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Aspetti paradigmatici dell'arte del passeggio nel XVIII secolo
di Giuseppe G. Peota

Può un’attività semplice come la passeggiata diventare oggetto di indagine pedagogica? La risposta, apparentemente scontata, necessita in primis di una decodificazione di carattere teoretico che sia, se non illuminante, quantomeno orientativa.

Il tipo di analisi che segue abbraccia un periodo temporale definito, il XVIII secolo, e una rappresentativa area antropologica nella civiltà europea occidentale. Ora, sia la nozione di tempo sia quella di civiltà non vanno intese nella loro sostanza come unità esclusivamente endogene. Pur mantenendo una loro connotazione autonoma, i due termini agiscono in costante regime di interscambio, originando una complessa rete di snodi concettuali animati e mutanti. In tale ambito i “compiti della nuova storia”, descritti a suo tempo da Jacques Le Goff, assumono un ruolo cruciale.(1)

La nozione di tempo, “materia prima della storia”, è in questo caso da intendersi né in senso di omogeneità né tantomeno di linearità. L’elaborazione dei fenomeni storico-sociali fonda la propria poiesi “in base alla durata della loro efficacia nella storia piuttosto che secondo la loro data di produzione”.(2) Ciò significa che la passeggiata, una delle tante manifestazioni del comportamento dell’uomo nel corso della storia, può essere diversamente compresa se il nostro punto di vista tenderà ad ampliare l’orizzonte oltre l’equivoco del determinismo temporale.

Passeggiare nella natura, in un ambiente possibilmente gradevole e stimolante, oppure perdersi in una brulicante atmosfera urbana, se per certe epoche e per certi versi rappresenta un’arte da apprendere e da coltivare secondo, a volte, rigidi schemi, sotto altri profili si manifesta come piena espressione di libertà, come una equilibrata reciprocità tra azione fisica e spirituale. Tali atteggiamenti possiedono la caratteristica di modificarsi nel corso del tempo, non necessariamente in modo lineare e progressivo. Volendo mutuare un’espressione peculiare dell’astrofisica, si potrebbe affermare che essi tendono a pulsare, ora dilatandosi ora riducendosi, in rapporto allo spazio e al tempo. I soggetti di tali mutazioni, l’uomo e la società, sono gli attori di quel processo di civilizzazione di lunga durata al quale Norbert Elias ha dedicato una vita di studi e di ricerche.(3) Scoprire perché nella moderna civiltà occidentale ci si dedicava all’arte del passeggio, con chi e secondo quali norme e valori, può aiutarci a comprendere meglio non solo lo sviluppo storico di taluni processi nel loro significato intrinseco, ma anche la tendenza della mentalità attuale di fronte a tali atteggiamenti. Si potrebbe azzardare l’ipotesi che la nuova storia non sia tanto il risultato di un prevedibile corso evolutivo secondo il tradizionale schema a segmenti passato – presente – futuro, quanto l’arcano territorio di un continuo confronto dialettico tra soggetti cronologicamente distanti eppure correntemente interdipendenti. E’ innegabile, del resto, che nessuno può sottrarsi a tale corso di eventi, quindi nel bene o nel male siamo tutti protagonisti attivi di una e di tante storie.

In questo territorio la storia dell’educazione e della formazione umana è uno snodo significativo utile alla comprensione di forme e codici comportamentali non ancora sufficientemente esplorati. Il nostro sguardo, dunque, va rivolto all’uomo e alla donna, alla loro condizione storica di singoli individui e ai loro comportamenti tesi alla trasformazione del contesto sociale in cui interagiscono. L’obiettivo è quello di carpire e decifrare i significati presenti nella sfera intima e nella sfera pubblica della loro vita, una scissione così naturale che “finisce per costituire un’abitudine talmente vincolante che essi stessi non ne hanno quasi più consapevolezza”.(4) In altre parole, rivolgere l’attenzione alla civiltà e alle sue manifestazioni apparentemente più banali, equivale darsi ad una sorta di spontaneo gioco dagli esiti assolutamente imprevedibili, la cui unica certezza è la tensione verso tutto ciò che incessantemente cambia. Quasi come andare a passeggio senza una meta prestabilita ed uscirne, se non proprio arricchiti, comunque diversi.

