostre conoscenze, sia per la complessità intrinseca del fenomeno, che non può in alcun modo essere schematizzato in un semplice e lineare sviluppo di eventi concatenati. Diremo solo (ma a grandissime linee) che i Sanniti, mossisi verso le loro sedi storiche senza dubbio prima della metà del VI secolo, esercitavano una forte pressione su tutto il territorio circostante, e che gli ethnè da questi ultimi direttamente derivati degli Osci e dei Lucani, si stabiliscono saldamente nell'agro campano, con l'occupazione di Capua da parte dei primi, di Paestum (400 a.C.) dei secondi; che i Sabini, discesi a più riprese lungo la valle del Tevere, tennero sotto costante pressione tutte le popolazioni latine; che gli umbri, mossisi verso ovest e verso nord, occuparono l'area tra le Marche e l'Umbria orientale, ma che trovarono nella "nazione" etrusca - in fase espansiva verso settentrione - un ostacolo praticamente insormontabile. I contatti tra Umbri ed Etruschi, rivestono per noi un interesse particolare; per ora ci limiteremo nel dire che questi contatti influenzeranno profondamente il sistema scrittorio umbro (a quello etrusco profondamente affine). Prima di inserire i nostri Volsci in questo contesto (di cui speriamo di aver chiarito quantomeno l'estrema complessità), non possiamo evitare un sommario esame delle nostre fonti. 2 Le fonti Molte menzioni dei Volsci abbiamo negli autori romani, potremmo affermare che, dopo i Sanniti, sono forse il popolo italico che vi ricorre con maggiore frequenza; tra queste le più importanti sono quelle di Livio e di Dionisio di Alicarnasso. Queste due fonti risultano abbastanza concordi nel riportare gli avvenimenti del V secolo, mentre differiscono sostanzialmente nel riportare quelli del VI. Livio in particolare ha lasciato qualche descrizione delle genti volsche (coprotagoniste ai suoi occhi di una impareggiabile età eroica di Roma), queste sono descritte come popolazioni semibarbare, capaci di sopperire alla mancanza di strategia militare solo con la ferocia e la forza bruta, descrizioni in parte in contrasto con gli stessi racconti liviani, che li vogliono distinti in due entità politiche separate (Volsci Antiates e Volsci Eceretani). Vi è il riferimento a una capitale (Anzio appunto), e ad una qualche forma di organizzazione politica complessiva, specie per le decisioni che riguardano la guerra (concilia per Livio, ekklesiai per Dionisio), in Livio è inoltre espressamente ricordato un senatus a Privernum. I Volsci sono nominati in molti altri autori, che ricorderemo via via che saranno utili alla nostra ricostruzione. Le tradizioni mitistoriche rivestono nel nostro caso un interesse piuttosto relativo: quella (celeberrima) di Coriolano, imbottita di fantasiose divagazioni, nella migliore delle ipotesi nulla ci dice di più se non che ad un certo punto della lotta volsco-romana fu minacciata la stessa Roma, un'altra, che vorrebbe i volsci discendenti dai Siculi ed arrivata via mare sulle coste del basso Lazio, è in netto contrasto con tutti i dati archeologici in nostro possesso. Va comunque ricordato che l'origine appenninica di questa popolazione (su cui non sono più ammessi dubbi), non è riportata in nessuna delle fonti letterarie storiche. Una fonte indiretta, che per alcuni riveste una grande importanza, è il trattato romano - cartaginese del 508 a.C. - se mai vi fu -riportato da Polibio. Oltre alle fonti letterarie vi sono le testimonianze archeologiche, considerevolmente ampliate dalle campagne di scavo degli anni '80 a Satricum, che, se hanno in parte sopperito alle mancanze (che corrispondono senza dubbio anche ad una oggettiva povertà della cultura materiale volsca), hanno anche posto nuove questioni su cui non vi è accordo neanche tra gli archeologi che hanno curato gli scavi. Nel complesso delle testimonianze archeologiche, due rivestono particolare interesse sia per lo studio della lingua volsca, sia nella ricostruzione per via glottologica della genesi dell'ethnos volsco e dell'itinerario che li portò nel Lazio meridionale. La prima è un oggetto di piombo, la cosiddetta "ascia miniaturistica", rinvenuta nel 1983 a Satricum nel corredo di una sepoltura, ed è sicuramente un oggetto