La Mediazione PedagogicaLiber Liber

G. Fiorentino, Il bambino nella rete. Dalla lavagna al computer, Venezia, Marsilio, 2000..
di  Paola Trabalzini

Tra gli aspetti del discorso pedagogico quello riguardante il rapporto scuola-società, oggi diremo del rapporto tra scuola ed extra-scuola, ha stimolato continue riflessioni e dibattiti. La scuola come luogo di vita e non di preparazione alla vita futura, e dunque una scuola che non sacrifica o svilisce il presente per il tempo a venire, è uno dei temi centrali della raccolta di saggi di John Dewey pubblicati per la prima volta nel 1899 in America, in Italia nel 1915 con il titolo La scuola e la società. L’ambiente scolastico come Casa dei bambini da collocare nello stesso edificio in cui risiedono le famiglie, e quindi aperto alla vita sociale e familiare, è la proposta nel 1907 di Maria Montessori.

Si tratta solo di due esempi; altri autori potrebbero essere ricordati, dell’esigenza di pensare e costruire una scuola nuova dinanzi ad una società in prorompente trasformazione; più netta la trasformazione che tra la fine dell’ ’800 l’inizio del ’900 attraversa gli Stati Uniti, già Paese industriale, più lenta quella che riguarda l’Italia.

Oggi assistiamo a nuovi e continui cambiamenti economico-sociali dovuti anche agli sviluppi tecnologici nell’ambito della comunicazione; sviluppi che incidono sulle stesse modalità di trasmettere e acquisire conoscenze. Si assiste così all’utilizzo da parte dei bambini di videogiochi e computer, mentre la scuola d’altra parte si presenta ancora troppo ancorata ad una trasmissione tradizionale del sapere con l’insegnante spesso fissa nella ripetitiva pratica didattica quotidiana, fondata sul sussidiario, penna e quaderno.

Dall’esigenza di superare lo iato tra vita del bambino fuori della scuola e la realtà scolastica nasce il libro di Giovanni Fiorentino dal titolo Il bambino nella rete. Dalla lavagna al computer, nel quale l’autore trasfonde la sua esperienza di maestro di scuola elementare e di ricercatore nel campo delle scienze della comunicazione. Un libro scritto "pensando ai bambini, destinato agli adulti, ai cosiddetti tali, agli educatori, alla categoria sterminata, a lungo confinata ai margini della società, dei maestri o più verosimilmente delle maestre che lavorano nella scuola italiana" (p.10).

L’autore, infatti, declina il sostantivo sempre al femminile, considerato che nella scuola elementare, grado scolastico a cui rivolge la sua attenzione, circa il 93% dei docenti sono maestre. E i bambini insieme alle maestre sono i protagonisti di questo libro nel quale Fiorentino partendo dall’analisi dell’immagine del bambino, così come viene proposta da mass-madia, scopre un bambino "invisibile" e "nomade"; scoperta che invita gli adulti tutti a ripensare il rapporto educativo nella e fuori la scuola.

Il bambino "invisibile" è quello che si cela dietro l’immagine dell’infanzia "stretta tra violenza e consumo", schiacciata tra articoli e reportages giornalistici riguardanti dolorosi e tristi fatti di cronaca da un lato e la luminosa ribalta di programmi televisivi e spot pubblicitari dall’altro. Se vengono però abbandonate queste stereotipate immagini è possibile scorgere un bambino "ordinario che è invisibile. Invisibile ai più nella sua profonda originale alterità" (p.19). Un bambino-altro rispetto alle modalità di conoscere dell’adulto, altro per la sua sensibilità verso il non-conosciuto, il diverso e con un naturale bisogno di muoversi, scoprire, esplorare, affascinato dai suoni e dalle immagini. La letteratura per l’infanzia prima e la cinematografia poi hanno raccontato, come sottolinea l’autore del libro attraverso l’analisi di alcuni personaggi quali Pinocchio, Huckleberry Finn, protagonista del romanzo di Mark Twain, il piccolo principe di Saint-Expery e Eliot, protagonista del film E.T., questo bambino attratto dal viaggio "indagatore delle possibilità di vita, di pensiero, di abitudini, di cammino nel mondo" (p.30). E proprio attraverso il suo sguardo immaturo, che possiamo intendere come possibilità di vedere oltre il visibile, di rivestire con l’immaginazione vari ruoli assumendo diversi punti di vista e simulando il reale, che il bambino lavora alla costruzione dell’uomo che sarà.

