MARINA JARRE

“Quale patria, per chi non ne ha nessuna o ne ha piu’ di una?”

 

Ho un po’ esitato prima di decidermi a parlare qui. In primo luogo non sono abituata a parlare in pubblico, ma soprattutto l’argomento del nostro incontro suscitava in me reazioni contrastanti perché mi richiamava immediatamente alla mia storia personale; però proprio questa mi aveva portato al di là, oppure fermata al di qua, della problematica in questione.

D’altronde mi rendevo ben conto che, se questo tema del riconoscersi o, al contrario, del non riconoscersi in una nazionalità, nelle caratteristiche di una regione o di una città, mi aveva sempre riguardato in modo incompleto, non compiuto (e ciò per forza di cose e non per scelta), esso mi aveva sfiorato ripetutamente e con una certa insistenza.

A prima vista, non lo ritrovavo nei romanzi che avevo scritto: i personaggi non mi rispecchiavano affatto né nel carattere né nelle vicende, ma in quasi tutti i miei libri era presente la città in cui vivo, Torino. Ciò può parere ovvio. Tuttavia dietro quest’ovvietà mi sembra ci sia un motivo più segreto e continuo: Torino è descritta ora a distanza, ora soltanto accennata, ora sentita da dentro, ma tra la città e chi ci vive e la osserva trapela una voce fuori campo che commenta e si rivela.

Potrebbe dunque rientrare nella nostra ricerca risalire ai punti significativi del mio itinerario che abbiano attinenza col tema proposto e rintracciarne l’eco in questa voce indiretta.

Dovrò distinguere, tuttavia, una trama dal suo rovescio, individuare una figura dal negativo. Suggerire spunti più che affermare.

Sono scrittrice italiana ma sono nata in Lettonia e vi ho passato l’infanzia. La Lettonia era allora una repubblica baltica indipendente. Mio padre era un ebreo lettone, mia madre era italiana. La lingua della mia infanzia fu il tedesco.

Nella mia città natale, Riga, convivevano etnie, lingue, religioni differenti: luterani, ebrei, ortodossi cattolici.

Si parlava lettone, tedesco russo, polacco svedese.

Una volta all’anno, in novembre, si mettevano lumini accesi tra le doppie finestre e la città così illuminata celebrava l’anniversario dell’indipendenza lettone. Mia sorella ed io eravamo iscritte sul passaporto lettone di nostra madre. Il passaporto aveva un’importanza oscura e temibile, guai a perderlo, si finiva in prigione. Più che rassicurare, emanava ostilità. Mio padre, che era di madre russa, leggeva al mattino i suoi giornali russi e appena poteva parlava male di Ulmanis, un signore molto grasso che era il presidente della Lettonia. Ulmanis, diceva mio padre, era un porco.

Mi piaceva cantare per conto mio l’inno della Lettonia; ho sempre avuto un debole per gli inni nazionali, qualunque essi siano; credo che questa passione indifferenziata sia l’unico mio vero e proprio trasalimento nazionalistico; oltre alla prima strofa dell’inno, pronunciavo poche parole di lettone.

Ricordo i racconti - che capivo solo a tratti - delle contadine lettoni mentre stiravano, ancora con i grossi ferri da stiro a brace, nella grande stanza di servizio di una fattoria tedesca: raccontavano di bambini sostituiti nella culla, di incontri con esseri mostruosi sui sentieri gelati nella luce della luna; ricordo anche il lungo corteo di fiaccole scomparire nella foresta la notte di San Giovanni e la sensazione di essere circondata da riti e costumi estranei.

La mia certezza, quella che rendeva familiari e completamente comprensibili i discorsi che sentivo, gli inni luterani che cantavo, i libri che leggevo, era la mia lingua tedesca. A lei, mi riconduce il mio primo consapevole sentimento d’appartenenza.

Ritrovo in uno dei miei racconti per bambini una frase che voglio citare qui: “È grande sventura per un uomo dover dire la parola «pane» e la parola «madre» e la parola «morte» in una lingua che non ha parlato da bambino, a della gente che non lo chiama per nome, Beppe, Gigi, Gianni, ma soltanto «straniero»”.

Quando avevo dieci anni i miei genitori divorziarono e fui trasferita, insieme a mia sorella, in casa della mia nonna materna, in Italia.

Non ritornai mai in Lettonia, dove mio padre e tutta la mia famiglia paterna perirono nelle stragi di Riga del novembre ’41.

Arrivando in casa della nonna non giunsi propriamente in Italia: mia madre, italiana e fierissima di esserlo - insegnava italiano all’Università di Riga - apparteneva per origine (se non più per credenza) a un piccolo gruppo di protestanti italiani, i Valdesi. Nelle valli valdesi del Piemonte si parlava francese.