votivo (le dimensioni - pochi centimetri- ne escludono qualsiasi uso pratico). Oltre ad attestare la particolare usanza di deporre oggetti miniaturizzati nelle sepolture, confermata anche da altri ritrovamenti, è interessante per il testo (tre parole) che vi si trova inciso (Traslitterato dal Colonna come: "iúkús: ko : efiei", e interpretato dal Rix come "Ad locum Aedii", che identificherebbe l'oggetto come il possesso di un luogo sacro). L'alfabeto fa parte di quelli definiti "sabini arcaici", ed il suo uso è attestato in varie zone dell'area medio-adriatica. Le caratteristiche di arcaicità di questo alfabeto risultano abbastanza sorprendenti in una zona già latinizzata e certamente interessata da influssi etruschi. La seconda è una tavoletta incisa ritrovata a Velletri nel 1784, ed è, senza alcun dubbio, posteriore al 312 a.C., quando la città si trovava sotto il controllo romano. Quasi sicuramente infissa ad un oggetto più grande, misura 23 per 3,5 cm, col testo in bei caratteri latini, disposti su quattro righe, del quale il Rix ha proposto una interpretazione. Alcuni punti restano oscuri, ma si riferisce indubbiamente ad una lex sacra (forse precetti relativi ad un bosco sacro). Vi è nominata la dea Declona, i due meddices(autorità supreme della città italica), ma è assente il "cetur" (in latino censor), che in altre città potrebbe rappresentare l'autorità romana. Grazie a queste due testimonianze sia Rix che Durante hanno ascritto la lingua volsca tra i dialetti sabellici di ceppo umbro - sud piceno, nettamente distinta dall'osco (cioè la lingua di Campani e Sanniti). 3 Il territorio dei Volsci Permangono molte incertezze sia sui modi, sia sull'itinerario dell'occupazione volsca del Lazio meridionale. Se da una parte sembra ormai assodato che le loro sedi di partenza vadano individuate nell'area compresa tra il Fucino e l'alto Sannio, permangono forti dubbi sulla cronologia degli avvenimenti, in particolare se l'occupazione dell'agro pontino sia da collocarsi esclusivamente nel V secolo, o se già sul finire del VI i Volsci iniziassero ad affacciarsi a sud dei Colli Albani e nell'area costiera tra questi ultimi e Terracina. I dati archeologici hanno suggerito gli stretti legami delle zone presumibilmente occupate dai Volsci, con quelle del Fucino - valle del Sangro - alto Volturno (ritrovamento di anforette di tipo Alfedena, di fibule, di un disco - corazza proveniente dalla zona del Fucino e ritrovato ad Anagni, di una spada del tipo Alfedena rinvenuta a San Giorgio a Liri). Questi ritrovamenti fanno pensare ad una certa mobilità di individui non necessariamente legata alle transumanze stagionali. L'itinerario privilegiato per questi spostamenti è stato sempre considerato quello della Val Roveto, ma sono plausibili anche altri percorsi; attraverso la Val Comino (tramite il passo di Forca d'Acero), e quello che dal cassinate (attraverso la valle del Rapido), conduce direttamente al Sannio. Certamente verso la metà del V secolo (che dovrebbe corrispondere al momento di massima espansione della potenza volsca) occupavano una zona molto ampia, delimitata a nord-ovest dall'asse Anzio - Satricum - Velletri - Cori, cioè la linea storica "di frizione" tra Volsci e romano - latini, lungo la quale si svolsero le alterne fasi di una lotta caratterizzata da continui indietreggiamenti e riconquiste. Con ogni probabilità il controllo si estendeva sul territorio compreso tra questa linea e la valle dell'Amaseno (e Terracina), sulla Valle del Sacco - Trerus, su tutta la media Valle del Liri (compreso Cassino) e sulla Val Comino (probabilmente fino ad Atina). Le fonti letterarie (Livio e Dionisio) concordano nell'indicare taluni avvenimenti, pertanto possiamo fissare alcune date; Anzio appare volsca nel 496, Velletri (forse) dal 494, Corioli, Longuna e Polusca nel 493. La data della presa di Satricum e Circeii è incerta, ma l'ipotesi più probabile la collocherebbe negli anni 489 - 488. Altre città rimangono latine: Ardea, Aricia, Norba, Signa, Setia. Dalla lista delle città conquistate dai Volsci manca Terracina, ma non si conosce la data della sua caduta in mano volsca. A questo punto non possiamo tralasciare le ipotesi discrepanti