La Mediazione PedagogicaLiber Liber

Antonio Gramsci, il tema degli intellettuali-educatori e gli strumenti del consenso educativo.
di Elisabetta Colla

5. L'intellettuale come educatore: gli "strumenti del consenso"

Dopo aver delineato un sintetico quadro della figura, ruolo e funzioni degli intellettuali nel pensiero gramsciano, dall'intellettuale 'tradizionale', con le sue caratteristiche ed i suoi limiti storici, a quello 'organico', incarnazione di un'auspicata nuova epoca ed interprete-autore di eventuali nuovi rapporti di classe, bisogna ora approfondire uno degli aspetti pedagogicamente più stimolanti di quella riflessione: l'intellettuale nuovo, per rispondere alla sua "chiamata" storica, deve, necessariamente farsi educatore, nei diversi ambiti che gli sono consoni.

Laddove egli opera svolgendo i propri compiti, deve portare avanti una "missione" culturale organica alla realtà circostante e capace di modificarla, offrendo una presenza vitale e "appassionata" nella società, sempre attento alle esigenze dle popolo-massa e volto a realizzare le condizioni per una nuova egemonia. Si potrebbe dire che tale missione inerisca alla natura stessa dell'intellettuale, il quale deve prenderne atto e conformarvisi positivamente ed attivamente.

Bisogna ora sottolineare come tutto questo sforzo educativo del sostrato sociale  debba svilupparsi in quegli organismi sovrastrutturali che compongono (nella visione gramsciana) la società civile e che, oltre ad avere un forte potere educativo-formativo, sono deputati al consenso ed alla partecipazione dei vari gruppi sociali.

L'intellettuale-educatore opera in queste formazioni, mettendo a frutto la propria "specializzazione", di qualsiasi grado essa sia e mediando il rapporto fra realtà, cultura e società.

Sappiamo che il "rapporto pedagogico", identificato con il rapporto di egemonia, viene ampliato, da Gramsci, dall'ambito scolastico tout court, al più ampio contesto delle relazioni globali in seno alla società

Dunque, fra gli strumenti educativi individuati da Gramsci, oltre alla scuola, ci sono tutte quelle "istituzioni" pubbliche o private aventi una reale portata educativa: all'interno di esse, infatti, si muovono gli intellettuali e si filtra la cultura, si educa o si "diseduca".

Guardando ai Quaderni del carcere ci accorgiamo di come Gramsci, col passare degli anni, maturi una sempre maggiore chiarezza riguardo a questi strumenti del consenso69. Vediamo affiancarsi così, alla scuola, la stampa (i giornali) - vista da Gramsci come mezzo di diffusione delle idee, fortemente capace d'influenzare l'opinione pubblica- , il teatro ed il cinematografo - considerati strumenti di pseudo-cultura -, le biblioteche, le università, i partiti politici ed i sindacati. E' in questi diversi ambiti (ed in altri ancora) che va portata avanti, per citare le parole di Monasta, quella "ricerca dei processi autenticamente educativi e formativi che passano nella società attraverso momenti ufficialmente non ritenuti come 'educativi' in senso tradizionale"70.

La scuola

Già negli scritti giovanili Gramsci si era posto più volte il problema della scuola e quello di una nuova cultura, vedendoli ambedue collegati con il problema politico.

In un articolo apparso sul "Grido del popolo" del 29 gennaio 1916, intitolato "Socialismo e cultura", Gramsci, richiamandosi a Vico e Novalis come personalità che hanno compreso il vero significato del termine cultura (cioè conquista progressiva del proprio sé storico, quale condizione preparatoria alla successiva relazionabilità con altri sé coscienti o ancora da svelare, e capacità di esercizio critico) giunge ad un'esortazione all'abbandono della cultura enciclopedica, deteriormente razionalistica e pedantesca al fine di favorire, dopo essersi posti "fuori dal caos" e come "elementi di ordine", la libera circolazione di idee nuove, potenzialmente raggiungibili da tutti.

