“La donna valdese del Seicento: dalla
cronaca al racconto” |
Quando,
dieci anni fa, incominciai a documentarmi sul Seicento valdese per preparare un
romanzo storico che ebbe poi il titolo “Ascanio
e Margherita”, mi sembrò sulle prime di avere a disposizione ben poche
testimonianze. M’interessava, è vero, soprattutto ciò che riguardava chi meno
contava in quella che era già una storia di minoranza, le donne cioè.
Attraverso il Seicento, la peste del ‘30, lo sterminio del ‘55, la susseguente
guerriglia, la terribile guerra dell’86 che sembrò aver suggellato con la
sconfitta la cacciata definitiva dei valdesi, un seguito di tragedie aveva
disperso molto e non avanzavano che tracce casuali, involontarie, tenui. Eppure
a poco a poco, nel mio andirivieni tra il libro e il materiale documentario,
non solo la mia indagine si arricchiva, ma spesso mi accadeva d’incantarmi
proprio su questi scarsi dati, un atto notarile, un elenco di nomi, una
lettera, persino un banale libello polemico, e storie dopo storie spuntavano
inattese e spontanee e non aspettavano che di essere narrate. Lode dunque alla
cronaca occasionale, rozza, incompleta, che di rado guarda a ieri o a domani,
mai all’indomani, c’immerge in una contemporaneità preziosa per chi narra
perché ha la duplice funzione di sollecitare la nostra fantasia e di concederle
frattanto spazio per completare immaginando.
Racconterò dunque di Marie Albarea. È registrata tra i
rifugiati, accolti in Svizzera dopo la guerra dell’86. Sono circa 3.000, varie
le età, le provenienze, la data di arrivo, quella del ritorno. Donne, bambini,
uomini vecchi, superstiti d’un intero popolo. Marie ha 62 anni - una bella età
per una donna di allora - quando rientra nelle Valli nell’ottobre del ‘90. È
vedova, suo marito Davide, appena scampato alle prigioni di Saluzzo, è arrivato
salvo in Svizzera nell’87 soltanto per morirvi. La famiglia ha tentato di
acclimatarsi nel Brandeburgo, ma finito l’esilio rientra con Marie che porta
con sé il nipotino Daniele, figlio di Pierre rimasto col grado di capitano
nell’esercito brandeburghese. Con lui il fratello più giovane Paul. Insieme con
la madre invece le figlie Margherita e Maria, il figlio Davide con la moglie.
Questi aveva 24 anni quando nella prigione di Fossano si è fatto cattolico. Non
si è cattolizzato Paul che pure era in prigione con lui, né si sono
cattolizzati la zia e i cugini. È l’unico dei suoi. In una saga familiare
questo potrebbe essere il punto centrale, il figlio d’una madre indomita, il
quale, fosse anche per calcolo, stanchezza, malattia, cede. La sua abiura,
probabilmente è una finzione, come quella di altri. Non scopriamo forse con
qualche sorpresa accanto al nome di Laurent Buffa il termine “cattolizzato”?
Sarà uno dei capi dell’impresa armata che aprirà la via al ritorno degli esuli,
la Glorieuse Rentrée.
In un altro elenco, notarile questo, redatto nel 1697, per uso
ereditario relativo ai beni di abitanti della Val d’Angrogna, c’imbattiamo nel
nome di Anna Ponz “stata uccisa nell’hor scorsa guerra, catholizzata prima
dell’86, morta religionaria”. Qui la chiave del racconto sta nelle due ultime
parole. Questa donna ha abiurato insieme al marito prima della guerra dell’ 86,
non costretta dunque da terrore o necessità immediati, e proprio quando l’atto
compiuto avrebbe potuto salvarla, rispondendo a un richiamo irresistibile, in
punto di morte è voluta ritornare alla sua fede.