che sono state avanzate; se per taluni la presenza volsca nell'agro pontino e nella cosiddetta "zona di frizione" nei pressi dei Colli Albani è rintracciabile già alla fine del VI secolo, per altri, che interpretano in maniera più critica le fonti letterarie storiche, questa presenza precoce andrebbe decisamente negata. In favore della prima ipotesi vi sono sia dati archeologici (l'abbandono di alcuni centri latini e tracce di crisi nell'abitato di Satricum), che menzioni negli autori antichi. Le fonti letterarie ricordano svariati episodi di contatti violenti già in epoca regia, oltre a Livio e Dionisio (secondo i quali questi primi contatti sarebbero avvenuti già all'epoca di Anco Marcio), da un frammento di Catone (in verità non del tutto chiaro) si potrebbe dedurre che quando i Volsci invasero la Pianura Pontina vi trovarono stanziati gli "Aborigeni" (mitica popolazione che avrebbe abitato il Lazio prima dei Latini), mentre Strabone parla della riconquista da parte di Tarquinio il Superbo di Suessa Pometia, caduta in mano volsca. Altri autori riportano lo stesso episodio, ma nessuno specifica che Suessa Pometia si trovasse in mano volsca (è qui il caso di ricordare che la localizzazione di questa città non è ancora certa, ma potrebbe essere la stessa Satricum). Si è sostenuto che questi avvenimenti sono duplicazioni di eventi successivi, come altri riportati dalla tradizione annalistica (per fare un esempio; si è spesso negata la storicità della prima guerra sannitica). Musti ha recentemente ricostruito la situazione da una posizione che egli stesso ha definito "forte", ammettendo la presenza dei Volsci a Terracina (Anxur) già dalla metà del VI secolo, e da qui le incursioni volsche si sarebbero dirette a Nord verso Anzio e i Colli Albani. Una posizione totalmente differente è stata sostenuta dal Van Royen; sottolineando le divergenze nelle fonti letterarie per quanto riguarda gli eventi relativi al VI secolo, e le sostanziali convergenze per quelli del V, ha escluso la possibilità di una precoce invasione. Assumendo per buona la data del 496 per la caduta di Anzio, e quelle successive per le città dell'interno, avanza l'ipotesi che all'inizio del V secolo i Volsci si siano impossessati di Anzio via mare, ed abbiano sfruttato questa testa di ponte per la loro penetrazione verso l'interno. Una conferma a questa ricostruzione è stata cercata nel trattato romano - cartaginese del 508; vi sono nominate, tra le altre, le città di Anzio, Circeii e Anxur (col nome latino di Terracina), che sarebbero state escluse se non fossero state sotto il controllo romano. Questa teoria, se è in accordo con le ipotesi glottologiche -che vorrebbero l'ethnè volsco distinto da quello umbro solo dalla metà del VI secolo - non spiega del tutto i dati archeologici. Verso l'autenticità storica del trattato del 508 sono state rivolte numerose obiezioni, e anche del contenuto del testo Polibiano sono state date interpretazioni diverse; del resto anche il trattato tra Romani e Sanniti del 354, che fissava al Liri il confine delle rispettive aree di influenza, comprendeva città di cui sicuramente né gli uni né gli altri possedevano il controllo. Proprio il trattato del 354 è lo specchio di una nuova situazione che si andava creando; la controffensiva romana non dovette tardare, se già alla fine del V secolo fu riconquistata Terracina, e la definitiva caduta di Anzio (338 a.C.), avvenne quando ormai il controllo di Roma cominciava ad estendersi su ampie zone del Lazio meridionale; schiacciati tra due grandi potenze, anche i centri della Valle del Liri dovettero soccombere. Alcuni di questi ebbero un ultimo e sfortunato sussulto di ribellione nel 318 a.C., probabilmente ispirato dai partiti sanniti che si erano affermati in alcune città dopo la sconfitta delle Forche Caudine. Con la fine della seconda guerra sannitica Roma ebbe il definitivo controllo di tutte le città volsche (esclusa Atina, in mano sannita) della Valle del Liri, dove possedeva due importanti colonie: Fregellae ed Interamna, e nel 303 il definitivo processo di latinizzazione ricevette ulteriore impulso, quando un'altra fu dedotta a Sora.
Marco Cedrone marcocampeador@hotmail.com