Lo spirito polemico che Gramsci effonde verso questo mondo pedagogico culturale che lo circonda nei primi anni del secolo, un mondo estremamente retrivo e deciso a permanere tale, è una costante degli scritti giovanili, che non va mai, però, disgiunta da un'altra idea gramsciana, cioè quella di porre sempre un'alternativa, un momento costruttivo e di "fuga in avanti".

In un altro articolo, sempre del 1916, intitolato "Uomini o macchine"71 ,Gramsci occupa più da vicino del problema della scolastico, criticando la scuola borghese come scuola del "privilegio", per i "privilegiati" anziché per i più meritevoli e per i più degni. Si è venuta creando una frattura insanabile tra le scuole per il proletariato (tecniche e professionali) e quelle per i "giovani figli della borghesia" (le scuole classiche). Tale distinzione, sancita in buona fede dal ministro Casati, e degenerata poi per necessità di bilancio statale, si basa su elevatissime tasse d'iscrizione e sulle esigue possibilità lavorative offerte dalle scuole "disinteressate". Gramsci rivendica, anche per il proletariato, l'accesso a questo tipo dis cuole, che modellino il carattere dei giovani senza prefissare per ciascuno delle direzioni obbligate. "La scuola professionale, specifica Gramsci, non deve diventare un'incubatrice di piccoli mostri aridaemnte istruiti per un mestiere, senz aidee generali, senza cultura generale, senza anima, ma solo dall'occhio infallibile e dalla mano ferma. Anche attraverso la cultura professionale può farsi scaturire dal fanciullo, l'uomo. Purchè essa sia cultura educativa e non solo pratica manuale"72.

Contro le tendenze alla "macchinazione" del lavoratore, appiattito nella pura manualità, ed alla riduzione dell'uomo ad un "congegno", privato di idee e di pensieri autonomi, deve battersi prima di tutto la scuola. Sulle pagine dell'Ordine nuovo73, nel 1919, Gramsci accusa da un lato la classe borghese di non essersi mai realmente preoccupata del problema scolastico, altrimenti - sia pur per interesse - la scuola sarebbe una "cosa viva" mentre languisce invece nelle mani di persone incompetenti, scelte esclusivamente per il colore politico74; dall'altro lato lo stesso è per i socialisti, i quali, con le loro proposte prive di reale forza alternativa all'ordinamento esistente, hanno accettato che la scuola professionale fosse la scuola degli operai 75.

E' già visibile, dai pochi cenni fatti alle opere giovanili di Gramsci, quale sia il mondo scolastico, e al tempo stesso politico, da cui Gramsci vuole allontanarsi (allontanando anche, da tale mondo, con le sue esortazioni, i lettori dei suoi articoli, e svolgendo quindi egli stesso una funzione educativa), un mondo di intrighi e di grettezza burocratica, disinteressato ad una cultura vivente e organica, in grado di produrre intelligenze libere e capaci di atti politici volontari.

Troviamo già contenuta, in nuce, la polemica fra scuole professionali e scuole classiche, che si acuirà con l'entrata in vigore della Riforma Gentile, nel 1923, e contro la quale Gramsci parlerà apertamente nei Quaderni, denunciando che con essa è stata introdotta una vera scuola "classista". Le critiche che Gramsci muove alla riforma Gentile sono innumerevoli: le più importanti riguardano la divisione troppo netta fra scuola e vita e fra scuola e società, da cui deriva una frattura ormai "ufficializzata" fra strati sociali. Se la vecchia legge Casati aveva istituito una scuola tecnica all'avanguardia per l'epoca, che forniva una cultura generale permettendo anche l'accesso ad eventuali studi superiori, negli anni successivi questa scuola era divenuta sempre più specialistica e degradata nelle sue funzioni. Gentile, inoltre, aveva sanzionato anche un'ulteriore distinzione, invisa a Gramsci, quella fra scuole elementari e medie da un lato e scuole superiori dall'altro. Nelle prime era stato reinserito ed ampliato l'insegnamento della religione cattolica; inoltre il maestro, secono la pedagogia gentiliana (ed in genere idealistica) doveva svolgere un ruolo di filosofo-esteta, non fornendo al fanciullo nozioni 'concrete'. In questo modo, secondo Gramsci, la scuola rischiava, laddove aveva più bisogno di un certo dogmatismo, cioè nelle scuole elementari e medie, di cadere nella pura retorica, privando i discenti di qualsiasi materiale concreto che essi potessero elaborare e far proprio76. Nei Quaderni, Gramsci prende una posizione di netto distacco da due fra i massimi esponenti della pedagogia idealista che, pure, avevano fatto largamente parte del suo mondo giovanile, cioè Giovanni Gentile e Lombardo Radice.

