1.6- Un’economia di distretti: il “Modello Emilia”

L’economia modenese si è dunque molto evoluta negli anni che hanno seguito la seconda guerra mondiale. In questi decenni nella nostra provincia ed in tutta la regione si è diffuso un tipo di sistema economico definito “distretto industriale”.

Il distretto industriale è in genere costituito da molte imprese chiamate mini (con meno di venti addetti), da un buon numero di imprese chiamate piccole (da venti a cinquanta addetti), da alcune imprese medie e da alcune imprese grandi. La sua dimensione complessiva è variabile: si può andare da 5.000 lavoratori a 30.000, con punte di 50.000 addetti. Queste imprese operano in un territorio ristretto e la loro attività presuppone una forte integrazione verticale tra le imprese stesse: un distretto metalmeccanico, oltre a ditte che producano automezzi o trattori come nel caso di Modena, includerà anche imprese che producano tutti quei prodotti intermedi che serviranno poi per approntare il prodotto finito.

Le imprese del distretto industriale si dividono sostanzialmente in tre grandi gruppi. Il primo è quello delle imprese che producono il prodotto finito. Altre imprese, invece, compiono una o più delle fasi di lavorazione che sono necessarie per arrivare al prodotto finito. Al terzo gruppo appartengono quelle imprese che lavorano per il settore verticalmente integrato.

Per Sabel, che ha studiato questo fenomeno negli Stati Uniti, le grandi imprese tendono a dividersi in imprese sempre più piccole lasciando ad alcune di esse il compito di progettare e vendere il prodotto finale, rendendo autonome quelle che prima erano semplici divisioni d’impresa. Un esempio lampante è quello della Rank Xerox che, alla caduta del fordismo, espelle dalla casa madre la divisione che produce lenti e la trasforma in una unità giuridica autonoma, seppure sempre controllata dalla casa madre stessa. L’effetto più evidente è che essa comincia così a produrre per tutto il mercato, oltre che per la Rank Xerox. Questa situazione porta ad alcuni vantaggi come per esempio il fatto che un’impresa che sta sul mercato deve essere tecnologicamente al passo ed è quindi sottoposta ad un maggiore controllo.

Questo meccanismo per Sabel è molto simile a quello che avviene in un distretto: in esso alcune funzioni aziendali non possono essere svolte all’interno di un’impresa troppo piccola, quindi il distretto delega queste funzioni ad imprese in grado di svolgerle.

In un distretto si realizzano tre importanti equilibri: tra cooperazione e concorrenza, nelle relazioni industriali e nell’area del sapere. Per quanto riguarda il primo vi è una forte concorrenza di prezzo, di idee, di qualità. Non vi è collusione ma vi è un’ampia area di cooperazione, soprattutto tra sub fornitori e venditori di prodotti finiti.

Per quanto riguarda le relazioni industriali è bene ricordare che, nel caso dell’Emilia, esse sono caratterizzate dalla presenza di un sindacato forte e abbastanza ragionevole, che non ha mai praticato operazioni di luddismo o di sabotaggio dei macchinari per raggiungere i propri scopi. Questo sindacato, pur facendo richieste alte rispetto ai valori medi nazionali, non fa però mai richieste eccessive; si ha così un basso numero di ore di sciopero. Questa situazione, se porta all’imprenditore un prezzo più alto in termini di costi di lavoro maggiori, gli consente però di potere programmare meglio il lavoro. Questo complesso equilibrio tra la forza e la ragionevolezza del sindacato è uno degli assi portanti del distretto industriale.

E’ infine necessario un equilibrio nel sapere, inteso come una scuola che offra una adeguata formazione professionale, inteso come abilità dei lavoratori nel fare, inteso come una mobilità sociale all’interno del distretto stesso che consente uno scambio di esperienze e di sapere tra i lavoratori stessi.

In Italia i distretti industriali si sviluppano soprattutto in Emilia ed in Toscana. In particolar modo nelle nostre zone acquisiscono grande importanza dando vita a quello che viene chiamato il “Modello Emilia”.

L’Emilia è caratterizzata da un tasso di disoccupazione inferiore rispetto al resto dell’Italia e da una crescente quota sul totale delle esportazioni nazionali, come si nota dalle seguenti tabelle Istat.

 

 

Tabella 1.3: Tasso di disoccupazione in Emilia Romagna e in Italia 1971-1980 (Dati Istat).

                                                               Emilia Romagna                                     Italia

Anno

Vecchia serie

Nuova  serie

Vecchia serie

Nuova  serie

1971

2,7

Nd

3,2

5,4

1972

3,0

Nd

3,7

6,4

1973

2,9

Nd

3,5

6,4

1974

2,3

Nd

2,9

5,4

1975

2,9

Nd

3,3

5,9

1976

2,8

Nd

3,7

6,7

1977

 

5,2

 

7,1

1978

 

5,7

 

7,2

1979

 

5,9

 

7,6

1980

 

5,7

 

7,6

 

Tabella 1.4: Esportazioni dell'Emilia Romagna in percentuale sul totale delle esportazioni italiane 1963-1980 (Dati Istat).

1963 6,0

1964 6,3

1965 6,3

1966 7,0

1967 7,0

1968 6,5

1969 7,1

1970 7,7

1971 7,9

1972 8,1

1973 7,9

1974 7,5

1975 8,6

1976 8,4

1977 8,8

1978 8,8

1979 8,9

1980 9,4

 

In Emilia si ha una struttura industriale del tutto anomala rispetto al resto dell’Italia. Come dimostra la seguente tabella, nella nostra regione si trovano moltissime piccole imprese, spesso con meno di dieci addetti, che sono in genere raggruppate, sulla base del tipo di prodotto, in zone relativamente piccole e che danno luogo ad aree monoculturali in cui tutte le imprese hanno un basso livello di integrazione verticale e nelle quali il processo di produzione si svolge attraverso la collaborazione di molte imprese: i distretti.