Passeggiare secondo le buone maniere

Intorno alla seconda metà del Settecento nel Granducato di Toscana circolava un singolare manuale sulle buone maniere redatto in rima. L’anonimo compilatore, indirizzandosi in modo specifico ad un pubblico giovanile, fra diverse contingenze si diletta a dispensare utili consigli su metodi e tecniche dell’andare a passeggio.(5)

Premesso che di norma ogni paese adottava in merito usanze proprie, il buon senso voleva che ciascuno vi si conformasse, evitando in tal modo di generare improvvisi e spiacevoli inconvenienti per non offendere soprattutto la fragile suscettibilità altrui. Così, ad esempio, in Lombardia si badava molto a che il lustro dell’accompagnatore di turno non venisse ferito concedendogli nel camminare il lato rivolto verso il muro, quasi da farlo sentire più protetto da eventuali pericoli provenienti dall’esterno. Regola comune era quella di riservare durante il percorso alle persone di maggior rango o alle dame il privilegio di potersi godere l’ombra e di adattare il ritmo del proprio passo al loro, badando comunque che l’andatura non fosse né troppo veloce né troppo lenta.

Il passeggiatore educato evitava di provocare inopportuni rumori di tacchi e suole sollevando garbatamente i piedi da terra, senza trascinarli “come fanno color che son decrepiti”.(6) Anche le braccia dovevano essere controllate nei movimenti, mai troppo ampi come quelli dei villani intenti a seminare il grano, ma piuttosto sobri ed eleganti. Altra regola: camminare in modo lineare e regolare. Vi sono persone che passeggiano senza stile tanto da sembrare nel loro moto più a dei serpenti, che flettono un po’ a destra e a sinistra, o a dei cani randagi che trotterellano avanti e indietro.

Un aspetto interessante è come il passeggio fosse condizionato anche da precetti di carattere religioso, obbligando non di rado gli individui al rigoroso rispetto delle pratiche confessionali. Da questo punto di vista la Chiesa determinava proprie norme di comportamento, riservandosi peraltro il privilegio di suggestionare la vita sociale anche negli aspetti apparentemente più innocui, come appunto il semplice svago di camminare da soli o in compagnia:

“Al suon dell’AVE se con altri siamo

Di noi Maggiori, a quel tal suono muoverci

E cappello, o berretta a trarci abbiamo.

E sì scoperti star dobbiam sin tanto

Che i maggiori ginocchioni si potranno

L’Angelico per dir Saluto santo.(7)

Questi pochi esempi ci permettono già di comprendere come, da un punto di vista strettamente formativo, ai destinatari venisse richiesto l’adeguamento a tutta una serie di norme piuttosto austere. L’esercizio sulla persona di un meccanismo di autocostrizione e di autocontrollo degli istinti assume, in questo caso specifico, un significato capitale con ricadute sul piano dell’interdipendenza dei rapporti sociali del tempo. Si può tranquillamente affermare che tale processo investe la persona in tutto l’arco della sua esistenza, anche se l’infanzia e la giovinezza rimangono settori privilegiati dell’educazione. Spettava dunque alle famiglie, ma ancor più ai precettori l’incombenza di trasmettere ai giovani la sequela di prescrizioni attraverso tecniche di apprendimento mnemoniche come nel caso preso ora in esame.