Secondo il Manacorda77, Gramsci rivendica il valore normativo delle nozioni, credendo che anche l'istruzione, intesa come insegnamento dogmatico, abbia un proprio valore educativo; all'opposto, Gentile rifiuta il concetto dell' "allievo come meccanico recipiente", da riempire di nozioni, e crede fondamentalmente in un'educazione formale-formativa contrapposta a quella puramente informativa. Prima, con la legge Casati, il fanciullo-ragazzo apprendeva le nozioni insegnategli riguardo alla scienza ed ai diritti e doveri dei cittadini, ed esse gli permettevano comunque, anche se minimamente raccolte o approfondite, un arricchimento personale, una reazione diversa e "attiva" per ciascun individuo, nei confronti di un materiale di studio concreto. Un elemento distintivo del "rapporto pedagogico" tra Gramsci e Lombardo-Radice è da ravvisarsi nel diverso ruolo da essi attribuito al maestro che, se in quest'ultimo svolge una funzione creativa molto importante, che attiva le capacità degli alunni e ne è a sua volta attivato, in Gramsci non è mai considerato come elemento singolo, ma sempre nell'ambito della collettività degli educatori78. Nel corso delle successive stesure dei Quaderni, si nota come Gramsci tenda ad unificare le note sugli intellettuali e quelle sulla scuola, che, in stesure precedenti, rimanevano ben distinte nei tiotli e nei contenuti.

Nei Quaderni 4 e 12 Gramsci parla di una "crisi scolastica" esistente in Italia e derivante dalla mancanza di una pianificazione attenta e consapevole, oltre che di "principi chiari e precisi" nel porsi di fronte ad un dato di fatto inequivocabile, e cioè che: "nella civiltà moderna tutte le attività pratiche sono divenute così complesse e le scienze si sono talmente intrecciate alla vita che ogni attività pratica tende a creare una scuola per i propri dirigenti e specialisti e quindi a creare un gruppo di intellettuali specialisti di grado più elevato, che insegnino in queste scuole"79.Qui Gramsci, che pure parla di un intellettuale-specialista, si riferisce all'aspetto negativo dello specialismo, quello che priva totalmente la cultura della dimensione "umanistico-formativa". Dunque, la crisi in cui verte la scuola, secondo Gramsci, è ravvisabile nel mancato equilibrio del rapporto tra attività pratico-specialistiche e formazione culturale "disinteressata" al tempo stesso la crisi "del programma e dell'organizzazione scolastica (che Gramsci sottolinea, in seconda stesura, essere identificabile con la più generale crisi della politica formativa "dei moderni quadri intellettuali" ), risulta esere una complicazione della ancor più globale "crisi organica" che investe la società80. Gramsci lamenta che, se prima esistevano due tipi dis cuole ben distinte, quelle "classiche" e quelle "professionali", destinate rispettivamente alla formazione dei giovani delle classi dominanti e di quelli delle classi strumentali, ora, con la già discussa Riforma Gentile, si è venuto creando un terzo tipo di scuola, quella tecnica, che, pur non conducendo ad una cultura disinteressata, neppure tende a dare una concreta istruzione manuale. Se, precedentemente, la scuola era perciò "oligarchica" (e ciò non per il modo d'insegnare ma bensì perché, mantenendo la rigida separazione fra i due tipi di scuole, perpetuava un medesimo status sociale di generazione in generazione), d'altro canto le nuove forme scolastiche non sono da meno, e producono un duplice effetto negativo81. Da un lato, col venir meno delle scuole disinteressate, si perde nei giovani la capacità di imparare a pensare e a "sapersi dirigere nella vita", che le scuole con immediati interessi pratici non sono in grado di assicurare; dall'altro, e ciò è ancor più grave, le scuole professionali, considerate altamente democratiche, non fanno altro che perpetuare la distinzione fra classi, cristallizzandole in forme definitive82.Gramsci pertanto critica: "l'illusione che una scuola diversificata, come l'attuale, possa essere democratica, in quanto tende a suscitare diversificazione, mentre la vera pedagogia democratica consiste nel fare di ogni cittadino un governante, nel far coincidere governati e governanti, unificando il genere umano…"83. Gramsci rimprovera dunque alla Riforma Gentile di aver distrutto quel "principio educativo" che dava fondamento e unità alla scuola elementare, e che egli ravvisava nel "lavoro": esso, infatti, metteva in contatto il fanciullo al tempo stesso con la vita naturale (attraverso le studio delle scienze) e con la vita sociale (attraverso l'apprendimento di una "educazione civica"), che corrispondono, secondo Gramsci, rispettivamente al "concetto" e al "fatto" del lavoro.84

