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“Tre giorni alla fine di luglio”
– Bollati Boringhieri, 1993
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Un uomo scopre l’incompiutezza della
sua vita specchiandosi in persone, amori, vicende che cominciano a rivelarsi in
una nuova luce di verità.
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In una Torino di
piena estate, che tagli violenti di luce e d’ombra tra le piazze e i portici
antichi rendono come deserta, in questo luogo senza tempo in cui i significati
nascosti hanno il sopravvento sulle fragili sicurezze quotidiane, Marina Jarre
ambienta una semplice storia di vita che lascia trasparire con naturalezza,
senza traccia di retorica, le domande che sono al fondo di ogni esperienza
umana: qual è il senso del passato e quale la realtà del presente, e chi sono
veramente le persone che ci circondano?
Un architetto poco più che quarantenne vive a Milano con la moglie e due figlie. Viene chiamato a Torino, come gli accade ogni tanto, dalla prima moglie: perché il loro figlio Francesco non intende continuare gli studi ma lavorare con un gruppo di amici in una cascina. L’architetto, che nel ‘68 aveva vent’anni, nella distanza in cui lo colloca d’improvviso l’estraneità di una generazione all’altra, osserva come in uno specchio il se stesso di allora e di riflesso si interroga sul se stesso di oggi e su tutte le sue pigre certezze. Il breve soggiorno si trasforma in un viaggio metaforico tra persone e luoghi familiari che il protagonista ora osserva quasi alla ricerca di spiegazioni, di senso. Gli incontri con la sorella, rimasta in casa dopo la morte dei genitori, gli rivelano, e ci rivelano, un personaggio di intensa complessità che vive in una provvisorietà permanente, in un’aria di trasloco (di cose, di sentimenti) che si indovina non avrà mai fine. Silvia, la prima moglie, è un’altra figura di donna, seducente nella sua autenticità svagata, nel suo mostrarsi assente e tuttavia vicina e sensibile.
Ma il centro delle riflessioni e il luogo delle
domande più difficili è nell’incontro con le nuove generazioni, di cui il
figlio è un rappresentante impegnato in un ricominciamento tenacemente votato a
tutti i rischi, eppure diverso dalle avventure di vent’anni prima. Il padre
così si sente impotente ad assecondarlo come a fermarlo, e misura anche da
questo l’incompiutezza della propria esistenza.
Questo
nuovo romanzo di Marina Jarre ci offre la conferma della qualità e della
modernità di un’ispirazione, che è portata a cercare la verità oltre il vetro
di distacco e di sensibilità al mistero posto dall’autrice per virtù di
scrittura tra il suo sguardo e le cose.
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09/01/01