All’interno di tale dinamica di divulgazione di forme di comportamento prende piede una scala di valori morali in grado di determinare nella società la sua stessa fondazione. Non si può dire con certezza fino a che punto l’operazione di “modellaggio” riuscisse a fissare appieno i suoi scopi, vero è che alle attività a prima vista più banali si richiedeva comunque l’osservazione di norme di contegno nelle quali ogni individuo potesse riconoscersi e far riconoscere il proprio ruolo sociale. Perciò se nel camminare il “giovane civile” adeguando il suo passo mostrava riguardo per una persona più anziana, rimanere indietro di una misura in presenza di qualcuno di grado maggiore simboleggiava allo stesso modo la consapevolezza di appartenere a una categoria sociale definita. Tali regole hanno la caratteristica di essere assorbite lentamente nel tempo tanto da diventare automatismi interiori difficilmente controllabili a livello di coscienza individuale. Nello stesso tempo esse segnano le tappe di un processo storico-sociale di lunga durata, non necessariamente evoluzionistico, che si può concettualizzare secondo i termini di “psicogenesi” e “sociogenesi”.(8) Detto in altre parole i precetti assimilati come autocostrizione portano gli individui ad una trasformazione della propria struttura psichica e dell’organizzazione sociale, ciò che determina in fondo il fluttuare incostante ed imprevedibile del dinamismo storico.

 

Le rêveries di Jean Jacques Rousseau.

Nel 1765 Jean Jacques Rousseau trascorse quasi due mesi nell’isoletta di Saint Pierre, sul lago di Bienne in Svizzera. Le persecuzioni contro la sua persona, cominciate con la condanna al rogo dell’Emile da parte del Parlamento parigino, e l’ossessione di un complotto ad opera della società avevano alimentato nel filosofo un profondo dramma interiore, tanto da spingerlo a cercare un rifugio sicuro nella culla della natura. I ricordi dei giorni felici trascorsi in riva al lago sono stati rievocati in un’opera pubblicata postuma nel 1778: Le Passeggiate solitarie.

Il tempo trascorso passeggiando in un luogo romito ma non ostile, comunque protetto dalle maldicenze e dalle provocazioni dei suoi nemici intellettuali, permetteva a Rousseau di apprezzare lo splendore della natura circostante. Accadeva allora che, seduto sul greto del lago, si lasciasse abbandonare al lento ed incessante flusso e riflusso delle onde: un particolare momento che gli offriva l’occasione di spaziare con l’immaginazione, affidando i propri pensieri agli imprevedibili moti della fantasticheria. Tale dinamica ci suggerisce un modo diverso di intendere e di interpretare il passeggio. Si può sostenere che l’adulto una volta fatte sue tutte le norme che regolano la tecnica e le buone maniere da adoperarsi in società, avendole prima selezionate e poi omologate per mezzo della ragione, può ora permettersi il rischio di intraprendere nuovi percorsi di tipo interiore, complice l’avvenenza della natura. E’ quello di Rousseau un itinerario che conduce molto distante, a confrontarsi col sentimento dell’esistenza, una proiezione che sfiora il pensiero romantico per poi procedere oltre. E’ sufficiente per questo abbandonarsi al “prezioso far niente”, un’occupazione certamente da privilegiati che trova nella pratica dell’ozio la sua perfetta espressione. Nel libro dodicesimo delle Confessioni il suo pensiero a questo proposito è molto chiaro, e vale la pena citarlo per esteso:

“L’oziosità che a me piace non è quella di un fannullone che resta là con le braccia incrociate in una inazione totale, e non pensa più di quanto non agisca. E' insieme quella di un bimbo che è sempre in movimento per non fare niente e quella di un farneticante la cui testa divaga non appena le sue braccia sono in riposo. Mi piace occuparmi senza posa a fare dei nonnulla, a cominciare cento cose e a non finirne nessuna; ad andare e venire come mi suggerisce la testa; a cambiare progetto ogni momento; a seguire una mosca in tutti i suoi volteggi; a volere sradicare una roccia; a intraprendere senza timore un lavoro di dieci anni, e ad abbandonarlo dopo dieci minuti; a baloccarmi, infine, tutto il giorno senza ordine e senza nesso, e a non seguire in ogni cosa che il capriccio del momento.”(9)