Dalla soppressione del vecchio principio educativo nasce, in Gramsci, l'esigenza di ricreare un nesso unitario educativo-culturale; tale possibilità, che sembra trovare un diretto riscontro nella "scuola unica del lavoro"85, realizzata in Unione Sovietica dopo la Rivoluzione socialista86 e che corrisponde probabilmente al modello reale cui Gramsci ebbe a conformarsi, viene da lui presentata come concretamente attuabile tramite una "scuola unica di cultura generale" (umanistica e formativa), sola risposta razionale alla crisi, e capace di sviluppare, al tempo stesso il lavoro manuale e quello intellettuale87.

Le proposte fatte da Gramsci per la scuola unica implicano la riorganizzazione concreta di quella attuale: le scuole elementari dovrebbero avere la durata di 3 o 4 anni ed insegnare, in modo "relativamente" dogmatico88, le nozioni basilari del leggere, dello scrivere e del far di conto, oltre ai primi rudimenti riguardo allo Stato e alla società. Il ginnasio dovrebbe essere di quattro anni ed il liceo di due, cosicchè il giovane, a sedici anni, avrebbe già terminato il corso di studi "unico", e sarebbe pronto ad affrontare gli studi universitari o il mondo del lavoro. Gramsci si pone il grosso problema di rivedere il metodo d'insegnamento tipico del Liceo, che egli ritiene troppo legato alle esperienze del precedente ginnasio e poco proiettato, invece, verso il metodo universitario. I giovani arrivano "impreparati" all'università, dove da un lato si richiede una capacità creativa nello studio (e non più solo ricettiva) e dove, dall'altro, giocano un ruolo fondamentale "l'autonomia morale" e "l'autodisciplina intellettuale", a cui spesso gli studenti non sono abituati, per lo meno non nel grado necessario. Questo salto fra il Liceo e l'Università implica un vero e proprio squilibrio (invece di un passaggio graduale) tra la "quantità (età)" e la "qualità (maturità intellettuale e morale)"89. Molto importante, in Gramsci, è anche la questione del rapporto fra "spontaneità" e "direzione": fin dai suoi primi scritti Gramsci compare fortemente attratto da tale problematica: se lasciare che il bambino dispieghi autonomamente, nel corso del tempo, la propria spontaneità, le proprie attitudini innate (ed è questo un motivo che richiama con evidenza Rousseau), oppure se è necessario, attraverso un'opera "autoritaria", svolta attraverso la scuola, gli insegnanti, i genitori, dare al bambini informazioni esterne, che egli dovrà poi elaborare entarndo in contraddizione col "suo" mondo di idee e conoscenze. Già sappiamo quale sarà la scelta di Gramsci fra l'"essere spontaneisti (cioè rousseauiani) o, invece, "volontaristi" (dirigere con autorità il fanciullo)90. Quelle nozioni che la vecchia scuola elementare forniva, e in favore delle quali abbiamo visto battersi Gramsci, rappresentano proprio il mezzo con cui il fanciullo ha la possibilità di entrare in lotta contro le concezioni folkloristiche, magiche, superstiziose (e dunque arretrate), oltre che prettamente individualistiche, del proprio ambiente di provenienza; queste stesse nozioni danno anche al bambino: "l'appiglio allo sviluppo ulteriore di una concezione storica, dialettica del mondo, a comprendere il movimento e il divenire, a valutare la somma di sforzi e di sacrifici che è costato il presente al passato e che l'avvenire costa al presente…"91.

