MARINA JARRE

“Il primo fuoco”

 

Chissà se la notte in cui gli abitanti delle Valli si resero conto che la schiera di Vandali, dopo aver devastato per alcune settimane case e campi, aveva superato infine i colli verso la Gallia, trascinandosi dietro donne e bestiame, chissà se quella notte avevano acceso fuochi per segnalarsi di valle in valle, di borgo in borgo che i nemici erano ormai oltre le montagne a uccidere e far bottino altrove. Per ricordare la sciagura chiamarono il monte boscoso di dense foreste da cui erano apparsi Vandalino. Oppure erano in realtà Arabi, quei nemici, o più probabilmente Longobardi, ma che ne sapevano loro? Vandali erano e il monte Vandalino. E i fuochi, segnali luminosi di liberazione. Non ebbero in seguito molte occasioni per accenderli; più frequentemente i fuochi furono gli incendi delle loro case, se non i roghi dell’Inquisizione.

Quando me ne arrivai a dieci anni dalla Lettonia a Torre Pellice, i falò del 17 febbraio ricordavano l’evento in cui le Valli erano state davvero liberate, sul serio e per sempre, da una segregazione politica e civile. I fuochi festeggiavano dunque non soltanto una mai provata libertà, ma finalmente un futuro. Nel mio primo 17 febbraio, benché nuovo per me, ritrovai tuttavia qualcosa di noto, poiché a Riga, una sera di novembre, si solennizzava, anche qui con luci - quella di migliaia di candele dietro i vetri delle finestre - la festa della libertà della giovane repubblica. Fuochi insomma, accesi nella notte.

Mi sembra che i falò della mia adolescenza fossero piccoli, selvatici, cioè disordinati, sparsi, tre di qua, poi la montagna buia, uno più grande di là, poi la montagna buia, e in lato, molto in alto, un piccolo, allegro e rosseggiante fuoco, così pareva, pressoché sulla sommità del Vandalino. Si faceva a gara a chi li accendesse più in alto. E nell’aria serale di febbraio, cristallina, odorosa di rami combusti, i falò bruciavano pacifici.

Avevo appena raggiunto l’età per far parte di un gruppo incaricato di accendere un fuoco, quando venne la guerra. Quel mio primo ed ultimo falò lo preparammo molto in alto, appunto sul dorso della montagna; una volta acceso, ci sedemmo intorno, la faccia calda verso le fiamme, la schiena fredda verso la montagna nera e cantammo vecchie canzoni francesi, per me incongrue, nei cui ritornelli ripetuti all’infinito si piantavano cavoli con il gomito e si spiumavano interminabilmente allodole. Ma ero disponibile a qualsiasi assurdità, gli scarponi verso il fuoco, la notte scintillante di stelle, volevo essere accolta, e, del resto, non cantavo stonata.

Venne la guerra e gli unici fuochi che ci toccò accendere furono talvolta le segnalazioni clandestine, purtroppo spesso inutili, per gli aerei che ci dovevano buttare giù armi e rifornimenti.

Non ricordo altri 17 febbraio fino a due o tre anni fa. Non badavo alla data, anche se la ricollegavo alla ricorrenza. Ma un giorno, non so perché, sorta da chissà quale profondità, mi venne una nostalgia. Innanzitutto dell’odore della legna resinosa bruciata e del fumo, poi delle luci fiammeggianti sulle montagne e sulle cime scure, poi della gente che faceva festa. Ma sì, della gente di cui, in realtà, non mi accorgevo, allora. Nella memoria mi si era ricomposta un’immagine affettuosa delle stradine di Torre Pellice percorse da persone contente che parlavano (quasi) ad alta voce in concordia per un avvenimento che li riguardava tutti. Perché non credere a ciò che la memoria ricompone e adorna? Così me ne andai su alla vigilia del 17 con amici. I falò erano enormi (esagerati, avrebbe detto il mio nonno), costruiti con cura nei posti più panoramici. Bruciavano maestosi e intorno si radunava addirittura una folla. Contenti, orgogliosi tutti, qui, la memoria non mi aveva ingannato. Ascoltai in mezzo al pubblico - i piedi un po’ freddi - il presidente della Camera (troppe le macchine della scorta, avrebbe detto il solito nonno) pronunciare un discorsetto acconcio dall’alto di un prato: non soltanto in quel febbraio del 1848 eravamo diventati italiani uguali agli altri, ma oggi eravamo persino, a quanto pareva, italiani un po’ speciali.

Bruciavano dunque gli immensi e artistici falò della mia vecchiaia, c’era naturalmente calma di vento, nel cielo scintillavano le stesse stelle che l’Eterno, benedetto sia il Suo nome, aveva indicato, promessa di stirpe innumerevole, ad Abramo a cui sanguinava il cuore per l’imminente sacrificio di Isacco. Le stesse che gli antenati di mia madre, incerti del loro futuro (con l’Eterno, appunto, non si può mai sapere), ma fedeli nei secoli alla loro credenza, avevano contemplato. La corale cantava, cantavamo noi. Intorno distinguevo nelle parole degli astanti la “erre” valdese delle parole di mia madre. Gli enormi falò spruzzavano intorno scintille gioiose e l’odore nell’aria limpida era lo stesso, di rami combusti e di sera purissima.

Da allora alla vigilia del 17, ritorno su e tra gli altri, contenti e orgogliosi, mentre bruciano gli immensi falò, cerco con lo sguardo, lassù in alto, un piccolo fuoco selvatico, rosseggiante e allegro, pressoché sulla sommità del Vandalino.

 

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03/01/01