Due settimane; la solita routine.
Mi destai nella sala d’attesa dell’agenzia, sul divano
stile lombardo-veneto, dove m’ero appisolato, poco prima, senza volerlo.
Ci si può ingannare nelle idee, ma le sensazioni, si dice, non sono
mai false.
Avete mai avuto una spiacevolissima percezione d’una
verità subitanea non pienamente tangibile dalla ragione? Io l’ho
avuta proprio quel giorno ed è stata scombussolante. Rabbrividii
a quella sensazione indecifrabile, rivelatrice della penosità della
posizione spaziale occupata e dell’impaccio, accantonato chissà
dove nella mente, per la vita condotta. In quella situazione alterata,
restai a chiedermi col fiato mozzo e la fronte sudata, che cosa stessi
facendo lì, che cosa mai fosse ciò che m’aveva sconvolto
se non un invito, un comando dell’istinto a muovermi? A far presto; ma
a far cosa? M’alzai lesto e mi portai barcollante alla finestra. Nel vetro
opaco m’osservai gli occhi lucidi ed inespressivi, tirai fuori la lingua
gonfia e bianca.
"Mi tocca fare pure il portiere."
Fra i nostri compiti c’era anche quello d’aprire a turno
l’agenzia nel primissimo pomeriggio.
"Diamine che stanchezza! Sembro un cadavere, guarda lì."
M’accomodai di nuovo sul divano e, cosa vedo sul muro,
tra le stampe delle stagioni di Michele Cascella? La marionetta. Un dipinto
raffigurante una sinistra marionetta.
Sorretta da sei corde, due sulla testa, due sulle spalle,
due sugli avambracci, all’improvviso prende le mie stesse sembianze, mostrando
una maschera inanimata, tremendamente pallida. Sbattuto a terra, sballottato
in ogni dove, non riesco a liberarmi dalle corde che mi reggono e guidano;
stramazzo a terra a gambe larghe e fesse con le braccia stracche. Con uno
sforzo dolorosissimo ed eroico alzo il braccio più forte e lo porto
sotto il mento per tener su l’enorme testa attaccata al tronco. Il pensiero
viaggia veloce negli occhi miei che cercano intorno, ma un senso d’immane
impotenza mi riempie la mente lucida pronta ad utilizzare arti che restano
fermi.
Quanti fili ci tengono e ci guidano nella vita! Quanto
è difficile romperli. E se ci riusciamo, quanto è arduo muoversi,
realizzare quello che la ragione vuole, ciò che profondamente desideriamo.
Illuminato dal ritratto, mi sembrò, al momento,
urgentissimo sottrarmi a quel lavoro sgradevole e liberarmi alfine e non
mi rendevo conto che un altro filo, il più forte, s’era annodato.
- Perché non arriva? Ecco anche Oliver, e Riccardo?
- mi chiedevo smanioso.
"Buon pomeriggio."
"Salve ragazzi." "Ciao." "Ciao."
M’avvicinai alla finestra, il tempo di un’occhiata e
Oliver già ci chiamava. Seduto dietro la scrivania il capo
s’agitava con la solita fretta e tamburellando con le dita lunghe e belle,
come a riordinare ritmicamente le idee, ci impartiva gli ordini, accoppiandoci
nelle mansioni. Con distacco lo ascoltavo, osservando Alfredo che gli stava
fedelmente dietro col suo sorrisetto condiscendente pieno di meschina adulazione.
Trafelato e rosso Riccardo comparve allora a far cerchio intorno ad Oliver,
tirando in avanti il lungo collo. Quel suo apparire all’improvviso con
la testa sospesa così in alto, causò, nel gruppo, uno scambio
di sguardi e lo scoppio d’una risata.
"Sembri E.T.!" esclamò Vincenzo. E di nuovo una
sonora risata con Oliver a rider con noi di gusto. Allo sciogliersi del
gruppo, Riccardo s’avvicinò "Non mi chiedi niente?"
