- Eccomi incastrato - pensai non appena lo vidi.
"Si sieda, non resti in piedi."
Ero sul punto di svignarmela, l’avevo riconosciuto immediatamente
dalla cravatta gialla a pois rossi, ancor prima che dal viso cotto a lampada.
"Ci conosciamo?" domandò con un sorriso di circostanza,
calando a sedere dietro la scrivania, su una soffice, ampia poltroncina
di pelle nera.
"No."
"Bene. Vediamo il suo curriculum vitae... Giuseppe Montenero,
ventiquattro anni, quasi venticinque, maturità classica, varie esperienze
di lavoro... attualmente agente finanziario presso la Fin Oliviero."
"Fin Oli-ve-iro," lo corressi.
"Fin Oliveiro, si trova?" chiese strizzando un occhio
a mo’ di tic.
"Sul lungomare nord, in una vecchia villa stile liberty."
"Bene. È soddisfatto del suo lavoro?"
"Abbastanza."
"Bene. La nostra società, la Work-omissis,
ha filiali in tutta Italia come saprà."
"Non sapevo."
"Bene; adesso lo sa. La Work-omissis, dicevo,
cerca persone profondamente motivate da inserire nel proprio organico,
persone dotate di buona comunicativa e spiccata capacità di relazione,
di...di..."
Proseguì la sua litania ammaliante di bla e bla
per un quarto d’ora circa, studiata fin nei minimi particolari forse da
insigni psicologi americani; la Work-omissis era l’azienda e la
parola magica che realizzava compiutamente il nostro successo. Si trattava,
al solito, di andare a vendere enciclopedie, porta a porta.
Cravatta gialla declamò la poesia della sua vita,
io muto ed impassibile, restai ad ascoltarlo con tutta l’indifferenza di
questo mondo.
Finalmente la tortura finiva, potevo ritornare a casa.
- Me lo ritrovo sempre tra i piedi stò stronzo. Eppure
quante volte mi sono detto che non l’avrei più rivisto?-
Il selezionatore di personale, evidentemente, si muoveva
da una camaleontica Work-omissis all’altra, precedendomi di poco;
in due mesi di ricerca d’un altro impiego, lo avevo incontrato per ben
tre volte ma già dalla seconda facevamo finta di non conoscerci.
- Che ore sono ? Già le undici, caspita ! Che
faccio ? Torno in agenzia o chiudo il giro con Carlota Bruno, strada da
denominare 87 ?-
Qualcosa mi diceva che sarei dovuto ritornare a casa,
la giornata era iniziata davvero male, col cane dei Lazzari che per poco
non m’azzannava e poi con quello stronzo della Work-omissis. Con
il compito di andare in giro per la Fin Oliveiro a riscuotere direttamente
le tratte da chi, in genere, ritardava nei pagamenti, non si facevano, certo, incontri piacevoli. Se andava
bene, ti buttavano i soldi in faccia con una raffica di bestemmie, se andava
male, t’aizzavano contro il cane di turno. L’avevo scampata per un soffio
quella mattina, un morso della bestia pulciosa dei Lazzari non m’avrebbe
risparmiato una ventina d’iniezioni dall’antirabbica all’antipeste. Da
Carlota, tuttavia, non c’erano cani e poi dovevo recuperare le mie
duecentomila. Sì, proprio le mie duecentomila.
Se Oliver, il capo, avesse saputo del mio ulteriore prestito,
m’avrebbe divorato lui stesso e non certo come il cane dei Lazzari. Le
sue direttive erano chiare; bisognava, in ogni circostanza, comportarsi
con freddezza e distacco, mai con condiscendenza. Parole facili, le sue.
Ma di fronte alla disperazione d’una persona, d’una donna di trent’anni
con una bambina, abbandonata dal marito, che tirava avanti grazie alla
pensione sociale della madre e al suo stipendiuccio da sartina, non ho
saputo dire di no.
M’aveva aperto la porta, terrorizzata, poveraccia; m’aveva
detto che non aveva davvero denaro in quel momento, che la ditta che le
forniva i pantaloni da disimbastire, le dava, ora, solo duecento lire a
pezzo, che dovevo ritornare la settimana successiva, quando la madre avrebbe
preso la pensione.
E alla mia obiezione ch’erano trascorsi troppi giorni
dalla scadenza della rata, e, che la Fin Oliveiro avrebbe provveduto per
altre vie al recupero di quanto le era dovuto, piangendo, m’aveva supplicato
che avrei dovuto aiutarla io, anticipando quelle duecentomila per una settimana.
Avrei potuto dire di no, confermando, semplicemente,
che sarei ripassato la settimana successiva, ma, per mantener fede alle
parole pesanti che avevo pronunziate riguardo all'improrogabilità
della rata, le dissi che avrei anticipato io la somma, staccandole la ricevuta
del pagamento.