Che cosa ha a che fare tutto ciò con il sapore dell’esistenza? La chiave di interpretazione può esserci suggerita dal concetto di tempo. Un tempo indubbiamente in movimento, ma che è anche presente e può durare a lungo, senza per questo far notare la sua successione, “senza nessun altro sentimento di privazione o di desiderio che quello solo della nostra esistenza”.(10) Una semplice passeggiata in riva al lago può scatenare nella sua apparente sobrietà sconvolgimenti emotivi di forte intensità, all’interno di un tempo trattenuto dal costante fluttuare delle onde e dal monotono sciabordio dell’acqua. Quanto basta per essere appagati quel tanto da “rendere cara e dolce l’esistenza”.(11) Se è vero che senza movimento la vita può apparire un lungo e gelido letargo e che il troppo movimento può generare pericolosi stati d’ansia, l’equilibrio emotivo si può sicuramente trovare “in un moto uniforme e moderato, che non abbia né scosse né intervalli”.(12)

Non è una fatalità se Rousseau riconosce proprio nella natura, in questo caso nella tranquilla atmosfera del lago di Bienne, la condizione ottimale per dar libero sfogo al sentimento dell’esistenza. E’ nello stato di natura , del resto, che il comportamento umano si dispone spontaneamente alla compassione e alla benevolenza, precorrendo la moralità. Si può perciò agevolmente azzardare per il passeggio il godimento di una valenza formativa che gli è propria. L’analisi antropologica e il progetto filosofico dell’“uomo autentico”, di cui l’Emilio ne è fortemente impregnato, possono rivelarsi un’efficace chiave di lettura e di interpretazione.

Passeggiare liberamente, senza preoccuparsi troppo del vincolante assillo dell’etichetta, permette all’individuo di disporsi favorevolmente ad ogni imprevedibile incitamento della rêverie. E’ questa una condizione catartica che promuove lo sviluppo della creatività: un processo essenzialmente soggettivo che investe l’aspetto più intimo della sfera personale. Ciò non significa sfuggire alla realtà, anche se le vicende del filosofo francese ci potrebbero indurre a assecondare tale supposizione, ma al contrario è l’occasione di un viaggio all’interno del proprio essere cosciente e più segreto.

Vi è poi un secondo aspetto, di carattere più materiale, che Rousseau ci rivela nella settima delle Passeggiate solitarie. Il suo amore per la natura, e per le piante in particolare, lo impegnava non di rado a percorrere campi e boschi alla ricerca di vegetali da catalogare in un erbario. Un’attività che occupava il corpo e l’anima, il cui effettivo fine non era tanto di ordine didattico quanto di puro svago. Anche in questo caso la botanica si rivela quale conveniente strumento dell’ozio, nella definizione data da Cicerone di otium cum dignitate, esercizio riservato ai pochi fortunati liberi di scegliere l’impiego del proprio tempo, al di là di ogni subordinazione di carattere professionale.(13)

Nelle sue “corse botaniche”, errando a caso, il filosofo ritrova il piacere dei sensi potendo spaziare con lo sguardo fino “alle impressioni lievi, ma dolci, degli oggetti circostanti”, o ancora abbandonandosi agli “odori soavi” e all’armonia dei corsi d’acqua e del canto degli uccelli: “Vi ha in quest’oziosa occupazione un incanto che non si sente se non nella completa calma delle passioni, ma che da allora basta da solo a rendere la vita dolce e felice”.(14) Ma non è tutto. Nel momento in cui egli, anche a distanza di molti anni, riapre l’erbario, alla sola vista delle piante catalogate con tanta cura si sente subito trasportato in un analogo viaggio: “Quest’erbario mi serve come un giornale di botanica, che mi fa ricominciare le passeggiate con un nuovo incanto (…) ”(15) E’ nuovamente l’immaginazione la fidata compagna di passeggio, che permette all’uomo di esprimere la sua autenticità interiore ed esteriore, allontanandolo dalle difficoltà di una vita terrena a volte ostile. Ma è pur vero che nella stessa vita terrena, concedendosi fiduciosamente al piacere di una semplice passeggiata, anche il più contorto degli esseri umani, può rinvenire il gusto di uno svago che in fondo è manifestazione di saggezza e di virtù.

