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“Negli occhi di una ragazza” – Einaudi, 1971
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Gli
occhi di una tredicenne scoprono la realtà della famiglia e del mondo.
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Maria Cristina, la tredicenne protagonista
del libro, è una ragazza qualunque di una qualunque metropoli, che per caso è
Torino. Ha un padre artigiano, confinato nelle sue delusioni, un fratello
“cinese” che “fa la rivoluzione al telefono”, un’amica emancipata che scappa
con un coetaneo.
Poiché
non ha memoria e non ha fantasia (“aveva paura dei fatti, perché non le
riusciva di metterli al loro posto, uno dopo l’altro”), e va male a scuola, in
famiglia la considerano una stupida. Scopre che nessuno la ama, e si accorge di
vivere anch’essa in questo vuoto di sentimenti.
Per lei
tutto passa nel “fare”: l’unica cosa in cui eccelle è il disegno, e la vicenda
si riflette nei suoi occhi con la nettezza di chi è abituato ad esprimersi
attraverso il segno grafico. Chiusa com’è in una silenziosa fatica di insetto,
le tocca scoprire con le sue sole forze che la condizione femminile è
fatalmente, fisiologicamente servile; e quando, approfittando di quel gusto per
il “fare”, la vogliono rinchiudere in un destino di lavoro domestico, trova in
sé la volontà di uscirne.
È qui che
approda il sottinteso polemico del romanzo, che rappresenta oggettivamente i
risvolti del “mestiere di donna”: la schiavitù di gestire una casa, accudire ad
altri, rimediare ai bisogni di tutti, rinunciare alla realizzazione di se
stessi.
Sono rari
gli scrittori contemporanei che sappiano abbandonarsi al piacere di raccontare,
di inventare dei personaggi e delle storie. E storie dell’oggi, calate in un
presente che è quasi cronaca, caldo di tutti i problemi, le contraddizioni, i
dubbi, le speranze, come fa Marina Jarre in questo romanzo.
La Jarre si affida ad una scrittura
essenziale, asciutta, tutta cose, giocata su un dialogo scattante e funzionale.
Attraverso il reticolo minuzioso rifatti e delle parole quotidiane lascia
trasparire il disegno nitido di un significato che ci riguarda tutti.
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13/01/01