MARINA JARRE “Un passo
dopo l’altro, cosi’ ho scoperto la vita” |
Devo avere incominciato
a camminare o per disperazione o per sfiducia. Da bambina mi piaceva star ferma.
Stavo volentieri immobile pensando e ciò che pensavo diveniva il mio movimento.
Ho camminato dunque perché non ho potuto farne a meno, probabilmente, perché
non mi fidavo dei mezzi di trasporto.
Tutti - o quasi tutti -
quelli che gli adulti mi proponevano erano, infatti, soggetti a inevitabili e
continui incidenti: dal cavallo si poteva cadere, dalla bicicletta pure; la
slitta si rovesciava, il treno sarebbe deragliato - i treni deragliavano
regolarmente - sull’automobile soffrivo il mal d’auto. Neppure i pattini erano
sicuri perché si ostinavano a non stare diritti sotto i miei piedi.
Ricordo che mi piaceva
andare in barca. C’era in quel lentissimo scivolare sul lago tra i canneti che
si piegavano al nostro passaggio in un fruscio sempre uguale, come una
suggestione d’immobilità. Da nessun luogo a nessun luogo.
A poco a poco andare a
piedi è così diventato il mezzo preferito per spostarsi.
Da adulta ho camminato
nelle più diverse occasioni.
Una volta ho camminato
da Nichelino a Torino. La stazione di Porta Nuova era stata bombardata. Dovevo
- per modo di dire - arrivare all’università - non si sapeva mai se ci sarebbe
stata lezione o meno - ma in realtà avevo camminato perché gli altri, scesi dal
treno, avevano incominciato ad avviarsi a piedi verso la città. E io con loro.
Ho camminato poi con i
miei bambini. Era un camminare igienico e coatto; dovevo portarli a passeggio.
Così facevano tutte le mamme e io mi adeguavo poiché volevo essere una mamma
come tutte le altre. Ho camminato in montagna su pietraie. Ho camminato in
collina con amici chiacchierando.
Adesso da vecchia
cammino da sola non più verso cime o altipiani, ma per sentieri tra i boschi. E
cammino per la città.
Cammino per scelta.
Potrei stare ferma finalmente con i miei pensieri, libera dai tempi necessari,
dal dovere di un orario. Ma ormai mi piace camminare, non posso addirittura
farne a meno. Mi sono abituata a pensare camminando. Anzi, via via che vado, i
miei pensieri si coordinano meglio, diventano meno confusi, si chiariscono in alcuni
punti fondamentali, quasi provocano l’immaginazione.
Ben diverso camminare
per sentieri e andare per la città. Quando si cammina per sentieri uno si apre
a quel che lo circonda. Agli odori, ai rumori del vento negli alberi e nell’erba,
a un lontano tuono, al richiamo degli uccelli. Tanto che tu stesso diventi quel
che c’è intorno a te.
In città la prima
reazione di chi vi cammina è quella di proteggersi da qualche cosa che ti
aggredisce. Dal rumore, dalla folla, dagli odori.
Elementari e conosciute
da tutti le banali norme di sopravvivenza: non uscire con orologio e borsa, non
attraversare mai sulle strisce; le automobili con targa TO ti travolgono senza
scampo. Puoi azzardarti al passo se intravedi una targa diversa.
Guardare sempre dove
metti i piedi. Non fermarti davanti alle vetrine, suscitano inevitabilmente
sensi di colpa e oscuri presentimenti di future punizioni celesti. Non
rallegrarsi per i fiori che salgono sui lampioni, proprio a due passi la
recinzione d’una scuola è ornata di preservativi (usati).
Bisogna poi camminare
coll’unico fine di muovere il passo, liberi dall’ansia d’una meta, non per
spostarsi ma per astrarsi. Diventare ciechi, muti e sordi.
Il rumore non lo assimili
e non lo combatti. Devi lasciare che ti penetri. Buttarsi dentro come ci si
tuffa nell’acqua fredda.
Non cercare mai di
distinguere un rumore dall’altro perché allora esso ti possiede immediatamente
e non lo scacci più. Deve invece diventare una massa compatta, un boato
indistinto, una presenza che occupa ogni dove, non familiare ma necessaria. E
così la folla in cui non isolare mai un viso e una voce.
Ma che fare per gli
odori? Io non ho un naso umano, ho un naso d’animale. Qualsiasi odore mi raggiunge.
Quando erano piccoli i miei figli erano persuasi che io sentissi l’odore della
bugia dietro le loro orecchie. Non mi resta dunque che la rassegnazione. D’estate
cerco di captare in mezzo agli odori cittadini quelli simpatici che per un po’
mi accompagnino: passare davanti a un caffè o una panetteria. Odori che chiamo “italiani”.
Sono tuttavia appunto
effluvi estivi. D’inverno non odorano neppure più i banchi della frutta e della
verdura e il mio naso tristemente si adegua a quel nebbioso e spesso fetore che
tutta la città emana.
Unico, vero momento di rivalsa per il
pedone in città non resta che l’ingorgo stradale. Si passa a piedi, a testa
alta, tra le macchine ferme e ruggenti, i clacson, i vigili che si sbracciano,
si giunge dall’altra parte, indenni, tranquilli, finalmente padroni dello
spazio.
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03/01/01