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Il medico degli infermi, il professore degli infermieri. Antonio
Alberti, ad un anno dalla morte
di Nicola Siciliani de Cumis |
5. Relazione al X Congresso Nazionale (Catanzaro, 30 settembre- 3 ottobre 1976). Da
Professioni Infermieristiche, Anno 30, N. 1, Gennaio-Marzo 1977, pp. 45-49.
Segue
un testo di Alberti che, pur nella sua occasionalità e brevità, sembra tuttavia idoneo a
restituirne le idee a vario titolo formative (quanto alle professionalità del medico e
dellinfermiere) ed i propositi di riforma anche "pedagogica" del
"sistema" (quanto al nesso sanità/società civile/iniziativa politica). Si
ringrazia la Direzione di "Professioni Infermieristiche" per aver consentito la
ripubblicazione dell'articolo.
Antonio
Alberti, Medicina e società
Discorso
di un lavoratore ad un medico
Noi lo sappiamo che cos'è che ci ammala!
Quando siamo malati, sentiamo dire
che chi ci guarirà sei tu.
Per dieci anni, sembra, in belle scuole
costruite a spese del popolo hai imparato
a guarire e per la tua scienza
hai speso un patrimonio.
Dunque devi saper guarire.
Sai guarire?
Quando veniamo da te
ci strappiamo di dosso i nostri cenci
e tu ascolti qua e là sul nostro corpo nudo.
Sulla causa della nostra malattia
un solo sguardo ai nostri cenci ti
direbbe di più. Una stessa causa fa a pezzi
i nostri corpi e i nostri abiti.
Le fitte nelle nostre spalle
vengono, dici, dall'umidità, da cui
viene anche la macchia che abbiamo alla parete.
Dicci allora:
da che viene l'umidità?
Troppo lavoro e troppo poco da mangiare ci fa deboli e magri.
La tua ricetta dichiara:
dovete crescere di peso.
Allora puoi anche dire alla nave
che non deve bagnarsi.
Quanto tempo avrai per noi?
Vediamo: un tappeto in casa tua
costa quanto fare
cinquemila visite.
Probabilmente dici
di essere innocente. La macchia d'umido
sulla parete delle nostre case
non dice nulla di diverso.
Bertolt
Brecht, dalle poesie di Svendborg.
Affrontare
un argomento così vasto e così stimolante - i rapporti fra Medicina e Società - alla
fine degli anni '70, il decennio in cui si stanno avverando profonde trasformazioni
sociali, nel tempo concesso ad una relazione congressuale, è sicuramente compito irto di
difficoltà e rischia di essere fatica velleitaria.
Intanto
il titolo stesso del tema - Medicina e Società - è perlomeno ambiguo e potrebbe far
supporre che la Medicina abbia nell'ambito della Società un suo spazio autonomo e
privilegiato, che la Medicina sia cioè un insieme di conoscenze scientifiche e
tecnologiche che ha possibilità di crescere e di svilupparsi dipendentemente dalla
evoluzione della società stessa; il che in parte è vero e rappresenta per ciò stesso il
motivo della crisi della medicina di oggi; ma è vero nella stessa misura in cui scienza e
tecnologia ma soprattutto tecnologia, in tutti gli altri campi delle attività umane,
sembrano oggi sopravanzare la cultura e la comprensione dell'uomo medio.
Tempi
di crisi e quindi tempi di riflessione; e la riflessione se vuole essere utile e creare
nuove prospettive, non può prescindere da una analisi attenta ed obbiettiva, la più
obbiettiva possibile tenendo conto che, malgrado i buoni propositi di neutralità, chi si
accinge all'analisi finisce sempre col mettersi dal punto di vista che gli è più
congeniale.
Tenterò
quindi l'analisi storica, poiché a me sembra che la crisi attuale della medicina, prima
che di strutture, come ci viene spesso proposta, è crisi storica.
