“La principessa della luna vecchia” – Einaudi, 1977

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il terreno preferito dell’osservazione di Marina Jarre, qui al suo quarto romanzo, è la realtà di questi anni, le grandi e piccole trasformazioni della mentalità e del costume, il rapporto padri e figli, i nuovi assetti familiari: insomma quell’impercettibile quotidiano che alimenta rivolgimenti anche profondi.

Siamo a Torino, nei mesi che precedono il referendum sul divorzio. Chi racconta è un ragazzino di undici anni, Paolo, un “giovane Holden” degli anni settanta che aspetta ansiosamente di crescere, e intanto parla il gergo politico dei fratelli maggiori e dei loro amici, azzarda qualche parolaccia, fa suoi slogan e battute colte al volo, ma conserva intatto un gusto di candido e quindi feroce cronista. Lungi dal farsi travolgere dal mondo dei grandi, spesso assurdo, Paolo riesce a coglierne gli aspetti comici, grotteschi e patetici in virtù della sua serafica disponibilità: come il bambino della fiaba di Andersen, ha l’allegro coraggio di gridare che il re è nudo.

Gli altri personaggi di questo teatrino domestico sono tutti assorti a recitare la loro parte: la madre, separata dal marito, femminista e impegnata; il fratello Massimo detto Mask, anarcoide generoso e confusionario; l’altro fratello Emilio, che fa il “cristiano di sinistra” con molto sussiego e ha una ragazza graziosa e ochetta, Paola, che è appunto la “principessa della luna vecchia” del titolo; la maestra di Paolo, con il suo zelo pedagogico; il compagno di scuola Salvatore, figlio di immigrati e votato alla carriera di ladro d’auto. E su tutti il padre fantasma, presenza lontana e distratta.

Marina Jarre “disegna” come sempre con annotazioni rapide e gustose: in questo suo umanissimo ritratto di gruppo saranno in molti a riconoscersi.

 

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04/01/01