Lo Spirito della passeggiata in K. G. Schelle

Non si può dire che Karl Gottlob Schelle sia un personaggio molto famoso nel panorama culturale della fine del secolo XVIII. Certamente fu componente originale di quel movimento di pensiero denominato “filosofia popolare”, una vivace corrente dell’Illuminismo tedesco che, in polemica con gli speculativi e i metafisici, proponeva un sapere divulgativo, alla portata di tutti, in favore di un pensiero del vivere quotidiano. E’ dall’interno di questa tendenza che prende le mosse il piccolo trattato L’arte di andare a passeggio (Die Spatziergaenge).(16)

“Per essere sedotti dal fascino della passeggiata e sviluppare per lei un vero bisogno interiore, è necessario un certo grado d’educazione, un congiunto d’idee, che non ogni uomo possiede.”(17)

Sembrerebbe da questa premessa che l’arte del passeggio non sia oggetto alla portata di chiunque. In parte è vero. Ad essere implicate maggiormente sono le persone più sensibili che al mero movimento meccanico del corpo sanno congiungere un’azione spirituale. Tale procedura non è innata ma può essere conseguita attraverso un circostanziato percorso formativo della persona. Volendo è possibile schematizzare l’arte del vivere come un insieme composto da numerosi tasselli interdipendenti fra loro. La passeggiata è uno degli incastri e in quanto tale anch’essa va appresa, dosando il giusto equilibrio tra lo spirito, inteso come “rilassato meditare”, e il corpo, totalmente dipendente dai sensi. La particolarità di questa tensione paidetica risiede nell’iniziativa giocosa che lo spirito intraprende con la realtà circostante. In altre parole, passeggiando la persona non dovrebbe essere tesa e contratta verso tutto ciò che vede o che le accade intorno, ma piuttosto aperta ad accogliere le impressioni con calma. Si tratta di un agire spontaneo e ben disposto in grado di operare sull’individuo tra l’altro un effetto terapeutico di notevole portata. Schelle, a questo proposito, rileva tre tipologie di benefici. Lo spirito, sollecitato dalle sensazioni provenienti dall’esterno, promuove il benessere del corpo, favorisce la rigenerazione interiore e l’armonia dopo essere stati impegnati in gravose occupazioni, conserva un alto grado di vigilanza dell’attenzione grazie ad un’attività leggera e piacevole.

A questo punto è doveroso un inciso: lo spirito, che per l’autore è altra cosa dalla razionalità, non è inteso come unità a sé stante, ma insieme al corpo e alle sensazioni da esso percepite costituisce la globalità dell’essere umano in costante e reciproco contatto con la natura. Non era forse all’origine lo pnêuma dei greci inteso come « respiro », « soffio animatore », energia generatrice della realtà? Su questo versante pare che Schelle non nutra molti dubbi:

“Per mezzo della passeggiata, esso spirito entra in diretta comunicazione con la natura e gli altri esseri umani, cosa che tocca le corde più sensibili del proprio essere”.(18)