Stiamo
vivendo - noi tutti, medici, operatori sanitari, cittadini - la fase terminale di un
periodo della storia della medicina moderna che in circa due secoli di evoluzione ha avuto
periodi esaltanti e periodi di crisi, momenti di stasi apparente e momenti di progresso
apparente.
Il
pensiero medico che informerà e determinerà il modo di fare medicina fino ai nostri
giorni, nasce all'inizio dell'800 - mutuando dall'Illuminismo metodi di conoscenza e lo
stesso linguaggio - proponendo al centro dell'osservazione l'uomo malato, in cui sono
rinchiusi e nascosti organi ma- lati, rinunciando definitivamente a classificare malattie,
come in botanica per le piante, come aveva operato la medicina della specie del secolo
precedente.
Comincia
così l'era della clinica e lo studio della patologia interna che trova naturale supporto
nello studio dell'anatomia patologica degli organi e successivamente dei tessuti. la
diagnosi clinica si concretizza nella descrizione anatomica.
La
nascita della microbiologia con Pasteur e Koch nella seconda metà del secolo apre la
strada allo studio etiologico dei morbi, ma bisognerà aspettare il nuovo secolo, il
ventesimo, e le felici intuizioni di Paul Erlich per poter parlare di terapia.
Nel
1910, partendo dallo studio delle sostanze coloranti che tanto erano servite in
microbiologia, Erlich introduce nella terapia della sifilide il composto 606 - il
Salvarsan - ed apre il grande capitolo della chemioterapia; seguiranno nel 1935 i
sulfamidici di Domag e nel 1943 il primo antibiotico: la penicillina.
In
pochi anni le malattie ad etiologia batterica, e quindi la gran parte delle malattie
infettive, vengono debellate; molte altre, comprese numerose malattie virali, la
poliomielite, l'influenza ecc., possono essere prevenute dall'uso di vaccini di
preparazione ben più complessa di quello preparato da Eduard Jenner per il vaiolo nel
già lontano 1796.
E
il trionfo della terapia - In cinquanta anni, malattie che per millenni erano state il
flagello dei popoli, avevano travolto civiltà e distrutto intere fiorenti comunità,
vengono debellate: la vita media raddoppia. Ormai è convinzione di tutti che non esiste
malattia che non possa essere controllata dalla terapia.
Il
farmaco finisce col diventare la nuova proposta della medicina; si pone fra medico e
malato nel delicato momento dell'osservazione medica che diviene quindi superficiale; si
sovrappone alla diagnosi anzi spesso diventa autonomo dalla sua formulazione e quindi
infine, si libera anche dalla prescrizione medica, reclamizzato attraverso la stampa, la
radio, la televisione; una invasiva e persuasiva pubblicistica, non certo disinteressata,
promette informazione medica rapida ed essenziale all'insegna del "curatevi da
soli" - perché intanto è nata e si è sviluppata l'industria del farmaco.
Nata
nei laboratori di ricerca con ritmi produttivi di tipo artigianale, si è
industrializzata, ingigantita ed ipertrofizzata secondo le leggi della produzione e del
consumo che sono alla base della economia governata dal capitale.
In
fatto di farmaci, purtroppo, i consumatori non mancano, ma i veri consumatori, i malati,
non bastano alla speculazione commerciale: occorre crearne degli altri, possibilmente
promuovere tutti da potenziali ad effettivi consumatori e coprire tutte le funzioni umane
anche a costo di distorcere le leggi della fisiologia stessa in ogni ora del giorno e
della notte: vengono proposti farmaci per il controllo del sonno, della veglia,
dell'attenzione, dell'appetito, dell'attività sessuale, dell'alvo, della minzione,
dell'intelligenza, della digestione; i dietetici, "dalla culla alla tomba", e
perfino i cosmetici entrano a pieno diritto nella farmacologia con tanto di illustrazioni
animate pseudo-scientifiche televisive per gli affetti da calvizie precoce o anche solo
per probabili calvi, per ragazzine affette dalla untuosità o dalla secchezza della pelle.