La nonna, figlia di un’ugonotta di Provenza e di un valdese, era una donna terribile, spiritosissima, temuta per le sue battute e ancor più per i suoi giudizi; mi toccò perciò imparare il francese per difendermi, o più esattamente per litigare, e litigare anche con grande rapidità.

L’italiano, che nostra madre non aveva mai voluto insegnarci (forse per evitarci ulteriori confusioni linguistiche) lo imparai poi per la scuola, e in italiano incominciai a scrivere componimenti.

L’italiano ci collegava con il resto del paese che era allora l’Italia fascista. Da noi ci si adeguava alle usanze esteriori del regime, ma il punto di riferimento rimaneva senz’altro quello religioso - calvinista montanaro - e quello storico valdese.

Durante la mia adolescenza scoprii così di avere degli antenati. I padri ci guardavano e controllavano dalle montagne. Avevano lottato con l’archibugio e con i giusti ragionamenti per la loro fede; delle loro vittorie e combattute sconfitte si parlava ancora come di realtà presenti. Io non avrei lottato con l’archibugio per checchessia, però camminavo con gli scarponi per quelle stesse mulattiere dove avevano camminato loro. Ero molto curiosa di qualsiasi particolare li riguardasse, e soprattutto avrei voluto raccontarli, renderli credibili, un po’ meno virtuosi. Erano miei solo in parte - ciò mi dava un certo distacco – inoltre le controversie teologiche mi erano indifferenti; mi identificavo in loro quasi esclusivamente sulla pagina scritta o letta. Infine, la mia duplice ascendenza minoritaria mi ha lasciato un penchant fatale per le cause perse.

 A vivere in Italia - a pochi chilometri di distanza - giunsi da adulta, quando mi sposai a Torino dove sono poi vissuta ininterrottamente, ho lavorato, ho avuto quattro figli. Per la seconda volta, un taglio in un radicamento già parziale, taglio che a poco a poco si rivelò molto netto, mi separò dalla mia vita precedente, ne fece una realtà interiore, le diede un volto simbolico.

Mi condizionò forse in modo definitivo: ogni qualvolta rappresento scrivendo questa città, in cui pure sono vissuta così a lungo, sono di nuovo tentata di darle un volto simbolico, di farne una realtà anche interiore, di toglierle o di attribuirle qualcosa di mio.

Gli adolescenti dei miei libri - incomincio parlando di loro e non rispetto così l’ordine cronologico dei miei romanzi, ma quello ideale del problema - vivono immersi nella città come nel loro ambiente naturale, è lei che appartiene a loro, e non il viceversa. La ragazza Maria Cristina cerca la sua identità nella sua vocazione d’artista, il Paolo undicenne di un altro libro comprende finalmente di essere se stesso quando ha per la prima volta un’idea sua, non suggerita dal suo gruppo, non sostenuta dai fratelli maggiori.

Torino è accennata nel vento di marzo per i grandi corsi, nell’esultanza di piazza Arbarello dopo la vittoria del “no” nel referendum sul divorzio, nelle strade di periferia al crepuscolo grigio azzurro delle luci più rade, ma non è mai vista col distacco di chi vuole o deve andarsene o ritornarvi; i miei adolescenti non hanno patria; lingua, costume, luogo natio, sono sostrato sottinteso che diventa “patria” soltanto quando gli adulti, per scopi loro, v’innestano sentimenti o risentimenti d’appartenenza collettiva.

Identificarsi in una nazionalità, nei connotati di una regione, di una città, per volontà di rivincita, per nostalgia, per solidarietà, è dunque acquisizione dell’età matura, che ne è consapevole.

Nel mio primo romanzo “Un leggero accento straniero” Torino si presenta con dovizia di immagini, in tutti i suoi quartieri e in ogni stagione, al nazista Klaus che vi si è rifugiato. Essa è la patria che ti rende uguale agli altri e perciò ti nasconde. Ma per il Carlin, di nobile e antica famiglia torinese, è già ben diversa: “Torino è una città che ti lascia ai tuoi pensieri, non ti costringe continuamente a uscire da te stesso, non ti pretende, ma tu capisci che la puoi scoprire volendo; ti fa vivere in un certo modo senza che tu te ne accorga.

Patria singolare quella che non ti costringe e non ti pretende, poiché la patria ci determina in modo ben preciso e a lei cedi una parte di te.

Il medico Carlo, protagonista di “Viaggio a Ninive”, non si è mai chiesto che cosa gli piacesse o non gli piacesse della sua città natia, essa è stata al suo principio, ma sarà anche alla sua fine: “Ecco la mia città, ecco il mio lavoro, ecco la mia morte”.

Essa è la madre che ha dato la vita, ma anche quella in cui ti dovrai dissolvere. La sua Torino è prevalentemente una città notturna, dove una donna sogna sola nel suo letto sogni irrealizzabili, un ragazzo corre in moto gridando stracci di slogan nell’aria che gli viene incontro, una vecchia pazza si lamenta ad alta voce per le strade. Tutti sono soli, murati nel loro destino.