"Com’è andata?"
"Bene, ha pagato."
"Che ha detto? Ha chiesto di me?"
"No, niente; m’avevi fatto pensare che fosse una racchietta
ed invece..."
"Ti piace?"
Riccardo col viso accaldato e l’espressione a metà
tra l’intima compiacenza e l’imbarazzo "Cavolo!"
Col palmo della mano aperto a descrivere con movimento
semicircolare una sfericità spropositata "Hai notato che sedere?
"Già, ma come hai fatto a notarlo, non portava
la gonna?"
"No. Un pantalone attillato nero; non so come si chiama,
una specie di calzamaglia."
"Un pantacollant."
"Sì, un pantacollant. Allora devo andarci io o
ci vai tu, il prossimo mese?" domandò interessato.
"Vedremo."
"Che lavoro! Sono quasi le sette e ce n’è ancora
per molto," si lamentava Vincenzo.
"Dai, interrompiamo per qualche minuto," suggerii "altrimenti,
se continui a lagnarti così, facciamo le nove."
La pausa fu una felice idea, ma la faccenda s’allungò
ugualmente, tant’è che, Vincenzo ed io, uscimmo ultimi con l’incarico
ulteriore di chiudere.
"Dove corri? Aspetta, devo fare una cosa. Reggimi il
giaccone."
Mi seguì dubbioso dietro il giardino della villa;
mi arrampicai sul recinto e, issandomi sul tronco sporgente di un mandorlo,
arrivai a spezzare un rametto fiorito. E lui, sonoramente "Visto che ci
sei, staccane uno anche per me."
"Che cazzo urli," imprecai "se qui mi vedono..."
Discesi giù e Vincenzo, impaziente più
che mai "Allora si va o no in pizzeria?"
"Aspetta almeno che mi rinfilo la camicia nei jeans,
cavolo! Non per sapere i fatti tuoi, ma che è sto’ nervosismo?"
"Non so, mi sento stranito; è come se avessi una
febbre addosso che mi da noia e smania."
"Beh, cerca di calmarti; stai vicino ad un esaurimento."
Un centinaio di passi dopo, in una viuzza interna, c’investiva
l’odore della pizzeria, calda di vapore.
Entrammo con Vincenzo a dire "Se oggi mi ritrovo con
un lavoro schifoso e i nervi a fior di pelle, lo devo tutto ad un incidente,
un maledettissimo incidente con il motorino."
"Vieni," lo interruppi "sediamoci al bancone, qui, sugli
sgabelli. Dicevi?"
La birra già ci veniva servita, Vincenzo cominciò
subito a trangugiarla dal boccale.
"È accaduto quando facevo il liceo, saranno...
tredici, forse quattordici anni fa. Ma a dire il vero, non ricordo esattamente
l’anno dell’incidente; ho davanti ancora la scena, ma ogni volta un bruciore
alla testa mi impedisce di riviverla pienamente. Cozzai violentemente contro
una pianta e riportai una ferita qui all’avambraccio e all’alluce
del piede destro. Dopo l’urto mi ritrovai in piedi, sbattuto giù
dalla moto che aveva proseguito la sua corsa per alcuni metri. Gli andai
dietro e la spensi. Non mi avvidi della ferita né sentii dolore,
solo un leggero bruciore al braccio. Il pedale del motorino aveva urtato
contro l’albero e s’era piegato pur essendo di spesso acciaio. Credo che
nell’urto, assai violento, abbia subito un danno al cervello; non so se
si tratta d’uno shock o d’una lesione. Da allora la mia capacità
di memoria e d’apprendimento s’è ridotta moltissimo, con una consapevolezza
immediata del suo indebolimento. È accaduto, tuttavia, che
alla drastica riduzione della facoltà di memoria è subentrata
una maggior attitudine al pensiero e alla riflessione, come se il cervello
si fosse chiuso in se stesso e messo ad elaborare i dati già immagazzinati.