Gesto magnanimo il mio, ma quanto mai stupido; adesso
o recuperavo la somma oppure lasciavo perdere.
Il trentotto passava in quel momento, in men d’un attimo
mi ritrovai su senza pensarci, sapendo solo che, di lì a tre fermate,
la coincidenza con l’autobus che saliva in collina era certa.
La casa dei Carlota, posta nella periferia alta della
città, era un villino di recente costruzione, ancora grezzo ed incompleto
nella parte bassa, ma con un piano rialzato ben rifinito in intonaco bianco,
sotto un tetto rosso strutturato a mansarda.
Alla porta venne ad aprirmi una donna sulla sessantina,
dalle mani rinsecchite e dagli occhi spenti ma dalla pelle in volto straordinariamente
liscia. Era vestita con un cappotto nero e aveva poggiati sulla spalla
un’infinità di fili di cotone di diverso colore.
"Venga, mia figlia è di là," e senza aggiunger
altro mi condusse in una stanza dove c’era un lungo ed ampio tavolo affastellato
da pile alte di blue jeans.
La figlia, vestita anche lei pesantemente, era seduta
su una sedia, intenta a togliere l’imbastitura ad un pantalone, recuperando
i fili senza romperli, completamente assorta nell’operazione. Silenziosa
alzò lo sguardo su di me, poi lo diresse alla madre, ci fu, in quel
momento, quasi un gesto d’intesa tra loro che capii solo più tardi.
Lasciò il pantalone sulla sedia e appuntò l’ago alla maglia.
Prendendomi la mano mi guidò in cucina, mugugnando qualcosa d'incomprensibile.
Chiuse la porta
"Sono a tua disposizione," disse "puoi fare tutto ciò
che vuoi."
"Ma... io... io sono venuto a riprendere i soldi."
"Sono a tua totale disposizione," ripeté scandendo
forte e chiare le parole. Restai interdetto a fissarla negli occhi che
aveva leggermente strizzati dicendo quelle parole. Occhi castani, lucidi,
aggressivi. Provai a difendermi dal suo assalto
"Io voglio i soldi e nient’altro!"
Forse lo dissi senza eccessivo vigore, tant’è
che me la ritrovai ancor più vicina "Che!? Ti faccio schifo?" disse
rabbiosa "Tocca, tocca!" afferrandomi le mani e premendole sul suo seno.
Con gesto repentino faceva scivolare la mano al mio sesso; fu paralizzante.
Mi ritrovai ad essere trascinato per il coso fuori dalla cucina fin nella
camera da letto, adiacente a quella. La stanza era quasi totalmente buia.
Iniziò a denudarsi con foga "Dai spogliati! Che fai? Su!". Mi strappò
di mano il giaccone ed iniziò a frugarmi addosso alla ricerca del
corpo nudo. Mi liberai della maglia e della camicia strappando via qualche
bottone. Calai giù i pantaloni non avendo il tempo di sfilarli via,
ritrovandomi, in un attimo, su di lei che s’era aperta sul letto. Fu un
rapporto rapido e violento, tutt’altro che piacevole. Tutta la libidine
che s’era scatenata in me trovò l’impaccio del sesso che non volle
saperne di riprendersi dopo un primo schizzo. M’accasciai al suo fianco;
la pelle scottava, l’aria era gelida. Dalle nostre bocche uscivano nuvolette
di vapore tanto era fredda la stanza.
"Cazzo che freddo!" esclamai rabbrividendo, tastando
senza muovermi alla ricerca della mia roba.
"Sarò a tua totale disposizione," ribadì,
parlando più a se stessa che a me. Parole minacciose più
che allettanti. Aveva stabilito tutto, la troia; aveva calcolato tutto.
Avrei pagato io le sue rate e lei si dava senz’altra condizione. Furioso
con me stesso e con lei, restai zitto, lasciandola a tormentarsi e a chiedersi
se il suo atto avesse sortito l’effetto, se il suo sacrificio era accettato.
Ma il mio silenzio finì per diventare per lei un tacito sì
ed iniziò ad accarezzarmi portandomi la testa sul suo seno.
Stringendomi "Puoi venire anche tutti i giorni, farò
tutto quello che vorrai," e cullandomi con sé "dimmi di sì,
dimmi di sì, sì, sì," e con voce più fioca,
quasi sussurrata all’orecchio "verrai domani? Verrai domani? Verrai?"
Mi strappò un sì. Mentre mi rivestivo volle
la conferma facendomi fissare anche l’ora dell’appuntamento. Uscii scosso
e stordito con le mani sue ancora addosso, col naso pieno del suo sentore;
odore che eccitava e disgustava.