L’atto deliberato con cui il medico Carlo si identifica in questa sua città è un atto di rinuncia a sé e insieme agli altri.

Torino degli adulti, dunque, patria impossibile eppure necessaria, tra accettazione e rifiuto, tra la tentazione dei sentimenti e la ragionevolezza, sul confine tra paese natio e terra di nessuno. Torino come frontiera, luogo precario ma ineluttabile.

E concludo queste riflessioni con due pagine di una mia autobiografia, terminata da poco:

“Vi sono giorni in cui il cielo sopra Torino è immenso. Giorni di afa estiva quando il calore copre l’orizzonte sin dal mattino, copre da una parte le colline e dall’altra le montagne. All’alba gli alberi frusciano in vaste onde frondose con un movimento lento e continuo che si propaga per tutta la città. Il cielo sovrasta in un grigio giallino, opaco, uniforme, senza una nuvola e non si muove. Sotto questo cielo volano e trillano le rondini. Poco dopo, verso le otto, gli alberi ondulando sempre più lentamente si rinchiudono intorno ai trilli finché il loro movimento sosta, il cielo si fa d’un giallo violento e il rumore delle macchine riempie le strade.

Mi capita di udire Gianni e qualcuno dei suoi amici parlare di Torino com’era al tempo della loro infanzia e adolescenza, quando andavano a pattinare all’«Italia»; qui c’era la passerella sulla ferrovia, là si camminava per via Roma ancora storta sulle sue vecchie botteghe. Torino terminava al Mauriziano, poi c’erano i prati.

Parlando di questa Torino, Gianni e i suoi amici non sono affatto tristi, non rimpiangono nulla. Ho sentito Gianni rimpiangere soltanto le rotaie del tram n. 8 che qualche anno fa furono divelte: «Vedranno - diceva (vendicativo) - quando non ci sarà più benzina!». Un’altra volta, camminando per il Valentino, rimpianse anche la gigantesca araucaria dell’orto botanico, il cui tronco tagliato, enorme rudere grigio, sporge dalla cinta.

[…] Non rimpiange la Torino di una volta, mi dico, perché non l’ha persa. Non ha perso la sua infanzia.

[…] Il rimpianto che non sembrano provare Gianni e i suoi amici, si nutre appunto di quello che non so, che non ho visto, degli odori che non ho sentito, dell’esistenza di quell’altra che non sono stata.

[…] Ho passato un’estate a Torino con un libro di botanica. Alle cinque del pomeriggio uscivo e andavo lungo la recinzione dei giardini del centro e della Crocetta, camminavo nei giardini pubblici e intanto riconoscevo gli alberi confrontandoli con le indicazioni e le illustrazioni del libro.

Il vento estivo sollevava cartacce polverose verso la cupola spessa degli ippocastani. Nel giardino accanto fioriva una sofora, nei giardinetti di via Bertolotti sfiorivano invece le acacie di Costantinopoli. Nei giardini Lamarmora le foglie degli alberi di Giuda, in certi tramonti bluastri per quei temporali che d’estate girano continuamente intorno alla città come paratie nere che si aprono e si chiudono ora a nord ora a sud, le foglie degli alberi di Giuda, dicevo, erano d’un verde chiaro, intenso, illuminato d’azzurro.

Guardandomi intorno - sarà una pterocaria o un ailante? - provavo soprassalti di solidarietà non ben specificata, né indirizzata, comunque rivolti a chi, come me, se ne andava per le strade di Torino, l’estate.

Mentre camminavo per i luoghi, strada dopo strada, sui marciapiedi sporchi di polvere, carte, gelati squagliati, preservativi, siringhe, escrementi di cane, la strada finiva col diventare il luogo, l’unico possibile, indistinguibile dagli altri luoghi, e la gente ed io con loro sul marciapiede, indistinguibili tra di noi.

Spuntavano nuovi casoni su nuovi corsi fangosi e interminabilmente nudi, fragili dapprima nella loro solitudine distanziata, poi riordinati tra cerchi terrosi con magri alberelli – bagolari? - oppure d’improvviso file diritte di aceri solcavano il grande parcheggio tra il San Giovanni Vecchio e il palazzo della Borsa: cambiamenti aleatori, suscettibili di ulteriori, avventurose trasformazioni, per mano invisibile, in una sola notte. Opinabili le cabine telefoniche, copia esatta delle macchine di trasmigrazione temporale o spaziale dei film fantascientifici, ovvie appunto come cabine telefoniche, a testimoniare anche loro la necessità quotidiana, la naturalezza di simili trasmigrazioni.

Questo è il luogo senza nome, uguale ad altri luoghi e il mio tempo, uguale al tempo degli altri. Non fuggirò più.”

 

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03/01/01