In questa asserzione si può trovare sintetizzato il significato, ossia il valore spirituale, del passeggiare. E’ anzitutto un’attività endogena, un colloquio con se stessi, in solitudine, leggera e senza costrizioni, anzi dilettevole, tale da consentire al singolo di affidarsi alle stravaganze e all’improbabilità del “libero gioco delle forze interiori”. Ciò richiede una certa disinvoltura d’animo che poco si presta ad una mente in preda alle preoccupazioni e alle apprensioni. Per questo sono indispensabili anche alcune condizioni esterne, indipendenti dalla volontà dell’individuo. Così la passeggiata in una grande città si presta meglio che non in un piccolo paese, dove tutti, o quasi, si conoscono e l’incontro con persone note può provocare un deragliamento dello stato d’animo a discapito della necessaria spensieratezza. Questa considerazione ci introduce al secondo valore spirituale della passeggiata: il contatto con gli altri esseri umani. Abbiamo visto in precedenza come Rousseau cercasse nelle lunghe camminate intorno alle rive del lago di Bienne il libero sfogo della rêverie. Un modo come un altro per sfuggire all’angoscia suscitata dalla convinzione di essere vittima dei suoi accaniti persecutori, ma soprattutto per appagarsi di un dialogo intimo e personale con la natura circostante. Schelle, dal canto suo, insiste molto sul pregio di scegliere i viali affollati di una città dove è più facile calarsi in un’esperienza collettiva. Meglio ancora se ci si trova in compagnia il cui conversare non necessariamente distrae la visione del mondo circostante. Passeggiare lungo un viale cittadino può essere per il damerino una buona occasione per ostentare la propria vanità, ma per le persone interiormente disinvolte può dimostrarsi fonte di nutrimento spirituale:

“Lo sguardo si posa sulla gioia, il buon umore, il lieve scherzare, gli abiti eleganti, il piacevole incedere dei corpi del bel mondo, il mutevole farsi delle forme, tutto il vivo e vivace trambusto degli umani; tutto, anche le facezie di un bimbetto parlano cordiali a chi passeggia, senza involgerlo negli impacci delle relazioni sociali. Quanto più costui trovi gremito e animato il suo passeggio, tanto più si sentirà sollevato e lieto.”(19)

In questo breve saggio di gradevole lettura l’autore fornisce, oltre alle argomentazioni per così dire di carattere più filosofico, alcune utili indicazioni di ordine pratico a cominciare dagli ambienti che, come abbiamo già potuto appurare, non sono tutti idonei. I grandi parchi cittadini, ad esempio, si prestano ottimamente ad una libertà d’azione dello spirito, anche in presenza di altre persone; al contrario, i giardini privati, di minori dimensioni, sono condizionati dalle scelte estetiche dei proprietari (siepi, vigne, aiuole) che hanno un esclusivo e privato rapporto con la natura. I monti e le valli a volte per la loro vastità hanno la prerogativa di ampliare le percezioni fin quasi a perdersi all’infinito. Essi forniscono all’individuo prezioso materiale affinché la ragione, l’immaginazione e il cuore possano agire in interdipendenza, sviluppando quella libera disposizione interna per decifrare e penetrare le manifestazioni della natura. Campi, prati e boschi, infine, offrono secondo le stagioni, dei colori e del tipo di vegetazione, diverse occasioni per passeggiare in buona armonia. In generale il campo sollecita nella mente l’azione creativa e conseguentemente speranza per il futuro, il prato, nella sua “calma uniformità”, esprime tranquillità e contentezza, il bosco è un’ombrosa nicchia protettiva in grado di accoglierci e preservarci dai turbamenti dell’animo e della natura.

Andare a piedi non è il solo modo per beneficiare dei privilegi offerti dalla passeggiata, anche se tale tecnica rende la persona più libera nel volgere lo sguardo verso le cose e nel determinare con disinvoltura i tempi più adatti. Certo è impossibile per un cavallo o per una vettura raggiungere la cima di un aspro monte, ma ciò nonostante essi possono fornire alcuni notevoli vantaggi. Trovandosi a cavalcare in una posizione alta si ha la possibilità di spaziare meglio con lo sguardo, là dove l’altezza di un uomo non lo può permettere più di tanto; inoltre il cavallo non limita il movimento del corpo, potendo anch’esso, se governato a dovere, spostarsi in ogni direzione.

La vettura dona il privilegio della compagnia, di conseguenza la libertà di trascorrere il tempo dialogando scambiandosi impressioni e informazioni su ciò che può stupire la vista. Ma riguardo all’utilità di questo mezzo Schelle nutre delle riserve. E’ consigliabile muoversi su di un calesse scoperto, condizioni atmosferiche permettendo, dal quale lo sguardo può estendersi senza troppi impedimenti. Al contrario le carrozze coperte non discostano molto dalle gabbie per animali, anzi queste ultime concedono almeno la possibilità di vedere il mondo negato; esse non sono altro che degli oggetti estranei al passeggio, superflue “prigioni del piacere”.