Avevo camminato in discesa per più d’un chilometro
con uno strano dolore allo stomaco e ancora non mi capacitavo di quello
che mi era accaduto.
- Domani no, domani non ci vado, non ho alcun obbligo,
no.
Che troia, che troia!-
E mi balenavano davanti ancora i suoi occhi acquosi e
castani, la fronte bianca, la bocca rossa - Che troia, che troia! Solo
ad un coglione come me poteva accadere una cosa del genere. Vaffanculo
ad Oliver ed ai suoi ‘casi pericolosi’ ! -
A lui non sarebbe, di certo, mai successo un accidente
come il mio. E dire che m’era parsa persona del tutto diversa all’inizio,
forse per il suo aspetto da distinto gentiluomo o per l’aria dottorale
da ex insegnante di lettere.
Un tipo assolutamente da evitare nella vita, sia come
datore di lavoro che come creditore.
Appena oltre i quarant’anni, aveva messo su la Fin
Oliveiro gestendo semplicemente soldi non suoi e avvalendosi esclusivamente
di giovani leve, belle, speranzose e volenterose, pronte a tutto pur di
arrivare.
Davanti a lui ci si sentiva costantemente sotto esame,
immancabilmente debitori di qualcosa. Direi, da questo punto di vista,
uno strozzino nato. I suoi giudizi sul nostro operato erano accolti sempre
con timore e se riuscivi ad affrontarlo con la forza delle tue idee sull’opportunità
di questo o quel comportamento, lui tirava fuori il suo ‘evidentemente’
che gli restituiva la sacrosanta supremazia della ragione, espressione
di un’intelligenza non comune, di fronte alla quale si soccombeva eternamente.
"Ragazzi, la procedura esecutiva," soleva dire "è
lunga e costosa e va evitata dove c’è pericolo di non recuperare
niente."
Ed ecco che ci metteva alle calcagna di poveri disgraziati,
i suoi ‘casi pericolosi’, cioè coloro che avendo restituito quasi
tutto o avendo contratto un debito non eccessivo, rischiavano di
smettere di pagare da un momento all’altro per via di ipoteche più
onerose già iscritte sui loro beni o per fideiussioni già
prestate ad istituti di credito. Devo dire, comunque, che ho gioito di
cuore quelle volte in cui Oliver non è riuscito a recuperare niente,
ma mai sono arrivato ad odiarlo. Anzi, credo che, all’inizio, sia capitato
un po’ a tutti noi dipendenti di innamorarsi del suo modo di fare, di averlo
rispettato fanaticamente, di averlo adorato quasi. In verità, è
la logica del denaro e delle sue leggi spietate che si finisce veramente
per detestare.
"Allora come è andata coi
Lazzari?" chiedeva Vincenzo,
l’indomani in agenzia.
"Bene."
"Bene? Davvero!?" spalancò gli occhi.
"No, che bene! Male, malissimo; per poco il loro cane
non m’azzannava. Mi hanno teso un vero agguato. Sono entrato nel giardino
attraverso l’uscio appena accostato, ho fatto due passi nel
viottolo e il cane mi si è avventato contro. Ho sentito il clock
delle zanne a pochi centimetri dal polpaccio, appena in tempo per richiudergli
il cancello sul muso bavoso. E Lazzari sai che faceva? Se la rideva sulla
veranda."
"Che gran figlio di troia! Questa volta Oliver dovrà
dire addio ai suoi soldi, da lì non esce più un centesimo.
Ormai sono mesi che gli stiamo addosso. E Carlota?"
"Bene, ha pagato."
Tirai di tasca il portafogli, misi sul tavolo tutto il
ricavato, insieme alle mie duecentomila. Ero di nuovo al corto. Quei soldi
pesavano più di quanto avevo immaginato; avevo una bolletta del
telefono e del gas da pagare, dovevo ricorrere di nuovo ai miei genitori
- Che puttana, che troia, che zoccola! -
"Cos’hai? Ti vedo pensieroso," indagava Vincenzo.
"Niente, questa notte ho dormito male."
C’era una contropartita a quei soldi che non riuscivo
a valutare: un corpo. Cercavo di immaginarlo ma a parte il seno non vedevo
null’altro. Quel rapporto era stato così veloce e deludente che
quell’incondizionata offerta mi lasciava, di fatto, indifferente. Avrei
dovuto osservarla bene per poter valutare la proposta.
- Che babbeo, che babbeo! Chissà che schifo mi
toccherà - mi dicevo cattivo. Ma avevo già deciso di andare
all’appuntamento, soprattutto, credo, per espiare l’errore e punirmi della
mia dabbenaggine e stupidità.