Riappare un concetto già incontrato, quello della lotta, e di nuovo contro l'ambiente, per trasformarlo e dominarlo, adeguandolo ai tempi storici. Una lotta simile va combattuta anche contro la parte deteriore di sé stessi, per acquisire, attraverso un vero e proprio tirocinio intellettuale, le giuste abitudini allo studio, allo sforzo psico-fisico, alla concentrazione prolungata. E' vero che per i fanciulli provenienti da famiglie con una tradizione di studi alle spalle, tutto questo risulta più facile, giacchè essi assorbono dall'ambiente stesso in cui vivono quegli elementi che a molti altri costano invece un incessante e faticoso lavoro. Per questo al scuola deve offrire a tutti delle possibilità di "recupero"; Gramsci ritiene, parlando dell'autodidattismo, che sia un'ipocrisia ed un luogo comune il fatto di esaltare l'autodidatta e l'educazione autonoma in genere, per non dover, come sarebbe invece giusto e necessario, darsi pena ad "organizzare alcun apparato di cultura" e per "negare ai poveri il tempo da dedicare allo studio"92.

Appare improrogabile a Gramsci la necessità che ciascun individuo acquisisca degli "strumenti logici" che, ben lungi dall'essere innati, debbono essere assimilati storicamente ed essere appresi sempre in modo vivente e mai passivo. Così, ad esempio, lo studio del latino nelle scuole medie aiuta i ragazzi, abituandoli a "studiare in un determinato modo(…), a ragionare, ad astrarre schematicamente pur essendo capaci dall'astrazione a ricalarsi nella vita reale immediata, per vedere in ogni fatto o dato ciò che ha di generale e ciò che ha di particolare, il concetto e l'individuo"93.

Tornando alla questione degli spontaneisti, Gramsci ritiene che se essi, come del resto gli idealisti, avevano assolto ad una specifica funzione di rinnovamento pedagogico, opponendosi ai positivisti ed all'educazione gesuitica, tale posizione si sia però eccessivamente dilatata. Parlando della scuola attiva Gramsci ne denuncia il carattere ancora "romantico" (dovuto alle necessità polemiche) ed auspica l'avvento di una fase "classica e razionale" che porti la scuola attiva al suo compimento, cioè alla scuola creativa (essendo, la prima, volta a disciplinare, e la seconda ad "espandere la personalità divenuta autonoma…"). L' iter della "scuola unica" da un iniziale dogmatismo verso un sempre maggior autonomismo), porterebbe i giovani, secondo gramsci, "ad un certo grado di maturità e capacità alla creazione intellettuale e pratica, e di autonomia nell'orientamento e nell'iniziativa"94, che fornirebbe loro un passaporto per immettersi nelle attività sociali prescelte. Interessanti le considerazioni di due autori a questo proposito: il Ragazzini ritiene che Gramsci, nell'organizzazione della nuova scuola, dia attenzione contemporaneamente allo sviluppo psicologico dei giovani alunni ed agli scopi finali che tale scuola intende raggiungere. Gramsci rifiuterebbe, cioè, l'idea di costituire personalità statiche ed immutabili, auspicando invece "un'aderenza dinamica allo sviluppo infantile, non spontaneisticamente, ma in riferimento agli obiettivi educativi"95. Lo stesso autore pone l'accento sul ruolo del maestro-insegnante, come inteso da Gramsci, cioè come elemento di "contraddizione, con un approccio che aiuta a svelare i complessi rapporti ambientali e sociali, facendone prendere razionalmente atto. Dunque un rapporto che aiuterebbe sia il discente sia l'insegnante a comprendere le ambivalenze della società per poterle, in piena libertà, superare96. Anche il Broccoli ribadisce questo punto di vista, parlando dello "storicismo educativo" di Gramsci (che si frapporrebbe fra la concezione pedagogica cattolica e quella immanentistica), in cui il maestro userebbe la disciplina per "rappresentare al fanciullo le ragioni essenziali dell'ambito storico e di quello naturale"97. Se il maestro si limitasse ad "osservare un inesistente 'sgomitolamento' del bambino", o se tentasse di conformare la personalità nella direzione dell'ambiente 'dominante' egli avrebbe fallito il suo compito educativo98. Quindi Gramsci attribuisce una funzione per così dire "maieutica" al maestro, soprattutto nelle prime tappe di apprendimento del bambino; in seguito, tale funzione si andrà modificando nel senso di una "reciproca educazione".

