La Mediazione PedagogicaLiber Liber

Luciana Bellatalla, John Dewey e la cultura italiana del Novecento, Pisa, ETS, 1999.
di  Giordana Szpunar

Due sono gli obiettivi che Luciana Bellatalla si propone di raggiungere attraverso questa impegnativa ricerca su John Dewey e la cultura italiana del ’900. Da una parte, come si evince anche dal titolo del volume, vuole ricostruire la storia dell’interpretazione italiana del pensiero deweyano e, dunque, far emergere «quanto di Dewey è stato recepito e quanto ne è rimasto in ombra». Dall’altra, intende cogliere questa «occasione» per tracciare una sorta di biografia della pedagogia italiana, vale a dire «per comprendere l’orizzonte di senso in cui si è dispiegata e ha cercato la sua identità».

Il filo rosso di tutta l’indagine e l’ipotesi che l’Autrice cerca di dimostrare e documentare, è l’idea che le interpretazioni italiane di Dewey abbiano presentato, fin dalla loro origine, due fondamentali «vizi di forma» che ancora oggi, in parte, continuano ad agire: la distinzione del Dewey filosofo dal Dewey pedagogista e la ricerca, all’interno dei suoi testi esplicitamente educativi, di «strategie operative per la didattica».

Da queste «fallacie interpretative» hanno avuto origine due conseguenze che hanno contribuito fortemente a fraintendimenti radicali e persistenti del sistema filosofico-pedagogico deweyano nel suo insieme. In primo luogo, si è creata una «indebita dicotomia tra teoria e prassi», separazione che, com’è noto, lo stesso Dewey, nel corso di tutta la sua produzione intellettuale, ha criticato e rifiutato in modo manifesto. In secondo luogo, e di conseguenza, si è verificata la perdita di due tratti fondamentali e peculiari del pensiero dell’Autore americano: l’unità interna e la complessità.

Secondo l’Autrice, dunque, solo quando si raggiungerà la piena consapevolezza della necessità di una contestualizzazione e di una storicizzazione della filosofia deweyana si potrà restituire ad essa la sua autenticità.

Il volume si articola pertanto in quattro capitoli. I primi tre ripercorrono, cronologicamente, la variabile fortuna di Dewey in Italia a partire dai primi decenni del ’900, per giungere agli anni ’80, con qualche riferimento anche agli anni a noi più vicini. L’ultimo capitolo è dedicato al rapporto tra pensiero deweyano e didattica, vale a dire alle letture che di Dewey hanno dato i "maestri", con particolare attenzione all’interpretazione di Bruno Ciari.

Nel primo capitolo del volume si inizia con lo sfatare «un luogo comune pedagogico e storiografico» secondo cui in Italia Dewey sarebbe stato ignorato fino al 1945. In realtà, se è vero che la diffusione della sua opera prima della fine della guerra può definirsi decisamente scarsa, la cultura accademica comincia a confrontarsi con la produzione deweyana già dai primi anni del secolo (al 1913, infatti, risale la prima traduzione italiana di Dewey).

Proprio in questi anni Antonio Aliotta, «il primo critico italiano a parlare – anche se in poche pagine – di Dewey», nel discutere di pragmatismo e di Dewey in particolare, «estrapola il pensiero deweyano dal suo contesto e finisce per darne un’interpretazione negativa nella misura in cui lo assimila al suo idolo polemico, l’empirismo». Inoltre, nelle sue analisi egli prende in considerazione solo il Dewey filosofo, ignorando del tutto gli aspetti pedagogici della sua opera. Viene inaugurato, in tal modo, un «costume interpretativo» che la cultura italiana farà fatica a scrollarsi di dosso. Dewey comincia, da questo momento in poi, ad essere apprezzato perché assimilato ad altri o svalutato perché diverso da altri.

L’egemonia idealistica, imperante negli anni successivi, non fa che portare, con Benedetto Croce, Galvano Della Volpe, Guido De Ruggiero, Giuseppe Lombardo Radice, «alle estreme conseguenze queste linee interpretative, radicalizzandole e giustificandole». Solo con le interpretazioni di Antonio Gramsci e soprattutto di Antonio Banfi, che finalmente comprende «lo "spirito" della complessità su cui la filosofia deweyana è costruita», si palesano i primi segni di una lettura che prende le distanze dalla cultura egemone.