Ma certo non si può fare a meno della memoria;
da quell’anno i miei studi sono stati compromessi e solo a fatica sono
riuscito a diplomarmi."
Avevo iniziato ad ascoltarlo un po’ disattento, come
se avessi voluto sentire ben altre cose dalla sua voce ma, alla fine, ero
stato catturato dal racconto e senza avvedermene avevo divorato tutta la
pizza.
Vincenzo con gli occhi schizzati di sangue ed una tremarella
imbarazzante concludeva "Con quell’incidente ho visto vicinissima la morte,
ancor oggi mi stupisco d’aver colpito la pianta solo lateralmente e non
frontalmente. Ero certo d’ammazzarmi a pochi istanti dall’urto; ero sicuro
che sarei diventato una poltiglia su quella pianta gigantesca. Forse, un’entità
dall’alto m’ha salvato, chiedendo in cambio la mia passata personalità."
L’osservai quasi cercando d’appurare visivamente un segno
esteriore dell’infortunio, ma trovai solo un viso sbiancato, affondato
nel cartoccio della pizza.
Sull’onda di silenziose congetture, Vincenzo, con le
mani al bancone, iniziò a dondolarsi sulle gambe posteriori dello
sgabello e, guardando il pavimento, cercava a piccoli scossoni di centrare
con i piedini del sedile gli angoli d’una mattonella.
Ed io "Fossero gli smemorati come te! In agenzia sei
quasi il braccio destro di Oliver. Fra tutti noi, la persona più
intelligente e preparata. Sarà, ma a me pare che la botta t’abbia
fatto più bene che male." Neanche a dirlo ed accorgermi, di lì
ad un attimo, che le botte fanno sempre male. Quel coglione di Vincenzo,
con tutto quell’oscillare, perse l’equilibrio e, nella violenta caduta
all’indietro, trascinò anche me.
Per poco non m’ammazzava! Caddi senza alcun appiglio
con la schiena sul pavimento e la testa, fortuna volle, sui polpacci d’una
sconosciuta che per lo spavento saltò in aria. Provate a sollevarvi
di forza, da terra, con i capelli sotto i tacchi d’una donna. Un dolore
terribile! Quella donna aveva tutto il diritto di scalpitare ma,
povero me, anch’io tutto il diritto di risollevarmi; finalmente l’imbranata
si mosse, ma mi sembrò, davvero, d’averci rimesso lo scalpo.
Rincasai con la testa che m’esplodeva di irritazione
e d’una impellente voglia di vendetta: strappare i capelli a Vincenzo.
- Che stronzo! Che Stronzo! - lo maledicevo - E mi viene
pure a raccontare la sua fottutissima storia della perdita di memoria per
giustificare cotanto fallimento! -
M’osservai accuratamente nello specchio del bagno per
controllare i danni alla capigliatura e rosso d’angustia - Dio mio, qui
se ne vanno via tutti -
Il suono del citofono giunse ai timpani sordo e sgradevole
come una pernacchia. Andai "Chi è?... chi è?". Silenzio assoluto,
neanche il fruscio di fondo. Torsi il cordone del citofono premendolo e
tirandolo dal buco della cornetta, nel tentativo di ripristinare il contatto
elettrico. Niente. Passai ai modi violenti battendo l’impugnatura nell’incavo
della mano e, con una veemenza quasi autolesionista, riuscii a riattivarlo.
Quello che udii, di certo, non proveniva dal citofono; un cadenzato e crescente
struscio di suole rintronante per le scale.
- Sarà quella stronza del piano di sopra; avrà
dimenticato le chiavi del portone - pensai.