Un accenno va fatto riguardo alla posizione di Gramsci sulle Università: egli si mostra sostanzialmente contrario al metodo usato nelle Università italiane - quello cioè della lezione-conferenza da parte dl professore - rispetto al quale propone l'uso del "seminario", che implica una maggior partecipazione degli allievi99. Gramsci, parlando dell'insegnamento superiore, si distanzia dal dogmatismo, per volgersi allo studio creativo: non solo, egli auspica un collegamento fra le Università ed altre organizzazioni culturali esistenti, le Accademie.

>Queste ultime, che Gramsci considera come dei "cimiteri della cultura" dovrebbero trasformarsi in fervidi circoli culturali per coloro che non frequentano l'Università: in questo modo esi potrebebro coltivare delle attività intellettuali e si realizzerebbe una feconda circolazione di cultura nello scambio di idee e risultati con le Università stesse. Dunque l'Università, nelle sue specializzazioni diverse, e nel suo formare gli intellettuali di una generazione o di un'epoca, dovrà necessariamente fornire una cultura che sia anche contributo personale e capacità di giudizio; e Gramsci sapeva bene che gli intellettuali, futuri educatori, avevano bisogno di questo genere di cultura.

La stampa

Fra gli strumenti formativi 'occulti'100, un altro che riveste fondamentale importanza nella riflessione gramsciana è senz'altro la stampa. Gramsci era stato un assiduo lettore prima ancora di essere giornalista, in particolare delle riviste italiane che avevano svolto un'attività culturale negli anni precedenti alla Grande guerra, riviste come "La Voce", "L'Unità" o "La Critica" di Benedetto Croce. Nell'ambito della sua formazione politica Gramsci si dedica all'attività giornalistica, ad esempio sulle pagine del "Grido", nel 1917, e si avverte ben presto una rottura con la linea usuale del giornale, ed una "nuova concezione del giornalismo", perseguita da Gramsci a poco a poco e le cui finalità si andranno ad intrecciare con le tematiche politiche più scottanti di quegli anni e con una vera e propria propaganda delle idee socialiste.

Molti di questi giornali portavano avanti, secondo Gramsci, dei tentativi generosi ma disperati, di incidere sulla realtà circostante senza prima preoccuparsi di dare un'organizzazione ed un'omogeneità interna alle proprie redazioni, ai fini da perseguire ed al modo in cui perseguirli.

Gramsci, nei Quaderni, chiamerà questi giornali delle "conventicole di profeti disarmati"101 e sembrerà applicare al giornalismo (carico di forti valenze educative) criteri simili a quelli che utilizza nella riflessione, più nota, sulle istituzioni scolastiche.

Anzitutto la razionalità e l'ordine intellettuale debbono, per Gramsci, guidare le redazioni dei giornali: vanno rifiutati, anche in questo campo, l'improvvisazione, l'autodidattismo, la disorganicità nel pensiero e, di conseguenza, nel lavoro. A tale proposito egli proponeva scuole di giornalismo102, dove questo venisse concretamente insegnato e dove la collaborazione fra membri, con un indirizzo ideologico comune, potesse elevare il livello dei singoli e della redazione, dove s'insegni che il giornalismo non è solo quello derivante dalla "praticaccia"103 e non è un lavoro d'improvvisazione per dilettanti, ma richiede anch'esso una specializzazione precisa, con un impegno costante e serio.

Vediamo ribadita la preferenza accordata da Gramsci al momento della "direzione" rispetto a quello della spontaneità e la necessità sentita di un tirocinio fisico e intellettuale (in questo caso un vero e proprio apprendistato). Le riviste progettate da Gramsci, poi, non dovevano rivolgersi ad un piccolo gruppo di lettori (intellettuali), ma piuttosto trasformarsi in mezzi informativi-formativi.

