MARINA JARRE

“Io e la piccola fiammiferaia”

Nei giorni che precedono Natale sono quasi sempre di buon umore. Che sia per qualche combinazione astrologica per cui il solstizio d’inverno mi è favorevole? Non mi accade comunque di soffrire di quello stress da preparativi che qualcuno lamenta; il pensare a molti, anzi, il ritornare a pensare a molti, mi piace. Ho avuto una famiglia numerosa a cui provvedere tutto l’anno, può darsi che potermi di nuovo affaccendare, anche se ormai in modo un po’ disordinato e casuale, sospinta più dall’abitudine che dalla necessità, mi ridia la soddisfazione di contare per qualche cosa negli accadimenti.

Una lontana radice di questa mia contentezza pre-natalizia sta di certo nei bellissimi Natali della mia infanzia. Natali nordici con grandi abeti illuminati da vere candele e al di là delle finestre nere il silenzio della neve. La conferma dell’essere stati buoni, la certezza dell’amore dei genitori, anche se fuori, inevitabile malinconia, trema di freddo la piccola fiammiferaia.

Sapevo benissimo che essa abitava una fiaba e non si aggirava per le strade. Fin da piccola distinguevo la realtà dei libri dall’altra, quella della vita. Sapevo, insomma, che le fiabe si inventano. Ma “i poveri” non erano inventati, per me esistevano davvero e li personificavo negli ubriachi che si incontravano dappertutto e negli abitanti delle case di legno della periferia.

Oggi però rimane poco in me dei miei Natali nordici. Appena qualche accenno sommuove la memoria. Così m’intenerisce la vocina d’un nipote, quando, seppure con parole diverse, canta un vecchio canto dì Natale e mi aggrappo al1’idea d’una continuità più ricostruita tuttavia che realmente desiderata.

Non tengo a quasi più nulla, mi dico. Non m’importa di ricevere regali - m’importerebbe di più ricevere lettere - e se mi piace, appunto, ancora farli, la malinconia della piccola fiammiferaia accompagna, nota costante, il mio buon umore. Anzi, sempre di più, poiché ora che sono adulta e vecchia, so quanto sia difficile - quanto a farlo siamo impotenti - correggere le brutture del mondo. Non credo che Gesù sia nato a Natale anche se credo che sia nato. Ciononostante preparavo con cura, qui sì cercando ancora una continuità, la festa per i miei figli. Avevo loro raccontato che si celebrava a Natale la nascita di Gesù che era stato il bambino più buono di tutti. I miei figli, non battezzati, sono rimasti legati alla consuetudine familiare e la perpetuano a loro volta per i loro bambini.

In questo dicembre ho ricevuto, come sempre, gli auguri per un buon Natale e un sereno anno nuovo da una mia vecchia e cara amica dall’Unione Sovietica. Lei pure, come me, non è cristiana.

Che cosa celebriamo dunque. Cecilia ed io a Natale - e i miei figli con i loro bambini ed altri come loro - a questa festa che esclude tanti in così grande parte del mondo ed anche qui da noi, festa che si tramuta per molti in un affannoso correre da un negozio all’altro, in una cena in cui si mangia troppo, in un viaggio tra le miserie del terzo e del quarto mondo? E perché ho voluto tramandare a mia volta il rito del ritrovarsi insieme una volta all’anno in una buia sera di dicembre?

Qualche anno fa me ne stavo seduta in giugno, dopo cena, sul terrazzo e nella penombra ancora chiara del solstizio d’estate guardavo un libro di vecchie stampe di Torino sulle quali cercavo di ricostruire alcuni percorsi. Le finestre delle case intorno a me erano aperte e ne giungeva ogni tanto un gran vociare, un boato d’entusiasmo o di delusione. L’Italia stava infatti giocando una partita di calcio internazionale di cui ignoravo tutto. Eppure, quel vociare, quelle grida, quell’entusiasmo o quella delusione non mi disturbavano. Mi sembrava di partecipare, seduta col mio libro, in disparte, non direttamente interessata, a quell’esplosione di sentimenti che io stessa non provavo in prima persona. Attraverso la penombra chiara giungeva fino a me come una concordia, una gioia dell’essere insieme, in molti, durante un accadimento che tutti riguardava.

Ebbene questo senso di partecipazione a una festa che coinvolge tanti, c’è senza dubbio nella mia attesa d’un Natale che io non credo né di Gesù, né di Babbo Natale, oppure non soltanto loro. Ma non c’era forse anche per i pagani un volgere di anni e di stagioni, non avevano anche loro divinità alle quali innalzavano preghiere, aspettative e speranze? Non c’è irriverenza in me nel ricordare prima di Natale la gioia concorde d’un avvenimento sportivo.

Sta per accadere qualche cosa dalla quale non sono esclusa, seppure ne sono al margine. Nelle sere sempre più scure, che la festa a venire sia pagana o cristiana, essa si ripete ancora una volta anche per noi disperati come festa di speranza: che le sere ridivengano chiare, che ci sia pace per gli uomini di buona volontà. Ma soprattutto per quelli di cattiva volontà, che di buona non ne hanno neppure una briciola, poiché, purtroppo, la pace dipende in gran parte da loro.

E che qualcuno si ricordi della piccola fiammiferaia.

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28/06/01