Il bambino, scrive l’autore del libro, "è viaggio, cammino, incontro per sua natura con le potenzialità dell’immaginario, con le radici delle immagini e del suono. Essere nomade vuol dire essere implicitamente predisposti alla multimedialità, alle infinite possibilità del cyber spazio, alle molteplici opportunità di apprendimento negli universi della simulazione" (pp.31-32).

Il bambino "nomade" è il viaggiatore curioso esploratore del mondo che lo circonda; è il viaggiatore immerso nella pluralità dei codici: alfabetico-testuale, sonoro, iconico e dunque incline alla multimedialità. È colui che utilizza varie strategie di apprendimento, oltre quella simbolico-concettuale, e che sono collegate, all’azione, alla manipolazione e ricostruzione di oggetti, alla sperimentazione e poi al gioco, ai suoni, ai colori, alle immagini. Il bambino "nomade" è Pinocchio che coinvolto dalla vita colorata e vivace del gran teatro dei burattini, rifugge dalla grigia quotidianità della scuola; è Huckleberry Finn, in viaggio sul Mississipi, immerso nella conoscenza del fiume.

I colori, i suoni, in una parola la vita sono rimaste, osserva Fiorentino, fuori dalla scuola che ha coltivato unicamente la conoscenza alfabetica, cercando di contenere più che di stimolare la "sensibilità esplorativa", la ricchezza conoscitiva, la curiosità indagatrice del bambino. Sensibilità, ricchezza e curiosità che oggi sono favorite, coinvolte, sollecitate dagli sviluppi delle nuove tecnologie, dai videogiochi, sempre più sofisticati, che invitano il bambino a "vivere" continue nuove avventure.

Alla cultura monomediale della scuola, osserva Fiorentino, si contrappone oggi la quotidiana realtà multimediale; la realtà "di un ambiente esterno fluido e vitale, dove l’alfabeto è integrato da suoni, rumori, voci, immagini, schermi, tastiere, bit, attraversamenti continui e rimandi alla molteplicità del presente" (p.49); una realtà multimediale con la quale "la sensibilità infantile è iniziaticamente sintonizzata" (p.42). È dunque indispensabile e irrinviabile il confronto con questa realtà, nella quale i bambini sono immersi. Coinvolgimento che, secondo l’autore, è legato alla corrispondenza tra le modalità percettivo motorie di apprendimento del bambino e le modalità di interazione richieste dai videogiochi. Questi soddisfano il bisogno di esplorazione, ricerca, viaggio del bambino attraverso l’immersione in mondi tridimensionali e sonori, che simulano situazioni nelle quali egli può intervenire in maniera diretta, partecipando come protagonista al gioco. E giocando apprende, misura le sue capacità, sviluppa abilità di coordinamento, ad esempio quella oculo-manuale, mette in atto nuove e diverse strategie di apprendimento, mentre viene superata la passiva immobilità che caratterizza l’esperienza del bambino con altri mezzi di comunicazione come il televisore.

Dal videogioco al computer il passo è poi breve: "con il computer, il gioco si sposta alla superficie dello schermo, lo sviluppo dell’intuizione avviene attraverso la manipolazione di oggetti virtuali. […] Lo schermo si disegna come superficie per simulazioni da giocare, o come porta per la comunicazione. […] Il computer ci consente di poter vedere a distanza, sentire a distanza, interagire a distanza, manipolare a distanza, ricreando elettronicamente ambienti e universi percettivo-motori" (p. 70). Ed ancora esso si presenta come "spazio dove il bambino costruisce attivamente, avvia una produzione testuale che è in relazione con suoni e immagini, anima una superficie fatta di parole, colori, animazioni" (p. 76). Il computer richiede allora la pratiche di "vecchie" e "nuove" competenze, non esclude la lettura e la scrittura, ma le integra con altri linguaggi e arricchisce l’esperienza concreta dalla quale anche l’autore del libro ritiene che non si possa comunque prescindere. L’arricchimento viene dalla possibilità che il computer offre di simulare eventi, di riprodurre in uno spazio virtuale esperienze che, divenute facilmente manipolabili, possono essere scomposte per poi venir analizzate, studiate e ricostruite e dunque meglio comprese; dalla possibilità di "materializzare", attraverso modelli digitali, ipotesi di lavoro e di verificarle, favorendo la costruzione della propria conoscenza e il confronto con gli altri. L’apprendimento si fa così più personale, non frutto della trasmissione diretta verticale insegnante-alunno, e richiede collaborazione, mediazione e discussione.