Mi fermai ad ascoltare. - È arrivata al pianerottolo,
che fa? Brava! Si pulisce sul mio tappetino. -
Un acuto ed inaspettato din don e la forte tentazione
di spalancare la porta e coglierla sul fatto svaporò dai capelli
ritti sul capo. Attesi qualche istante, poi spalancai la porta e sorpresissimo
"Ah! Luisa, sei tu!"
Lei col visino tondo tondo e gli occhi grandi e languidi
"Mi fai dormire con te?"
Entrò con un carico di libri e quadernoni stretto
al petto.
"Domani ho un esame importante; m’accompagni?"
"Ma non posso, c’è l’agenzia."
"Dai su, che puoi; ho un esame difficile. Se mi stai
vicino m’andrà tutto bene."
"Come faccio? Non posso, non posso proprio."
"Dai che puoi."
E tra i ‘puoi’ e i ‘non posso’, una mezz’ora di battaglia,
estenuante quanto inutile. La cocciutaggine dolce di Luisa si trasformò
ben presto in una caparbietà violenta; nel tentativo di zittirla
le tappai la bocca con la mano ma lei, per tutta risposta, m’afferrò
per il polso e m’addentò furibonda.
Saltando quasi ed esagerando il bruciore, riuscii a ridurre
le sue pretese, spostando nel pomeriggio dell’indomani la mia presenza
accanto a lei all’università.
Le spiegai "Se ti sbrighi al mattino a fare l’esame mi
avverti in agenzia con un colpo di telefono, altrimenti ti raggiungo appena
smetto di lavorare."
"Va bene, va bene; ho capito. Adesso, però, ho
voglia di dormire."
Entrammo nella mia cameretta e Luisa tornò a rabbuiarsi
in volto guardando i due lettini e con un cipiglio severo "Ma perché
ti ostini a staccarli sempre?"
"Lo sai, dianime! Mi spieghi come faccio ad aprire la
finestra, a pulire il pavimento o, semplicemente, a muovermi? Guarda qui
che spazio ridotto."
Al mattino il risveglio fu quasi sincrono. M’alzai e
ritornai poco dopo sul letto con le mani dietro la schiena.
"Ho una cosa da mostrarti."
Luisa con le coltri ancora al mento ed assonnata "Che
cosa?"
"Pensa, mi sono arrampicato su una pianta per prenderlo."
Tirandosi sul cuscino e più curiosa "Dai, cos’è?"
"Un rametto di mandorlo fiorito."
"È bellissimo, è bellissimo; grazie è
bellissimo." Radiosa s’allungò per baciarmi. Lo portò al
naso e puntandolo sul candido petto
"Mi ricorda l’infanzia."
Toccando con l’indice della mano, appena dischiusa, i
lunghi filamenti d’un pistillo, continuò calma ed assorta
"Mi ricorda immagini di cieli limpidi e l’umido freddo
del sottobosco; mi rivedo bambina a raccogliere viole meravigliosamente
tenere su un terreno scuro e bagnato. Mi rivedo stupita di fronte a tanti
e multiformi fiori, paurosa di inoltrarmi in un viottolo semibuio alla
ricerca del fiore più bello, del fiore più colorato; e mi
accorgevo che i più belli erano anche i più fragili e che
nelle mie mani perdevano la loro luminosità. E mi rivedo davanti
casa, seduta a terra, con la schiena al muro, col sole tiepido sul viso,
in un pomeriggio silenzioso e sonnolento, a godere con gli occhi socchiusi
di quella luminosità diffusa, a godere dell’odore e del sapore del
miele spalmato sul pane, stordita ed ubriacata da quell’essenza di fiori
che faceva sentire stupendamente male."
E, a voce alta, a riflettere "È sorprendente come
la primavera non s’avverta in città. Qui par di vivere prigionieri
di un’unica, artificiosa stagione dove la pioggia, la neve, il polline
o la calura sono solo elementi di disturbo e fastidio. Quanti saranno quelli
che vivono fuori dal mondo, fuori dal tempo?"
La quintessenza della pace non poteva che apparire bella
come Luisa.
