MARINA JARRE

“Il guardiano di pietra”

Non c’è mostra o spettacolo che potrà mai farmi accettare l’esi­stenza del Lingotto. Ogni qual­volta vedo (e distolgo lo sguardo) l’im­mensa, sciatta e monotona facciata, penso alle belle fabbriche dai frontoni neogo­tici in disuso alla barriera di Milano e a come avranno fatto per rifilarci quella bruttura.

Ho di questi odi edilizi seppur dettati da differenti motivi. Nel caso del forte di Exilles, per esempio, alla mia antipatia verso le costruzioni militari in genere si unisce anche una preoccupazione di mas­saia che fa i conti. Ci passo accanto in macchina e vedendo dietro i cartelli ogni tanto rinnovati che un altro pezzo sta per crollare, calcolo gli eventuali miliardi impiegati per tener in piedi quel simbolo della prepotenza dei re di Francia. Alla chiesa di Sant’Alfonso rimprovero in­vece le pretese di quei suoi volumi an­cheggianti; due anni fa l’hanno ridipinta in mauve e crème e allora ho provato una specie di pena come verso una vecchia si­gnora che cerca di rifarsi il viso. Ma sì, pazienza. Ho seguito con gioia segreta la progressiva discesa della Gran Madre verso il Po. Immaginavo di uscire un bel mattino e di trovare la piazza finalmente sgombra. La torta inabissata per sempre nelle acque marroni del fiume. Anche qui, però, cintata la chiesa di transenne, hanno rialzato ad uno ad uno i gradini impedendo così al tempo di compiere la sua giusta opera di eliminazione. C’è in questa città una pietas maggiore verso la vecchiaia dei monumenti che verso i vecchi.

Stavo una volta in Corso Galileo Ferraris. Dalle nostre finestre si scorgeva chia­ramente su qualunque cielo - se ancora di cielo si può parlare a Torino - l’enorme sagoma del Savoia di Corso Vittorio. Di profilo, fisso verso la collina, sembrava esattamente occupato in quella funzione che avevo segnalato ai figli: fa la pipì. Non s’erano stupiti. Proprio davanti a ca­sa nostra, la scienza giaceva nuda ai piedi di Galileo Ferraris. Ma perché lui vestito e sua moglie nuda? Dai monumenti ci si può aspettare di tutto, avvertivo.

Mai fidarsene. Così quando mi sono ritrovato il Savoia dietro le finestre della casa editrice, ritto sull’altissimo piedi­stallo, in quella sua posa di vigile distra­zione, mi sono detta: ci siamo.

Nell’ultima stanza che in fondo al cor­ridoio, a sinistra dell’ingresso, da sul largo, egli campeggia in tutto il suo vo­lume e in quell’altezza che sembra forare lo smog. Un po’ meno in estate, ma sem­pre visibile anche dietro il fogliame. Occupa completamente la finestra, non c’è orizzonte al di là. Nella stanza non si può parlare ad alta voce, ci si mormora informazioni, domande e talvolta rispo­ste; quasi quasi ci si aspetta che risponda lui, certamente gridando. Eppure la sua presenza così ingombrante e totale è meno paurosa che nelle stanze succes­sive. Tutto sommato, lo si vede, non si può fare a meno di vederlo, troppo gran­de, grosso, largo per essere veramente surreale.

Se invece ci allontaniamo per il corridoio verso l’altro capo, di stanza in stanza svaniscono le sue tracce concrete. In re­dazione, nei giorni di sole, le foglie gio­cano con le loro ombre sulle pareti, nei giorni di mal tempo la pioggia forse ap­profittando dello spiazzo alberato, scro­scia dietro i vetri con una naturalezza quasi campagnola. Eppure, se ci si avvi­cina alle finestre, lui c’è. In finta distra­zione, rivolto ad est, le spalle indiffe­renti, ma in attesa. Di che? E se qualche sera uscissimo sui terrazzi verso i cortili dalle stanze che sembrano protette più delle altre dall’incombere della sua pre­senza potremmo udire (forse) lo scalpic­cio pesante di piedi di pietra. Sta arri­vando e passa sotto il portone.

Tutto questo l’ho detto una volta all’edi­tore. Nella sua stanza il Savoia si vede ancora bene, sempre di profilo e di spal­le, naturalmente.

- Andrebbe buttato giù, - dico, - una notte, un po’ di dinamite.

- Ma no, - dice lui, cortese. La sua micidiale cortesia per cui l’autore rifiutato si allontana pieno di gratitu­dine. Nessuno ha mai letto con tanta at­tenzione il suo manoscritto. L’editore si ricorda ad anni di distanza una pagina che gli è piaciuta (o non gli è piaciuta), e con quella cortesia di cui dicevo, per prima cosa ti cita senza errori quel che ha trovato di buono nel tuo scritto, fosse pure una virgola.

Rinuncio dunque subito a parlare del coso. Gli piace. Ma non in un partico­lare, che so io, la gamba destra, il naso, il berretto. (Ma non ha il berretto, ti con­fondi con una statua di Garibaldi, lui ha il cappello piumato galantemente in ma­no). No, all’editore il Savoia va a genio tutto intero. Ci tiene.

- Va bene così, - dice, non indulgente come si parla d’un vecchio parente accet­tato con i suoi ricordi ripetuti e il cammi­nare malfermo, ma come d’un compagno e amico. L’editore sta alla sua scrivania e dietro i vetri, in silenzio, il Savoia sul suo piedistallo fissa la collina.

E va bene. D’altronde come procurarmi la dinamite che, naturalmente, non sa­prei adoperare?

Cerco di non pensarci. Un giorno, tutta­via, mentre passo accanto alla porta semi­aperta e sbircio per la fessura, scorgo l’editore soprappensiero alla scrivania e il Savoia sul piedistallo, immutabile; mi pare, a un tratto, di intravedere per la prima volta una ragione per quella sim­patia così mal indirizzata. In fondo, mi dico, non solo volge le spalle discrete, non solo sta sempre in silenzio, (e non sbircia), non solo, per finire, fa la guar­dia quale che sia il tempo e l’alternanza delle targhe, ma è sicuro che non si vol­terà mai a chiedere: me lo legge questo manoscritto? Oppure no?

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03/01/01