MARINA JARRE “Il
vecchio Falco Nero” (inizio del quinto capitolo “Falco
Nero”) |
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Il sole sorse in un
disco immenso rosso sangue. Dalla soglia della foresta Ma-ka-tai-me-she-kiak lo
guardò levarsi al di là della prateria dai larghi avvallamenti. Il sogno era
finalmente venuto la notte innanzi, ma non era chiaro e prima di comunicarlo ai
suoi doveva cercare di indagarlo.
Erano tre giorni che
digiunava, a metà giornata solo qualche sorso d’acqua e la sera un po’ di
granone bollito. Era vecchio ormai e dal sogno desiderava un messaggio di pace.
Eppure era solo una parte di lui che lo desiderava e non sapeva neppure quale.
Non certo il ragazzo quindicenne che aveva colpito con un’unica freccia dalla
punta ottusa il grande sparviero nero da cui aveva tratto il nome e che ora,
svuotato e riempito di erba secca, portava da più di cinquanta inverni
attaccato al petto. Non il giovane guerriero diciannovenne che da una partita
di guerra con i nemici di sempre, gli Osage, aveva recato a casa ben cinque dei
cento scalpi conquistati dai suoi. Non Falco Nero, grande capo, che aveva
combattuto contro i Lunghi Coltelli insieme ai Britanni dalla fedele lingua non
biforcuta. Ma forse voleva finalmente la pace il padre che per due stagioni
aveva pianto insieme con la bella moglie Asshewequa, l’Uccello Canoro, la morte
nella stessa luna del figlio maggiore e della figlia più piccola. Il viso
dipinto di nero, aveva digiunato come adesso, un po’ d’acqua a mezzogiorno e un
po’ dì granone bollito la sera. Non poteva tuttavia deporre l’ascia il figlio
dell’Uomo Medico Pyesa ucciso dai Cherokee. Proprio di questi la primavera
innanzi i guerrieri dal viso pallido avevano disseppellito le ossa laggiù a
Saukenuk nell’isola sul Rock.
Dal padre Pyesa Falco
Nero aveva ereditato, secondo l’uso, il titolo di Guardiano della Medicina.
Allora, dopo la morte del padre, s’era astenuto cinque intere stagioni da
qualsiasi battaglia per imparare in purezza di corpo e di mente gli antichi
segreti della Medicina, le erbe curative, le vie della notte e del giorno, del
sole e della luna, della Madre Terra attraverso le quali ci giungono nascosti
annunci. Dalla pelliccia dell’ermellino di coda corta il Guardiano della
Medicina poteva predire se l’inverno sarebbe stato lungo o breve, dalla
colorazione delle foglie dell’acero e della betulla se le piogge sarebbero
state ricche, dal volo delle oche migranti quando sarebbe giunto il gelo e
perciò se nella contrada dei due fiumi la caccia sarebbe stata abbondante o
povera.
Nonostante questi lunghi
tempi d’apprendistato c’era in falco Nero un’anima che stentava a inchinarsi a
ciò che il rito della Medicina gli suggeriva. E mentre, seduto nella capanna
del guardiano, meditava e attendeva, questa sua anima, quasi nutrita e resa
sanguigna dal corpo giovane e robusto, anelava alle piste della caccia e solo a
fatica cedeva alla volontà della mente.
Adesso che il sogno
aveva parlato, percepiva dentro di sé, dietro le spoglie dello sparviero,
resistere e bruciare un diniego al sogno. Come se fra lui, fra le sue vecchie
ossa che ormai doloravano quando si chinava per uscire dal wik-i-up e la
visione della notte ci fosse una ferita aperta. Questo non poteva essere, si
diceva guardando il sole sorgere a oriente - là dovevano tornare lui e i suoi
Sauk e le loro donne e i loro papouse - perché il sogno era stato mandato dal
Grande Spirito e non poteva essere menzognero. Oppure a mandarglielo era forse
stato l’Innominabile che all’origine del mondo aveva tentato di scacciare dal
trono il Grande Spirito, vestito di giorno luminoso? L’Innominabile, vestito
lui della più buia notte, che aveva pur dato agli uomini il fuoco, l’ascia, l’arco
e la freccia, la capanna e il tomahawk. Il ribelle, apparso dopo il secondo diluvio
a ricreare il mondo.
Sotto i piedi di falco
Nero, ritto sulla soglia della foresta, stava quella terra che i visi pallidi
gli avevano imposto, ma che la zappa faticava a dissodare. La scapola del
bufalo non riusciva a estirpare le tenaci radici del sottobosco e dell’altissima
erba dalle gemme verdi azzurrine che scorrevano fitte sotto il suolo. Erba per
i cavalli, non per le seminagioni. Ben diversa dalla terra ormai morbida e nera
intorno all’isola di Saukenuk, nelle praterie lungo il grande fiume, Padre di
tutti i fiumi, che le donne dei Sauk avevano zappato da tante stagioni per
seminare il grano giallo - che la sua Asshewequa continuava a chiamare maize
col nome che gli davano i Cherokee - e meloni e zucche e fagioli. E appunto
Asshewequa - caduta prigioniera bambina proprio nelle sue mani - aveva
insegnato alle altre ad adoperare il bastone da scavo che si affondava nel
terreno a formare la buca per i semi. Alle donne la raccolta, agli uomini la
caccia.
Sentì nelle nari il
profumo della carne di cervo che arrostiva sulle braci ardenti. Poi, dopo il
tramonto, seduti a fumare intorno al fuoco, qualcuno raccontava di Vecchio
Zoppo, l’orso grigio, cacciato per più stagioni, o della danza sui trenta
scalpi presi agli Osage l’estate precedente. L’uno o l’altro diceva «sì, è
stato proprio così», oppure «c’ero anch’io», mentre il messo girava tra i
fuochi e gridando annunciava a tutti il cammino divinato per il giorno
seguente.
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03/01/01