 

Tabella 1.5: Occupazione nelle imprese manufatturiere per dimensione dello stabilimento nel 1971 (Dati Istat).

 

Emilia Romagna

Italia

< 5 addetti

20,5

17.6

5 – 9

7,3

5,8

10 – 19

10,4

8,4

20 – 49

14,7

12,5

50 – 99

12,7

10,2

100 – 249

15,3

13,2

250 – 499

8,4

9,0

> 500 addetti

10,7

23,3

 

Nella nostra regione è quindi assai diffusa la pratica del cosiddetto “decentramento”: è accaduto sempre più spesso che le imprese che avevano accesso al mercato dei prodotti finiti commissionassero all’esterno lavorazioni o componenti che venivano prima prodotti all’interno della fabbrica.

A Modena e a Reggio Emilia il 50% delle imprese industriali che lavorano nel settore della maglieria compie soltanto le lavorazioni necessarie per produrre i campioni e per l’imbustaggio e la spedizione dei capi prodotti. Tutto il resto delle operazioni è decentrato.

Le cause di questo fenomeno sembrano essere sostanzialmente due. La prima va ricercata nella presenza di un sindacato forte che ha acquisito, nelle grandi fabbriche, forza sufficiente per opporre ai licenziamenti ostacoli difficilmente superabili e per esercitare un certo controllo sulle condizioni di lavoro e sull’organizzazione del lavoro stesso. Nelle imprese più piccole, viceversa, la capacità di iniziativa e di controllo sindacale non si è sviluppata nella stessa misura.

Inoltre, a partire dagli anni ’60, accanto alla domanda di beni standardizzati è venuta accrescendosi una produzione più varia e personalizzata, basata su serie più corte. Prima che il mercato subisse questa evoluzione, questi beni erano prodotti secondo i canoni introdotti dal taylorismo e dal fordismo.

Nella provincia di Modena nel secondo dopoguerra si sono sviluppati diversi distretti. Tra questi quello metalmeccanico si è segnalato come uno tra i più fiorenti. Il nucleo più robusto riguardava la produzione di macchine per l’agricoltura con uno stabilimento come quello della Fiat Trattori che era divenuto il più importante d'Europa ed il quinto del mondo per quantità di prodotto.

Nell’analisi di Sebastiano Brusco e di Giuliano Muzzioli lo sviluppo del distretto metalmeccanico modenese si può dividere in cinque fasi. In una prima fase, tra gli anni ’30 e la seconda guerra mondiale, si ebbero l’insediamento e l’evoluzione di alcuni significativi nuclei di tale distretto. Dal 1948 si apre una seconda fase contraddistinta da un’ondata di licenziamenti che coinvolse negli anni successivi oltre diecimila lavoratori. Tra questi licenziamenti particolare importanza rivestono quelli messi in atto alla Fiat trattori in quanto, oltre ad avere lo scopo di scoraggiare l’adesione dei lavoratori ai sindacati dal momento che colpirono in modo particolare i dipendenti appartenenti alla CGIL, furono la conseguenza della riorganizzazione tecnologica adottata nella fabbrica che mirava ad una riduzione degli occupati ed all’utilizzo di una forza lavoro meno qualificata. La decisione che scaturì da questa eccezionale ondata di licenziamenti da parte di operai e tecnici che avevano perso il proprio lavoro fu quella di intraprendere attività in proprio e si intersecò con una nuova spinta imprenditoriale che si ebbe negli anni ’50 e che, a tratti, si sovrappose con la fase precedente. Nacquero così i primi villaggi artigiani che divennero in breve tempo una caratteristica del capoluogo e di altri importanti centri urbani della provincia. Dalla fine degli anni ’70 ai primi anni ’80 l’industria metalmeccanica modenese ha vissuto una quarta fase caratterizzata da un importante aumento (oltre il 20% dal 1971 al 1981) degli addetti all’industria. La crisi avvenuta verso la metà degli anni ’80 ha poi aperto una quinta fase nel corso della quale il settore metalmeccanico vive un processo di profonda ristrutturazione derivante dall’introduzione di nuove tecnologie elettroniche.

Altro importante distretto della nostra provincia è il distretto ceramico. Questo inizia lentamente la sua attività ad inizio secolo, si sviluppa negli anni ’40 e cresce vertiginosamente con l’espansione dell’edilizia che si ebbe nel periodo post bellico. La sua attività si è concentrata nella zona di Sassuolo ed in alcune parti dell’Appennino modenese dove si sono creati numerosi casi di integrazione verticale.

Nel carpigiano si è invece passati dall’attività del truciolo alla maglieria che ha però conservato le modalità organizzative e produttive della lavorazione del truciolo, come ad esempio l’utilizzo di manodopera femminile e la vasta rete di lavorazioni a domicilio. Lo sviluppo di tale distretto è da attribuirsi alla grave crisi che negli anni successivi alla seconda guerra mondiale ha colpito le tradizionali aree di produzione tessile come Biella, Pavia e Vicenza, nonché dalla importante penetrazione dell’industria tessile carpigiana nell’importante mercato tedesco.

Un ultimo importante distretto che si è creato nel modenese è il distretto biomedicale della zona di Mirandola che ha contribuito a rallentare il decremento demografico in atto negli anni ’50 e ’60 in quella città creando un tendenza opposta.