La diffusione di Dewey in Italia nel dopoguerra, grazie all’opera di Ernesto Codignola, il quale, come «animatore della politica culturale della casa editrice La Nuova Italia», ne promuove la traduzione delle opere, e al gruppo degli studiosi laici che si raccoglie intorno a "Scuola e Città", provoca due reazioni contrapposte. Da una parte, quella degli entusiasti sfrenati e, dall’altra, quella dei critici ad oltranza. Posizioni che, seppur agli antipodi, presentano, tuttavia, una caratteristica comune, quella, cioè, di fornire una lettura «ideologica e ideologizzata» dell’opera deweyana.

Interpreti cattolici, idealisti, marxisti, anche se su tre fronti separati e contrapposti, mettono in atto una sorprendente «operazione ideologica» per cui si assiste o a un «continuo tentativo di "assimilazione"» della filosofia deweyana (si veda la lettura idealista o certe prospettive delle interpretazioni cattoliche), o a critiche feroci e ingiustificate che cercano di riportare il pensiero di Dewey in «cornici interpretative pre-costituite» (come i marxisti cosiddetti "ortodossi").

Solo con gli interpreti laici, nello specifico Lamberto Borghi e Aldo Visalberghi, si raggiunge finalmente un sostanziale «riconoscimento dell’unità interna del pensiero deweyano» e la consapevolezza dell’urgenza di un’operazione di contestualizzazione. Ciò porta ad «un duplice sforzo storiografico»: da una parte si cerca di cogliere «il farsi genetico del pensiero di Dewey», dall’altra si crede fermamente che la filosofia deweyana «acquisti senso solo all’interno di un mondo storico-sociale preciso».

Gli anni della Contestazione sono anni di crisi. Nel periodo che va dal 1969 al 1980, infatti, viene prodotta una quantità di articoli e monografie molto inferiore a quella sia degli anni precedenti sia di quelli successivi. Il discorso su Dewey diviene molto specialistico e le critiche ideologiche si rivitalizzano specialmente da parte marxista. Inoltre, in questo periodo, si elaborano una serie di studi che, più che approfondire il pensiero deweyano, lo mettono a confronto con gli autori «a cui la pedagogia in quegli anni guarda con interesse» (Piaget, Bruner, Freinet), spesso col proposito «mettere in evidenza come e quanto il messaggio deweyano sia datato».

Dall’ottobre 1980, dopo il congresso su Dewey tenutosi ad Urbino, si inaugura una sorta di Dewey renaissance. Gli studi su Dewey «rinascono per numero e per impostazione» e «non mirano più tanto a rendere conto del suo intero pensiero, quanto ad approfondire singoli aspetti o a tracciare confronti e aperture dialogiche con altri esponenti della filosofia e della pedagogia del ’900». Scompaiono gli «accanimenti ideologici» e viene finalmente acquisito un «costume interpretativo "contestualizzato" e "contestualizzante"». La filosofia deweyana diventa così non più solo oggetto di studio e di ricostruzione, ma acquista anche lo statuto di punto di riferimento consolidato. Dal 1990 vengono, inoltre, prodotte nuove edizioni di alcune opere deweyane con nuove introduzioni, basate a volte su nuove traduzioni.

L’equilibrio raggiunto pienamente negli anni ’90 tra la nostra cultura e il pensiero deweyano ha permesso che la lettura contestualizzata sia diventata ormai un dato scontato (si fa riferimento in particolare alle ricerche di Giuseppe Spadafora che testimoniano «lo sforzo di leggere Dewey all’interno di vicende storiche e culturali precise»), ma lo stesso risultato non è stato ottenuto sulla conciliazione tra pedagogia e filosofia: «i filosofi e i pedagogisti procedono ancora su strade diverse».

Per quel che riguarda le strade per letture future, Luciana Bellatalla propone di partire dalle suggestioni critiche fornite da uno dei maggiori studiosi deweyani in Italia, Aldo Visalberghi. Il tema della complessità, strettamente connesso al concetto deweyano di transazione, «si presenta ora ineludibile per capire Dewey e per comprendere se e quanto i suoi messaggi possano valere e offrire suggerimenti per il nostro presente e per il futuro».

Corredata di una ricca ed aggiornata bibliografia, che riporta sia le principali traduzioni italiane delle opere deweyane, sia la saggistica italiana su Dewey (volumi, saggi, articoli, introduzioni, prefazioni…) dal 1900 al 1998, quest’opera costituisce un prezioso strumento di ricerca, sia per coloro che si avvicinano per la prima volta al pensiero di Dewey, sia per coloro che vogliono approfondirne lo studio. I primi vi ritroveranno, delineati con chiarezza e straordinaria capacità di sintesi, i tratti fondamentali della riflessione deweyana. I secondi ne potranno trarre interessanti indicazioni bibliografiche, ma anche, e soprattutto, originali suggerimenti interpretativi.

 

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