In conclusione che cosa ci vuole comunicare Schelle con questo suo originale saggio? Essenzialmente due concetti. In primo luogo “porgere attenzione ai propri sentimenti” è un valido metodo per compiere un viaggio introspettivo all’interno del proprio essere. Significa confidare in una facoltà che è altra cosa dalla ragione e dalla volontà, secondo gli orientamenti della «dottrina delle sensazioni»,(20) e che ci rende disponibili agli improvvisi percorsi della mente. Da questa prospettiva il passeggio può trasformarsi in un’esperienza individuale di estremo interesse e fascino in cui le impressioni provenienti dalla realtà circostante giocano con il sentimento, rendendo tale esercizio unico nel suo genere. Ogni persona, insomma, si pone in modo del tutto originale rispetto ad altre, secondo il proprio modo di sentire, in rapporto ludico e formativo con il mondo, e con la natura in particolare. Non c’è dubbio che in tale dinamica il grado di libertà è decisamente elevato.

Altro punto fondamentale è l’abilità di dialogo con la natura. Assodato che l’ambiente migliore per il passeggio è quello genuino offerto da immagini, suoni e profumi riscontrabili all’aria aperta, rimane il problema su quale sia il modo più conveniente per cogliere tali impressioni. “L’uomo deve condurre la natura a parlare, perché essa possa davvero farlo”:(21) ogni singola componente, da quella più solenne come un tramonto o un’alba, a quella in apparenza più modesta, come un rivolo di rugiada, reca in sé un codice di comunicazione che il sentimento di ognuno traduce in una forma di linguaggio di forte impatto emotivo. Esiste una sorta di affinità tra le caratteristiche della personalità e i lemmi crittografici delle tremule foglie di betulla o del quasi impercettibile movimento di un insetto. Il dialogo con la natura è fatto di percezione, dunque di sensibilità di fronte a certi fenomeni, e di libera disposizione d’animo, meglio ancora di mente aperta e pronta ad accogliere. Ma un dialogo, di qualunque tipo esso sia, non è mai sterile. In verità ciò che più affascina nell’analisi di Schelle è che l’effetto dell’ambiente verde sulla persona non si arresta in un gesto istantaneo. Anche a distanza di tempo, tale effetto continua ad agire in profondità a nostra insaputa, oggi possiamo dire nella dimensione dell’inconscio, generando una comprensione della natura stessa.

Da questa prospettiva è piuttosto arduo trarre una conclusione in senso definito in quanto gli scenari aperti da Schelle inevitabilmente schiudono altre eventualità. Ci limitiamo perciò nel prendere atto che la sua originale concezione del vincolo uomo – passeggiata – natura va oltre il limite di una visione puramente meccanicistica, dove l’intelletto scruta per carpire chissà quali reconditi significati. Non vi è dubbio che il dialogo è paritario, spontaneo e appagante. In questo scambio comunicativo non esiste un soggetto dominante, ma piuttosto un equilibrio tra differenti sensibilità che incontrandosi danno alla luce uno stato di generoso benessere. Allora il passeggio è molto di più del semplice guardarsi intorno, è arte del vivere e, soprattutto, una preziosa opportunità educativa.

Orientamenti Bibliografici.

Anonimo, La gioventù istruita nel buon costume, Firenze, Gaetano Cambiagi Stamp. Granduc., 1787.

Elias N., La civiltà delle buone maniere, Bologna, Il Mulino, 1988.

Laloup J., Il tempo dell’ozio, Torino, SEI, 1966.

Le Goff J., La nuova storia, Milano, Mondadori, 1990.

Rousseau J.J., Le Confessioni, Le Passeggiate solitarie, in Opere, Milano, Sansoni, 1993.

Schelle K.G., L’arte di andare a passeggio, Palermo, Sellerio, 1993.

 

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