Gramsci crede profondamente in un giornalismo capace di svolgere una funzione educativa, che permetta ai lettori il confronto con la realtà sociale e culturale del paese e fornisse stimoli istruttivi, sviluppando in tutti le capacità critiche. Il giornalismo deve avere un riscontro nei fatti politici del giorno ed un cronista non può essere neutrale di fronte agli avvenimenti storico-politici che si presentano, né tantomeno può "vendere" la propria penna al miglior offerente, come fa il giornale-merce della borghesia, che rispondeva sempre più alle "sofisticazioni dell'industria culturale" e che "comprava" i maggiori intellettuali perché scrivessero articoli in favore della propria linea politica. Gramsci sottolinea la necessità che il giornalismo, come la scuola, realizzi un collegamento con il contesto storico e con tutta l'evoluzione diacronica della storia, per essere strumento moderno, capace di abbracciare passato e presente.

Quando poi, immobilizzato nella sua cella, ma memore delle tante battaglie combattute su l' "Avanti!", sul "Grido del popolo" e su "L'Ordine nuovo", Gramsci si dedica alla stesura dei Quaderni, egli scriverà molte note sul problema delle riviste e dei giornali, dando preziosi consigli, a volte anche molto tecnici, su come organizzare un giornale, sul rapporto da instaurare con i lettori e sulle finalità che le riviste ed i quotidiani dovrebbero perseguire. La rubrica intitolata "Riviste tipo", infatti, verrà mantenuta dal programma originale e sarà una di quelle cui Gramsci non rinuncerà mai.

Il sommario delle riflessioni di Gramsci sul giornalismo si ritrova, però, nel Quaderno 24, uno degli ultimi, datato infatti 1934 ed intitolato "Giornalismo": qui Gramsci espone compiutamente la sua concezione del "giornalismo integrale", il quale da una parte intende soddisfare i bisogni del suo pubblico, dall'altra "intende creare e sviluppare questi bisogni e 'suscitare' il suo pubblico ad estenderne progressivamente l'area"104. Il rapporto che si deve instaurare fra il giornalista ed il suo pubblico non sembra lontano da quello esisente fra l'intellettuale organico ed il popolo: si potrebbe parlare di "giornalismo organico" al pubblico, che nasce cioè dalle esigenze di esso, per ritornare a lui in forme superiori, cioè più elaborate e tendenti a suscitare nuovi bisogni. Gramsci credeva, infatti, sostanzialmente, nella possibilità di educare, insieme ai costumi della società, anche il senso comune dell'uomo.

Il teatro e il cinema

Anche il teatro, per Gramsci, ha il potere di svolgere un'ottima azione pedagogica, soprattutto se il pubblico viene sensibilizzato con la rappresentazione di spettacoli attenti alle esigenze sociali del momento.

Il teatro, questo "servizio pubblico intellettuale"105, come lo definisce Gramsci, può coinvolgere individui di ogni strato sociale, sempre che venga evitato il monopolio delle rappresentazioni, e può essere un valido strumento educativo se si astiene dal convenzionalismo banale e dall'evasione in genere (esempio dramma d'appendice, che suscita forti emozioni ma che ha in sé scarso valore artistico).

Nei Quaderni Gramsci auspicava che gli autori teatrali cercassero un nesso fra arte e vita: egli prediligeva Ibsen106 il quale, con la sua nota "Casa di bambola" e con i drammi sritti successivamente, incompresi dal pubblico borghese, aveva dato vita ad un vero teatro di idee, i cui personaggi vibravano di una nuova e più vera personalità morale.

Dunque, di nuovo, compaiono gli elementi che regolano i rapporti tra chi fa la cultura ed i fruitori di essa, quali già avevamo visto in Gramsci a proposito del giornalismo (e della scuola): il teatro deve lottare per realizzare una nuova cultura che permetta l'avvicinamento della collettività ai grandi temi morali ed al confronto dell'uomo con sé stesso, dentro il tempo storico. Anche la critica teatrale deve svolgere, ugualmente, una funzione educativa, senza paura di esprimere giudizi troppo netti.