L’autobus delle diciotto era pieno di persone. Una signora,
appena scesa, aveva lanciato invettive verso un ragazzo in moto che per
poco non la investiva. Voci di disappunto si erano levate aspre da ogni
parte dell’automezzo, ma, su tutte, prevalse quella di una giovane donna
dritta e fiera nell’aspetto che aveva lo sguardo proprio su di me mentre
parlava energicamente. Piccolina, volto rosso, lineamenti delicati, voce
decisa e dura; mi eccitò non poco. Per tutto il tragitto mi tormentò
una bizzarra immagine nuda proprio di quella donnina, unico approdo dell'immaginazione,
esaltata da contrastanti sentimenti di collera e ardore.
E l’eccitazione salì, l’impazienza crebbe. Finalmente
scesi, la strada mi calmò ma giunsi ugualmente davanti alla porta
dei Carlota così come si arriva al termine di un lungo tunnel buio,
dove la luce lontana dell’uscita è l’unica che ti guida e riempie
la mente.
Venne ad aprirmi lei. "Ti aspettavo," disse. Aveva lavato
i capelli, erano lucenti e ben pettinati. Chiesi un bicchier d’acqua. Osservandola
attentamente le andai dietro. Aveva addosso un maglione beige tanto largo
e lungo che le arrivava oltre metà gonna. Che strana impressione
di sciatteria ed insipidezza con quelle larghe maniche più volte
piegate a polsino, gli stivali alti di pelle nera e l’andatura stramba!
La seguii nella camera matrimoniale. Le abat-jour ai lati del letto erano
cerchiate da una luce debole, assai confortevole. Seduta su una sedia,
in un angolo della stanza, lei cominciò a tirar via gli stivali
stretti. Poi s’avvicinò scalza, e, ad un braccio da me, seduto sul
letto, vicino all’abat-jour, iniziò a sfilar via il maglione, senza
fretta e senza aprir bocca. Fissai il volto e le ombre alte sulla parete;
cadde la gonna ed il reggipetto e il mio sguardo sulla sua pelle, illuminata
di giallo oro. E allora m’apparve tonda, tonda in tutto, come nulla a questo
mondo. Si chinò portando via anche l’ultimo lembo di tessuto e tornò
dritta e totalmente nuda davanti ai miei occhi, attraente e gustosa come
una Venere, ad attendere me, ad attendere me, sgomento, focoso, senza pensiero
con la mente colma di quell’oro, di quel tesoro scoperto così all’improvviso.
Allungai le mani verso il suo corpo caldo e pieno, spudoratamente mostrato
per essere azzannato e divorato senza alcun ritegno; e lei, compiaciuta
e lieta, avanzò su di me con le zinne gonfie di piacere.
Umidi d’acre sudore, ci ritrovammo, doloranti ed esausti,
ad osservarci in faccia. Lei muoveva gli occhi su e giù per il mio
viso. Scrutava la fronte, il naso, gli occhi, la bocca, il mento.
Aveva ancora voglia, ma non osava chiederlo, rispettosa,
forse, del ruolo passivo che aveva promesso a me e a se stessa. In quel
momento le sue parole ‘sarò a tua disposizione’ mi risuonarono nella
testa e sentii davvero di possederla animo e corpo. Ma pur essendo lì,
bella, calda, formosa, mi sentivo stanco e pienamente appagato.
"Come ti chiami?" domandò.
"Giuseppe. E tu?"
"Francesca."
"Ti ho già visto da qualche parte, dove abiti?"
chiese interessata.
Fui evasivo nella risposta indicandole un supermercato
nei pressi di casa mia.
Il freddo pungente raggelava già i nostri corpi.
Lei rannicchiandosi contro me sussurrò "Lo facciamo ancora?"
"No."
"Domani?"
"No, domani no. Facciamo domenica. Ma tuo marito dov’è?"
"È via."
"Da molto?"
"È in galera," rispose brusca distogliendo lo
sguardo.
Ci rivestimmo in silenzio. Uscimmo dalla stanza. Mentre
nel corridoio ero intento a recuperare il giaccone dall’attaccapanni, s’aprì
una delle porte; comparve una bambina all’incirca di cinque anni con i
capelli raccolti a coda di cavallo, vestita con una pesante maglia color
rosa e pantaloni grigi. Avanzando e fermandosi accanto ad una panca poggiata
alla parete, m’osservò incuriosita.
"Ciao," si presentò timorosa con gli occhi marcati
da un graziosissimo ed ingenuo sorriso. Assentii abbassando un po’ il capo.
Così dolce ed inaspettato il saluto mi fece sentire il ladro e il
profanatore di quell’intimità domestica. Aveva pronunziato la parola
‘ciao’, sicura della sua magia, della sua potenza ed efficacia nell’aprire
i cuori e nel preparare all’unione. Turbato e confuso, m’affrettai alla
porta. Più che uscire, fuggii via.
H
O M E P A G E
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