Oggi
l'industria farmaceutica è entrata in crisi: il fatto è che sono cominciate le malattie
iatrogene; i consumatori si sono allarmati e giustamente diffidano; il consumo di farmaci
dei veri malati non basta più a tenere in piedi strutture produttive mastodontiche nate
nel periodo della grande illusione.
Per
la verità la crisi era già nell'aria.
L'allungamento
della vita media ha infatti aumentato la probabilità dell'insorgenza delle malattie da
usura e le malattie neoplastiche, la sovrapopolazione, l'industrializzazione e la
conseguente concentrazione urbana, le malattie derivanti dall'ambiente.
Nel
confronto con questa patologia della civiltà - mi si perdoni la sommarietà con cui parlo
di tali argomenti che meriterebbero un più approfondito discorso perché riguardano la
nostra stessa esistenza il mito del farmaco aveva cominciato ad offuscarsi.
Non
bisogna dimenticare infatti che la più grossa prospettiva alla terapia era venuta dalla
chemioterapia di Erlich, rivolta a curare le malattie infettive. In sostanza si erano
inventati gli strumenti terapeuti adatti a colpire microrganismi che avevano
caratteristiche metaboliche diverse dalle cellule umane e quindi selezionabili dall'azione
del farmaco.
Le
difficoltà insorsero a proposito della terapia dei tumori, allorquando, utilizzando le
stesse ipotesi di lavoro, si tentò di aggredire cellule umane neoplastiche e quindi in un
certo senso diverse, nello stesso organismo in cui avevano preso origine.
Per
quanto poi riguarda le malattie dusura, queste derivano da errori metabolici
complessi ed ancora non chiariti; presuppongono la conoscenza della fisiopatologia di
organi, ancora ben lontana dall'esser acquisita; interventi sull'inquinamento
dell'ambiente e sui ritmi di lavoro che richiedono scelte coraggiose politiche ed
economiche non certo influenzabili dalla terapia medica. Tali malattie, le neoplastiche e
quelle da usura, presuppongono quindi programmi di ricerca altamente qualificata: il cui
costo, notevolmente elevato, non è con patibile con gli alti profitti nella cui ottica
l'industria farmaceutica - quella speculativa - si era sviluppata.
La
terapia farmacologica comincia dunque a segnare il passo, ma non per questo si arresta il
cammino della medicina terapeutica, che ha da proporre un altro mito: la tecnologia.
La
medicina clinica dell'800 aveva esaltato e privilegiato il metodo della osservazione, ben
conosciuta fin dai tempi di Ippocrate ma interessata alla ricerca dei segni obbiettivi, ne
aveva ritualizzato i metodi in regole precise: l'ispezione, l'auscultazione, la
palpazione, la percussione si avvolgono de senso della vista, del tatto, dell'udito
particolarmente affinati dall'esperienza nel medico esperto in semeiotica.
I
primi apparecchi entrano nella pratica medica per rendere i segni più trasparenti più
percettibili dai sensi del medico: microscopi, fonendoscopi, apparecchiatura radiologiche
servono ad accrescere in numero ed a migliorare la qualità dei segni obbiettivi a
disposizione della diagnosi; poi, pur permanendo nel campo della diagnostica, diventano
più complessi, più sofisticati, meno comprensibili della cultura media e quindi mitici e
quindi mistificatori: elettrocardiografi, elettroencefalografi, spettrofotometri,
analizzatori automatici.
Anche
la tecnologia della diagnosi si industrializza e promette diagnosi "rapide e
sicure" e di fatto offre semplici etichette diagnostiche per giustificare una
prescrizione; il momento è quindi maturo per il suo ingresso a pieno diritto nel campo
della terapia.
Propone
prima modeste protesi, poi, più coraggiosamente, organi artificiali e strumenti sempre
più complessi, e soprattutto più costosi, idonei ad assicurare sopravvivenza anche ai
limiti della vita: la rianimazione diventa un'esigenza, un obbligo della società, crea
problemi morali ed economici sempre più grandi, provoca il buon-senso per trasformarlo in
non-senso; spinge il diritto del singolo a scontrarsi con il dovere della collettività.