"Ti vedo tranquillissima e serena, considerando che devi
sostenere un esame."
"Mai stata così bene prima di un esame. Ho dormito
benissimo. La tua vicinanza produce un effetto meraviglioso; mi sento cullata,
protetta, sicura," stringendosi a me "e poi, sei forte, fortissimo."
"Non sono io ad avere su di te questo effetto," e svincolandomi
dal suo abbraccio "poi, credimi, non sono fortissimo né forte. Al
mattino non riesco neanche a stringere le mani a pugno. Guarda provo addirittura
dolore."
"Ma io intendevo fortissimo per insostituibile, capisci?"
replicò.
"Eccì," un insopportabile prurito al naso e di
nuovo uno starnuto.
"Beh, è ora di alzarsi."
Nel bagno, allo specchio a parlarmi - Non ti amo, non
ti ho mai amata. Perché continui a torturarmi? Perché non
vuoi sentire? Vuoi che te lo gridi in faccia? Lasciami stare, eppure non
ti ho mai lusingata, non ho mai detto che sei bellissima, e lo sei. Va
via, va via, te ne prego. -
"Giuseppe!"
Un tonfo al cuore "Siii?"
"Ti sbrighi?"
"Esco." - Quando troverò il coraggio di interrompere
questa bugia tremenda? -
Ma la paura che l’amore di Luisa si trasformasse in odio
mi atterriva più dello stesso inganno.
- No, no; devo ricorrere solo alla bugia per scacciare
la bugia. Mi allontanerò gradualmente, inesorabilmente e tutto cesserà
all’improvviso così come è iniziato.-
Il mattino trascorse estraneo ed impalpabile sulla scia
di tali pensieri poi, nel pomeriggio, non senza indugi, raggiunsi Luisa
all’ateneo. Nell’aula degli esami, conobbi Giulio, come me, anche lui ad
incoraggiare e sostenere la sua girl-friend.
Luisa lo conosceva ma non ebbe modo di presentarmelo.
Egli discorreva animatamente con un ragazzo seduto nella fila dietro la
sua, un po’ scostato al suo fianco. L’uno torceva il collo, l’altro lo
allungava. Forse proprio per quella posizione scomoda, Giulio preferì,
ad un tratto, continuare il suo infervorato soliloquio con me che gli stavo
più comodamente seduto a lato.
Ce l’aveva a morte con un professore, un certo Nardis
o Leonardis.
"Non c’è forza più pericolosa della posizione
sociale che l’individuo occupa," diceva. "Ciascuno lotta per mantenere
la sua posizione e cerca al tempo stesso di guadagnarne un’altra. Ognun
di noi, consapevolmente o meno, finisce per esercitare un potere di controllo
sull’altro; controlla chi può o no occupare il suo posto. A volte,
però, cazzo, qualcuno esagera. E non mi si venga a dire che la fortuna
o la disgrazia del singolo dipendano solo dalle sue capacità. Il
sessantotto avrà pur rappresentato qualcosa, un momento di rivalsa
delle forze emergenti sulle forze posizionate ma, a distanza di tanti anni,
le cose tornano come prima; ora sono gli ex sessantottini, quelli che pretendevano
il diciotto politico, a barricarsi nella loro posizione, ad esercitare
il controllo come meglio credono. Per molti di loro, noi rappresentiamo
un pericolo, rappresentiamo l’incognita del loro futuro."
Considerando la convinzione e la veemenza con cui esponeva
le sue idee, non mi sarei meravigliato se quel tal Leonardis, prima o poi,
fosse saltato in aria. Ma la verità era ben altra; Giulio o come
tutti lo chiamavano, ‘il poeta’ , era l’essere più innocuo di questo
mondo e se quel giorno parlava con tale acredine avrà avuto i suoi
buoni motivi. Ma ciò lo compresi solo successivamente, quando lo
conobbi realmente.
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