“La durezza del genio selvatico di questi ostinati” scriveva nel
1686 l’intendente ducale Marozzo. E in una delle minuziosissime missive che un
altro intendente inviava settimanalmente al duca sui più diversi argomenti,
dalla conta dei vitelli venduti dal macellaio di Luserna alla condotta sospetta
dei cattolizzati, troviamo la storia di Caterina Maurin del Villar,
cattolizzata appunto. La donna sputa durante la comunione l’ostia nel fazzoletto.
Rincorsa dal padre missionario mentre esce dalla chiesa e scoperta nel suo
misfatto, verrà condannata in un processo, impiccata, strangolata, bruciata, le
sue ceneri sparse al vento. Subito dopo, una processione solenne con torcia di
due libra.
La scarna cronaca di questo episodio si sostituisce
completamente al narratore nel rappresentare la ripugnanza di chi deve eseguire
i riti d’una religione sentita ostile al proprio corpo quanto un male oscuro.
Cornice necessaria al nostro racconto, tuttavia, l’ambiente in cui sono
cresciute Anna Ponz e Caterina Maurin, i costumi, i diritti delle donne valdesi
che condividevano con i loro uomini quella durezza del genio selvatico che
stupiva il Morozzo.
Di tali costumi e diritti si ritrovano non pochi cenni, naturalmente
involontari, negli atti del Sinodo delle Valli. Ne possediamo per intero i
verbali soltanto a partire dal 1692, quelli precedenti sono molto frammentari,
ricopiati nel secolo scorso dallo storico valdese Alexis Muston da un originale
oggi introvabile. Egli ne ha riepilogati gli argomenti a sua scelta,
riassumendo brevemente quelli secondo lui meno importanti - o più consueti? -
riferendo per intero altri. Non di rado il Sinodo si apre con una discussione
sui temi definiti appunto in modo conciso da Muston: “Adultères, fornications,
incestes” oppure “filles trompées, promesses de mariage rompues”. Quanti
romanzi, invero non sempre edificanti! Non tutte irreprensibili le fanciulle
valdesi. Anni dopo ne incontreremo una, Caterina Pellenc, che nel dicembre
dell’86 scapperà con il capitano Perret, e qui la perdita lamentata non sarà
tanto della virtù di lei quanto della cassa col denaro dei rifugiati che la
ragazzaccia si porterà dietro in disonesta dote.
Il Sinodo comunque dà poca importanza a temi per romanzi;
punisce con una riprovazione pubblica per tre domeniche di seguito i colpevoli
d’incesto - e che non si rivedano se non in presenza di testimoni - e si occupa
poi di pagare pensioni, controllare collette, assumere maestri di scuola,
sovvenzionare rifugiati.
Tuttavia, per fortuna del narratore, ci sono ogni tanto pastori
adulteri, di questo i verbali riferiscono più per esteso a maggior vergogna dei
colpevoli, perché la pena sia d’esempio. Ricostruiamo così storie di donne
servendoci, quasi fossero negativi da rovesciare, di vicende in cui il filo
conduttore riguarda un uomo.
Siamo nel 1614, il Sinodo delle Valli, la Compagnie cioè,
riunito al Ciabas, depone dal ministero il pastore Pierre Geymet, lo sospende
dai sacramenti fino a un prossimo Sinodo in cui sarà ancora ammonito davanti al
popolo. Ha sedotto una giovane cugina a lui affidata dai fratelli partiti per
la guerra. La moglie tradita non chiede la separazione, come avrebbe senz’altro
potuto poiché alla stessa data la Compagnie ne sancisce una tra due coniugi di
Paesana. Ama il marito? Lo perdona? E della giovane cugina che ne sarà stato?
Proviamo a raccontarlo.
Chiede invece il divorzio la moglie del pastore Chanforan.
Brontola indignato il priore Marco Aurelio Rorengo: “Sin all’hora non s’era mai
concesso alle donne di mutar marito”. La separazione viene invece accordata a
madonna Anna tanto più volentieri in quanto alla Compagnie il pastore Chanforan
è proprio sgradito, vanitoso, licenzioso e autore di prediche assurde. Ben gli
sta se la moglie, figlia del notaio Bastia, si porta via la dote per un secondo
matrimonio. Piace, del resto, a madonna Anna mutar marito, si sposerà una terza
volta, seppure non in seguito a un divorzio.