Ma non basta.
La
tecnologia della sopravvivenza promette nuovi e inimmaginabili sbocchi alla terapia delle
malattie degenerative e "sic et simpliciter" risolve il problema della cura
degli organi esausti concorrendo validamente, con la creazione di apparecchiature
sofisticate, alla loro sostituzione con altri sani e costringendo così all'esasperazione
lo stesso concetto di solidarietà umana.
A
questo punto dell'analisi è utile vedere insieme quali rapporti siano intercorsi fra
prassi medica e realtà sociale, quanto l'una abbia influenzato l'altra e come in
definitiva si sia giunti alla crisi attuale.
Alla
medicina clinica l'uomo aveva chiesto ben poco: una risposta a livello individuale ed
esistenziale, una prognosi anche quando non vi fosse una certezza diagnostica.
Morirò,
guarirò.
Le
prime società operaie di mutuo soccorso nacquero nella seconda metà dell'800 per
assicurare, ancorché un'assistenza medica, un funerale dignitoso. In Brasile, riferisce
il De Castro, i contadini venivano portati al cimitero nella bara di carità che veniva
data in prestito dalla prefettura e restituita alla sepoltura delle salme.
Solo
alla fine dell'800 si comincia a parlare di malattia come fatto sociale e ciò avviene
più facilmente nelle fabbriche, fra gli operai, ove ben presto si comprende che coscienza
sanitaria e coscienza politica devono crescere insieme.
L'azione
è inizialmente rivolta, in giusta direzione, ad ottenere migliori condizioni igieniche
nelle fabbriche e nell'ambiente - si pensi alla malaria ed alla tubercolosi - ed in questo
senso si svilupperà nei primi decenni del secolo imponendo la creazione di istituzioni di
medicina preventiva e la bonifica delle zone malariche.
L'avvento
della terapia distorce presto gli indirizzi iniziali della coscienza sanitaria che così
punta di meno sulla prevenzione e molto di più sulla cura.
Ma
la scelta non avviene a caso, è la scelta politica di una società in cui la borghesia è
classe egemone; è la naturale ed ovvia scelta compatibile con il suo sistema che per la
sua evoluzione non può più fare a meno di puntare sullo sviluppo piuttosto che sul
benessere. 1 due termini, sviluppo e benessere non sono più sinonimi da decenni; quando
la scelta si impone, il sistema, quello attuale, non ha dubbi: punta sullo sviluppo, nella
certezza finora confermata, che il benessere possa essere conservato dai
La
scelta fra cura e prevenzione, a tutto vantaggio della prima, favorirà per alcuni decenni
lo sviluppo della medicina mutualistica, che - seppure esperienza storica sotto certi
aspetti valida - finirà con l'alterare la richiesta di salute che un tale tipo di
assistenza pretende di restituire piuttosto che conservare.
L'economia
borghese riscopre gli ospedali come luoghi di cura. Aveva preteso di abolirli all'inizio
della rivoluzione francese, proclamando guerra alla miseria sinonimo di malattia, senza
però dimenticare di appropriarsi dei loro beni. Li aveva fatti risorgere come luogo di
formazione professionale - dove si sarebbero formati i suoi medici - adesso li riscopre
come luoghi di cura e ne impone il loro sviluppo in senso efficientistico; sul modello
della fabbrica: produrre diagnosi il più possibile sicure, in tempi sempre più brevi, al
costo più basso; erogare cure rapide ed economiche; restituire gli individui ai ritmi
produttivi, non importa se alle stesse cause morbigene.
A
questo punto la borghesia ha già scoperto quanto lucra curare le malattie ed ha messo in
moto il meccanismo della speculazione; i costi aumentano e vengono scaricati sulla
comunità che non ha avuto la possibilità di scegliere.