Il computer in classe non può sostituire l’esperienza concreta, ma può aiutare a comprenderla e a esaminarla, come può aiutare la scuola ad aprirsi alla vita che la circonda e quest’ultima ad entrare nella scuola. Un esempio proposto nel libro è quello dell’utilizzo della rete e di telecamere per far comunicare bambini ricoverati in ospedale con i compagni rimasti in classe e poter continuare così a svolgere attività comuni. Il computer è in questo caso il mezzo per rompere l’isolamento, per incontrare gli amici, i compagni di classe, per mantenere una continuità di vita. Il computer avvicina, si fa strumento per collaborare e stare insieme. "La comunicazione a distanza - scrive Fiorentino - si fa presenza e condivisione, correzione e promozione reciproca, costante terapia per il bambino lungodegente, ma in definitiva promozione dell’individuo schiacciato dall’appiattimento scolastico: il bambino finalmente si sente operativo, è eroe e protagonista, può scegliere e negoziare il suo percorso di apprendimento" (p.85).

Se il computer diviene lo strumento per rendere protagonista il bambino in classe, cosa accade all’insegnante, al ruolo ancor oggi centrale che ella ha nella vita scolastica? L’insegnante diventa, utilizzando il termine presente negli Orientamenti del 1991 per la scuola dell’infanzia, la regista: ella favorisce il bisogno del bambino di esplorare e indagare predisponendo occasioni di apprendimento individualizzato e in rete; sceglie i mezzi, tecnologici ma non solo, di cui servirsi, abbandonando il protagonismo della parola a favore dell’ascolto, dell’osservazione e dell’organizzazione di ambienti e percorsi di apprendimento condivisi e negoziati. Alla competenza linguistica ed espositiva l’insegnante deve affiancare la competenza tecnologica relativa ai nuovi mezzi di comunicazione; alla solipsistica gestione dell’insegnamento la collobarazione con i colleghi e i bambini.

Per cui nel passaggio dalla lavagna al computer l’insegnante deve "mettersi in gioco"; il "bambino nella rete", il bambino cioè che ha la possibilità di tessere la propria conoscenza attraverso l’utilizzo di "vecchi" e "nuovi" strumenti, impone una riorganizzazione del processo di insegnamento e di apprendimento. Se il computer non sostituisce la realtà, e neppure il libro, ma stimola diverse modalità conoscitive del bambino rispetto a quelle attivate dal libro e dalla lettura, la sua adozione quale strumento di conoscenza richiede che vengano ridisegnati i percorsi didattici e le relazioni tra i partecipanti alla vita della scuola.

Riteniamo però che il ruolo della scuola rispetto alle nuove tecnologie non debba limitarsi alla sola adozione del computer. Se la scuola si fermasse a ciò mancherebbe almeno in parte al suo ruolo formativo. Il computer in classe deve anche costituire l’opportunità per una lettura e analisi critiche delle nuove forme di comunicazione e di apprendimento digitale. Ogni media ha un proprio codice espressivo, un proprio linguaggio e quindi particolari modalità per la costruzione del messaggio, per la selezione e presentazione delle immagini e dei testi. Tutti aspetti che vanno indagati e discussi anche in rapporto alla tecnologia digitale. I bambini non debbono quindi essere lasciati soli, ma sostenuti e aiutati nella gestione delle grandi risorse che la tecnologia multimediale mette a disposizione, affinché alla "cattiva maestra" non succeda il "cattivo maestro". Per questo, osserva anche Fiorentino, è essenziale che i docenti accettino la sfida della multimedialità ponendosi nei confronti del bambino come guida e interlocutori disponibili.

E l’urgenza del cambiamento attraversa tutto il testo, che è ben organizzato e costituisce un’utile lettura per meglio comprendere i bambini di fronte alle nuove tecnologie, il confronto con le quali la scuola non può eludere. In questa prospettiva il libro di Fiorentino offre anche l’opportunità di un viaggio nei nuovi paesaggi della scuola in lenta, faticosa ma ineludibile trasformazione proprio sulla guida di quell’agente di rinnovamento che è il bambino. "Il futuro dell’uomo - conclude Fiorentino - è nella mobilità dell’infanzia, che gioca il rischio dell’inesplorato, che azzarda vivendo il continuo divenire della tarda modernità, e non ne può fare a meno. La partita è ancora aperta" (p.100).

 

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