“Viaggio a Ninive” – Einaudi, 1975

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Carlo, un medico torinese di quarant’anni, parte in agosto per alcuni giorni di vacanza. Non ha progetti precisi, non sa se prendere con sé il figlio Tomaso, di otto anni, se raggiungere Anna, la giovane archeologa che conosce da alcuni mesi. Egli conosce tutto di sé, ha risolto ormai le sue crisi, ha portato a una stasi sopportabile il proprio difficile matrimonio, vorrebbe forse incontrare, finalmente libero dalla costrizione dei doveri, persone con le quali avviare un rapporto non condizionato, persone che non abbiano, come gli altri, bisogno di lui.

Apparentemente il libro narra soltanto incontri e scontri di questi pochi giorni di vacanza, incontri fra generazioni diverse che parlano linguaggi non conciliabili: l’una logorata da cedimenti e sconfitte, l’altra, quella di Anna, la giovanissima nipote di Carlo, che finge di appagarsi di una sorta di tranquillità biologica. In realtà i personaggi sono quelli d’un romanzo d’amore in cui nessuno sa di amare o di essere amato, in cui tutti, incapaci realmente di soffrire una crisi risolutiva, sentono in modo oscuro e continuo una catastrofe su di loro, già avvenuta o da avvenire. E in questa perdita di vita e vitalità finiscono per esistere solo in quanto pensati da altri, in un gioco mobilissimo e cangiante di rifrazioni e di rimandi.

Marina Jarre, qui al suo terzo romanzo, diffida delle facili etichette e degli schemi di comodo. Il filo comune che unisce il suo lavoro narrativo e ne determina la moralità è una sorta di paziente scomposizione dei gesti, delle parole e degli accadimenti più “normali” attraverso il prisma della scrittura, che ne rivela i significati polivalenti. La replica quotidiana dei rapporti umani, sempre uguale e sempre diversa, assume allora la tensione di un “giallo” esistenziale la cui soluzione ultima è affidata al lettore, divenuto anche egli protagonista.

 

“Una persona importante” di Andrea Jarre

 

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04/01/01