Già nel 1622 la donna nelle Valli poteva chiedere giustizia e ottenerla.
Per una calunnia nei suoi confronti, per il mantenimento d’un figlio
illegittimo e che il padre naturale non possa contrarre matrimonio sino a che a
tale mantenimento non abbia provveduto.
Pur confinata nel suo mondo femminile da cui qualcuna usciva,
diciamo purtroppo, in tempo di guerra per buttare sassi sugli assalitori e
porgere l’arma all’uomo, la donna valdese doveva avere coscienza d’un
privilegio che le concedeva una parità eccezionale per l’epoca, con il marito e
persino con l’amante. Parità derivata da un’istruzione religiosa di base
comune, che all’occorrenza poteva persino opporla agli uomini della sua
famiglia.
Dal registro delle abiure di Mentoulles, un’annotazione del
1723. È il 25 aprile, David Martin con il figlio Jacques diciottenne “abiurano
di loro volontà e spontaneamente dalla religione pretesa riformata… insieme a
Esther Clapier, moglie di David, e Marie, figlia del medesimo, per le quali
egli promette e si obbliga di far fare la stessa abiura”. Di “far fare” recita
il testo. Né la moglie né la figlia di Martin hanno dunque ancora abiurato. E
nello stesso modo Anne Bertalot, la fidanzata del giovane Jacques, abiurerà
soltanto per sposarsi; fino ai suoi 18 anni è vissuta negli “abusi” della
religione dei suoi avi. Qui immaginiamo di nuovo una saga familiare ricca di
aspri contrasti, in cui, a sorpresa, sono le donne ad affermare e gli uomini a
cedere.
Descrivendo nel mio romanzo l’infanzia della piccola Margherita,
ho cercato, tra l’altro, le prove che anche alle bambine veniva insegnato a
leggere. La cronaca, naturalmente, non solo offre spunti per ricreare storie ma
diventa un indispensabile e utile strumento di controllo su ciò che inventiamo.
Vi pone dei limiti, ne corregge i particolari. Nel 1565 Villar e Bobbio cercano
“uno bono maestro di schola e se possibile che avesse ragione di canto e
principalmente che habia la lingua italiana o piemontese”. Ma chi sono
esattamente “les enfants” che altri documenti nominano a proposito delle
scuole? In un verbale di Sinodo dei primi del Settecento si esortano i
partecipanti al culto a cantare i salmi, visto che “les peuples” sanno leggere.
Ci pare difficile che con questa denominazione si intendessero soltanto gli
uomini, più atti, tra l’altro, alle armi che ai libri. E perché non raffigurare
proprio una donna che alla fine della giornata legge un testo biblico alla
famiglia?
Nell’agosto del 1612 ecco una nota di biasimo del Sinodo del
Delfìnato al sieur Michel Belot che fa istruire le figlie “en la papauté”. Che
le ritiri subito, la chiesa d’Embrun ha una scuola propria. Ma nell’aprile del
‘13 non l’ha ancora fatto. Non era facile del resto togliere un figlio alle
grinfie della “papauté”. In un verbale del 1619, sempre del Sinodo del
Delfìnato, leggiamo di un povero padre malmenato e picchiato per aver voluto
portar via il figliolo quattordicenne ai gesuiti dai quali si era lasciato
“débaucher”. Dove per “débaucher” si intende un peccato religioso, non di
sesso.
Da parte della “papauté” si era ben coscienti che le donne, per
umili e illetterate che fossero, potevano trasmettere quanto gli uomini i germi
dell’infezione ereticale. Un ordine del duca del 1687 ingiunge infatti di
allontanare dalle Valli le serventi cattolizzate dopo il primo gennaio 1686,
sotto la pressione cioè, dell’editto ducale. Tutt’al più potrà rimanere colei
che un onesto matrimonio cattolico con dote dalle 30 alle 50 lire, monderà
della malizia avita.