Intanto
i medici tendono a diventare tecnici; senza acquisire la metodologia di base, che si
acquista attraverso l'osservazione attenta del malato ed il rilievo accurato dei segni e
lo studio della storia naturale delle malattie ed il loro substrato anatomico, diventano
interpreti di macchine che non hanno costruito, di cui spesso conoscono appena il
funzionamento, di strumenti cioè che non fanno parte della loro cultura; usano farmaci di
cui conoscono sommariamente l'effetto terapeutico, ma non l'eventuale effetto nocivo;
anche loro vittime del mito si accontentano del ruolo ambiguo di passivi intermediari fra
macchina e malato, fra farmaco e malato.
Gli
infermieri diventano paramedici; il loro ruolo si sposta quindi da assistenti dell'infermo
ad assistenti del medico; l'assistenza cede il posto all'efficienza in una confusione di
ruoli che incide prima che nella professione, addirittura nella formazione
dell'infermiere.
Nelle
scuole professionali gli insegnanti sono prevalentemente medici ospedalieri che creano
infermieri più adatti alle loro necessità tecniche che ai bisogni dei malati; vengono
impartite in modo preminente lezioni di medicina che in definitiva non servono ad
introdurre gli allievi "nel pensiero medico" da cui sono necessariamente tenuti
fuori, ma a trasmettere loro il linguaggio tecnico, il codice attraverso cui gli ordini
verranno trasmessi ed eseguiti; mentre il loro ruolo nell'assistenza pretenderebbe una
più adeguata preparazione nelle scienze umane e politiche più adatta alla vocazione
della loro professione e più vicina alla loro cultura.
Così
formati, lontani dal pensiero medico e dalle necessità reali dei malati, finiscono con
l'occupare, ancorché il ruolo centrale che a loro competerebbe, un ruolo marginale:
efficienti, silenziosi e docili robots al servizio di una struttura, quella ospedaliera
già alienata dai suoi compiti ed alienante per chi - medici, infermieri, malati - è
costretto a viverci dentro.
Ora
avete sotto gli occhi tutti i termini della crisi della medicina dei tempi che stiamo
vivendo che come l'altra, quella della società intera, è prima di tutto crisi economica:
un tale modo di fare medicina è divenuto incompatibile col sistema perché costa troppo e
perché rende sempre di meno.
La
prospettiva della medicina curativa nella maggiore delle ipotesi, se l'attuale sistema
fosse veramente perfettibile, e per fortuna non lo è, sarebbe quella di potere assicurare
a tutti un trapianto di cuore, un rene artificiale, una rianimazione assistita: un mondo
di sopravvissuti assistiti da me- dici ed infermieri fortemente tecnicizzati e
probabilmente egemoni.
Ma
la crisi è anche politica; la gente comincia a non credere più al mito della terapia ad
ogni costo, vuole vivere, non sopravvivere; ha capito che la salute è più facile
conservarla che riacquistarla ma a costo di scelte coraggiose, quindi vuole partecipare
alle scelte e sembra sempre più interessata alla qualità piuttosto che alla quantità
della vita. Torna a farsi strada l'idea che le scelte non possono essere solo tecniche -
semmai lo sono state - ma politiche, poiché bisogna ripristinare equilibri naturali
sconvolti, ripristinare i ritmi fisiologici perduti, ridistribuire le risorse con equità;
e poi ricostruire il buon senso degli uomini ed infine ridare dimensioni umane
all'esistenza.
Allora
ci si può domandare se è possibile evitare la prospettiva allucinante di un mondo di
sopravvissuti.
A
tale quesito risponderò con una riflessione di Mao-tse-tung:
"Libertà
significa riconoscere ciò che è inevitabile e riformare il mondo oggettivo.
Solo
in base al riconoscimento di ciò che è inevitabile la gente può agire liberamente.
Questa
è la legge dialettica della libertà e della necessità.
Prima
di questo riconoscimento, la nostra azione è, in una corta misura, inconsapevolmente
cieca. Siamo un mucchio di sciocchi a questo punto.
In
questi ultimi anni non abbiamo forse commesso un sacco di stupidaggini?". |