Molto difficili da ricostruire, data l'esiguità delle notizie a disposizione, sono le idee di Gramsci sul cinema. In generale, nelle poche note dei Quaderni (o di alcuni articoli giovanili) in cui egli se ne occupa, ne dà un giudizio piuttosto negativo, come di una "sottospecie" rispetto al teatro o come "distrazione visiva". Certo, l'intrattenimento fine a sé stesso dei primi film italiani mal si addiceva all'austera tempra del Gramsci intellettuale, che, d'altra parte, non ebbe più modo, a causa della lunghissima prigionia, di vedere successivi film di alto livello, prodotti dalle avanguardie e dal realismo. I pareri degli intellettuali europei sul cinema, prima della Grande guerra, erano discordi: alcuni negavano la possibilità che questa nuova forma estetica potesse mai produrre "arte" nel vero senso della parola; altri, al contrario, ribatezzarono il cinema come "settima arte". Alcuni critici gramsciani ritengono che il giudizio negativo di Gramsci nei confronti del cinema fosse anche dovuto al suo volersi opporre al consenso che, invece, gran parte di un certo mondo culturale italiano gli tributava (Papini, D'Annunzio, i Futuristi).

Nel primo dopoguerra il cinema muto andò trasformandosi sempre più in una forma d'arte, grazie alle avanguardie francesi e tedesche, la cui eredità fu raccolta e sviluppata dal cosiddetto "realismo" cinematografico. Lo stesso governo sovietico, dopo la Rivoluzione socialista, comprendendo il potere del cinema come strumento di propaganda fra le masse, aveva favorito la nascita del "Kino-Glas" (il Cinema-0cchio o Cinema-verità), basato su documentari girati in modo strettamente realistico. Nel 1925 Eisenstein gira il suo film più importante, "La corazzata Potiemkin": Gramsci verrà imprigionato l'anno successivo, nel 1926. E' possibile che egli non conoscesse, neppure per sentito dire, il grande realismo sovietico di autori come Vertov e Eisenstein? Non esistono, purtroppo, elementi per stabilirlo, ma si può ipotizzare che Gramsci conoscesse di nome tali autori e le loro opere, senza però poterne dare alcun giudizio in mancanza di un riscontro diretto.

Il partito politico

Un breve accenno anche alla funzione svolta dal partito politico, che Gramsci denomina come "intellettuale collettivo" e che ritiene un organismo fondamentale in seno alla società civile, nonché humus privilegiata per il sorgere degli intellettuali "nuovi".

Nei Quaderni, Gramsci isola le due principali funzioni che un partito politico deve svolgere: elaborare intellettuali organici a un gruppo sociale e compiere l'opera di mediazione (tipica dell'intellettuale, essendo infatti il partito considerato come un "intellettuale collettivo") tra questi, il gruppo dominante e gli intellettuali tradizionali, per realizzare il consenso.

Se l'élite del partito ha compiti dirigenziali ed organizzativi riguardanti "l'organico sviluppo di una società integrale, civile o politica"107, anche gli altri membri del partito sono da considerare degli 'intellettuali', perché hanno il compito, non importa a che livello, di organizzare e dirigere attività generali, cioè di svolgere una funzione educativa.

Gli organismi che realizzano il consenso sembrano avere oggi più che mai importanza, data la consistenza e lo spazio che alcuni di essi, come ad esempio i mezzi di comunicazione di massa, hanno preso. Fra di essi alcuni erano completamente sconosciuti a Gramsci, come ad esempio la televisione; ma di certo le idee educative di fondo legate alla visione del mondo e della storia che Gramsci esprime nei confronti delle sovrastrutture del suo tempo, degli intellettuali e del rapporto di questi con la società, sono da tenere ben presenti anche per noi oggi. Spesso, infatti, ci si trova inseriti in un'industria della pseudo-cultura e si rischia talvolta di perdere, anche senza averne pienamente coscienza, libertà intellettuale e senso critico.

Compito di chi educa, al contrario, per dirla con Gramsci, è tentare la realizzazione costante di una "riforma intellettuale e morale".

 

 

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