MARINA JARRE

“Torino, 13/9/1686”

(inizio del secondo capitolo “ Il sogno di padre Valfre’ ”)

 

In quel venerdì, tredici settembre dell’anno del Signore 1686, il sole si alzò sopra Torino in un cielo sereno dopo alcuni giorni di pioggia e i suoi primi raggi illuminarono e fecero rifulgere la croce in cima alla torre del municipio - Magnificat anima mea dominum - e via via le altre croci delle altre chiese.

Subito dopo la solenne celebrazione della Natività della Vergine che quell’anno era caduta la domenica, era incominciata a scendere la pioggia a lungo aspettata, né troppo copiosa né troppo misera, ma in quella giusta misura che consentisse alle uve nelle vigne della collina di giungere a perfetta maturazione alla fine del mese.

Nel corso dell’estate si era temuta una siccità come quella dell’anno precedente. Nonostante la primavera in cui le piogge erano scrosciate torrentizie sino alla metà di maggio (il rivo che scorreva nella viuzza accanto alla costruzione del nuovo palazzo dei Principi di Carignano aveva addirittura minacciato d’invaderne le cantine e il pianterreno e si era dovuto correre ai ripari con argini di fortuna), l’estate era stata asciutta e i molini della Dora si erano fermati quasi una settimana. La notte, i molinari dei mulini natanti sul Po, i pescatori e i barcaroli del borgo udivano piombare nell’acqua i tonfi cupi dei ratti la cui prole, spazzata via con i nidi in primavera, aveva avuto tempo di rinvigorirsi nel corso della stagione estiva. A sera fonda neppure i gatti osavano uscire a cercare la preda e soltanto al mattino si avventuravano a caccia.

Si erano dunque iniziate le novene nella cappella di San Secondo e, visto sulle prime lo scarso risultato - si dovette attendere infatti la Natività della Vergine perché la pioggia ritornasse sulla città - di alcuni sporadici temporali che mitigarono un poco l’afa di agosto, qualcuno incominciò persino a mormorare che fosse tempo di fare finalmente una processione con la statua d’argento del Santo che custodiva le sacre ceneri. Ma poiché la città si acconciava malvolentieri alle innovazioni - quando non fossero comandate, ché allora ostentava sulle prime obbedienza - non se n’era fatto nulla. Mai, infatti, sinora, s’era mossa la statua dalla sua cappella.

Nella notte tra la domenica e il lunedì era incominciato a piovere e nella pioggia, a mezzanotte, era giunto il corriere con la notizia della presa di Buda al 2 di settembre. L’indomani fu celebrato perciò in duomo un «Te deum» che molti credettero ringraziamento per la pioggia.

Padre Sebastiano Valfré si era alzato prima che il sole toccasse la croce in cima alla torre del Comune. Le ore di sonno erano state poche e tormentate. Aveva vegliato a lungo e pregato; doveva l’indomani incontrare il giovane duca e fargli certe richieste, alcune su incarico dell’arcivescovo Beggiamo, ma qualcuna anche sua. Come sempre, quando doveva incontrare il giovane duca, egli pregava e ascoltava dentro di sé; ascoltava le proprie richieste, le risposte del sovrano - spesso ne prevedeva il tenore - e poi la propria mediata replica. Mediata appunto in quel tormento che era il triplice ascolto del comando divino, della sua invincibile sagacia - sagacia che gli svelava intenti e cuori degli uomini - e l’apparenza delle ragioni dei suoi interlocutori. Apparenza alla quale pur si sentiva obbligato di cedere un poco. Ma più di tutto gli era di peso la sua sagacia che tentava insieme la modestia e la pietà e minacciava di porlo al di sopra di chi domandava o veniva richiesto.

 

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03/01/01