Lasciamo infine alla cronaca il racconto, questa volta a lieto
fine, di una storia d’amore. Nel 1607 il nobile signore Valerio Solaro fa
istanza al Sinodo per sposare Anne Guigou di St. Martin. La famiglia di lui,
protestante, è rifugiata nelle Valli dal Saluzzese, ma le barriere di classe
sono rigide, il Sinodo gli fa presente gli inconvenienti di tale matrimonio,
lui essendo gentiluomo e lei “rurale”. Ma lui insiste. Accordato.
In tempo di pace ci si può rallegrare di un matrimonio d’amore,
ci si può permettere di sorridere un poco. Sorridono i signori del Sinodo nel
1707 redarguendo Anne Pasquet per una condotta un po’ leggera durante il
fidanzamento, sorridono mandando il sieur Malanot con due anziani a controllare
se le accuse del capitano Paul Aguit contro la moglie siano esatte. Non si
rifiutano di decidere su una spinosa questione matrimoniale tra Camille Vertu e
il marito Jean André Marguer. Quello stesso che a dieci anni era fuggito con
due coetanei dalle mani papiste per raggiungere lungo la strada del ritorno i
commissari svizzeri. Camille si rifiuta a “la copulation” nonostante che
dall’esame di due donne degne di fede risulti che non soffre di alcun difetto
fisico. La Compagnie separa i due coniugi di corpi e di beni, “a tempo”, però.
I due non potranno considerarsi interamente liberi. Magari, sorridono sotto i
baffi i signori del Sinodo, col passare dei mesi la ritrosa Camille cambierà
idea. L’abbiamo già trovata, sola, senza alcun parente, nell’elenco dei
rifugiati in Svizzera e chissà se dietro il suo ostinato rifiuto non ci sia
qualche terribile esperienza della guerra appena trascorsa.
Durante la guerra invece delle donne si tace, esse non sono che
“bocche inutili”. Tutt’al più le risparmieranno, se correligionarie
cattolizzate, le bande del Glorioso Rimpatrio, incontrandole su per la valle in
compagnia di donne cattoliche. Le quali saranno uccise. Né sappiamo che altro
possa essere accaduto a quelle prese un giorno dal gruppo di Huc. “Nous prîmes des femmes” scrive a un
certo punto delle sue memorie e continua a “marcher” senza aggiungere neppure
il consueto “nous tuâmes”.
Noi uccidemmo, il verbo più usato.
E Arnaud tace della donna presa e sgozzata dai francesi alla
Balsiglia, tace delle tre donne che seguirono i combattenti su per le rocce
nella famosa fuga. Ne siamo informati da una differente fonte cattolica e da un
distratto cenno di Arnaud a una di esse nel seguito del suo libro. La donna
uccisa dai francesi sarà forse l’infermiera cattolica che ha seguito il suo
uomo dalla Savoia fino al durissimo assedio e che si farà valdese? Daremo un
titolo al racconto: “Le donne della Balsiglia”.
Si tace delle vecchie uccise dai “barbetti” in Francia, a
Valserre, nel 1693. Cattoliche, è vero, Jamoune Hermitte, Louise Ebrard,
Claudonne Roche, ma vecchie, proprio come erano vecchie le valdesi uccise nella
sanguinosa Pasqua del 1655 di cui ci dà i nomi il Morland. La guerra pareggia i
destini delle donne. I tempi sono così terribili che anche i feriti si
abbandonano con un tozzo di pane dietro a una roccia. Il silenzio testimonia
qui più d’ogni parola.
Pochi i gesti gentili consegnati dalle cronache dell’epoca di
guerra. Il capitano Salvagiot che alla moglie morta di parto nella cittadella
di Torino mette un lenzuolo di lino ben bianco e fa accomodare la testa nella
bara. Il saluto che Daniele Peyrot, pieno di nostalgia, manda dal Brandeburgo
alla moglie in Svizzera: “Je me languis de ne savoir de vos nouvelles comme
aussi de mon frère Michel et de ma soeur Marie, sorcière”, e non sappiamo se
quest’ultimo è un nomignolo o un mestiere.
Con quanto ordine e affetto il notaio cattolico che ha adottato
Caterina Leydet elenca il corredo che le ha dato nel “fardello”: “Due vestiti,
una camisetta nova di panno, diverse camissie, boneti, coffie e fazoleti”!
Ma per finire raccontiamo delle bimbe
Cleophé e Salomé fra centinaia di Margherite, Maddalene, Susanne e Marie e
persino Camille e Lucrezie, solo tre o quattro fanciulle con un nome diverso,
tutte bimbe nate nell’esilio svizzero. Salomé, nome biblico, anche se non
raccomandabile, è nata a Berna nel marzo dell’88. Prima di lei, a pochi mesi di
distanza, sono morti una sorellina e un fratellino. Cleophé è figlia unica d’un
padre già quarantenne e di una madre che ha trentun’anni. A differenza di
Salomé non potrà ritornare in patria, morrà poco dopo il battesimo. Salomé, invece,
portando il proprio nome, nuovo nuovo, tenero dono dei suoi, ritornerà con loro
nelle Valli.
Le fonti documentarie dei fatti
descritti nella presente relazione sono le seguenti:
·
le memorie dei partecipanti al Glorioso Rimpatrio, pubblicate in
vari numeri del “Bulletin de la Société d’ Histoire Vaudoise” (in seguito BSHV)
e del “Bollettino della Società di Studi Valdesi” (in seguito BSSV)
·
gli atti del Sinodo delle Valli: G. JALLA, Synodes Vaudois de
la Réformation a l’Exil, BSHV, XX, 1903, pp. 93-133; XXI, 1904, pp. 62-86;
XXII, 1905, pp. 28-50; XXIII, 1906, pp. 56-103; XXV, 1908, pp. 19-37; XXVI,
1909, pp.49-86; XXVII, 1910, pp. 20-44; XXVIII, 1911, pp.50-113
·
T. PONS (a cura di), Actes des synodes des Eglises
Evangeliques, 1692-1854, Torre Pellice, Società di Studi Valdesi, 1948
·
le liste dei morti nelle prigioni piemontesi, pubblicate in
BSSV, LVI, 1939
·
il registro delle abiure di Mentoulles, pubblicato in BSHV, XXI,
1904.
Si vedano anche:
·
A. PASCAL, L’espatrio dei valdesi in terra svizzera,
Zurigo, Verlag Leeman, 1952
·
A. ARMAND HUGON e E. A. RIVOIRE, Gli esiliati valdesi in
Svizzera e Germania (1686-1690), Torre Pellice, Società di Studi Valdesi,
1974
·
A. PASCAL, Le Valli valdesi durante l’esilio dei valdesi
(1687-1689), Torre Pellice, Società di Studi Valdesi, 1965
·
A. PASCAL, Le Valli durante la prigionia dei valdesi (1686),
Torre Pellice, Società di Studi Valdesi, 1966
·
A. PASCAL, Le Valli valdesi negli anni del martirio e della
gloria (1686-1690), 5 voll., Torre Pellice, Società di Studi Valdesi,
1937-1968
· F. HUC, Relation en abrégé de ce qui s’est passé de
plus remarquable dans le Retour des Vaudois au Piemont, BSSV, LVI, 1939
·
H. ARNAUD, Histoire
de la Glorieuse Rentrée des Vaudois dans leurs vallés. Pinerolo,
1879 (I edizione 1710)
· V. MINUTOLI, Histoire du Retour des Vaudois en leur
patrie après un exil de trois ans et demi, BSHV, XXIX, 1913 (trad. it.:
Torino, Claudiana, 1998)
· S. MORLAND, The History of the Evangelical Churches
of the Valleys of Piedmont, Londra, 1658.
SITE MAP . |
03/01/01